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Perle dal Musée d’Orsay

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 12, 2014

L'italiana di Van Gogh

L’italiana di Van Gogh

Qualcuno ha fatto notare che quel titolo, Capolavori dal Musée d’Orsay non corrisponde esattamente al vero e che in fondo, al Vittoriano, fra le sessanta opere esposte (fino all’8 giugno, catalogo Skira) provenienti dal museo parigino, quelle che si possono veramente definire tali sono quattro e cinque. Ma che capolavori! Ci verrebbe da dire di slancio. Perché basterebbe il bel volto della giovane Berthe Morisot ritratta nel 1872 da Édouard Manet con in mano un mazzo di violette, a ripagare il prezzo del biglietto. Siamo davanti a un capolavoro di “indagine” psicologica del femminile, da parte di un pittore che, con Olympia, aveva proposto invece la maschera distante di una donna costretta a stare al gioco dell’erotismo mercenario e dell’ipocrisia borghese. Berthe è l’opposto della scandalosa Olympia.

Lo sguardo della giovane pittrice impressionista interroga quello di chi guarda la tela, senza maschere e infingimenti, comunicando il senso di una presenza viva e sensibile, come raramente capita di cogliere nei quadri da atelier realizzati in quegli anni “copiando” modelle in carne ed ossa come fossero dei gessi.

E che dire poi del ritratto di Agostina Segatori, realizzato da Van Gogh in chiave giapponesizzante, che illumina la sala centrale di questa mostra romana? L’italiana che gestiva il Cafè Le Tambourin (e che aveva già posato per Corot e Manet) in questa tela del 1887 appare come galleggiare in un mare d’oro, mentre striature rosse ne accendono il volto e la pelle come se reagisse alla luce del sole che la inonda.

Il quadro nasce nell’ambito di quella originalissima ricerca che il pittore olandese sviluppò a Parigi fra il 1886 e il 1888, influenzato dai colori piatti e dalle linee essenziali delle stampe giapponesi che avevano attratto l’attenzione degli artisti impressionisti dopo l’Esposizione universale del 1867.

E ancora, percorrendo a ritroso le sale e tornando a quella dedicata alla pittura di paesaggio (dopo un tuffo nella pittura mitologica e d’accademia) ecco un impareggiabile Cézanne spuntare imprevisto vicino al corridoio, al culmine di una serie di romantiche vedute naturalistiche di Corot e di Bazille, gettando scompiglio fra i luminosi e tranquilli scorci impressionisti firmati Monet, Pissarro e Sisley.

A partire da un soggetto all’apparenza banale, come un cortile di una fattoria tipicamente provenzale, con poche pennellate, Cézanne fa entrare lo spettatore in un avvolgente spazio tridimensionale, che d’un tratto fa piazza pulita di ogni formalismo impressionista. E questo crudele confronto ravvicinato voluto dai curatori della mostra Guy Cogeval e Xavier Rey fa apparire immediatamente piatte, decorative e senza vita le opere di Monet e compagni. Che tuttavia qui – bisogna anche riconoscere – insieme a quelle dei Nabis, si prestano ad interessanti percorsi tematici, dedicati al racconto della borghesia in ascesa, al dinamismo delle crescenti metropoli d’inizio secolo, all’indagine della famiglia che nessuno come Vuillard, Denis e Bonnard sa rappresentare, all’apparenza celebrandone i miti (la maternità, l’infanzia, la morale) e i riti (il teatro, la convivialità, i sacramenti), e di fatto denunciando il vuoto pneumatico di affetti e di valori. ( simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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#VanGogh, dipingere con le parole. Painting with words. Van Gogh’s letters

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 23, 2013

Van Gogh, ritratto di Gachet

Van Gogh, ritratto di Gachet

di Simona Maggiorelli

C’è un libro che chi ama Van Gogh, negli anni, ha continuato a leggere e rileggere, è Lettere a Theo nell’edizione Guanda. Per quanto si tratti di un’esigua selezione dall’epistolario (che ad oggi conta 819 lettere superstiti) è stato fin qui lo strumento principe in italiano per conoscere più da vicino la vita e il pensiero di questo genio del colore che ha rivoluzionato la pittura dell’Ottocento, mandando definitivamente in soffitta la pittura intesa come mimesis, come calco dal vero, cronaca dell’esistente.

