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L’inquieta bellezza di Pontormo e Rosso

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 21, 2014

Diversi per tempra e per poetica, i due artisti toscani innervarono la pittura del Cinquecento di nuova

Pontormo, Due amici

Pontormo, Due amici

sensibilità. Fino al 20 luglio una mostra li mette a contronto. In Palazzo Strozzi, a Firenze

Capriccio, stravaganza ribellismo, ricerca della bizzarria a tutti i costi. Il pesante giudizio vasariano che definiva Pontormo pittore «di nuova maniera ghiribizzosa» ha pesato per secoli nella letteratura critica, aduggiando questo straordinario pittore che, insieme al coetaneo Rosso Fiorentino, fu iniziatore della maniera moderna: di un modo di fare pittura che ricreava la lezione di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, innervandola di una nuova sensibilità e inquietudine. Rischiando l’eterodossia nel prendere di spigolo la committenza ecclesiastica e di regime.

Furono anni convulsi quelli in cui i due artisti realizzarono le loro opere più importanti; anni di lotte fra repubblica e signoria medicea, e poi, dal 1527, di razzie imperiali e papali, culminate nel drammatico assedio di Firenze del 1530. Entrambi allievi di Andrea Del Sarto, già a 17 anni erano artisti maturi, di forte personalità e diversissime fra loro. Come balza agli occhi dal confronto fra gli affreschi staccati provenienti dal chiostro della SS Annunziata con cui si apre la mostra Pontormo e Rosso. Divergenti vie della “maniera”, aperta fino al 20 luglio (catalogo Mandragora) in Palazzo Strozzi, a Firenze.
Nelle stesse sale dove nel 1956 fu allestita la storica Mostra del Pontormo e del primo manierismo fiorentino, e a quasi vent’anni da L’officina della maniera, Carlo Falciani e Antonio Natali, dopo lunghi studi, hanno realizzato questo nuovo, appassionante, confronto fra i due amici e rivali. L’uno, Jacopo Carrucci detto il Pontormo, introverso, solitario, umbratile (come testimoniano le scarne e ossessive note del suo diario, Il libro mio). L’altro, Giovan Battista di Jacopo, detto il Rosso Fiorentino, raffinato, colto, curioso di cabala ed esoterismo e amante della musica come il suo dolce e malinconico angelo degli Uffizi.
Rosso Fiorentino, angelo che suona

Rosso Fiorentino, angelo che suona

Due artisti profondamente distanti, dunque, non solo per indole e poetica, ma anche per frequentazioni e ambiti di attività, dato che Pontormo, pur riottoso verso il potere, lavorò sempre per la corte medicea, mentre Rosso- forse vicino alla vecchia oligarchia repubblicana e savonaroliana- fu costretto a cercare committenti in provincia, a Piombino, Arezzo e Volterra, prima di fare fortuna in Francia, diventando capo della scuola di Fontainebleau. (Dove morì improvvisamente a 46 anni).

Ma bisogna anche rilevare che i due furono uniti dallo studio assiduo dell’opera di Michelangelo, da una radicale insofferenza verso il classicismo, inteso come norma assoluta e razionale, nonché da una ricerca creativa che metteva l’umano al centro della pittura. Come dimostra la qualità dei ritratti che entrambi realizzarono nel corso della loro vita. Grande merito di Falciani e del direttore degli Uffizi Antonio Natali è proprio essere riusciti a ricomporre, per questa occasione, quasi la totalità del disperso catalogo rossesco, disseminato fra musei e collezioni private.
E davvero potente è il dialogo che in Palazzo Strozzi i suoi ritratti di giovani, intellettuali, soldati e anziani aristocratici ingaggiano con quelli di Pontormo, in una sfida di scavo psicologico per far emergere sulla tela presenze umane, anonime, ma quanto mai vive e vibranti
Pontormo, autoritratto

Pontormo, autoritratto

Così alla sottile malinconia e allo sguardo lievemente attonito del giovane che Rosso ritrae con in mano una lettera datata 1518, idealmente risponde lo sguardo sorpreso e bruciante del Gentiluomo con libro (1542) di Pontormo, opera appartenente a un privato e raramente esposta in pubblico.

E ancora: al fiero e quasi arcigno profilo virile (1521-22) di Rosso – di grande forza espressiva nonostante il quadro sia quasi monocromo – risponde, sul versante di un colorismo acceso e brillante, quello altrettanto altero e scavato di Cosimo il vecchio ritratto da Pontormo, nel 1518, anni dopo la scomparsa del padre di Lorenzo il Magnifico. E oltre. Passando dalla pacata fierezza del ritratto virile (1522) di Rosso conservato alla National Gallery, all’espressione fresca e sfrontata del giovanetto di Pontormo.

Un’immediatezza che ritroviamo anche negli schizzi del pittore empolese, fra sorprendenti e quasi giocosi nudi in mutande (in cui qualcuno ha voluto vedere una sorta di “selfie”) e che si perde invece in opere di tema sacro come la celebrata Visitazione di Carmignano, da poco restaurata, dove la ridda di colori acidi e il tentativo di rendere in simultanea momenti diversi dell’incontro fra Maria ed Elisabetta, rende artificiosa l’intera scena.
Analogamente, se i riflessi lunari e violacei che inondano la Pietà (1537-1540) del Louvre rendono la tela di Rosso toccante e drammatica, il gusto per un certo corrosivo grottesco finisce per appiattire e svuotare di senso la Pala dello spedalingo (1518), in un parossimo di “santi diavoli”, pieghe uncinate e figure scarnificate e spigolose. Che fanno immediatamente avvertire la mancanza della Deposizione (1521) di Volterra, spigolosa sì, ma potente e terribile per quella dimensione metafisica e astratta che riesce ad additare, evocando una dimensione di vuoto.
Varcata l’uscita della mostra non resta quindi che prosguire il percorso, approfittando di quello straordinario museo diffuso che è la Toscana.
Facendo tappa a Volterra per Rosso, ma anche alla Certosa e nella villa di Poggio a Caiano dove si trovano affreschi di Pontormo. E, prima ancora, nella vicinissima chiesa di Santa Felicita dove si trova la Deposizione (1526-1528) che Pontormo tramutò in una danza allucinata con i personaggi che sembrano chiusi in una dimensione solipsistica, avendo drammaticamente perso ogni rapporto umano.
(Simona Maggiorelli) dal settimanale left
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Evan Gorga e il sogno di un collezionista bohémien

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 26, 2014

frammento di marmo, collezione Gorga

frammento di marmo, collezione Gorga

Tre anni fa l’ex direttore della National Gallery di Londra Neil MacGregor ha scritto una sorprendente Storia del mondo in cento oggetti (in Italia edita da Adelphi). Riuscendo a tratteggiare affascinanti ritratti di epoche e culture lontane attraverso la “descrizione” di un centinaio di pezzi d’arte, scelti nelle vaste collezioni di arte antica del British Museum.

Dal pilastro indiano di Asshoka del 238 a.C. a una tazza cinese della dinastia Hann, dalla calligrafia turca di Solimano il Magnifico della metà del Cinquecento ad una quattrocentesca coppa di giada con drago proveniente dall’Asia centrale e oltre…

Per quanto MacGregor parli di opere diversissime, giunti alla fine delle sue settecento pagine, l’immagine che resta nella mente è quella di un saggio con un preciso metodo e stile, ma anche compatto e unitario. Come se quegli oggetti così differenti fra loro per tradizione, cultura, significato, estetica, alla fine, fossero perle cangianti di un’unica collana, tasselli che vanno a comporre un’opera nuova, da cui emerge nitida la personalità e l’identità dell’autore.

Gavalli in terracotta, collezione Gorga

Gavalli in terracotta, collezione Gorga

Il libro di MacGregor è, in certo modo, il prodotto alto e aggiornato di una lunga tradizione di collezionismo colto e curioso che dalla Wunderkammer, zeppa di oggetti esotici e rari, arriva fino al collezionismo di artisti di oggi , come Rauschenberg o Arienti, capaci di fare creazioni nuove a partire dall’assemblaggio di frammenti o di opere altrui e “citazioni”.

A metà strada fra l’assoluta bizzarria dello studiolo fiorentino di Francesco I e il museo immaginario di Malraux si situa la sterminata collezione del tenore Evan Gorga (1865-1957) entrato nella storia dello spettacolo come il Rodolfo della Bohème di Puccini diretta da Toscanini nel 1896. Ma anche come collezionista d’arte e di strumenti antichi.

Nell’epoca della grande esposizione universale e mentre i lavori per Roma capitale portavano alla luce infiniti tesori dal sottosuolo, Gorga divenne anche uno dei maggiori collezionisti di reperti archeologici. Non tanto di marmi e opere preziose quanto di raffinati oggetti antichi. Come racconta la mostra Evan Gorga, il collezionista, allestita nelle sale di Palazzo Altemps a Roma fino al 4 maggio 2014 (catalogo Electa), Gorga era attratto soprattutto da resti di manufatti, vetri, oggetti decorati, ma di uso quotidiano.

Evan Gorga

Evan Gorga

Nelle addensate teche allestite in Palazzo Altemps si scoprono così frammenti di decorazioni, stoviglie e lacerti di affreschi.

Pezzi minori, oseremmo dire, ma in sé straordinariamente suggestivi come un vetro levigato dal mare o una porcellana finemente lavorata; oggetti che si rivelano di grande valore oggi per lo studioso di storia materiale e quotidiana di tempi antichi, di cui questi 40mila pezzi sono un segno, una traccia, che aspetta di essere interrogata per rivelare la propria vicenda.  Gorga voleva dare vita a un “museo della storia universale”, ma i debiti fermarono il suo progetto utopistico. Che la mostra di Palazzo Altemps, curata da Alessandra Capodiferro direttrice del museo, invita a conoscere. Anche attraverso una serie di conferenze: il 19 gennaio l’archeologa Beatrice Palma ha ripercorso la storia che va dalla camera delle meraviglie al nascita del museo. Il 26 gennaio, lo scrittore Emanuele Trevi confronta differenti tipi di collezionista da Benjamin, a Chatwin a De Wall.  (Simona Maggiorelli)

dal settimanale Left-avvenimenti

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Tiziano e la forza del colore

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 3, 2013

Tiziano, Danae di Capodimonte

Tiziano, Danae di Capodimonte

La rivoluzione del colore. Di una pittura che – con grande scandalo di Michelangelo e di altri maestri toscoemiliani – modernamente faceva a meno del disegno, dando corpo e tridimensionalità alla rappresentazione con la forza di una tavolozza cangiante, ricca di riflessi di luce e di un tonalismo che, sulla strada aperta da Giorgione, permetteva una inedita fusione fra personaggi e paesaggio. E poi l’orgoglio di una pittura laica, espressiva, carnale ed elegante, che teneva alta la fama della Repubblica di Venezia, fieramente indipendente, nonostante i venti cupi di controriforma che, nella seconda metà del Cinquecento, la Chiesa cattolica alzava non solo nella penisola.

