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L’ossessione della purezza . A proposito dell’ultimo Franzen

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 12, 2016

Jonathan Franzen

Jonathan Franzen

Cinque anni di lavoro, in condizioni di quasi totale isolamento. Così erano nati Le correzioni e Libertà, i romanzi che hanno rivelato il talento di Jonathan Franzen al pubblico internazionale. E in una separazione pressoché totale dal mondo è nato Purity: il suo quinto romanzo (appena pubblicato in Italia da Einaudi, nella bella traduzione di Silvia Pareschi), con cui lo scrittore americano intreccia le vicende in una giovane di nome di Purity che vive in una comunità in stile Occupy a trame nere nell’ex Germania dell’Est, alla vigilia della caduta del muro. In una Germania ancora controllata dalla Stasi dove l’ipocrisia regna sovrana e ogni ideale di uguaglianza si infrange contro i privilegi dell’apparato, incontriamo giovani feriti dal totalitarismo, ma anche e soprattutto da rapporti personali e familiari all’insegna della falsità, della doppiezza, dell’assenza di veri sentimenti. Il giovane Andreas Wolf ha un padre anziano impiegato ai piani alti del regime e una madre colta, bellissima, seduttiva, che parla mescolando slogan ideologici e citazioni di Shakespeare, ma che nasconde un animo gelido, vuoto, calcolatore. Così il giovane “principino” cresce con una rabbia e un odio che non lasciano scampo, fino ad assassinare il patrigno violentatore di una giovanissima amica.

Jonathan Franzen

Jonathan Franzen

Quando una fiumana di gente pacifica – sotto gli occhi sgranati di chi ha passato la vita a sorvegliare e punire – arriverà a riversarsi per le strade chiedendo trasparenza e la fine delle vessazioni, Andreas si fingerà uno di loro per rubare i dossier segreti della Stasi che lo riguardano. E da assassino riuscirà a farsi passare per un pirata informatico che lotta per la divulgazione dei segreti di Stato, usando i riflettori internazionali per rifarsi un’identità.

Intanto, dall’altra parte dell’Oceano: Il mondo apparentemente libero della rete è quello in cui vive anche Purity, dickensianamente detta Pip. Anche lei come Andreas ha una madre che la manda al manicomio, ha un debito universitario insormontabile, è poverissima, ma piena di rabbia che si traduce in un rigorismo astratto che la porta ad essere cieca nei rapporti. Le sue giornate passano in un appartamento infestato di topi e dominato dalla violenza del coinquilino schizofrenico che, nonostante vagonate di psicofarmaci evidentemente poco o nulla efficaci,  crede di vedere invasioni di tedeschi e di nemici in cucina. È un’America emarginata e devastata quella che Jonathan Franzen racconta, tratteggiando curiose e interessanti assonanze con la devastazione e il deserto umano di quella parte della Germania che rimasta chiusa dietro la cortina di ferro.

9788806216603L’apparentemente aperta e democratica America dove le classi meno abbienti vivono in un isolamento pneumatico si specchia in questo nuovo romanzo di Franzen nell’uguaglianza solo formale delle giacchette grigie, di un comunismo di regime, che annulla ogni vera possibilità di rapporto umano e di realizzazione. Romanzo complesso, sfaccettato, questo nuovo lavoro di Franzen in cui in filigrana si può leggere anche un apologo sulle false promesse di libertà e democrazia della rete e, soprattutto, una critica di quell’ideale astratto di purezza che nella storia ha connotato molte e terribili ideologie. Evocando i fantasmi del nazismo e la disumana idea hitleriana della purezza della razza ariana, ma anche un’ideologia puritana ben presente nella storia americana, in cui i pionieri pensavano di avere una missione da compiere sterminando i nativi americani ed appropriandosi delle loro terre.
@simonamaggiorel

Purity diventa film

In America Purity è uscito nel settembre scorso e, secondo Deadline, il romanzo sarà presto tradotto sul grande schermo in una serie in venti episodi che sarà trasmessa anche in streaming da Netflix, Hulu e Amazon. L’adattamento sarà scritto da Todd Field con lo stesso Franzen e sarà prodotto da Scott Rudin, il produttore di Grand Hotel Budapest. Si parla dell’ex James Bond Daniel Craig come protagonista.

L’intervista del Guardian: There is no way to mak

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La scelta di Noga. Nella Gerusalemme ortodossa. #Yehoshua racconta

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 1, 2016

NogaNe La comparsa Abraham Yehoshua racconta di una giovane donna che decide di non avere figli. Per libera scelta«A Gerusalemme sono stato criticato dalle femministe: “Non sono affari tuoi le ragioni per cui una donna non vuole figli, mi dicono. Ma io voglio capire»

La quarantenne Noga non è una comparsa come farebbe pensare il titolo del nuovo romanzo di Abraham B. Yehoshua. Benché lo faccia di lavoro, per tre mesi, giusto per sbarcare il lunario, Noga non è una presenza indistinta sullo sfondo della vita, come vorrebbero gli ultra ortodossi e i benpensanti nella sua città natale, Gerusalemme, che non riescono a concepire l’idea che una donna possa decidere di non avere figli. Arpista in un’orchestra sinfonica, da giovane Noga ha lasciato Israele per vivere ad Amsterdam, dove ha incontrato l’uomo diventato poi suo marito, che continua ad amarla ma l’ha lasciata perché non ha accettato la sua decisione di abortire. Nonostante abbia già una nuova compagna, continua a “inseguire” Noga, non riesce a superare un profondo senso di frustrazione e vuole capire perché abbia deciso di non avere figli. Questa stessa domanda è stata la scintilla che ha spinto lo scrittore israeliano a raccontare la storia di questa donna, indipendente e affascinante nel romanzo uscito in Italia per Einaudi.

gerusalemmeLo stesso autore ha così ripercorso la genesi de La comparsa senza tacere delle critiche che ne hanno accompagnato l’uscita: «A Gerusalemme sono stato criticato dalle femministe. “Non sono affari tuoi le ragioni per cui una donna decide di non avere figli”, mi hanno detto» ammette Yehoshua, «io però non voglio in alcun modo esprimere dei giudizi. Ma vorrei capire», dice lo scrittore con passione. «Per questo ho scritto questo romanzo». Anche se in molti suoi lavori da L’amante ai monologhi femminili di Un divorzio tardivo (1982) e Il signor Mani (1990) – Yehoshua ha tratteggiato molti personaggi femminili, questa è la prima volta che in effetti mette al centro della storia una donna: «Noga, che in israeliano significa Venere, è quanto mai lontana da me per età, per scelte di vita. Anche per questo mi sono lasciato guidare da lei, trattandola in modo gentile, diversamente da come faccio con i personaggi maschili».

Per quanto Nora sia una creatura di fantasia, Yehoshua si riferisce a lei come se fosse una persona reale. Non solo per quel vezzo che hanno molti scrittori, ma anche perché a dare il la a questa narrazione è stata la cronaca. «Oggi sono sempre di più le donne che decidono di non avere figli. Non accade tanto in Israele dove le famiglie hanno ancora molti figli, come nei Paesi che sono stati a lungo in guerra. Ma è un fenomeno che riguarda in modo macroscopico altri Paesi», nota Yehoshua.