Ora, a quattro anni dalla pubblicazione in Olanda dell’edizione critica delle lettere di Van Gogh, un corposo volume nella collana Millenni Einaudi permette, anche in Italia, di allargare lo sguardo affiancando alle missive al fratello Theo decine di altre indirizzate a parenti e ad amici pittori (Bonnard, Gauguin, ecc).

E se i rari messaggi inviati alla madre Anna hanno un tono formale e distaccato, lasciando percepire un abisso di rabbia e di incomprensione fra lui e la famiglia, spiccano invece per freschezza quelle indirizzate alla sorella Willemien, alla quale Vincent confidava progetti e aspirazioni, senza nascondersi e senza dover giustificare le proprie scelte che non si accordavano alle mode e al gusto corrente, come invece avrebbe voluto il pragmatico Theo.

Doctor-Gachet-Sitting-at-a-Table-with-Books-and-a-Glass-with-Sprigs-of-FoxgloveProprio scrivendo alla sorella mette insieme per la prima volta esplicitamente «arte del colore» e «arte delle parole», facendo così delle lettere un momento importante del processo creativo. Lo rileva acutamente Cynthia Saltzman nell’introduzione a questa nuova pubblicazione Einaudi dal titolo Vincent Van Gogh Le lettere. Un aspetto reso immediatamente tangibile dall’impaginazione del volume, punteggiata da riproduzioni anastatiche di missive in cui lo scritto è accompagnato da schizzi e disegni.

«Nella mente di Van Gogh, così come nella pratica – nota Saltzman- la scrittura, il disegno e la pittura sono strettamente legati». «Dipingere è disegnare con i colori» scriveva Van Gogh «e disegnare è dipingere in bianco e nero». Il disegno è l’ossessione degli anni giovanili: anni di studio “matto e disperatissimo”, passati a cercare di impadronirsi delle differenti tecniche come base e alfabeto necessario per potersi poi esprimere liberamente, fuori dai rigidi canoni d’accademia.

Leggendo in sequenza le lettere qui raccolte – che vanno dal 1872 all’anno del suicidio del pittore nel 1890 – si ha l’impressione di una forsennata corsa contro il tempo, come se fosse consapevole di non averne molto . L’urgenza espressiva che lo muoveva traspare dal modo deciso, vigoroso,apparentemente frettoloso di dare le pennellate, dall’uso visionario, intensificato, del colore, ma anche dal modo in cui, nelle lettere, compone parole e immagini per far arrivare all’altro, più profondamente, ciò che ha in mente.

Lettera 252

Lettera 252

E traspare dalla calligrafia che muta a seconda delle circostanze, delle emozioni, degli interlocutori e via via si fa più istintiva e gestuale. Ma c’è anche un altro aspetto che emerge con forza da questo epistolario: la coerenza e l’unitarietà dell’opera di Van Gogh che non consisteva di singoli quadri, per quanto forti e originali, ma di interi cicli intorno a un tema o a un motivo. Così accadde per i contadini, dai volti indefiniti per rappresentare un universale umano, o dalle figure deformate, fin quasi alla caricatura negli anni dei vagabondaggi in Belgio e Olanda. Così accadde per la serie delle barche e ad Arles per i girasoli.

«Penso di decorare il mio atelier con una mezza dozzina di quadri di girasoli» scriveva a Emile Bernard nel 1888. Un aspetto che la grande mostra Van Gogh at work aperta fino al 12 gennaio al Museo Van Gogh ad Amsterdam evidenzia in modo straordinario attraverso un percorso di 200 tele (vedi left 16, 27 aprile)  fra le quali, appunto, due versioni dei girasoli esposte insieme alla Berceuse (1889) secondo la sequenza immaginata dall’artista.Diseguali, poliglotte, piene di riferimenti agli amati Shakespeare, Dickens e Hugo, le lettere dimostrano quanto Van Gogh fosse curioso e attento alle novità artistiche che emergevano nel suo tempo, ma anche quanto fosse determinato a portare avanti una propria originale ricerca sul valore espressivo del colore («il pittore del futuro è un colorista come non ce ne sono ancora stati», scriveva) e un’idea di pittura intesa come ricerca del vero, non in senso naturalistico descrittivo, ma come capacità di cogliere e rappresentare in ogni circostanza una verità umana. Perciò Van Gogh amava i ritratti. Prendendo le mosse da Rembrandt cerca «il ritratto che abbia il pensiero, che abbia l’anima del modello». Cerca «la rappresentazione dell’umanità».