La pittura di Tiziano Vecellio (1490 circa – 1576) seppe farsi interprete di queste istanze in un modo straordinariamente creativo e originale, per un lungo e fertile sessantennio. Una mostra alle Scuderie del Quirinale, dal 5 marzo al 16 giugno (catalogo Silvana editoriale) offre l’occasione di ripercorrerlo attraverso una selezione di quaranta opere di questo forte protagonista della pittura del XVI secolo.

A conclusione di un ciclo di mostre sulla pittura veneta e scandito da capitoli monografici dedicati a Antonello da Messina (che dal 1474 fu in Laguna), a Giovanni Bellini, a Lorenzo Lotto e a Tintoretto, il curatore Giovanni C.F. Villa in dieci sale è riuscito a costruire un percorso dedicato a Tiziano che evoca due storiche retrospettive, quella del 1935 e quella del 1990 in Palazzo Ducale a Venezia. E anche se questa mostra a Roma – ovviamente – non può giovarsi degli affreschi che il pittore realizzò, per esempio, ai Frari e in altri luoghi, ha comunque il merito di esporre importanti opere conservate all’estero come L’allegoria del tempo (1550-1565) della National Gallery in cui Tiziano ricreava un tema caro a Giorgione e poi ritratti conservati a Vienna, a Budapest e a Washington e ancora capolavori come il Supplizio di Marsia (1576) proveniente dal Castello ceco di Kromeriz, opera che testimonia la capacità che Tiziano ebbe, anche nei suoi ultimi anni, di rinnovare radicalmente il proprio linguaggio espressivo.

Tiziano Supplizio di Marsia

Tiziano Supplizio di Marsia

L’episodio mitologico, mutuato da Ovidio, prende vita sulla tela con una pittura rapida e materica che mira all’essenziale. Con una fiammeggiante scelta di toni rosso-bruni Tiziano decise di rappresentare il momento più cruento della vicenda di Marsia punito da un feroce Apollo perché aveva osato sfidarlo nella musica. In un angolo di questa scena dalle tonalità arse e profonde, dipinta in modo impressionistico e drammatico con pennellate spezzate, quasi sommarie, spunta anche un singolare autoritratto di Tiziano, come una sorta di scettico Nicodemo dallo sguardo smagato e pensieroso. Un cammeo e insieme una eretica e coraggiosa sfida da parte di un artista che per tutta la vita aveva rappresentato per immagini gli ideali repubblicani, sempre guardandosi dal diventare pittore di corte, nonostante la vicinanza con letterati come Bembo e l’Aretino, nonostante le profferte papali e gli inviti a trasferirsi a Roma (cosa che Tiziano rifiutò sempre), nonostante l’attenzione di committenti come l’imperatore Carlo V e Filippo II di Spagna.

Uno spirito di indipendenza di cui raccontano le pagine dei cronisti del suo tempo (Giorgio Vasari in primis), ma che si può leggere in filigrana anche nella sua eccezionale produzione ritrattistica. Fu proprio quel suo spiccato senso di estraneità, quel suo essere e sentirsi “altro” rispetto ai potenti della sua epoca a dare originalità al suo sguardo e a consentirgli quella sua speciale e penetrante capacità di cogliere gli aspetti psicologici dei soggetti rappresentati.

Per rendersene conto, visitando la mostra alle Scuderie del Quirinale, basta osservare l’arcigno papa Paolo III che Tiziano dipinse nel 1543, oppure l’espressione di tronfia stolidità che caratterizza il ritratto di Carlo V proveniente dal Prado di Madrid.

Tiziano, Ritratto di Ranuccio Farnese

Tiziano, Ritratto di Ranuccio Farnese

E ancora, sul versante opposto, basta  prestare attenzione  allo sguardo timido, sensibile e quasi impaurito del giovane Ranuccio Farnese, in palese contrasto con la posa e l’abito inamidato in cui lo costringe il suo rango sociale.

Ma grande immediatezza e forza comunicativa hanno anche i tanti ritratti di personaggi liberi e anonimi che Tiziano dipinse in momenti di vita quotidiana come l’elegante Uomo con guanto del Louvre o il pianista de Il concerto. Una libertà espressiva che si fa sensuale carnalità in ritratti femminili come Flora o come la Danae di Capodimonte, in cui Tiziano si divertiva a ritrarre giovani e misteriose  bellezze del suo tempo.

Un omaggio al fascino muliebre era la cifra viva e vibrante dei suoi ritratti femminili ma anche di opere di soggetto sacro, come la sensuale Maddalena penitente di Pitti, un’opera al limite dell’eterodossia.

Ma Tiziano, amico e sodale di umanisti, seppe evitare pericolose condanne da parte della Chiesa, invocando raffinate letture neoplatoniche del Cristianesimo, come nel celebre Amor sacro e amore profano (1515) della Galleria Borghese in cui, come ricostruì Erwin Panofsky (Studi di iconologia, Einaudi), operava un sapiente rovesciamento: rappresentando l’amore profano come una giovane donna sontuosamente vestita e l’amor sacro come una giovane nuda: come nuda, secondo la dottrina, è la verità dell’anima davanti a dio.

( Simona Maggiorelli)

dal settimanale left

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Nella fucina dell’Umanesimo

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 31, 2012

di Simona Maggiorelli

Paolo Uccello, La battaglia di San Romano, Uffizi

Una selva di lance spezzate e il bagliore delle armature. E poi il sangue, i soldati morti mentre i cavalli scalciano con vigore. Così rappresentava, con una prospettiva inedita e in scorci vertiginosi, la Battaglia di San Romano (1438-1440) il pittore Paolo Uccello.

La tela conservata agli Uffizi, dopo tre anni di restauro, ha recuperato ora una piena leggibilità. Brillano gli inserti d’oro e d’argento ma soprattutto emerge la raffinata pittura tonale che dà profondità alla scena, in cui anche lo spettatore è come risucchiato.

Quella che Paolo Uccello offre è una magnifica visone dello scontro fra senesi e fiorentini, una potente orchestrazione di «caos, clamore, urto, sventolio araldico e sonorità metalliche d’un estremo sogno cavalleresco», come annota la soprintendente al Polo Museale Fiorentino Cristina Acidini in un suo saggio pubblicato nel catalogo Giunti della mostra Bagliori dorati. Il gotico internazionale a Firenze

. Una rassegna aperta fino al 4 novembre nella Galleria degli Uffizi e che alla fine di un percorso di oltre cento opere culmina proprio con la Battaglia di San Romano, l’unica tavola del celebre trittico di Paolo Uccello rimasta in Italia. (Le altre  due tele , come è noto, sono alla National Gallery di Londra e al Louvre di Parigi).

Curata dal direttore degli Uffizi Antonio Natali, con Enrica Neri Lusanna e Angelo Tartuferi, questa mostra è l’ideale proseguimento di quella di un paio di anni fa intitolata L’eredità di Giotto, e che si fermava al 1375. La tesi scientifica di questa importante esposizione – che riunisce capolavori di Gentile di Fabriano come la Pala Strozzi e opere giovanili di Paolo Uccello come L’Annunciazione proveniente da Oxford o la Madonna di Antonio Veneziano conservata ad Hannover – è che il gotico internazionale, nelle sue varie declinazioni fosse già parte dell’Umanesimo, al pari del filone innovativo che va da Masaccio a Donatello e Brunelleschi.

La Battaglia di San Romano, da questo punto di vista, si presenta proprio come una sintesi potente della complessità intellettuale e creativa di quella speciale stagione dell’arte fiorentina che senza soluzione di continuità procede dal Trecento al secolo successivo e in cui, per dirla con Natali, «rigore matematico e sperticate fantasie convissero, intersecandosi talora».

Lorenzo Monaco, particolare

Tutto ciò è raccontato attraverso una scelta di opere realizzate tra 1375 e il 1440, fra cui dipinti di Angelo Gaddi, Beato Angelico, Lorenzo Monaco, ma anche di Masolino da Panicale, Antonio e Domenico Veneziano e altri artisti dai nomi meno noti al grande pubblico ma che testimoniano bene della ricchezza di stili e di sperimentazioni della Firenze protoumanista.

Dove un ruolo preminente aveva anche la scultura che doveva esprimere la magnificenza della città legittimandone il primato culturale e politico. Un aspetto indagato anche dallo storico dell’arte ungherese Miklós Boskovits scomparso un anno fa a Firenze. Fra i massimi studiosi del XIII-XV secolo, ai suoi lavori si deve la rilettura del Quattrocento fiorentino come fucina di innovazione in cui un raffinato gotico internazionale incontrava l’interesse per l’umano e lo studio della classici.

Una koinè che, come argomenta Michele Tomasi nel suo L’arte del Trecento in Europa (Einaudi), risulta incomprensibile se letta in contrapposizione con il Trecento e senza considerare il coevo contesto europeo.

da left-avvenimenti

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Oltre olo specchio di Venere

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 21, 2012

La ricerca di una vita, la passione per l’arte , gli incontri e gli amori di Diego Velazquez nella prima biografia italiana del grande pittore del Seicento spagnolo, edita da Cavallo di Ferro e firmata da Riccardo De Paolo. Fra storia e romanzo l’avventura di un autore di penetranti ritratti, di opere complesse come Las Meninas e di laici nudi femminili , in un’epoca di roghi feroci

di Simona Maggiorelli

Velazquez, Venere allo specchio (1650)

La narrazione comincia dalla fine: dalla lettera che il pittore Diego Velàzquez, ormai sul letto di morte, invia nel 1660 all’amico Juan de Còrdoba. Lasciando che sulla pagina affiorino memorie di vita, di incontri, di amori ma anche la passione di una intera vita, quella per l’arte («Volevo spingermi nell’arte dove nessuno si era ancora spinto»).

Con quella fierezza di hidalgo che lo caratterizzava fin da giovane, ma soprattutto con la consapevolezza di una esistenza pienamente riuscita, Diego Rodriguez de Silva y Velàzquez, cavaliere dell’Ordine di Santiago, si appresta ad uscire di scena.