Yehoshua

Yehoshua

Un esempio? «Il non voler procreare è una tendenza sempre più diffusa in Giappone dove si stima che fra trent’anni la popolazione sarà un quarto di quella attuale. Ma basta anche guardare a quel che succede in Germania. La decisione del governo di aprire le porte ai migranti risponde anche alla questione della denatalità». Non sono ragioni sociali o economiche a condizionare Noga, però. E neanche motivazioni di carriera: «Avrei potuto trovare molte spiegazioni banali per la sua scelta, ma non rispondevano alla domanda di fondo», continua lo scrittore: «Cercando di comprendere perché non voglia assumersi la responsabilità di proseguire il ciclo della vita mi è tornato anche in mente un filosofo musulmano dell’XI secolo che parlava del “male” che aveva fatto sua madre nel dargli la vita, perché il male è l’esistenza stessa. Ma Noga è una donna vitale che ama profondamente la vita. Ed è cresciuta in una Gerusalemme molto più aperta di quanto non lo sia oggi».

Pagina dopo pagina, in Noga matura – oltre al rifiuto per la religione – anche il rifiuto di seguire le orme di sua madre: «L’amicizia e l’intimità di suo padre e sua madre cementatesi con la vecchiaia le pesavano, più che confortarla. I genitori tacevano sul suo rifiuto di mettere al mondo un figlio, rassegnati. Eppure anche lei aveva la sensazione che loro preferissero che non rimanesse la notte per non disturbare il loro strettissimo rapporto di coppia rimasto fedele all’angusto, antiquato e usurato letto di legno nel quale i due sprofondavano in serena armonia. E se uno si svegliava di notte per uno strano sogno, l’altro lo imitava, proseguendo una conversazione che non si interrompeva neanche nel sonno». Con maestria Yehoshua scrittore ci regala intuizioni che superano la sua pur straordinaria acutezza e lucidità di intellettuale.  (Simona Maggiorelli, Left- 3  ottobre 2015)

La Stampa 31.12.15
Ebrei e palestinesi, rompere il silenzio per cercare la pace
di Abraham Yehoshua
Gli eventi delle ultime settimane in Israele hanno assunto il carattere di un dramma politico dagli avvincenti colpi di scena. Il dramma è sempre quello tra la sinistra e la destra, cioè tra coloro che combattono per una separazione dai palestinesi e la pace e coloro invece che hanno perso ogni speranza e desiderio di raggiungere un accordo.
E fanno il possibile per consolidare l’occupazione e stabilire nuovi insediamenti, facendo così naufragare ogni possibilità di cambiamento. Questo dramma si è ulteriormente inasprito sotto il governo Netanyahu raggiungendo un nuovo apice con la notizia che a un convegno organizzato dal quotidiano «HaAretz» a New York (al quale è intervenuto anche il presidente israeliano Reuven Rivlin, uomo coraggioso e vero liberale) era presente un rappresentante dell’organizzazione «Breaking the Silence». È questa un’organizzazione dagli alti standard morali, fondata da soldati riservisti che raccolgono testimonianze su comportamenti scorretti dei servizi di sicurezza, dell’esercito, della polizia e dei coloni verso i civili palestinesi nei territori occupati della Cisgiordania e che hanno denunciato trasgressioni all’etica militare di loro commilitoni durante l’ultima guerra nella Striscia di Gaza. L’obiettivo di tali testimonianze, notificate dapprima alle autorità militari e portate in un secondo tempo a conoscenza del pubblico in Israele e all’estero, è quello di far conoscere ai cittadini israeliani il pesante costo morale della lotta contro i palestinesi, in atto a poca distanza dalle loro case. In ogni ente o istituzione pubblica dovrebbero esserci dipendenti coraggiosi che denunciano carenze e corruzioni che sfuggono ai meccanismi di controllo ufficiali. E questo è ancora più vero per istituzioni potenti quali l’esercito e la polizia. In Israele l’esistenza di un’organizzazione come «Breaking the Silence» assume dunque un ruolo importante in quanto il controllo dell’esercito israeliano sulla popolazione civile palestinese non è come quello, per esempio, delle truppe francesi in Algeria o britanniche in Kenya o in India. Nel caso di Israele le popolazioni ebraica e palestinese vivono mescolate e saranno costrette a rimanerlo per l’eternità. Un soldato che umilia e ferisce un giovane palestinese a Hebron o a Betlemme dovrebbe capire che nel momento in cui lo fa un suo famigliare potrebbe essere ricoverato in un ospedale israeliano e affidato alle cure di un infermiere o di un medico palestinese, zio o parente del giovane che lui ha offeso o trattato con brutalità. Pertanto il rispetto del principio definito in Israele «Purezza delle armi», ovvero l’uso delle armi secondo regole morali (uno dei valori fondamentali sui quali si è basata la forza militare israeliana fin dal principio del sionismo) è fondamentale da un punto di vista etico ed è vitale per il futuro dello Stato ebraico in Medio Oriente.L’organizzazione «Breaking the Silence», composta da combattenti patrioti che vogliono mantenere un comportamento corretto nei contatti quotidiani fra l’esercito israeliano e la popolazione palestinese sotto il suo controllo, sta facendo quindi qualcosa di estremamente importante per il futuro di Israele. Questa organizzazione, costantemente sotto attacco da parte di esponenti della destra e del centro, è stata oggetto di critiche ancora più severe dopo il convegno di New York. I durissimi attacchi dei rappresentanti della destra e del governo israeliano includono un filmato calunnioso e contraffatto in cui soldati affiliati a «Breaking the Silence» collaborano con terroristi palestinesi. Ma proprio questi attacchi hanno creato una reazione positiva. Centinaia di docenti universitari israeliani hanno pubblicato una petizione a sostegno dell’organizzazione e a loro si sono uniti ex capi dei servizi di sicurezza, ex generali e alti ufficiali dell’esercito. Non a caso quindi i rappresentanti di «Breaking the Silence» hanno pubblicato un’ironica lettera di ringraziamento per il primo ministro Benjamin Netanyahu che, con i suoi sfrenati attacchi, ha suscitato un’ondata di sostegno senza precedenti per la loro associazione. Ma i guai per la destra israeliana non finiscono qui. In Israele è stato pubblicato un altro video (vero, questa volta), che ha scioccato molti suoi esponenti, sempre così certi di essere dalla parte del giusto.
Traduzione di Alessandra Shomroni
Repubblica 2.1.16

