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Archive for luglio 2011

Sgarbi d’Italia

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 2, 2011

Il critico ferrarese espone duecento artisti, scelti  da Scalfari, Eco, Luxuria, Alberoni e molti altri intellettuali.  Saltando a pie’ pari ogni competenza in materia. E inneggiando alla genialità del culatello. Un Padiglione Italia a dir poco… imbarazzante . Con soldi anche dei cittadini.

di Simona Maggiorelli

La mostra per i 150 anni dell’Unità d’Italia curata da Vittorio Sgarbi alla Biennale di Venezia conta ben duecento artisti. Non scelti in prima persona dal critico e curatore del Padiglione Italia 2011 ma segnalati dai più vari intellettuali e personaggi dell’establishment culturale. Da Scalfari a Galli Della Loggia, da Eco a  Luxuria, da Fo a Albertazzi, da  Bondi ad Alberoni. E via di questo passo… Tanto che la mostra risulta un puzzle assai bizzarro, fatto di opere dal valore diseguale e senza nesso, accatastate senza un filo di pensiero. E non poteva accadere altrimenti visto che Sgarbi, ostracizzando le competenze specifiche del settore, ha improntato la sua proposta all’ecumenismo, facendone la sagra della cooptazione e della ricerca di consenso. Quale dei ducento blasonati consiglieri, infatto, oserà criticare il critico che li ha elevati a cotanto onore?

E già se ne vedono le conseguenze, con stimati giuristi come il professor Michele Ainis che si improvvisano critici d’arte sul Corriere della Sera per giustificare la propria opa su un certo artista. Con esiti alquanto imbarazzanti: Ma tant’é. Il sindaco d Salemi, Vittorio Sgarbi, sostiene che i critici d’arte fanno parte di una mafia e. invece di occuparsi delle indagini che riguardano il Comune siciliano di cui è primo cittadino, a Venezia lancia una mostra spot, dal titolo l’Arte non è Cosa Nostra. Le sue ragioni le ha dette in una conferenza stampa-fiume a Roma in cui ha lungamente intrattenuto una riottosa platea di giornalisti sui valori metafisici della salama da sugo ferrarese. Specie se confrontata con il culatello parmense. E a buon diritto Sgarbi ha rimbrottato chi dal pubblico lo accusava di divagare: una selezione di culatelli e di salameria varia è assurta nel Padiglione Italia in rappresentanza delle “sublimi creazioni” di Spigaroli, maestro del culatello di Zibello.

“Questa è la mia Biennale e faccio cosa mi pare”, ha urlato Sgarbi alla malcapitata giornalista. Aggiungendo poi graziosamente: ” Se non le piace si faccia la sua”.Ma il museo del culatello non è il solo sogno di Sgarbi. A spese dello Stato. Accanto ci sarebbe anche quello di un museo dell follia. Ma non ha trovato posto in laguna. Così come è rimasta fuori una retrospettiva di Lucien Freud che, insieme a Fausto Pirandello, per Sgarbi, “è il più grande artista del Novecento”.

Comunque sia, su questa linea, largo spazio nella “sua Biennale”, hanno epigoni di un figurativismo tenebroso e attardato, esempi di una certa destra allieva di Sironi e che Sgarbi ha programmaticamente detto di voler riscattare in questo suo Padiglione Italia. In cui non c’é traccia del critico che talora scrive pezzi intelligenti perfino su rotocalchi come Oggi, né dell’autore di libri godibili come il recente Viaggio sentimentale nell’Italia dei desideri (Bompiani). Che si tratti di una omonimia?

da left-avvenimenti del 29 maggio 2011

Dal settimanale francese Le Monde:

L’arte non è cosa nostra. Ammucchiate in una sala dell’Arsenale, centinaia di opere allestite in  modo indegno sono appese a una specie di griglia. Non avevamo idea che l’Italia avesse prodotto tante croste. Questa esposizione, o piuttosto questa esibizione, è sovrastata da una immensa croce dove Cristo è sostituito da uno stivale italiano. L’Italia crocifissa e gli artisti messi in una tomba da Sgarbi sono una degna maniera di festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia.

giugno 2011

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Quando Ileana inventò Rauschenberg

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 2, 2011

Nello storico spazio  di Dorsoduro del Guggenheim di Venezia una selezione di opere della collezione Sonnabend

di Simona Maggiorelli

Rauschenberg, Pilgrim (1960)

Una giovane donna dall’aria malinconica, distaccata, lontana. Così appariva, in bianco e nero, Ileana Shapira in una foto d’epoca che ora campeggia sulla copertina di una fortunata biografia scritta da Manuela Gandini per l’editore Castelvecchi. Quella ragazza di buona famiglia, nata a Bucarest, ebrea, ricchissima, moglie diciassettenne del grande gallerista Leo Castelli e poi del letterato Michael Sonnabend , di fatto, è stata il deus ex machina. L’artefice diretta o indiretta, di moltissima parte della scena artistica del secondo Novecento.

Al pari di un’altra signora dell’arte, Peggy Guggenheim, ma da una posizione più riservata e schiva. Anche se non meno tenace nell’annettere alla propria “scuderia” opere di avanguardia, che sapessero raccontare il proprio tempo, aspirando a diventare a loro modo classiche. Così a quattro anni dalla scomparsa di Ileana, il museo Guggenheim di Venezia le dedica un omaggio, fino al 2 ottobre, ospitando la mostra Ileana Sonnabend, un ritratto italiano curata da Antonio Homem e da Philip Rylands e che raccoglie una selezione di opere della collezione Sonnabend, – una settantina in tutto – legate dal filo rosso dell’amore di Ileana per il Belpaese.

In primo piano, così, un bianco e magnetico Concetto speziale di Lucio Fontana e opere scabre ed essenziali di maestri dell’Arte povera (Kounellis, Pistoletto, Paolini, Zorio, Merz, Calzolari, Anselmo), ma ecco anche il new Pop di Rotella e i collage di Rauschenberg d’ispirazione italiana, realizzati proprio per la gallerista, che insieme a Castelli, si fece mentore del lavoro dell’artista statunitense.

Ileana Sonnabend

E poi ancora i freddi geometrismi di minimalisti come Dine e Sol Lewitt e, sul versante opposto, la cifra neoselvaggia di artisti come Baselitz e Kiefer che forse, più di tutti, risuonavano nella passione di Ileana per l’arte, coltivata fin da giovanissima in ambito mitteleuropeo, con piglio nomade e cosmopolita.

Come del resto lo fu la sua vita, trascorsa fino a 94 anni tra Parigi, Venezia e New York. Proprio nella Grande mela con il triestino Leo Castelli , Ileana Shapira diventò la “regista” di gran parte dell’arte americana anni Sessanta e Settanta. Insieme lanciarono i principali protagonisti del minimalismo ma anche dell’arte processuale e concettuale. E proprio grazie alla galassia di gallerie che Ileana e Leo, ciascuno a suo modo, contribuirono a far nascere nel quartiere di Soho, New York rilanciò la propria leadership culturale nel mercato internazionale dell’arte. E se quel legame esigente e complesso fra i due non poteva rimanere compresso nell’ambito di un matrimonio, per tutta la vita Ileana e Leo furono complici, sodali e sottilmente rivali sapendo di tracciare le linee della storia dell’arte del XX secolo.

da left-avvenimenti 2011

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