«La nostra vita è solo una goccia nel mare del tempo; e non sono così stolto – o privo d’immaginazione – da poter escludere che questo nostro stato non sia soltanto una temporanea finzione. Ricordatene se un giorno, oppresso dai ricordi, o da qualche bicchiere di troppo, ti verrà voglia di piangere», scrive all’amico in questa lettera immaginata da Riccardo De Palo ad incipit de Il ritratto di Venere, la vita segreta di Diego Velàzquez (Cavallo di Ferro), la prima biografia italiana del grande pittore del Seicento spagnolo.

In forma di romanzo, ma puntuale nella ricostruzione storica e soprattutto generosa di approfondimenti sulla poetica, originalissima, di questo autore di penetranti ritratti (basta pensare al suo celebre nano di corte), di opere complesse come Las Meninas e di morbidi nudi femminili come la Venere allo specchio conservata alla National Gallery di Londra: un’opera luminosamente laica in un’epoca di feroci roghi controriformisti.

In questo romanzo storico De Palo ne rintraccia il vero volto nella bella ventenne Marta di cui il già maturo pittore si innamorò perdutamente durante un soggiorno romano. E più indietro nel tempo l’autore ci porta a rintracciare l’origine della calda tavolozza di ocra, rossi e terre tipica di Velàzquez in quella libera e arabizzante Siviglia in cui  era nato nel 1599 e aveva trascorso la giovinezza, «rimirando i fregi intarsiati di quelle che un tempo erano moschee», fra botteghe che vendevano di ogni tipo di mercanzia e strade piene di gente.

Nella cosmopolita Siviglia Velàzquez entrò giovanissimo a bottega del colto Pacheco (di cui sposerà la figlia Juana) assorbendone la lezione improntata al naturalismo fiammingo e, attraverso stampe e riproduzioni, facendo proprio il drammatico chiaro-scuro dei caravaggisti. Poi la decisione di trasferirsi a Madrid, per tentare la carriera a corte, riuscendo a diventare l’artista preferito del re Filippo IV e amico di Rubens da cui il pittore andaluso apprezzava la libertà dai moralismi religiosi e il coraggio nel portare avanti progetti personali e lungimiranti in barba alle meschinerie e alle trame di corte.

Seguendone le orme, ricostruisce Riccardo De Palo, Velàzquez ebbe incarichi ufficiali per acquistare all’estero opere per la collezione imperiale. Ma divenne anche testimone privilegiato del Siglo de oro, frequentando Francisco de Quevedo, Luis de Gòngora, Calderòn de la Barca, Lope de Vega e altri importanti intellettuali del tempo. Avendo anche la possibilità di un diretto  confronto con i maestri dell’arte italiana, grazie a una serie di viaggi nella penisola dove poté studiare le opere di Michelangelo, di Raffaello, di Tiziano, di Veronese e di Tintoretto.

Il suo fiammeggiante Innocenzo X  resta un debito aperto con quel Tiziano di cui a Venezia ebbe modo di apprezzare la grande libertà creativa e  la rappresentazione dell’umano piena e immanente. A tutto questo, specie nella ritrattistica, Velàzquez seppe aggiungere una straordinaria capacità di cogliere in un guizzo, in un’espressione, in una smorfia imprevista, ciò che più profondamente si agita nell’animo umano, raccontandone i tormenti interiori, riuscendo a fermare la realtà vibrante sotto il suo pennello.

da left-avvenimenti

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La svolta geniale dell’ultimo Tiziano

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 30, 2012

di Simona Maggiorelli

Tiziano, Dánae , Prado,(1553-1554)

Dissero che il suo autoritratto di ultra ottuagenario non fosse finito, a causa di quei contorni poco definiti che fanno apparire la nobile figura di Tiziano quasi in dissolvenza

. Mentendo sulla straordinaria forza evocativa di questo volto maturo  su cui dardeggia uno sguardo vivo e penetrante.

Ma i cronisti cinquecenteschi  dissero che Tiziano non ci vedeva più e che, per questo, nelle sue ultime opere usava pennellate materiche, sfrangiate e dipingeva figure evanescenti su sfondi bruniti.

Come nel feroce Supplizio di Marsia (1570)conservato nel Castello ceco di Kromeriz in cui un sadico Apollo,  con un coltellacci,  scuoia un malcapitato Marzia, appeso a testa in giù, come condanna per aver osato sfidare la divinità nella musica. Su uno sfondo ribollente di rossi e di marroni, figure come arse da un fuoco paiono baluginare alla superficie della tela per poi svanire.

Tiziano, supplizio di Marsia

Davanti allo sguardo dello spettatore appare una composizione drammatica, addensata di personaggi, immersa in una natura selvaggia, fuori dal tempo, eppure in movimento, quasi fosse il riflesso dall’inquietudine più intima del pittore (che si autoritrae meditabondo nella parte destra della tela). Quella che anche il Vasari ebbe a giudicare, tra le righe, come la fine di un grande artista era, in realtà, un geniale cambio di poetica e un imprevisto salto in avanti.

In vecchiaia Tiziano seppe rinnovare interamente la propria pittura, come ricostruisce Fabrizio Biferali nel libro Tiziano, il genio e il potere (Laterza). Un saggio che, diversamente dalla appassionata biografia scritta da Alvise Zorzi (Il colore e la gloria, Mondadori), non ricorre alla seduzione dello stile romanzato volendo mettere in primo piano una ricostruzione scientifica della lunga parabola tizianesca.

Che fin dall’adolescenza fu all’insegna di una piena consapevolezza dei propri mezzi espressivi e di una fiera indipendenza: un’esigenza di autonomia che portò il pittore veneto a farsi cantore di una Venezia cosmopolita, laica e sensuale e ad opporre recisi rifiuti agli inviti papali di trasferirsi a Roma.

Dagli esordi sotto l’ombra dei Bellini, alla competizione con Giorgione (del quale Tiziano si diceva collega, aumentandosi gli anni) fino alle commissioni delle più importanti corti internazionali, per le quali nacquero misteriose e sensuali immagini di donna come la Danae del Prado.

Tiziano, autoritratto 1566

Già in  quadri come questo datato ’53-’54, e più ancora nel malinconico Ratto di Europa del ’59, si possono cogliere i segnali del profondo cambiamento a cui la pittura di Tiziano stava andando incontro . Basta guardare alla morbidezza delle linee, ai bagliori di luce, alla perdita di nitore delle figure. Di lì a poco il sontuoso e brillante colorismo tizianesco avrebbe lasciato il posto a una tavolozza più scura. Da ritratti ufficiali e quadri ricchi di dettagli, il Tiziano più maturo sarebbe passato a una pittura che badava solo all’essenziale, a ciò che vibra sotto la superficie delle cose, a quel guizzo vitale che fa di molti ritratti dell’artista cadorino opere universali. Come ci ricorda ora la mostra Da Vermeer a Kandinsky, capolavori dai musei del mondo che si apre il 21 gennaio in Castel Sismondo a Rimini e che, all’interno di una ampia sezione dedicata alla pittura veneta, riporta temporaneamente in Italia l’elegante Ritratto di uomo con libro del Museum of Fine Arts di Boston.

Senza dimenticare la serie di mostre a staffetta che la rete museale della Gran Bretagna sta dedicando alle opere di Tiziano conservate alla National Gallery.  Da qui è partito il quadro Diana e Atteone di Tiziano che dal 13 gennaio scorso è in mostra alla Tate Gallery di Liverpool per poi andare in tour a Cardiff e in altre città. Ma alle Metamorfosi di Tiziano, ovvero alle tele di Tiziano ispirate ad Ovidio, che raccontano  i prodromi di questa ultima geniale fase di Tiziano nei prossimi mesi sarà dedicata anche una delle più interessanti mostre dell’anno ovvero Metamorphosis: Titian 2012  che negli spazi della National Gallery , alla Royal Opera House vedrà artisti visuali come Chris Ofili, Conrad Shawcross e Mark Wallinger , ma anche coreografi, musicisti e compositori presentare nuove opere, ispirate a Tiziano.

da left-avvenimenti

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Dipingere i moti dell’animo

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 20, 2011

Nuove scoperte emerse dal restauro de La Vergini delle Rocce e una grande mostra alla National Gallery di Londra riaprono gli studi sul genio del Rinascimento sottolineando l’originalità della sua pittura incentrata sulla rappresentazione della dinamica degli affetti  e sulla realtà interiore dei personaggi ritratti. Intanto due esposizioni a  Roma e a Torino invitano ad approfondire la conoscenza dei suoi disegni in un confronto diretto con Michelangelo.

di Simona Maggiorelli

Leonardo, La dama con ermellino

«E’ la mostra che avrei voluto per Milano, che avevo in mente per l’Expo 2015» confessa Pietro Marani, fra i massimi studiosi di Leonardo, commentando la grande mostra londinese  dedicata a Leonardo aperta dallo scorso 9 novembre al 5 febbraio 2012 alla National Gallery, (e che già registra un pieno di visitatori da ogni parte del mondo).

Di fatto si tratta della prima importante rassegna sugli anni milanesi Leonardo, dagli anni 80 agli anni 90 del Quattrocento, quelli più prolifici, trascorsi a servizio di Ludovico il Moro, quando il genio del Rinascimento fiorentino, tenendo a debita distanza le pressioni di signori e di committenti ecclesiastici, affrescò il suo Cenacolo in Santa Maria delle Grazie. Quello straordinario teatro delle passioni di cui Marani anni fa ha guidato il restauro riportandone alla luce un impensato impianto coloristico.

«La mostra londinese è una bella occasione di confronto internazionale fra gli studiosi» prosegue l’ex soprintendente milanese che a Leonardo, dopo tanti lavori scientifici, ha dedicato il romanzo breve Le calze rosa di Salaì (Skira), Oltremanica si può vedere il risultato del restauro della Vergine delle Rocce del 1480-90, di cui i curatori rivendicano la completa autografia leonardesca (fin qui si pensava un’opera frutto di collaborazione) ma si può vedere anche il da poco ritrovato Salvator Mundi, «una tela – racconta Marani – che ho avuto modo di vedere anni fa a Londra quando riemerse dal mercato americano e in pessime condizioni. Dopo una lunga ripulitura, ora si presenta come una pittura di grande qualità tanto che – dice lo storico dell’arte – potrebbe davvero essere di mano di Leonardo, come è stato annunciato in occasione del lancio di questa esposizione».