Dorit Rabinyan

Dorit Rabinyan

Il libro proibito diventa un best seller
Borderlife è la storia d’amore di una ragazza ebrea con un pittore palestineseTEL AVIV. Un’immaginaria storia di amore fra un’israeliana e un palestinese ha innescato una polemica furibonda fra i vertici del ministero dell’Istruzione ed esponenti della cultura laica israeliana fra cui gli scrittori più rinomati come Amos Oz, e A.B. Yehoshua. La vicenda si è subito imposta sulle prime pagine dei giornali, mentre le vendite del libro sono aumentate. Ad accendere la miccia è stata la direzione pedagogica del ministero che, nell’esaminare una lista preliminare dei libri consigliati ai liceali, ha trovato opportuno depennare Gader Haya (Borderlife) della scrittrice Dorit Rabinyan.
In una prima spiegazione fornita ad Haaretz, il ministero ha giustificato la decisione spiegando che la lettura di quel libro non pare appropriata per adolescenti israeliani perché il suo contenuto potrebbe incoraggiare “l’assimilazione”, ossia renderli più aperti a matrimoni con non-ebrei. In seguito il ministro Bennett ha fornito una spiegazione aggiuntiva, sostenendo che nel libro della Rabinyan i soldati israeliani sono rappresentati in maniera fortemente denigratoria. Dunque, ha aggiunto, non è il caso che quel testo venga insegnato e approfondito nei licei pubblici.
Il romanzo narra l’amore fra una ricercatrice israeliana, originaria di Tel Aviv, e un pittore palestinese, di Ramallah, in una New York effervescente, fra mostre d’arte e locali notturni. Lei ha servito nell’esercito israeliano, lui ha scontato quattro mesi di carcere in Israele per aver dipinto bandiere palestinesi nelle strade. «Per divertirsi – ricorda – i miei guardiani mi umiliavano facendomi cantare una popolare canzone in ebraico». Eppure i due presto scoprono di essere molto simili. Poi i due protagonisti torneranno separatamente nella propria società di origine. Di fronte all’imposizione del ministero dell’Istruzione, i grandi nomi della letteratura israeliana si sono mobilitati per protestare. Amos Oz ha notato polemicamente che anche personaggi biblici importanti si scelsero donne non ebree. Altri rilevano che peraltro in Israele i matrimoni fra ebrei e non sono rari. Nel frattempo chi beneficia della polemica è la stessa Rabinyan il cui libro è andato a ruba fino al tutto esaurito nelle librerie. Di conseguenza nei prossimi giorni sarà ristampato. Fra gli altri scrittori è ora palpabile l’invidia: «Magari – scrivono alcuni su Facebook – il ministero sconsigliasse ora anche i miei libri!».

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Un immaginario viaggio nell’Henan

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 21, 2015

acrobatiE’ un affascinante viaggio immaginario nell’Henan la mostra Tesori della Cina Imperiale, L’età della rinascita fra gli Han e i Tang (206 a.C. – 907 d.C.), aperta fino al 28 febbraio 2015 nelle sale quattrocentesche di Palazzo Venezia a Roma.
Curata da Tian Kai, direttore del Museo provinciale dello Henan, invita a conoscere la regione del Regno di mezzo che fu la culla dell’arte cinese all’epoca della dinastia Han, arrivando poi a toccare il suo massimo splendore durante la dinastia Tang. Nell’Henan, lungo la via della seta, si trovano spettacolari pitture rupestri di tradizione buddista che si dipanano in una sequenza di 1350 grotte e poi in un’infinita serie di nicchie e pagode.

Queste affascinanti e gigantesche pitture policrome sono raccontate (necessariamente) solo attraverso fotografie nel percorso espositivo romano. Mentre lo sviluppo all’epoca della dinastia Han di un’estetica, per la prima volta autonoma da principi morali, celebrativi e didattici, viene esemplata attraverso la selezione di un centinaio di ceramiche, sculture e di reperti funerari: riproduzioni in miniatura delle dimore dei defunti, che venivano deposte nelle loro tomba e impressionanti vesti funerarie composte da oltre duemila tessere di giada cucite con filo d’oro. Quella in mostra a Roma apparteneva a un nobile della dinastia Han, che regnò tra il 206 a.C. e il 25 d.C. in questa vasta pianura centrale della Cina.
r1x3hxFzQnOpO_4hb_oAmb9MR5j0XBq-pcDJtaFvAAoSe sotto la dinastia Han, come scrive Nicoletta Celli, nel saggio “Arte e archeologia”, pubblicato nel secondo volume de La Cina (Einaudi) si svilupparono pittura e calligrafia come forme autonome d’arte, insieme ad una nuova sensibilità verso il paesaggio come immagine del microcosmo individuale, sotto la dinasta Tang fiorì una raffinata statuaria, in ceramica e in altri materiali, che vedeva per la prima volta le donne diventare protagoniste, rappresentate mentre fanno musica e si prendono cura di sé, in abiti eleganti e con elaborate acconciature.

Come si può notare dal vivo, confrontando sculture di epoche diverse, nel passaggio dall’epoca Han a quella Tang, a poco a poco la figura umana – quella femminile in modo particolare – perde rigidità e piattezza. Le delicate sculture Tang presentano immagini femminili morbide e in movimento. Dame a cavallo, prese da attività artistiche e letterarie o in conversazione. Sempre con movimenti eleganti ma mai affettati, mentre gli sguardi sono rivolti allo spazio circostante, regalandoci la sensazione che lo scorrere del tempo sia poeticamente sospeso. (Simona Maggiorelli, Left)

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Nel laboratorio dei #WuMing

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 12, 2015

Wu Ming

Wu Ming

Con i primi tre titoli – Diario di zona di Luigi Chiarella, la riedizione de Il derby del bambino morto di Valerio Marchi e Il tenore partigiano di Lello Saracino – prende forma la collana che il collettivo Wu Ming firma per le Edizioni Alegre. Un trittico a cui presto si aggiungeranno altri «titoli orbitanti», annuncia Wu Ming 1: «alcuni già in corso di stesura, altri ancora in fase di ideazione. Sono quattro o cinque, ma è presto per anticipazioni».
Come è nata la collana e qual è il filo rosso?
Tutto parte da Stefano Tassinari, che ha gettato l’ennesimo ponte della sua vita, prima di morire. Se il movimento antagonista avesse un Genio Pontieri, lui ne sarebbe stato il generale. Ha messo in contatto le edizioni Alegre e un “giro” bolognese di compagne/i, che già si incontrava nelle riunioni della rivista Letteraria. Così ho iniziato a consigliare titoli ad Alegre, e la collaborazione si è infine strutturata in una collana, Quinto Tipo, dedicata – eccolo, il filo rosso – a quei libri che non sono né saggistica né narrativa e attraversano diverse tematiche sperimentando diverse scritture, quelli che di solito i librai non sanno bene dove collocare.
tenore461Come sta evolvendo il progetto di Wu Ming dopo L’armata dei sonnambuli (Einaudi) che raccontava la rivoluzione francese da un punto di vista inedito come il mesmerismo?
L’armata dei sonnambuli è stato il nostro ultimo romanzo storico. Dopo vent’anni passati a esplorare quella forma e a sperimentare lungo i suoi bordi, ne siamo usciti e applichiamo ad altre scritture le lezioni che abbiamo appreso. Il nostro ultimo lavoro collettivo è uscito per Electa Kids si intitola Cantalamappa, ed è un libro per bambine/i, ancorché sui generis Il prossimo sarà una narrazione straniante sulla prima guerra mondiale. Quanto ai lavori “solisti”, ognuno di noi ha titoli in uscita o in fieri, e nessuno di questi è un romanzo storico. Io ho appena pubblicato con Rizzoli Cent’anni a Nordest, una sorta di reportage narrativo sulle contraddizioni di quella parte d’Italia nel centenario della Grande guerra.
I Wu Ming non si sono limitati a un lavoro d’inchiesta a più mani, ma hanno sperimentato nuove forme narrative e di creatività di gruppo. Che cosa significa per te oggi  un progetto di scrittura collettiva?
Che esiste la creatività collettiva non l’abbiamo certo dimostrato noi! Da che mondo è mondo si fanno cose insieme. Bisogna restringere un po’ il raggio, per capire in cosa siamo stati e siamo. Un nostro motto è: “Un po’ più di quel che ti aspetteresti da una band di romanzieri”. Cosa ci si aspetta da una band di romanzieri? Dopo un primo istante di stupore, dato che prima di noi non ne esistevano, ci si aspetta che scriviamo romanzi. E lo facciamo. Insieme a un bel po’ di altre cose di cui ci si accorge man mano.