La mostra di Londra, dunque,  riapre la discussione sull’attribuzione della tela di proprietà del gallerista newyorchese Robert Simon, anche se ci vorrà tempo e molto studio per risolvere definitivamente la controversia. Comunque sia, con o senza i colpi di scena annunciati dalla cronaca, la mostra Leonardo da Vinci painter at the Court of Milan si segnala già come straordinaria per la serie di ritratti che è riuscita ad avere in prestitoe ad esporre  riuniti. A cominciare dalla Dama con Ermellino- Cecilia Gallerani (1488-1490), proveniente dal Museo Czartoryski di Cracovia e dalla Belle Ferronière (1490-1495) che viene dal Louvre, quadri con cui Leonardo supera la rigida tradizione rinascimentale di ritratti ufficiali di profilo regalandoci l’emozione di presenze femminili vive e misteriose e di giochi di sguardi con il pubblico che, nel caso di Cecilia Gallerani, arrivano ad alludere anche alla presenza fuori campo dello stesso Ludovico il Moro.

Leonardo, Cartone di Sant'Anna

E se in capolavori come questi Leonardo riesce quasi a farci percepire il movimento della mente e il flusso dei pensieri del soggetto ritratto, nel celebre cartone di Sant’Anna conservato a Londra (e di cui gli studiosi del British Museum ora propongono una retrodatazione alla fine del Quattrocento) Leonardo crea una intimo intreccio di rapporti emotivi fra i personaggi.

E’ uno degli esempi più raffinati e intriganti di quella dinamica degli affetti che Leonardo – inarrivabile in questo fra i pittori del Rinascimento – seppe rappresentare. Non emulato né da Michelangelo, che era interessato ad altro tipo di rappresentazione, più  fisica, epica e religiosa, né dal più giovane Raffaello che, per quanto  dovesse molto a Leonardo riguardo al disegno a matita nera,  era assai più attento al consenso della committenza ecclesiastica che aveva fatto di lui “il divin pittore”.

« Quanto a Michelangelo – approfondisce Marani – con la torsione delle forme, era interessato a rappresentare le idee innate che Dio aveva posto nella mente dell’uomo. Leonardo invece tendeva a rappresentare un ideale di bellezza che veniva concretamente dalla natura». Con questa idea Marani, nei mesi scorsi si è fatto mentore  di una piccola, ma interessantissima mostra in Casa Bonarroti a Firenze in cui erano a confronto disegni di Leonardo e Michelangelo. Con il titolo La scuola del mondo, in collaborazione con Pina Ragionieri,  Marani  aveva realizzato nella casa di Michelangelo un percorso espositivo ( catalogo Silvana editoriale)  che metteva al centro il confronto fra  i disegni realizzati da Leonardo per la Battaglia di Anghiari in Palazzo Vecchio, (l’affresco che fu murato da Vasari dopo il ritorno dei Medici al potere e mai più ritrovato) e i disegni di Michelangelo per l’affresco mai dipinto della Battaglia di Cascina. In versione ampliata e arricchita da disegni provenienti dall’Ambrosiana di Milano la mostra fiorentina (che ha chiuso i battenti l’agosto scorso) ora è ospitata fino al febbraio 2012 dai Musei  Capitolini di Roma.

Lungo il percorso ricreato ad hoc si può leggere in parallelo l’evoluzione personale di ciascuno dei due artisti. In particolare qui Marani mette a valore  la sua ipotesi sui motivi che portarono Leonardo ad abbandonare il tradizionale disegno fiorentino a punta di argento per passare a quello a matita, nera o rossa. «Fu l’esigenza di ritrarre i moti mentali a rivelargli l’insufficienza dei media tradizionali», spiega Marani.

Il tratto d’inchiostro nitido e quasi inciso non gli permetteva di andare in profondità come avrebbe desiderato nel rappresentare gli umori, le passioni, gli affetti che rendono espressivo il volto e la “corrente emotiva” che si crea nei rapporti umani. «La matita – aggiunge lo studioso – gli regala una nuova dolcezza nello sfumato e nel chiaroscuro, un segno morbido manipolabile anche direttamente con i polpastrelli che gli permetteva di rappresentare anche le più sottili vibrazioni luministiche ed emotive». Ne sono prova le straordinarie teste di combattenti disegnate per la Battaglia di Anghiari e che, insieme al ritratto di Isabella d’Este proveniente dal Louvre e ad alcuni profili di “vecchi e di giovani affrontati”, a teste ideali e schizzi di volti grotteschi rappresentano il corpus centrale di questa preziosa mostra transitata da Firenze a Roma

Leonardo la vergine delle rocce

Leonardo La Vergine-delle-rocce-Londra

LE NUOVE SCOPERTE EMERSE DAL  RESTAURO DELLA VERGINE DELLE ROCCE

Liberata dalla vernice giallastra che la ricopriva fin da una ripulitura degli anni Quaranta del Novecento, l’opera è stata riportata a un aspetto, il più vicino possibile a com’era in origine». Così Lerry Keith, direttore dei restauri della versione della Vergine delle rocce conservata al British Museum racconta i lavori appena ultimati. «In questo modo- aggiunge – è emerso lo straordinario uso del contrasto luce ombra con cui Leonardo dava tridimensionalità ed evidenza scultorea alle figure». Ma non solo. «L’esame tecnico riflettologico – prosegue Keith – ci ha permesso di vedere meglio come lavorava: facendo continui aggiustamenti, modificazioni e ritocchi come se fosse riluttante a fissare sulla tela un’immagine fissa e definitiva, una volta per tutte». Discorso affascinante che ci riporta agli studi di Leonid Batkin ( Leonardo da Vinci, Laterza) quando ipotizzava un programmatico “non finito” leonardesco, frutto di un processo creativo in cui l’ideazione era assai più importante della realizzazione dell’opera in una forma definita e ipostatizzata. Con lui un altro noto studioso, Martin Kemp (La  mente di Leonardo, Einaudi) ha messo in evidenza come, specie negli anni più maturi, Leonardo tratteggiasse l’essenziale, «il resto rimane sempre non finito e lasciato all’immaginazione». Ma c’è ancora un’altra scoperta che il restauratore ci invita a considerare: «Con tecniche avanzate – dice – siamo stati in grado di scoprire qualcosa di più sui pigmenti usati da Leonardo. Per esempio abbiamo individuato un pigmento rosso di lago; è descritto nelle fonti dell’epoca ma non siamo riusciti a trovare nulla di simile della National Gallery».

Qui torna in primo piano Leonardo sperimentatore di tecniche nuove, che per lui non erano solo ricerca di maggiore efficacia pittorica ma parte di una ricerca continua sugli strumenti messi a disposizione dalla natura, per chi la sa comprendere, fuori dal dogmatismo religioso. Con i «trombetti e i dommatici», si sa, Leonardo non andava molto d’accordo.

Leonardo, autoritratto

Per lui non c’era nulla nella sapienza libresca che potesse farlo rinunciare alla “sperienza” diretta. Sperimentazione diretta, studio della natura, ma come si evince anche dalla Vergine delle rocce, quando poi si trattava di dipingere un tratto di paesaggio non si trattava di farne una copia dal vero, ma di ricrearla con fantasia, secondo un’immagine di bellezza, tutta interiore.

INTANTO ALLA REGGIA DI VENARIA la mostra Leonardo, il genio, il mito

La Scuderia Grande della Reggia di Venaria ospita dallo scorso  17 novembre  al 29 gennaio 2012 la mostra Leonardo. Il genio, il mito, ponendo al centro del percorso il celebre Autoritratto di Leonardo, conservato nel caveau della Biblioteca Reale di Torino. Intorno all’opera,in cui Leonardo rappresenta se stesso come un elegante vecchio saggio  sono esposti il Codice sul volo degli uccelli ed una trentina di importanti disegni di Leonardo, provenienti da collezioni italiane ed europee, sul tema dell’anatomia umana e del volto, delle macchine, della natura nonché altri interessanti ritratti riferibili ad allievi per un confronto diretto ed inedito con lo stesso Autoritratto. La mostra è arricchita  da una curiosa e variegata selezione di opere di artisti  -da  Vasari e Sodoma a Duchamp, Warhol, Spoerri, Nitsch e tanti altr -i che raccontano come nei secoli si sia articolato il mito di Leonardo.

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Il mondo dell’arte nel 2010: ritorno alla ricerca

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 15, 2010

Mentre Parigi e Londra puntano sulla cultura per battere la crisi, il Belpaese resta al palo. Nonostante l’apertura del MaXXI e alcune mostre di pregio. Ecco lo scenario che si prospetta per il nuovo anno

di Simona Maggiorelli

Kandinsky

Lasciati alle spalle gli anni zero dell’euforia dei mercati internazionali dell’arte e, specie per quanto riguarda l’Italia, gli anni di “mostrite” acuta (che nell’ultimo decennio ha prodotto una ridda di mostre già finite nel dimenticatoio) l’anno nuovo si apre all’insegna di esposizioni che tornano ad esplorare le avanguardie storiche e l’opera dei maestri che hanno segnato importanti svolte nei due secoli passati: da Goya a Van Gogh, da Gauguin a Kandinsky a Picasso. Ma il 2010 dell’arte, in molta parte d’Europa, si annuncia anche all’insegna di un concetto chiave come la valorizzazione dei beni culturali. Solo per fare un esempio basta dire che il presidente francese Sarkozy, anche per reagire alla crisi economica, nell’anno che si è appena aperto ha in programma di realizzare un grosso processo di riforma e di rilancio del Grand Palais e della Rmn (Réunion des musée nationaux) con l’obiettivo di “fare di Parigi una delle prime sedi di mostre a livello internazionale”. E mentre Londra, con un forte rilancio delle due sedi della Tate e con il ricco programma di esposizioni dedicate alle civiltà antiche della National gallery e del British punta a scippare a Berlino il primato di capitale dell’arte contemporanea e dell’archeologia, Barcellona e Amsterdam, investono su mostre scientifiche di studio e di approfondimento dell’opera di Picasso e Van Gogh.

E nel Belpaese?

Quanto a valorizzazione del patrimonio tutto procede, purtroppo, in ben altra direzione. Dopo un anno di fortissimi tagli al Fus alla tutela e alle soprintentendenze il responsabile della neonata direzione generale della valorizzazione dei beni culturali, il super manager ex Mc Donald’s Mario Resca ha appena varato una campagna pubblicitaria in cui il Colosseo appare smontato pezzo dopo pezzo mentre il David di Michelangelo, imbracato, si invola in cielo. Sotto scorre una minacciosa scritta: “se non lo visitate lo portiamo via”. Chi ha avuto modo di viaggiare durante queste festività ha visto senz’altro modo di notare questa geniale sortita del nostro ministero dei Beni culturali che circola on line nel circuito tv dei più importanti aeroporti nostrani. Ma tant’è. Continuando a sperare che gli italiani prima o poi si decidano a dare il ben servito a questa classe politica di centrodestra che, fra le altre pensate, ha concepito anche una Spa per la cartolarizzazione e la vendita di importanti pezzi del patrimonio nazionale, nell’anno che si apre gli amanti dell’arte antica e contemporanea avranno alcuni appuntamenti per rinfrancarsi, almeno un po’. Appuntamenti dovuti- è quasi pleonastico dirlo- alla tenacia di singoli studiosi non certo alle “ politiche” di questo governo.

Man Ray nudo di Meter Hoppenheim

Fra i vari eventi pensiamo in modo particolare dalla mostra ideata da Claudio Strinati per i quattrocento anni dalla morte di Caravaggio alle Scuderie del Quirinale a Roma, ma anche della duplice rassegna dedicata a Giotto e Assisi (marzo-settembre 2010) e al cantiere della Basilica e all’arte umbra tra il Duecento e il Trecento. Ma parliamo anche e soprattutto, della definitiva apertura del MaXXI, il museo del XXI secolo disegnato da Zaha Hadid, che dopo 11 anni di gestazione e 6 di costruzione aprirà a maggio con cinque mostre: da Spazio! dedicata alle collezioni permanenti di arte e architettura alla antologica dedicata a Gino De Dominicis curata da Bonito Oliva. Per il resto in Italia si produce poco e si importa molto. Seppur non di rado con profitto, come nel caso della grande mostra dedicata ai maestri dell’arte astratta che approderà al Guggenheim di Vercelli dal 20 febbraio sotto l’egida del curatore (nonché direttore del Macro di Roma) Luca Massimo Barbero. O anche come nel caso della mostra Utopia matters, che dal primo maggio, a cura di Vivien Greene, inaugura la nuova ala museale del museo Peggy Guggenheim di Venezia.Ma pensiamo anche alla mostra Goya e al mondo moderno che si aprirà il 5 marzo al palazzo Reale di Milano con la collaborazione di Skira. In questo quadro di collaborazione fra l’editore di origini svizzere e Palazzo Reale preceduta dalla rassegna Schiele e il suo tempo che si aprirà il 25 febbraio.

Su e giù per lo stivale

Mentre a Villa Manin a Passariano di Codroipo (Udine) prosegue con successo di pubblico fino al 7 marzo la mostra L’età di Courbet e Monet. La diffusione del realismo e dell’impressionismo nell’Europa centrale e orientale il prolifico e, comunque sia, bravissimo Marco Goldin con Linea d’ombra annuncia già la mostra Munch e lo spirito del Nord, in programma sempre a Villa Manin: 40 dipinti del pittore norvegese intercalati ad altri 80 dipinti che raccontano della pittura in Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca nel secondo Ottocento.

dalla mostra aristocratic

E ancora a Parma, dal 16 gennaio Novecento arte fotografia moda design, una grande mostra che indaga il secolo passato inseguendone tutti i rivoli, grazie alle molte donazioni che gli artisti stessi hanno fatto al centro di documentazione creato da Arturo Carlo Quintavalle e Gloria Bianchino. In mostra opere di Schifano, Burri, Boetti, Fabro, Ceroli, Guttuso, Fontana, Sironi e molti altri.

Hong Kong tradional trandy

E ancora celebrando il Novecento, a Venaria reale e al museo del cinema di Torino la mostra 400 anni di Cinema: dal film paint alle lanterne magiche, in co-produzione con la Cinémathèque frainçaise di Parigi. Per quanto riguarda la fotografia, dal 29 gennaio al 5 febbraio 2010, in veste di evento off di ArteFiera 2010 di Bologna segnaliamo la proposta della rassegna Aristocratic The new experience. Una mostra che racconta un’esperienza caratterizzata da un forte desiderio di interagire con la realtà e che tuttavia porta a una trasformazione delle immagini in chiave assolutamente personale, anche attraverso la sperimentazione di nuove tecniche, strumenti e materiali.

Spagna. Dal genio di Picasso in poi

Al museo Picasso di Barcellona si indaga l’influenza cruciale che l’artista catalano Santiago Rusiñol esercitò sul giovane Picasso comparando l’opera dei due artisti dal punto di vista biografico e iconografico. Dal 15 ottobre al 16 gennaio 2011 poi il museo Picasso di Barcellona organizzerà una mostra che esplora i rapporti fra Picasso e Degas affidandola alla cura di una delle maggiori studiose dell’artista spagnolo Elizabeth Cowling dell’ University of Edinburgh. Un confronto basato sul fascino che Degas esercitò su Picasso e sul diverso uso che i due artisti fecero di pastelli pittura, scultura stampe e fotografia. Una mostra che punta a esplorare le risposte esplicite di Picasso a Degas ma anche i nessi concettuali più nascosti fra i due artisti. Al Prado,invece, nel 2010 approderà la mostra dedicata all’esplorazione della luce del romantico Turner,già passata per il Grand Palais e che mette a confronto i suggestivi paesaggi del pittore inglese con opere del XVI e XVII firmate da Brill, Carracci, Lorraine e Poussin. Intanto si lavora già a una importante mostra dedicata all’ultimo Raffaello e che sarà esposta al Prado e al Louvre nel 2012. Nell’anno che si apre ricchissimo è anche il programma del museo Guggenheim di Bilbao dove per dicembre è attesa una retrospettiva del pittore americano Robert Rauschenberg scomparso nel 2008.Ma anche e soprattutto una importante antologica dell’artista indiano Anish Kapoor,una delle personalità più sensibili e interessanti della scultura contemporanea. La mostra ricalca in parte quella organizzata dalla Royal Academy of Arts di Londra lo scorso anno e che ha avuto un notevolissimo successo di pubblico e di critica.

La grande Francia

L’anno francese si apre all’insegna di una grande rassegna dedicata alle icone sacre dei territori della Russia cristiana (dal 3 maggio al Louvre) con una mostra che scandaglia la tradizione che va dal IX al XVIII secolo.Al Centre Pompidou, da aprile a luglio Attraversando nazioni e generazioni Crossing nations and generations, Promises from the past con cinquanta artisti dall’Europa centrale e dell’Est , a più di vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino cercando di individuare continuità e punti di rottura nel lavoro delle generazioni di artisti più giovani.

E ancora, per quanto riguarda l’archeologia, in primavera al Louvre, Meroë, impero sul Nilo. Di fatto si tratta della prima mostra dedicata esclusivamente alla capitale egizia, con più di duecento reperti che raccontano dell’influenza africana egizia e greco romana che si intrecciò in questa area di 200 chilomentri a nord dell’attuale Khartoum. La capitale reale Meroë è diventata famosa nei secoli per le piramidi dei re e delel regine che dominarono la regione tra il 270 a.C e 350 d.C. Un tema quello dell’esplorazione delle civiltà antiche che ritroviamo al centro anche della mostra Strade verso l’Arabia. Tesori archeologi dall’Arabia saudita. Una mostra che permette di conoscere più da vicino la storia artistica di questo paese che a causa del regime fondamentalista che lo governa rende difficile l’accesso agli occidentali.

Sua maestà la ricerca scientifica

Senza perdere troppo tempo con gli eventi da cassetta la National Gallery punta sulla ricerca scientifica ed il restauro. Così tra le mostre più interessanti proposte dai musei inglesi per il 2010 c’è a partire da fine giugno la rassegna dedicata alle recenti scoperte riguardo ad attribuzioni e nuovi studi su opere di grandi maestri conservate alla National Gallery. Un esempio abbastanza emblematico: nel 1845, il quadro dal titolo Uomo con teschio fu attribuito a Hans Holbein. Una recente analisi dell’opera con mezzi aggiornati e scientifici ha dimostrato che l’opera risale e a un periodo successivo alla morte dell’artista.

Esplorando un altro ambito poco sotto i riflettori come quello del disegnoo antico, dal 22 aprile, sempre alla National Gallery si apre una grande mostra dedicata al disegno rinascimentale italiano, da Verrocchio a Leonardo a Michelangelo e Raffaello. Per quanto riguarda le civiltà antiche e l’arte di altri continenti, dal 4 marzo, la National ospita una grande retrospettiva dedicata alla scultura africana nigeriana che conobbe una particolare fioritura tra il XII e il XV secolo. E poi con un salto di molti secoli ancora dando uno sguardo alla fitta programmazione della Tate si segnalano nel 2010 la mostra dedicata all’avanguardia europea di Theo van Doesburg (1883-1931) protagonista del movimento olandese di artisti, architetti e designers De Stijl. Ma anche e soprattutto la retrospettiva di Arshile Gorky (1904-1948) dal 10 febbraio, in un confronto serrato con la diversa ricerca di Rothko, Pollock e de Kooning. E ancora dal 30 settembre l’antologica dedicata a Gauguin con un centinaio di opere da collezioni pubbliche e private del mondo per uno sguardo nuovo su questo maestro della modernità.

dal quotidiano Terra del 2 gennaio 2010

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Costantinopolitismo

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 10, 2010

di Simona Maggiorelli da Istanbul

Istanbul

Per una iniziativa partita dalla società civile un gruppo di intellettuali turchi nel 1999 perorò la causa di Istanbul capitale europea della cultura ricevendo un secco no dalla Ue dal momento che la Turchia non ne fa parte. Ma quella proposta partita dal basso, sul lungo periodo, ha dato i suoi frutti e il 16 gennaio Istanbul avrà la sua incoronazione ufficiale come capitale del 2010. La cultura in questo caso ha preceduto la politica. Dimostrandosi più sensibile e lungimirante nel preconizzare un allargamento dell’Europa che significherebbe anche riconoscerne le radici multiculturali e, dal punto di vista delle religioni, certamente non solo cattoliche ma anche islamiche e chissà – di questo passo, ci auguriamo – anche pagane. Da parte sua la capitale turca punta a festeggiare l’atteso evento con una ridda di appuntamenti internazionali di arte, letteratura, musica, danza e perfino di cucina e di moda.