Che cosa ne pensi del lavoro collettivo avvviato da Vanni Santoni?
È completamente diverso dal nostro. In quel caso si parte dalla procedura (non a caso è scrittura “industriale”). Noi partiamo dalla convivialità. Se c’è questa, le procedure vengono da sé. Comunque massimo rispetto per quel progetto.
Dal 12 al 14 giugno sarete a Roma per il festval di Letteraria. Un’eccezione?
Siamo sempre andati a pochi festival, con una scelta molto oculata, perché detestiamo le grandi kermesse e anche certe artefatte sagre culinarie di paese “travisate” da appuntamenti letterari. Quello di Letteraria però non è un festival, è praticamente il congresso annuale che Alegre tiene a porte aperte, anzi, spalancate. Si incontrano i vari collaboratori della rivista, si presentano i vari progetti, si tracciano linee per il futuro.   Simona Maggiorelli, left

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L’arte del bene comune. Le nuove frontiere della #PublicArt

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 28, 2015

Anish kapoor

Anish kapoor

La scultura celebrativa è morta. Ma crescono interventi creativi in spazi pubblici. Che rivendicano un valore civile. Per il modo in cui riescono a ridisegnare i luoghi e a stimolare relazioni. Il punto di vista di tre studiosi:  Anna Detheridge, Michele Dantini e Christian Caliandro

di Simona Maggiorelli

Le sue sculture concave, su specchi d’acqua, accendono magnetici fuochi, in grigi paesaggi di provincia del Nord Europa. A Chicago, invece, la superficie riflettente del suo gigantesco “fagiolo” cattura l’immagine di grattacieli e di passanti, restituendole rovesciate, deformate, aprendo il Millennium Park ad un orizzonte onirico e imprevisto. Sono i “sortilegi” dell’arte in spazi pubblici, quando sculture, fontane e installazioni non si limitano a celebrare l’esistente, ma riescono addirittura a ridisegnare l’intorno. È questo il caso delle sculture – installazioni dell’anglo indiano Anish Kapoor, ma anche di tanti altri artisti di talento, che dopo la fine della scultura intesa in senso celebrativo e monumentale, hanno trovato forme e linguaggi nuovi per fare opere site specific, che  sovvertono l’ordinario in maniera creativa, coinvolgendo i cittadini in modo invisibile e profondo.

Gibellina

Gibellina

Di questo tema, vastissimo, si è occupata Anna Detheridge in Scultori della speranza, un bel libro uscito nel 2012 per Einaudi e ora alla base dell’attività formativa dell’associazione no profit Connecting Cultures, fondata dalla giornalista e studiosa. Che precisa: «Quando parliamo di Public Art , non volendo essere superficiali, dobbiamo specificare i diversi ambiti. E avere ben presente che dalla metà degli anni Sessanta in poi lo scenario è diventato più complesso: si è sviluppata una sensibilità nuova. Il mondo è più mediatico. Lo vediamo attraverso una “finestra” già selezionata per noi. Per cui identificare l’arte tout court con le antiche tecniche non è più corretto».

Per parlare di Public Art, insomma, non basta mettere una scultura in una rotatoria. «Anche perché spesso è fatta dal cugino del sindaco. E gli esiti sono terrificanti», chiosa Detheridge. Occorre invece che le opere, qualunque sia la loro forma, abbiano un rapporto con il contesto inteso non solo in senso architettonico ma anche sociale. «Un artista deve saper valutare se lo spazio in cui interviene è vuoto o pieno, se c’è troppo rumore ecc. Per dare risposte adeguate. Tutto questo richiede non solo una sensibilità ma anche una specifica formazione».

Arte all'arte- Chianti

Arte all’arte- Chianti

Solo così l’arte pubblica può innescare anche un processo di coesione, di interrelazione. «Fare arte negli spazi pubblici non vuol dire andare verso l’altro in termini assistenziali o puramente sociali» sottolinea Detheridge. «Un artista dovrebbe dire: siamo in questo luogo, condividiamo questo spazio e vediamo cosa possiamo fare insieme. Perché la partecipazione abbia un senso per te e per me». Anche per questo Anna Detheridge considera semplicistico propagandare, come è stato fatto a Roma dall’assessorato alla cultura, interventi di Street Art nei quartieri più a rischio, come un progetto di recupero delle periferie e di lotta al degrado. «È chiaro che ai gravissimi problemi di disonestà e di criminalità non basta rispondere con graffiti o sculture. Ciò che può fare l’arte è offrire una nuova visione e avviare la possibilità di un cambiamento. Ma l’arte ha a che fare con la  relazione,con la sensibilità. Aspetti che evidentemente questo sistema criminale ha completamente calpestato».
In generale, però, in Italia«non mancano esempi in cui gli artisti sono riusciti a costruire, non solo dei luoghi ameni, ma davvero vivi e di scambio», assicura Detheridge. Magari dove meno te lo aspetti.

In provincia o in piccoli borghi del Chianti, con iniziative come Arte all’Arte. Un intervento riuscito è, secondo la studiosa, quello realizzato da Alberto Garutti al Teatro comunale di Peccioli in provincia di Pisa. «Non si tratta propriamente di un’opera di ristrutturazione  – precisa Detheridge -. È il risultato di una relazione. L’artista qui ha fatto qualcosa di specifico, proprio per gli abitanti della zona. Non si tratta di fabbricare oggetti in più, ma di tessere rapporti. In questo modo un’opera diventa un dispositivo e il risultato estetico non è più la sola cosa che conti».

Stalker, mappa di Roma

Stalker, mappa di Roma

Un classico esempio di questo tipo di arte pensata come avvio di un processo potenzialmente trasformativo è quello del gruppo Stalker al Corviale, dove per lungo tempo architetti e artisti hanno lavorato con la popolazione. «Purtroppo, in Italia, questo tipo di intervento non ha alcun tipo di definizione e non viene riconosciuto. Così  – denuncia Detheridge – queste realizzazioni vengono disperse, inficiate. Perché non se ne comprende l’importanza e nessuna istituzione le promuove. Ma anche se si tratta di segni apparentemente effimeri avevano la speranza, l’intenzionalità, di cambiare le cose, di ampliare un pochino la sensibilità . Fare il processo all’architettura oggi non serve. Alla fine del modernismo costruire una casa lunga  un km forse non era un’idea così brillante. Ma è anche vero che Corviale è stato abbandonato dalle istituzioni, si è lasciato che diventasse un ghetto».
Nel libro Scultori della speranza Anna Detheridge ricorda casi in cui edifici storici, invece, hanno assunto significati importanti per una comunità e che sono stati recuperati e ricostruiti con ogni sforzo possibile. Quello più emblematico riguarda il ponte di Mostar in Bosnia, che fu fatto saltare nel 1993, diventando l’icona della città. «L’aspetto più emozionante di questo ponte è che appare più simile a una scultura collettiva che a un’opera classica», osserva Anna Detheridge nel suo libro.