Se ne è avuto qualche assaggio già durante le recenti festività, in una Istanbul che da alcune settimane insolitamente inonda di luci il mare scuro e profondo del Bosforo. Una Costantinopoli degli anni Duemila animata più che mai di locali, di feste e di concerti improvvisati a ogni angolo di strada, secondo la tradizione zingara più intima e seducente della città. Ma anche una capitale piena di cantieri aperti per restauro di monumenti simbolo come il Ponte di Galata sul Corno d’Oro e per la costruzione di nuovi centri culturali come il Museo dell’innocenza che il premio Nobel per la letteratura Ohran Pamuk ha fondato a pochi metri dalla sua casa-studio nello storico quartiere di Cihangir, traducendo in realtà una fantasia del protagonista del suo ultimo omonimo romanzo. E ancora per le centinaia di migliaia di turisti che durante le feste di capodanno hanno letteralmente preso “d’assalto” la metropoli (in tutto il 2009 sono stati 7,5 milioni e se ne attendono più di 10 milioni nel 2010) si aprono grandi mostre dedicate all’arte della Persia antica e ai rapporti fra Venezia e l’impero ottomano, mentre sfodera tutti i suoi gioielli lo storico Topkapi, che per secoli, con il suo dedalo di sale per consigli politici (divan), giardini con fontane, harem, ha fatto da palazzo pubblico e privato dei sultani ottomani. Intanto sul pontile di Galata pescatori di ogni età continuano a prendere all’amo pesci messi in fuga dal passaggio delle navi, per le strade del vecchio quartiere di Sultanahmet strillano i venditori di ciambelle, i gatti dormono sui tappeti in vetrina e la voce del muezzin continua a scandire le ore di preghiera in questa megalopoli (che dagli anni Cinquanta a oggi è passata da poco più di un milione di abitanti agli attuali 12 milioni) in cui da sempre convivono differenti culture e religioni e dove oggi fiere ragazze con la minigonna sfrecciano per le vie di Beyoglu accanto a donne velate. Una mescolanza singolare, non solo di culture turche, arabe, greche, armene, curde, come racconta la scrittrice turca Elif Shafak ne La bastarda di Istanbul (Rizzoli) e nel suo nuovo romanzo ma anche una particolarissima coesistenza di antico e moderno, di inerzia e movimento continuano a essere la cifra più vera di questa Bisanzio del nuovo millennio. Così il Museo di arte moderna, nato cinque anni fa, con il suo giardino di sculture in acciaio colorato si inserisce nello scosceso panorama di viuzze del quartiere di Cihangir (quello di Pamuk appunto), dominato da una svettante moschea. E in Santa Sofia una Madonna bizantina campeggia accanto a versetti del Corano.

Istanbul by night

Compresenze di Oriente e di Occidente che fanno il fascino sottile di questa capitale della cultura che, unica al mondo, si stende su due continenti. Una città che sul versante occidentale come sul quello asiatico continua a crescere in orizzontale, disinvoltamente senza centro, come volesse procedere all’infinito. Nei quartieri della parte più europea, palazzoni di cemento e piccole case di legno si ergono fianco a fianco, giocandosela in solitario nel conquistare un proprio posto in uno skyline “creativo”, gaddianamente «patrufaziano». Istanbul – e questo è parte della sua magia – trova anche il modo di far convivere il razionalismo dell’edilizia anni Settanta con il romanticismo delle vecchie Yali in legno, residenze di villeggiatura sul Bosforo della buona borghesia turca. Alcune sopravvivono come se il tempo non fosse passato, altre anche in mezzo all’abitato appaiono drammaticamente spanciate e ridotte a macerie da incendi e terremoti. Come quello, devastante, che colpì Istanbul nel 1999 causando più di 30mila morti. La città turca, di fatto, sorge su una faglia simile a quella californiana senza mai essersi dotata di adeguata edilizia anti sismica. E come scrive lo stesso Pamuk nel libro Altri colori (Einaudi) non c’è cupola o minareto qui che, nei secoli, non sia stato ricostruito almeno una volta. «Compresi quelli che ai nostri occhi hanno sempre rappresentato la continuità ottomana nei secoli». Comprese anche le magnifiche moschee del più importante architetto ottomano, Sinan (1489-1588), che punteggiano la città di monumentali cupole finemente decorate all’interno con ceramiche dipinte e con un complesso lessico aniconico. I fondi che il governo di Ankara è riuscito a racimolare grazie al fatto che Istanbul sia stata riconosciuta capitale europea 2010 serviranno in larga parte proprio a questo, a fare lavori di restauro e di consolidamento dei molti tesori d’arte che Istanbul possiede. Ma la faccenda potrebbe in realtà essere più complicata. Sui giornali turchi, infatti, nei mesi scorsi si è accesa una violenta polemica sulla gestione delle celebrazioni da parte dell’agenzia turca Istanbul 2010 european capital of culture. Nell’ufficio del suo segretario generale Yilmaz Kurt sono passate più di duemila proposte di progetti culturali dei quali ne sono stati selezionati 467 da spalmare durante tutto l’arco dell’anno. Fra questi, il restauro di Santa Sophia e di Palazzo Topkapi, ma anche progetti di festival cinematografici e di concerti di rockstar come gli U2. Il tutto con un budget che si aggira sui 375 milioni di lire turche. Metin Karada, noto architetto e segretario dell’Ordine, in più di un’intervista ha detto che l’Agenzia ha una struttura caotica e la suddivisione dei fondi «non è trasparente».

santralistanbul

Ma ci sono state anche altre accuse di corruzione e di mala gestione. Che a oggi però non sono state ancora provate. «Sull’Agenzia si sono fatte molte chiacchere – ha commentato il ministro della Cultura e del turismo Günay al quotidiano Daily News -. In realtà molti progetti sono stati rifiutati perché molto costosi oppure perché giudicati inadeguati, e questo ha generato malcontento fra chi li aveva avanzati». Di fatto, forte è stato lo scontento nel mondo dell’arte contemporanea per la selezione dei progetti. Un mondo che però a Istanbul vive da più di una decina di anni una stagione vivacissima. Basta dare uno sguardo a Santralistanbul (www.santralistanbul.com), uno straordinario reperto di archeologia industriale (si tratta della prima centrale elettrica dell’impero ottomano costruita nel 1911) trasformato da tre anni a questa parte in un cantiere internazionale d’arte dove si incontrano differenti linguaggi delle arti visive, della musica, della danza. Oppure al Museo di arte moderna o alla storia della lanciatissima Biennale di Istanbul, nata nel 1987. La vera movida di Istanbul abita qui. E continua a crescere da più di una decina di anni. er una iniziativa partita dalla società civile un gruppo di intellettuali turchi nel 1999 perorò la causa di Istanbul capitale europea della cultura ricevendo un secco no dalla Ue dal momento che la Turchia non ne fa parte. Ma quella proposta partita dal basso, sul lungo periodo, ha dato i suoi frutti e il 16 gennaio Istanbul avrà la sua incoronazione ufficiale come capitale del 2010. La cultura in questo caso ha preceduto la politica. Dimostrandosi più sensibile e lungimirante nel preconizzare un allargamento dell’Europa che significherebbe anche riconoscerne le radici multiculturali e, dal punto di vista delle religioni, certamente non solo cattoliche ma anche islamiche e chissà – di questo passo, ci auguriamo – anche pagane. Da parte sua la capitale turca punta a festeggiare l’atteso evento con una ridda di appuntamenti internazionali di arte, letteratura, musica, danza e perfino di cucina e di moda. Se ne è avuto qualche assaggio già durante le recenti festività, in una Istanbul che da alcune settimane insolitamente inonda di luci il mare scuro e profondo del Bosforo. Una Costantinopoli degli anni Duemila animata più che mai di locali, di feste e di concerti improvvisati a ogni angolo di strada, secondo la tradizione zingara più intima e seducente della città. Ma anche una capitale piena di cantieri aperti per restauro di monumenti simbolo come il Ponte di Galata sul Corno d’Oro e per la costruzione di nuovi centri culturali come il Museo dell’innocenza che il premio Nobel per la letteratura Ohran Pamuk ha fondato a pochi metri dalla sua casa-studio nello storico quartiere di Cihangir, traducendo in realtà una fantasia del protagonista del suo ultimo omonimo romanzo. E ancora per le centinaia di migliaia di turisti che durante le feste di capodanno hanno letteralmente preso “d’assalto” la metropoli (in tutto il 2009 sono stati 7,5 milioni e se ne attendono più di 10 milioni nel 2010) si aprono grandi mostre dedicate all’arte della Persia antica e ai rapporti fra Venezia e l’impero ottomano, mentre sfodera tutti i suoi gioielli lo storico Topkapi, che per secoli, con il suo dedalo di sale per consigli politici (divan), giardini con fontane, harem, ha fatto da palazzo pubblico e privato dei sultani ottomani. Intanto sul pontile di Galata pescatori di ogni età continuano a prendere all’amo pesci messi in fuga dal passaggio delle navi, per le strade del vecchio quartiere di Sultanahmet strillano i venditori di ciambelle, i gatti dormono sui tappeti in vetrina e la voce del muezzin continua a scandire le ore di preghiera in questa megalopoli (che dagli anni Cinquanta a oggi è passata da poco più di un milione di abitanti agli attuali 12 milioni) in cui da sempre convivono differenti culture e religioni e dove oggi fiere ragazze con la minigonna sfrecciano per le vie di Beyoglu accanto a donne velate. Una mescolanza singolare, non solo di culture turche, arabe, greche, armene, curde, come racconta la scrittrice turca Elif Shafak ne La bastarda di Istanbul (Rizzoli) e nel suo nuovo romanzo ma anche una particolarissima coesistenza di antico e moderno, di inerzia e movimento continuano a essere la cifra più vera di questa Bisanzio del nuovo millennio. Così il Museo di arte moderna, nato cinque anni fa, con il suo giardino di sculture in acciaio colorato si inserisce nello scosceso panorama di viuzze del quartiere di Cihangir (quello di Pamuk appunto), dominato da una svettante moschea. E in Santa Sofia una Madonna bizantina campeggia accanto a versetti del Corano. Compresenze di Oriente e di Occidente che fanno il fascino sottile di questa capitale della cultura che, unica al mondo, si stende su due continenti. Una città che sul versante occidentale come sul quello asiatico continua a crescere in orizzontale, disinvoltamente senza centro, come volesse procedere all’infinito. Nei quartieri della parte più europea, palazzoni di cemento e piccole case di legno si ergono fianco a fianco, giocandosela in solitario nel conquistare un proprio posto in uno skyline “creativo”, gaddianamente «patrufaziano». Istanbul – e questo è parte della sua magia – trova anche il modo di far convivere il razionalismo dell’edilizia anni Settanta con il romanticismo delle vecchie Yali in legno, residenze di villeggiatura sul Bosforo della buona borghesia turca. Alcune sopravvivono come se il tempo non fosse passato, altre anche in mezzo all’abitato appaiono drammaticamente spanciate e ridotte a macerie da incendi e terremoti. Come quello, devastante, che colpì Istanbul nel 1999 causando più di 30mila morti. La città turca, di fatto, sorge su una faglia simile a quella californiana senza mai essersi dotata di adeguata edilizia anti sismica. E come scrive lo stesso Pamuk nel libro Altri colori (Einaudi) non c’è cupola o minareto qui che, nei secoli, non sia stato ricostruito almeno una volta. «Compresi quelli che ai nostri occhi hanno sempre rappresentato la continuità ottomana nei secoli». Comprese anche le magnifiche moschee del più importante architetto ottomano, Sinan (1489-1588), che punteggiano la città di monumentali cupole finemente decorate all’interno con ceramiche dipinte e con un complesso lessico aniconico. I fondi che il governo di Ankara è riuscito a racimolare grazie al fatto che Istanbul sia stata riconosciuta capitale europea 2010 serviranno in larga parte proprio a questo, a fare lavori di restauro e di consolidamento dei molti tesori d’arte che Istanbul possiede. Ma la faccenda potrebbe in realtà essere più complicata. Sui giornali turchi, infatti, nei mesi scorsi si è accesa una violenta polemica sulla gestione delle celebrazioni da parte dell’agenzia turca Istanbul 2010 european capital of culture. Nell’ufficio del suo segretario generale Yilmaz Kurt sono passate più di duemila proposte di progetti culturali dei quali ne sono stati selezionati 467 da spalmare durante tutto l’arco dell’anno. Fra questi, il restauro di Santa Sophia e di Palazzo Topkapi, ma anche progetti di festival cinematografici e di concerti di rockstar come gli U2. Il tutto con un budget che si aggira sui 375 milioni di lire turche. Metin Karada, noto architetto e segretario dell’Ordine, in più di un’intervista ha detto che l’Agenzia ha una struttura caotica e la suddivisione dei fondi «non è trasparente». Ma ci sono state anche altre accuse di corruzione e di mala gestione. Che a oggi però non sono state ancora provate. «Sull’Agenzia si sono fatte molte chiacchere – ha commentato il ministro della Cultura e del turismo Günay al quotidiano Daily News -. In realtà molti progetti sono stati rifiutati perché molto costosi oppure perché giudicati inadeguati, e questo ha generato malcontento fra chi li aveva avanzati». Di fatto, forte è stato lo scontento nel mondo dell’arte contemporanea per la selezione dei progetti. Un mondo che però a Istanbul vive da più di una decina di anni una stagione vivacissima. Basta dare uno sguardo a Santralistanbul (www.santralistanbul.com), uno straordinario reperto di archeologia industriale (si tratta della prima centrale elettrica dell’impero ottomano costruita nel 1911) trasformato da tre anni a questa parte in un cantiere internazionale d’arte dove si incontrano differenti linguaggi delle arti visive, della musica, della danza. Oppure al Museo di arte moderna o alla storia della lanciatissima Biennale di Istanbul, nata nel 1987. La vera movida di Istanbul abita qui. E continua a crescere da più di una decina di anni.

Le due signore del Mediterraneo

Istanbul e Venezia, un rapporto lungo secoli

interno moschea, Istanbul

Centoventisei opere provenienti dai Musei civici veneziani e quarantacinque dai musei di Istanbul documentano in una grande mostra al museo Sakip Sabanci la lunga trama di rapporti che le due città ebbero nei secoli. Con il titolo Venezia e Istanbul in epoca ottomana (fino al 28 febbraio, catalogo Electa) questa rassegna, ideata per Istanbul capitale europea della cultura 2010, si concentra in particolare sul periodo che va dalla caduta di Costantinopoli nel 1453 alla battaglia di Lepanto del 1571 vinta dai cristiani (anche se, come è noto, si trattò di una data molto più simbolica che risolutiva in termini di egemonia). Arrivando poi fino al 1718, l’anno in cui i rapporti fra la Repubblica marciana e la Sublime Porta si conclusero definitivamente. (Vedi in proposito quanto scrive Ennio Concina nel libro Venezia e Istanbul, incontri, confronti e scambi, Forum). Dunque un lungo percorso con molte testimonianze di arte bizantina, di arte veneta protorinascimentale e rinascimentale, per arrivare all’orientalismo dell’arte ottocentesca. E se come ci ha insegnato lo storico dell’arte Otto Demus in libri come L’arte bizantina e l’Occidente (Einaudi) il ruolo svolto dall’arte bizantina nell’evoluzione dell’arte occidentale è stato fondamentale, con tanto di artisti bizantini usati come maestri e maldestri tentativi occidentali di imitazione, non meno trascurabile è stata l’influenza dell’arte turco-ottomana e, attraverso i traffici commerciali e i rapporti diplomatici con Istanbul, quella proveniente dai Paesi arabi. Le due signore del Mediterraneo La mostra al Sakip Sabanci, dunque, racconta di un ricco scambio biunivoco fra le due differenti culture, che da parte “europea” vide protagonista assoluta l’arte di Gentile Bellini con il suo potente ritratto del doge Giovanni Mocenigo (in mostra a Istanbul) ma anche con il suo celeberrimo Ritratto del sultano Mehmed II del 1480 conservato alla Nataional gallery di Londra. Un quadro che il pittore veneziano – primo artista occidentale a lavorare direttamente su committenza ottomana – realizzò vivendo per un periodo presso la corte del sultano. E non è certo un caso che si trattasse di un pittore che aveva bottega a Venezia. La Repubblica nei primi tre secoli di conflitti con i turchi aveva mostrato una certa condiscendenza sprezzante verso i rivali, cavalieri delle steppe abili nell’arte equestre ma nuovi all’arte nautica. Ma poi, vista l’esiguità del proprio apparato militare e per non offrire vantaggi alla rivale Genova, pensò bene di optare per una politica neutrale verso i turchi. Una politica che si tradusse in fitti scambi commerciali e qualche volta perfino in alleanze militari.

Lorenzo Lotto carpet

Testimonianze del secolare rapporto di Venezia con la cultura ottomana, anche per questo, si trovano nelle tele commissionate da ricchi committenti veneziani ai pittori più importanti tra fine Quattrocento e fine Cinquecento. Basta pensare alla precisa raffigurazione di tappeti turchi in alcune opere di Lorenzo Lotto. Oppure alla foggia di vestiti con turbante e alla presenza di minareti sullo sfondo di alcune tele di Carpaccio e in molta pittura “orientalista” che si sviluppò a Venezia dal XV al XVII secolo. Senza contare che determinante per la nascita del cosiddetto colorismo veneto (di cui furono protagonisti Tiziano, Veronese, Tintoretto e poi Tiepolo) fu l’impiego di particolari pigmenti usati dai miniaturisti persiani e ottomani e l’uso di polvere di pietre preziose nell’amalgama dei colori. E se prestiti orientali quasi non si contano nelle lacche veneziane e nelle rilegature di libri veneziani del XVI secolo, così come nella lavorazione di metalli ageminati, nei tessuti e nei velluti, colpisce a livello meno patente la penetrazione di certe suggestioni della cultura islamica contenute in capolavori come I tre filosofi (1504-08) di Giorgione in cui l’artista dà particolare rilievo e fierezza alla figura che secondo la lettura di Michael Barry (in Venezia e l’islam 828-1797, Marsilio) andrebbe letta come ritratto del filosofo Averroè.

Vermeer spleeping maid

Ma se i prestiti della cultura turco-ottomana all’arte italiana sono ancora materia per specialisti e, purtroppo, non compaiono sui manuali di scuola, spostandoci dal museo Sakip Sabanci al ricchissimo Museo di arte turca e islamica nei pressi della Moschea blu non si può non restare colpiti dal sistema di catalogazione delle opere e dei reperti. Questi ultimi per lo più sono schedati con il nome dell’archeologo occidentale che li ha riportati alla luce. Mentre per indicare le diverse e complesse grafie dei tappeti turchi vengono comunemente usati i nomi dei pittori italiani e olandesi (Bellini, Lotto, Holbein ecc) che dipinsero quelle tipologie di tappeto nei loro quadri. Tristemente, quasi fosse lo sguardo dell’Occidente a definirne il valore.

La pazzia del sultano, il tarlo ottomano

I loro antenati erano i turcomanni del III millennio a.C. Ma il potere ottomano non fu strutturato solo sulla potenza “equestre”. La chiave del lungo successo dell’impero, racconta Jason Goodwin ne I signori degli orizzonti (Einaudi), risiedeva in un complesso sistema militare e di governo. «Tra il 1320 e il 1390 gli Ottomani travolsero come un’onda impetuosa le secche del potere bizantino che aveva dominato per più di mille anni» scrive lo storico inglese. Nel 1326 gli Ottomani conquistarono Bursa facendone la loro capitale, poi a poco a poco si impadronirono della Grecia settentrionale, della Macedonia, della Bulgaria e quindi della Tracia e di Adrianopoli che, ribattezzata Edirne, divenne nel 1366 la loro capitale sul suolo europeo. La travolgente avanzata ottomana fu temporaneamente arrestata da Timur nel 1402 nella battaglia di Ankara. Nel 1453 però i turchi conquistarono Istanbul (gli occidentali la registrarono come la caduta di Costantinopoli). E l’avanzata ottomana riprese con forza fino ad arrivare poi a Vienna, nel cuore dell’Europa. Ma l’impero significò anche la costruzione di un’importante rete di istituzioni culturali e islamiche che permisero di presidiare il territorio conquistato: ovvero moschee, madrasse, biblioteche ma anche caravanserragli, bazar, ponti, acquedotti, ospedali e ospizi. Se gli Ottomani, insomma, non andavano tanto per il sottile quando erano in guerra, usavano il guanto di velluto quando si trattava poi di governare, lasciando che i popoli conservassero le loro tradizioni e credenze religiose. Ma quell’impero ottomano, che con il cosiddetto tributo dei ragazzi aveva congegnato un sistema di cooptazione della classe militare e della burocrazia facendo fuori ogni privilegio di sangue e ogni infida aristocrazia, aveva nella legge fratricida il proprio tallone di Achille. Con questa legge (che fu abolita solo nel 1603) i fratelli e i parenti del sultano venivano uccisi o rinchiusi in prigione perché non potessero tramare contro di lui. Ma la pratica invalidante di imprigionare i principi nelle gabbie finì per creare dinastie di disadattati. Osman III, per esempio, aveva passato cinquanta anni in una gabbia con sordomuti quando fu ripescato per prendere il posto del sultano che nel frattempo era morto. «Molti sultani – scrive Goodwin – erano mentalmente disturbati, un fatto che non può essere attribuito ai pericoli dei matrimoni tra consanguinei ma si spiega con le atroci condizioni in cui venivano allevati». s.m.