«Un ponte è qualcosa che unisce due rive e che si percorre a piedi o a cavallo, per secoli o decenni. È parte dell’uso quotidiano: diviene un riferimento affettivo prima che estetico. La stessa cosa vale per edifici pubblici di rilievo per la collettività», commenta Michele Dantini, docente di storia dell’arte contemporanea all’Università del Piemonte orientale, che pubblicato a un nuovo libro su arte, scienza e sfera pubblica edito da Doppiozero. «Non credo che oggi l’arte, e forse neppure l’architettura, si proponga obiettivi tanto ambiziosi. Ma – aggiunge – apprezzo molto taluni interventi di Jochen Gerz, artista tedesco di tradizione concettuale interpretata in chiave Public Art. E progetti ambientali, ad esempio il giardino di Gilles Clement a Lille: interdetto alle persone, è riservato all’autoriproduzione delle “vagabonde”, cioè le piante pioniere. Chiunque si prenda cura di qualcuno o qualcosa conduce la sua piccola o grande battaglia contro marginalità, violenza e degrado». Al tempo stesso, però,confessa Dantini «diffido di “abbellimenti” solo estetici, che non siano concretamente servizi. Ma non esistono regole certe. Anche la bellezza può essere un dono e divenire un’ “utilità” che porta durevole beneficio».

SanBa, street art a San basilio-Roma

SanBa, street art a San basilio-Roma

Di Public Art, e più in generale di arte contemporanea come “bene comune”, si è discusso agli Strati della cultura, una tre giorni organizzata dall’Arci a Ferrara, a cui hanno preso parte studiosi di arte contemporanea e non solo. Fra questi, oltre allo stesso Michele Dantini, il critico Christian Caliandro, autore con Pier Luigi Sacco di Italia Reloaded (il Mulino, 2012) e di Italia revolution (Bompiani, 2013). Un dittico che si appresta a diventare trilogia con un nuovo volume in cui lo storico dell’arte che si è formato in Normale approfondisce la riflessione sulle trasformazioni a cui sta andando incontro la nostra identità culturale. «Esempi brillanti ed efficaci di intervento nello spazio pubblico ce ne sono molti in Italia», dichiara Caliandro, che ha organizzato nel gennaio 2015 a Bari un convegno dal titolo La cultura e la città nuova, il ruolo delle pratiche creative in una comunità urbana.

«Penso al progetto con cui Gian Maria Tosatti sta riattivando luoghi abbandonati a Napoli e che invita a riflettere sulla nostra identità e su come potremo essere. Ma anche al progetto in barriera a Torino realizzato da Alessandro Bulgini, con opere favolose ed effimere come disegni geometrici a gessetto». Per quanto riguarda Roma, Caliandro segnala le opere di Blu e tutto il progetto Sanba a San Basilio. «L’importante è che l’arte contemporanea nelle città non si accontenti di operazioni decorative», avverte. «I problemi, le sfide e le nuove opportunità chiedono all’arte di riconfigurare in modo radicale il rapporto con la società e con il tessuto urbano. Le chiedono di uscire dal recinto e di immaginare nuove pratiche di partecipazione non retorica, sganciate dalla logica dei grandi eventi».
Le trappole della moda, del conformismo, della finta democratizzazione delle pratiche culturali, sono comunque in agguato. Così come la retorica ogni volta che amministratori comunali e politici cominciano a parlare di arte pubblica, di comunità e via di questo passo. « Spesso la cultura viene usata in chiave auto celebrativa e auto assolutoria», rileva Caliandro. «Dimenticando che il suo compito principale è favorire lo sviluppo di identità individuali e collettive, non di oscurarle. Il ruolo dell’arte e della cultura è sempre stato quello di elaborare i traumi, non di coprirli. Anche se è il lavoro più faticoso, doloroso, scomodo e critico che ci sia». Sul piano concreto della vita di tutti i giorni però, come è emerso con chiarezza anche durante gli Strati della cultura, la crescente consapevolezza da parte dei cittadini dell’importanza della difesa dei beni comuni (arte compresa) si scontra con lo scempio di politiche emergenzialiste, dissennate, di de-tutela e svendita del patrimonio pubblico. E non solo. Come denunciano da tempo le associazioni di categoria di storici dell’arte, archeologi e degli altri professionisti dei beni culturali il problema più grosso in questo settore riguarda l’occupazione giovanile. «Il lavoro culturale in Italia non è retribuito. Siamo ben oltre la precarizzazione», commenta Caliandro. «È una cosa che appartiene al territorio dello spettrale per quanto riguarda garanzie e salari. E tutto questo si riflette anche sulle modalità in cui la città stabilisce il rapporto con l’arte e con la cultura. Non basta la difesa dei monumenti, dell’arte, del paesaggio, ma tutti gli aspetti vanno riconnessi. Deve diventare una difesa dei valori umani. E una sfida per introdurre elementi di innovazione radicale».

dal settimanale Left luglio 2014

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Architettura come ars e saper fare

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 29, 2015

Terminal nord di Studio Gregotti

Terminal nord di Studio Gregotti

L’insofferenza verso l’estetica esibizionistica del Postmoderno, malata di gigantismo e che usa la storia come un serbatoio di citazioni da ricombinare a caso, ha fatto incontrare idealmente un maestro dell’architettura contemporanea e della riflessione critica come Vittorio Gregotti con un giovane architetto, ingegnere e agit-prop come Carlo Ratti, teorico del modello smart city o, per meglio dire, della città “sensibile”, informatizzata, futuribile, capace di interagire con le esigenze della cittadinanza anche attraverso le potenzialità della rete. Così almeno ci è sembrato di scorgere, leggendo i loro due ultimi lavori in parallelo.

Curiosamente il decano del modernismo, che ha scritto importanti libri contro il nuovismo forzato delle post metropoli (Contro la fine dell’architettura, Einaudi, 2008 e Architettura e postmetropoli, idem 2011, solo per fare due esempi), nel suo nuovo libro Il possibile necessario ,da poco uscito per Bompiani, mostra alcuni temi e argomentazioni assonanti con quelle proposte da Carlo Ratti in Architettura Oper source, Verso una progettazione aperta (Einaudi).

Il filo rosso che sembra legare sotterraneamente i due volumi è, in primis, la denuncia dello spaesamento che provoca la visione di città sempre più omologate e senza volto, contrassegnate dagli inconfondibili segni delle solite archistar, che fanno somigliare Pechino a Dubai e Hong Kong a Londra. «Archistar giramondo hanno acquisito quello che sembra un controllo totale, un’onniscenza incondizionata e un’autorità suprema, eppure la loro opera non ammonta a quasi nulla. Si sono volontariamente relegati in uno strato claustrofobicamente sottile della produzione totale» stigmatizza Ratti.

Carlo Ratti, Digital water pavillion

Carlo Ratti, Digital water pavillion

Sulla stessa lunghezza d’onda Vittorio Gregotti prende di mira un’architettura esibizionistica che produce invivibili e giganteschi ready made. «Degradando a kitsch ogni ricerca di senso e di verità e rendendo forse impossibile qualsiasi riflessione profonda di impegno politico». Ma non è tanto questa comune pars destruens dei due distinti e differenti lavori a colpire la nostra attenzione, quanto la parte propositiva che si traduce in un appassionato canto a favore di quell’architettura che non ha perso di vista l’umano e che sa valorizzare e rinnovare la tradizione.

Walter_Nicolino_04_largeAddirittura fino ad arrivare a rivalutare l’antica esperienza artigiana intesa come ars, ovvero come saper fare e non di rado senza alcuna “griffe”. « Gran parte dell’edilizia corrente o minore è stata per secoli prodotta, in quanto manufatto, da processi spontanei di autocostruzione o di produzione artigiana, secondo regole di lunga tradizione, guidate sia nella tipologia che nel principio insediativo, dall’accettazione costitutiva del disegno della città», scrive Gregotti. «La bellezza della città e della maggior parte del suo territorio sta nei fabbricati anonimi», gli “fa eco” Ratti.

«Una metropoli è la somma di edifici con e senza nome, tutti contribuiscono all’atmosfera e alla struttura della città, ma per somma ingiustizia, l’artisticità della città vernacolare passa inosservata», scrive il docente del Mit, arrivando ad evocare l’immagine invisibile, latente, variegata eppura armonica, che lasciano intuire certe città medievali. (Simona Maggiorelli)

dal settimanale Left

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Il riscatto del Pollaiolo

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 12, 2015

Piero del Pollaiolo (1465)

Piero del Pollaiolo (1465)

Nella vicenda dei Pollaiolo si legge il cambiamento di status dell’artista rinascimentale, non più artigiano ma creatore. Ma grazie alle ricerche di Aldo Galli finalmente Piero del Polloialo torna in piena luce, rispetto al più celebrato Antonio, di cui Vasari fece una sorta di exemplum

 

Nel Rinascimento l’apparizione delle donne sulla scena pubblica era cosa rara. La vita delle giovani come delle più mature, specie se di alto rango, si svolgeva soprattutto nei palazzi privati. E rari erano anche i ritratti di donne. Fra i quali si segnalano le quattro figure femminili dipinte da Antonio e Piero Pollaiolo che fino al 16 febbraio  2015 eccezionalmente erano riunite in Museo Poldi Pezzoli a Milano. Insieme a disegni, ori e piccoli bronzi usciti dalla bottega che il più grande dei fratelli Pollaiolo, Antonio, che aprì una bottega orafa in via Vacchereccia, vicino a piazza della Signoria, riscattandosi dall’umile estrazione sociale del padre e del nonno, entrambi pollivendoli.

La sua storia di scultore e disegnatore di grande talento che seppe farsi strada anche alla corte papale fu trasformata dal Vasari nelle due edizioni delle Vite (1550 e 1568) in vicenda esemplare, perfetta incarnazione del nuovo status dell’artista, che – dalla seconda metà del Quattrocento in poi – non fu più semplice artigiano dedito alle arti meccaniche. Un passaggio epocale nella storia dell’arte dell’Occidente come documenta Édouard Pommier ne L’invenzione dell’arte nell’Italia del Rinascimento (Einaudi, 2007). Un salto di paradigma che Vasari intuì e sostenne al punto di falsificare la biografia dei Pollaiolo attribuendo ad Antonio la paternità di quadri che invece erano stati dipinti dal fratello minore, Piero, come per esempio l’elegante fanciulla bionda della Gemäldegalerie di Berlino ora in mostra a Milano, insieme ai ritratti femminili provenienti dal Metropolitan Museum of Art di New York e dagli Uffizi e realizzati da Antonio e Piero fra il 1465 e il 1460. Come ricostruisce Aldo Galli nel volume Antonio e Piero del Pollaiolo pubblicato da Skira in occasione della mostra, Giorgio Vasari ignorò consapevolmente le fonti più antiche per poter fare di Antonio del Pollaiolo l’exemplum del divino artista (anticipando Raffaello).

Ma perché fosse davvero corrispondente al modello rinascimentale non bastava che Antonio fosse un disegnatore della vena moderna, nervosa, straordinariamente mobile e espressiva; non bastava che sapesse fondere busti come quelli di Sisto IV e Innocenzo VIII che parevan vivi, occorreva che Antonio fosse anche sommo pittore. E fu così che qualcuno lo prese talmente alla lettera da camuffare la “f” di fictor (che in latino significa scultore incisa sulla sua lapide in una “p” di pictor, ovvero pittore. ( Simona Maggiorelli, dal settimanale Left).

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L’invisibile di Modì

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 14, 2015

Modigliani, Testa rossa

Modigliani, Testa rossa

Fino al 15 febbraio è ancora possibile vedere la bella mostra, Modigliani et ses amis che Jean Michel Bouhours, curatore del dipartimento delle collezioni moderne del Centre Pompidou, ha realizzato in Palazzo Blu a Pisa, riallacciando la formazione dell’artista livornese (cresciuto studiando la profondità di Masaccio e maestri del gotico toscano) agli esiti più originali della sua ricerca maturata a Parigi, tra il 1906 e il 1920, anno della sua prematura morte.
Ripercorrere gli esordi di Modì nell’originario contesto toscano riporta in primo piano le radici trecentesche e arcaiche dei suoi scultorei ritratti, “primitivi”ed essenziali. Ma al contempo permette di cogliere pienamente il coraggioso salto che egli riuscì a compiere, nella ricerca di una propria, personalissima, strada. Distante anni luce dalla attardata pittura figurativa dei macchiaioli. Ma anche diversa dalla scomposizione della figura praticata dall’avanguardia cubista che Modì giudicava troppo fredda e geometrizzante.

Affascinato non tanto dall’idea di Cézanne di dipingere la natura attraverso cubi, cilindri ecc, ma dalla sua visione “onirica” assorbì e rielaborò anche il cromatismo del pittore di Aix. Come racconta qui il misterioso ritratto di impronta cézanniana intitolato Testa rossa (1915).

L’intento era dipingere “l’invisibile”. “Ciò che cerco – diceva – non è il reale né l’irreale, ma l’inconscio”, come si legge nel catalogo Skira. E dal vivo ci parlano di questo suo appassionato tentativo di ricerca artistica sul non cosciente le forme allungate e deformate dei suoi morbidi nudi femminili, l’aspetto longilineo dei suoi soggetti dai volti stilizzati, dai colli affusolati e quegli occhi senza pupille, mutuati forse dalle culture antiche (khmer e yemenite) osservate al Louvre.

In Palazzo Blu il discorso si dipana attraverso un centinaio di opere, fra dipinti e sculture di Modì, di Brnacusi, Gris, Picasso, Soutine e di altri protagonisti della avventurosa stagione di Montparnasse, provenienti dal Pompidou e da altri musei parigini come l’Orangerie, il Musée d’Art Moderne e poi dalla Pinacoteca Agnelli, da Brera e da Villa Mimbelli. In particolare colpisce il dialogo a distanza fra le potenti ed enigmatiche sculture di Brancusi e certi scultorei quadri di Modì come Le cariatidi.

Modì si sentiva intimamente scultore anche quando dipingeva come ben documenta Federica Rovati ne L’arte del primo Novecento, da poco uscito per Einaudi, parlando anche delle forme classiche che Modì seppe ricreare, in chiave anti accademica. Poi prima di uscire lo sguardo torna a posarsi sui magnetici di Guillame, di Soutine della bella e malinconia Jeanne. Ritratti in cui Modì non è fedele alla mimesi, alla fisionomia, ma sa far emergere il mondo interiore del soggetto, qualcosa che forma l’espressione del volto e che viene da dentro. Tratteggiando così personalità individuali, ogni volta diverse. Ma al tempo stesso riuscendo ad astrarre dalla contingenza qualcosa di universale che accomuna tutti gli esseri umani, proprio in quanto tali.

( dal settimanale Left del 7 febbraio 2015)

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Il marmo diventò morbida pelle. Per mano di Bernini

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 8, 2015

Bernini, Ratto di Proserpina

Bernini, Ratto di Proserpina

Una monografia in otto puntate di Tomaso Montanari racconta  l’arte di Gian Lorenzo Bernini. Su Rai 5

Non c’è bisogno, come ha fatto qualche commentatore, di scomodare Simon Schama e la sua inarrivabile serie The Power of Art per dire che la monografica tv in otto puntate di Tomaso Montanari è un esempio di divulgazione colta e appassionata di altissimo livello, che non ha eguali in Italia. Anche perché, al di là dei potenti mezzi della BBC che supportano il lavoro dello storico dell’arte inglese, la serie La libertà di Bernini (prodotta da Land Comunicazioni per Rai Cultura e in onda su Rai 5) sceglie una strada diversa per tessere la narrazione.