L’altra Istanbul. Uno scenario underground

C’è voluto il lungometraggio del turco tedesco Fatih Akin “Crossing the Bridge: il sound di Istanbul”, nel 2005, perché si cominciasse a parlare della Istanbul underground. Sezen Aksu, dalla band neo psichedelica Baba Zula alla cantante tradizionale curda Aynur Dogan, il mondo sotterraneo che gravita dal ponte di Galata a Istiklal Caddesi, sul lato occidentale di Costantinopoli, trovava finalmente diffusione. Istanbul è anche, e forse ultimamente soprattutto, questo. Una generazione nata lontana dalla città sul Bosforo, che fino a cinquant’anni fa era anche greca, figlia della città operaia di Izmit o emigrata dal Kurdistan in seguito al conflitto col Pkk. E approdata nel quartiere di Beyoglu, fra affitti improponibili, case occupate e disagi metropolitani, dopo essere cresciuta sotto la repressione del colpo di Stato, il divieto di apertura verso ovest ed Est, il nazionalismo e il militarismo più estremi, fino a sviluppare correnti e suoni del tutto unici. Non è Occidente né Oriente, la scena musicale di Istanbul: è semplicemente tutto quel che si può immaginare. Il turbo folk balcanico, la musica elettronica suonata col saz, e soprattutto la strada, luogo di socializzazione privilegiato di tutta l’area ottomana. A Istiklal si gira con lo strumento e ci si siede a suonare mentre dal lato occidentale, a Kadikoy, si vanno a incidere album che poi invadono internet e negozi. Dietro a tutto questo c’è anche molta politica; perché la libera espressione, in Turchia, è prima di tutto un atto di denuncia. C’è la questione delle minoranze curde, alevite, arabe e rom, per chi vuole fare musica tradizionale; c’è la questione dei diritti umani, per chi va a suonare agli scioperi e alle manifestazioni e per chi ha le radici ben piantate nel cemento della Turchia del boom economico e quindi del rock, del rap, e dell’elettronica; e ci sono i diritti dei migranti, perché Istanbul è anche un crocevia di profughi in arrivo da Africa, Afghanistan, Iraq e Palestina. Un esempio di questa commistione è Enzo Ikah, venticinquenne esule politico congolese; nato in Italia, studente della Sorbona, bassista di Youssu’n Dour e infine fuggitivo per aver criticato il regime della Repubblica Democratica del Congo, oggi fa il cantante reggae a Istanbul. In turco. Un fenomeno locale, che dopo due anni di concerti sta finalmente per pubblicare il primo disco – entro fine gennaio, pare. Alle sue spalle, un intero collettivo di band politicamente impegnate, l’Oppa tzupa sound. system. Una costellazione di esperienze che comprende la rock band Ahibba, che canta in arabo facendo metal con strumenti tradizionali; lo ska punk balcanico dei Bandista, che cantano in turco “Bella ciao” e “Fischia il vento”; il folk-jazz di Julide Oksel; e così via, evolvendosi ed espandendosi a un ritmo impressionante, inglobando collaborazioni con film maker, movimenti politici, artisti visuali e tutto ciò che di unico questa città sta producendo. In tempo reale.(contributo su Istanbul underground di Annalena Di Giovanni)

da left-avvenimenti

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Giorgione, tra realtà e mito

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 10, 2009

di Simona Maggiorelli

giorgione, tempesta

Di lui non esiste firma riconosciuta come autografa e i documenti ufficiali che lo riguardano sono pochissimi. Tanto che se non fossero stati ritrovati quelli relativi a un’opera (andata perduta) che gli fu commissionata nel 1507 per Palazzo Ducale o i contratti che riguardano gli affreschi del Fondaco dei Tedeschi di cui La nuda è uno dei pochi lacerti superstiti, «Giorgione potrebbe tranquillamente non esser mai esistito».

Ad affermarlo, non troppo provocatoriamente, è il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci nel catalogo Skira che accompagna la mostra Giorgione. Dipinti e misteri di un genio (dal 12 dicembre all’11 aprile nel Museo Casa di Giorgione a Castelfranco Veneto). Ricordandoci che anche la morte prematura del pittore, a poco più di trent’anni a causa della peste che colpì Venezia nel 1510, è riportata solo da una lettera di Isabella d’Este a un suo faccendiere attraverso il quale aveva sperato di ottenere una a noi sconosciuta «pictura de una nocte» del geniale artista.

Ma per amore verso la straordinaria arte di Giorgione e volendo dare un po’ di fiducia ai cronisti del Cinquecento (Vasari compreso), ripercorriamo qui anche la tradizione che vuole Giorgio Zorzi da Castelfranco nato nel 1477 (o al più un anno dopo) da una famiglia povera e presto andato a farsi le ossa nella bottega di un pittore affermato come Giovanni Bellini. Tra le fonti che riportano questi scarni dati biografici, il Ridolfi, in particolare, sostiene che dopo un breve apprendistato Giorgione scelse di non legarsi a una bottega precisa ma di darsi le possibilità che apre l’essere “mobile” e indipendente.

Giovane, di bell’aspetto, abile nella musica, il pittore che avrebbe rivoluzionato il modo di dipingere  aprendo la strada alla pittura tonale, non ebbe difficoltà a inserirsi nella vivace vita culturale delle élite veneziane. Lungo questa via, Lionello Puppi che – assieme a Paolucci e a Enrico Maria Dal Pozzolo – ha curato la grande mostra di Castelfranco Veneto, ricostruisce nel catalogo Skira lo “spregiudicato” milieu culturale in cui Giorgione operò, stimolato da committenti provenienti dalla ricca e laica borghesia mercantile di Venezia e dalla comunità tedesca che viveva nella città lagunare (da qui il fertile contatto che l’artista ebbe con la grafica nordica e l’inquieta pittura di Dürer).

Giorgione, autoritratto

Senza dimenticare, fra i committenti che si rivelarono importanti per il lavoro di Giorgione, anche figure come il cardinal Domenico Grimani che con ogni probabilità gli fece conoscere alcune opere di Leonardo. E che la geniale ricerca leonardiana sullo sfumato avesse profondamente colpito il giovane pittore, tanto da spingerlo lungo quella strada a trovare una propria originale cifra stilistica, ne è prova evidente un capolavoro come La tempesta. Dipinto criptico quanto affascinante, eccezionalmente prestato (vista la sua fragilità) dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia per questa rassegna che, in occasione dei cinquecento  anni dalla morte del maestro di Castelfranco, raduna gran parte dell’esiguo corpus delle sue opere giunto fino a noi.

In questo quadro, come del resto nel cosiddetto Tramonto proveniente dalla National Gallery di Londra, si coglie tutta la portata della rivoluzione coloristica che il pittore veneto realizzò adottando un atteggiamento sperimentale verso la natura analogo a quello di Leonardo: il movimento continuo degli elementi, la fusione atmosferica delle forme e la potenza espressiva del colore ne La tempesta fanno sì che la natura stessa diventi protagonista, restituendo il vissuto emotivo dei personaggi e indirettamente quello dell’autore. Tanto da spingere lo spettatore a “tuffarsi “in questo paesaggio inquieto e vibrante distogliendolo dalla decifrazione razionale dell’episodio qui rappresentato.

E sul quale, tuttavia, sono stati versati fiumi d’inchiostro. Senza che la critica d’arte e gli studi di iconologia siano mai arrivati di fatto a una lettura certa e definitiva. Nei secoli si è parlato di allegoria alchemica, di idillio bucolico, di ermetico gioco mitologico. E più in dettaglio di raffigurazione di episodi delle Metamorfosi di Ovidio oppure della Tebaide di Stazio. E se Marcantonio Michiel nel Cinqeucento aveva parlato de «la zingara e il soldato», secondo Schrey agli inizi del Novecento i due protagonisti del quadro erano i progenitori dell’umanità scampati dal diluvio universale. Per arrivare poi a Salvatore Settis che nel celebre saggio La tempesta interpretata (Einaudi) legge le due figure come Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden.

Ma forse, con Antonio Paolucci oggi potremmo finalmente dire che è il temporale il vero protagonista della tela e non inteso come mera descrizione di un banale evento atmosferico. Quello che vediamo, scrive il curatore della mostra castellana «è un temporale d’estate nella campagna intorno a Castelfranco, con le nuvole nero-grigio-viola che ruotano nel cielo fattosi improvvisamente buio, con il vento che squassa le chiome degli alberi e il fulmine che tocca di una luce livida e spettrale le mura del borgo» Una natura che è sì «vero visibile» ma che nelle sue epifanie e metamorfosi qui sembra evocare piuttosto “una tempesta emotiva”, o meglio l’inquieto vissuto emotivo che l’autore regala ai due enigmatici protagonisti. «Un temporale d’estate protagonista del quadro, come molti secoli dopo lo sarà la montagna Sainte Victoire per Cézanne o  come saranno le Ninfee per Monet. Con questo – precisa Paolucci – non si vuol dire che Giorgione è precursore dell’impressionismo. Si vuol dire semplicemente che la modernità nelle arti visuali incomincia anche con La tempesta». Certo è che in questa opera, come nel Tramonto o come accadeva già nella Pala di Castelfranco, Giorgione supera completamente la prospettiva rinascimentale che costruiva il paesaggio in modo architettonico. E in quell’impasto sfocato e nella tessitura continua della pittura senza disegno come è quella di Giorgione (diversamente da quella di Leonardo) si legge un’immagine latente mutevole e viva, diversissima dalla durezza smaltata della pittura quattrocentesca che prima di lui era ancora dominante nell’area veneta. La pittura tonale di Tiziano, Veronese e Tintoretto sarebbe venuta dopo.

da left-Avvenimenti 11 dicembre 2009

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