Là dove Simon Schama racconta Gian Lorenzo Bernini, nell’ambito di una serie di ritratti d’artista, intrecciando magistralmente interpretazione dell’opera e vita, Montanari sceglie invece la strada di un rigoroso filo cronologico per ripercorrerne l’avventura e approfondire criticamente le novità che seppe portare nella scultura, nella pittura e nella architettura del Seicento. In anni in cui la committenza papale giocava un ruolo di primo piano sulla scena artistica, offrendo l’occasione per realizzare opere ambiziose. Ma al tempo stesso dettando rigidi programmi iconografici e legandoli strettamente alla propaganda controriformista.

Bernini, Apollo e Dafne

Bernini, Apollo e Dafne

Fu così che con l’ascesa al soglio di Urbano VIII, il papa che obbligò Galileo all’abiura, Bernini diventò una sorta di ministro dell’immagine pubblica della Chiesa di Roma. Riuscendo tuttavia a “salvare” la propria fantasia e inventiva. Basta pensare ad un’opera coraggiosa come L’estasi di santa Teresa (1647–1652) che usa il pathos e la teatralità controriformista per mettere in scena l’ondata di piacere che invade la santa trafitta da un angelo dall’aria birichina. Di questo Tomaso Montanari ci racconterà nella quinta puntata.

Intanto abbiamo avuto modo di apprezzare come, guidato dalla regia di Luca Criscenti, dal 7 gennaio scorso lo storico dell’arte fiorentino e docente dell’Università di Napoli abbia saputo ben tratteggiare i precoci esordi di Bernini portandoci direttamente nei luoghi dove visse e operò. A cominciare dai vicoli di Napoli, da quella celebre via Toledo dove il genio del Barocco nacque il 7 dicembre del 1598 da madre napoletana e padre fiorentino, che lo avviò alla scultura. Poi ci porta a Londra per vedere il Nettuno (1620-22) e nella Galleria Borghese di Roma dove Montanari commenta dal vivo un capolavoro di immaginazione e naturalismo come il gruppo Apollo e Dafne (1622-1625).

Tomaso Montanari

Tomaso Montanari

Un’opera in cui, grazie alla sua straordinaria tecnica, l’artista riesce a dare al marmo la morbidezza della pelle femminile, facendo sembrare «la carne più vera del vero».

La tesi che Montanari sostiene in tv in modo avvincente, senza accademismi, ma con linguaggio scientifico, è che Gian Lorenzo Bernini anticipò il moderno, sviluppando il naturalismo di Caravaggio, superando la staticità della scultura rinascimentale e regalando un potente dinamismo alle sue statue che non a caso – ci ricorda lo studioso – saranno poi studiate dal futurista Umberto Boccioni. Una tesi che in anni passati ha argomentato in importanti volumi, fra i quali Il Barocco (Einaudi), Bernini pittore (Silvana editoriale) e in un denso e articolato repertorio delle fonti del Barocco L’età barocca pubblicato da Carocci. Ora grazie al mezzo televisivo ci auguriamo possa raggiungere anche il grande pubblico. ( Simona Maggiorelli, dal settimanale Left)

Ecco il link per rivedere la quinta puntata http://www.rai.tv/dl/replaytv/replaytv.html?day=2015-02-04&ch=31&v=473907&vd=2015-02-04&vc=31#day=2015-02-04&ch=31&v=473907&vd=2015-02-04&vc=31

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Canto per Lampedusa. Un libro e un reading di MassimoCarlotto

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 6, 2014

 la via apreL’odissea dei migranti africani diventa fiaba nel nuovo libro di Massimo Carlotto, La via del pepe. Con il disegnatore Alessandro Sanna, lo scrittore costruisce un toccante racconto per immagini. Contro i luoghi comuni dei benpensanti europei.
di Simona Maggiorelli
Un ragazzo con la testa piena di sogni se ne sta seduto a prua, su una carretta piena di migranti, gestita da un mafioso libico. Ha 19 anni, si chiama Amal, «che in arabo vuol dire speranza».
«Lo avevano sistemato sulla punta proprio per il suo nome » scrive Massimo Carlotto. «E per quei cinque grani di pepe che stringeva nel pugno». Semi preziosi che gli erano stati regalati dal nonno Boubacar Dembélé, guaritore, saggio, poeta, «narratore delle storie della settima via del pepe e custode dei segreti del foggara, l’arte di scavare i pozzi nel deserto».
Amal è il protagonista del nuovo libro di Carlotto, La via del pepe ( Edizioni e/o) che racconta l’ odissea dei migranti nel Mediterraneo con linguaggio icastico e poetico. Complici le suggestive tavole dell’illustratore Alessandro Sanna.
Ricorrere alla fiaba, Carlotto, è anche un modo per restituire identità e dignità a quei migranti dall’Africa che le cronache trattano in termini di emergenza sicuritaria?
Sì, questa era la mia intenzione. Da tempo volevo scrivere su Lampedusa e su questi viaggi per mare che si trasformano in tragedia. Ma mi rendevo conto che non riuscivo a rendere la crudezza della realtà. Allora ho scelto di ricorrere ad un mondo fantastico per rendere la realtà più “ lucida”. Poi ho avuto la fortuna di incontrare un autore come Alessandro Sanna che ha fatto un lavoro straordinario, creando queste immagini pazzesche, così violente…
Immagini di grande impatto e insieme poetiche, perché le definisce violente?
Mi riferisco alla forza espressiva che hanno nel rappresentare la verità. In questo progetto il mio obiettivo era parlare degli annegati. Restituire loro una fisicità. Un po’ come avevo fatto a suo tempo con i desaparecidos dell’Argentina. Mi sono chiesto quale fosse il modo migliore per ridare una presenza a queste persone che non esistono.

Massimo Carlotto

Massimo Carlotto

La tridimensionalità che assume il racconto nel rapporto fra parola e immagine si amplifica a teatro, come si è potuto vedere con il suon reading a Bookcity.
Lo riproporrò a Roma, il 6 dicembre, nell’ambito di “Più libri più liberi”. Il teatro mi permette di stabilire con il pubblico un rapporto più diretto. A dare respiro al racconto contribuiscono le musiche originali scritte da Maurizio Camardi e Mauro Palmas, due musicisti con cui collaboro da tempo.
Il teatro, il noir, il romanzo classico, la fiaba, Carlotto sta diventando un autore sempre più poliedrico per cercare di “bucare” l’indifferenza e l’assuefazione degli italiani rispetto a tragedie come questa?
Mi chiedo quale sia la forma migliore. Essendo un autore di genere forse posso muovermi con più facilità all’interno di forme creative diverse. Ma è sempre la realtà a guidarmi. Io vivo a Padova e in queste piccole città del Nord approdano quelli che non annegano a Lampedusa. Arrivano con una fatica enorme, finiscono i soldi e diventano mendicanti. Il loro sogno è superare la frontiera. Qui, tra Verona e Padova, operano bande che li aiutano a passare dall’altra parte ma vogliono soldi. I migranti vengono continuamente derubati. Le donne scompaiono. Non se ne vedono in città. E questo è un grande mistero. Scrivendo le Vendicatrici (una serie di romanzi pubblicati da Einaudi ndr) ho dedicato molta attenzione a questo traffico di persone. I siriani hanno una loro organizzazione, in qualche modo se la cavano, gli africani no. Diventano dei disperati che, senza parlare italiano, vagano per questa città diventata leghista e che, di fatto, li odia. Di questa situazione non si può non scrivere, mi sono detto. Anche questa mattina, uscendo di casa per venire allo studio, ne ho incontrati due davanti al supermarket che chiedono l’elemosina, perché la gente li rifiuta. Si sta costruendo giorno dopo giorno una cultura dell’odio che ci fa pensare che loro vengono qua per rubarci tutto; quando, in realtà, non ci rubano proprio niente.
Qualche anno fa lei ha denunciato la schizofrenia del Nord Est che ha avuto un gran bisogno dei migranti come mano d’opera, però non li ha mai riconosciuti. E mentre li chiamava a lavorare progettava già di dislocare le imprese e di rispedirli al loro Paese. Ora siamo passati ad una fase ulteriore?
Sì, siamo già oltre. I finanziamenti alla Lega sono stati dati perché volevano una forza politica xenofoba che avesse la legittimità politica per mandare via le persone. Come li hanno scacciati dal territorio? Mettendo la polizia e i vigili urbani davanti agli ambulatori medici. I migranti non ha avuto più nessuna forma di aiuto sanitario. Sono dovuti andare via anche quei pochi medici che davano assistenza. Così siamo entrati in una nuova fase: dare la colpa della crisi a chi ha la pelle di un colore diverso. La Lega con Salvini ha un nuovo corso, in alleanza con la nuova destra e sta rilanciando il discorso razzista. Ma al di là di questo c’è proprio una cultura del territorio che fa sì che la gente pensi “va bene così” quando affonda un barcone, e poi ” che se ne stiano a casa loro”, “non abbiamo bisogno di loro”… Padova è una città dove la gente beve lo spritz in piazza e arrivano loro, ti prendono per la manica e ti dicono: “ho fame”. Sono insistenti, e la gente dice : danno fastidio. Dall’altra parte c’è il Comune, purtroppo ora abbiamo un’amministrazione leghista, che sta facendo una guerra neanche troppo sotterranea alle associazioni che hanno sempre dato una mano agli immigrati.
Per contrasto in questo libro lei evoca una cultura africana ricchissima. Colpisce quel passaggio, bello e terribile, in cui Amal, approdato in una al di là che somiglia molto all’al di qua viene accolto da esorcisti e da una raffica di pregiudizi. Siamo orgogliosi di essere così ignoranti?
Di fatto la cultura africana non esiste quasi più in Europa, basta dare uno sguardo al mondo editoriale, è crollata la richiesta di letteratura africana. è difficilissimo vedere il cinema africano nelle nostre sale… Così ti trovi di fronte persone che sono completamente sconosciute e la strada è quella del pregiudizio. Ne La via del pepe ho utilizzato espressamente tutta una serie di luoghi comuni.
«Finta fiaba africana per europei benpensanti» recita, non a caso, il sottotitolo del libro.
Perché è sui luoghi comuni che dobbiamo confrontarci, per far partire un dialogo in nuova forma.
Lo scienziato David Quammen dice che temiamo l’ebola, più di altri virus anche più pericolosi perché si trasmettono per via aerea, perché viene dall’Africa. Così è nato il mito della pandemia.
La traduzione pratica di tutto questo sono le ordinanze comunali che avvertono “attenti all’ebola”, “attenti a chi viene dall’Africa”. Per cui adesso, ogni tanto, beccano un migrante e lo portano in ospedale per fare controlli riguardo all’ebola.
Da ultimo, tornando alla questione argentina, a cui lei accenava all’inizio: Bergoglio non ha mai detto una parola sui desaparecidos e suoi loro bambini dati in adozione in modo illegale. Alcuni giorni fa il Papa ha incontrato Estela Carlotto, una copertura?
In Argentina si dice “La Chiesa è l’unica madre che ha tradito i propri figli”. Io continuo ad esserne convinto. Un cambiamento vero ci sarà il giorno in cui la Chiesa renderà pubblica la lista dei bambini scomparsi dicendo dove si trovano quei “nipoti che ora sono adulti. La gerarchia ecclesiastica ha sempre gestito questa vicenda, per cui sanno e bisogna che anche loro aprano gli archivi, altrimenti è impossibile raggiungere un livello di libertà e giustizia e ricomporre culturalmente il Paese.
Bergoglio è accusato di aver consegnato alla dittatura alcuni gesuiti dissidenti. Certamente li espulse dalla comunità. E questo bastava per segnalarli e renderli “aggredibili”…
Sì infatti. Ma ci sono anche responsabilità di Bergoglio nella questione dei nipoti “rubati”. Il Papa è stato chiamato a testimoniare ad un processo, ora bisogna vedere se lo farà o meno. Ma la richiesta è stata avanzata. Lui ha negato l’esistenza di questa pratica di adozioni illegali e clandestine con cui, durante la dittatura, si facevano sparire i bambini degli oppositori. Ma è venuto fuori che in realtà sapeva. è una questione controversa che deve essere sciolta.

In libreria e a teatro

Ai desaparecidos Massimo Carlotto ha dedicato libri importanti come Le irregolari Buenos Aires horror tour ( 1998 ), riallacciando i fili che riguardano la storia della sua famiglia in Argentina, ma soprattutto denunciando la ferocia della dittatura, forte dell’appoggio e della connivenza della Chiesa cattolica e dei suoi vertici. Argomento sul quale lo scrittore veneto promette di tornare approfondendo anche le responsabilità di papa Bergoglio, quando era capo dei gesuiti e poi da vescovo.
Da sempre attento alle trasformazioni della società italiana, nel tentativo di far chiarezza sulle pagine più buie del nostro passato e presente, con la casa editrice e/o, da qualche anno Carlotto ha dato vita al collettivo Sabot-Age, una fucina creativa e insieme vivace team di inchiesta da cui sono emersi nomi di giovani giallisti di talento come Piergiorgio Pulixi (del quale è appena uscito il nuovo romanzo L’appuntamento). Ma non c’è solo il noir e la forma romanzo nella ricerca artistica di Massimo Carlotto che da qualche tempo si è  estesa anche al graphic novel, al libro illustrato e, più di recente,  al reading e al teatro in senso stretto.
Sabato 6 dicembre alle ore 17, Massimo Carlotto leggerà il suo nuovissimo La via del pepe ( edizioni e/o) nella sala Diamante al Palazzo delle Esposizioni a Roma, nell’ambito della fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi. Su musiche originali di Maurizio Camardi e Mauro Palmas.
Il 9 dicembre, invece, debutterà l’adattamento scenico del suo ultimo romanzo, dal titolo Il mondo non mi deve nulla, uscito pochi mesi fa, sempre per i tipi della casa editrice fondata da Sandro Ferri. Protagonisti saranno gli attori Pamela Villoresi e Claudio Casadio, rispettivamente nei panni di una croupier tedesca e di un ladro improvvisato e maldestro. Per la regia è di Francesco Zecca, lo spettacolo debutterà proprio a Rimini, la città che fa da sfondo a questo insolito incontro fra una donna che ha lavorato a lungo sulle navi da crociera e poi ha perso tutto a causa dei derivati bancari e un ladro suo malgrado, che non riesce del tutto a calarsi nella parte a cui lo ha costretto la perdita del lavoro.

Dal settimanale Left

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