«Vorrei fare ritratti che tra un secolo alla gente di quel tempo, sembreranno apparizioni. Quindi non cerco di rappresentarci attraverso la somiglianza fotografica, ma attraverso le nostre espressioni appassionate» scriveva a Willemien il 5 giugno 1890. E furono autoritratti e ritratti pieni di dolorosa, bruciante, verità, come quello del dottor Gachet, dallo sguardo malinconico mentre la bocca fa una smorfia. Dopo l’internamento nel 1890 a Saint Remy, è il medico a cui Van Gogh aveva affidato le sue ultime speranze, mentre le crisi psichiche si facevano sempre più violente. «Il dottor Gachet mi ha dato l’impressione di essere piuttosto eccentrico» scrive a Theo il 20 maggio del 1890. «Mi pare confuso e malato quanto te e me». Come medico alienista Gachet ripeteva a Van Gogh di non preoccuparsi, che le sue crisi non erano nulla di grave. Il 29 luglio 1890 Van Gogh si sparò. In Chi ha ucciso Vincent van Gogh? (Skira) lo storico Pierre Cabanne scrive che la freddezza e l’impotenza terapeutica di Gachet contribuirono a determinare quel tragico gesto.

dal settimanale left-avvenimenti

 

van-gogh-letterThere is a book that anyone who loves Van Gogh, over the years , he continued to read and reread , it’s Letters to Theo (Guanda) . Though it is small selection from the correspondence ( which now counts 819 surviving letters ) has been so far the main instrument in Italian to know more about the life and thought of this genius of color who revolutionized nineteenth century painting , finally overcoming painting as mimesis , as calculated mould from the chronicle of reality.

Now , four years after its publication in the Netherlands of the critical edition of the letters of Van Gogh, a substantial volume in the series Millennia Einaudi allows , even in Italy , broaden our vision, uniting the letters to his brother Theo to dozens of others  letters sent to relatives and artist friends ( Bonnard , Gauguin, etc. ) .

And if the rare messages sent to his mother Anna have a formal tone and detached , allowing us to see  the deep sense of anger and misunderstanding between him and the family , on the contrary stand for freshness the letters addressed to his sister Willemien, to whom Vincent confided  plans and aspirations , without hide and without having to justify his choices which did not accord with current fashions and tastes , as pragmatic Theo would have liked . Writing to his sister Vincent van Gogh makes clear the importance of putting together,” painted art” ‘and’ art of words ” , thus making letters a moment of his creative process . Cynthia Saltzman observes this acutely in the introduction to this new publication Vincent Van Gogh ‘s letters (Einaudi) .

lettereThis is an aspect immediately made tangible from the layout of the book, punctuated by anastatic reproductions of letters in which the script is accompanied by sketches and drawings . ” In the mind of Van Gogh, as well as in practice, writing, drawing and painting are closely linked “, says Saltzman. ” Painting is drawing with colors” , Van Gogh  wrote. ” Drawing is  painting in black and white” . Drawing is the “obsession” of his youth years of frenetic study , spent trying to master the different techniques as a base alphabet necessary to be able to express himself freely, outside the rigid academic canons. Reading in sequence all the letters  collected here ( ranging from 1872 to the year of the painter’s suicide in 1890) one gets the impression of a frantic race against time , as if he were conscious of not having a lot. The expressive urgency that moved him shines through the decided , vigorous, seemingly hasty  brush strokes ,through his visionary use of intensified colors, but also in the letters , where words and images  get together, as to express more profoundly , what he had in mind. The handwriting  itself  changes depending on the circumstances  gradually becoming  more instinctive. But there is also another aspect that emerges strongly from this correspondence : the coherence and unity  of Van Gogh’s work:  his art did not consist of single paintings , altough strong and original . Is art dispalied in cycles a s a variation on a single theme . During his years of wanderings in Belgium and the Netherlands so it was for the  paintings dealing with farmers ,that Van Gogh painted with indefinite  faces to express an  universal humanity , or in deformed  figures , almost to caricature . This is what happened to the number of boats and Arles’ sunflowers .

“I wuold like to decorate my studio with half a dozen paintings of sunflowers ,” he wrote to Emile Bernard in 1888. One aspect that the important exhibition Van Gogh at work (open until January 12) at the Van Gogh Museum in Amsterdam highlights in an extraordinary way through a series of 200 paintings (see left 16 , April 27 ) between which , in fact, we can find  two versions of sunflowers exposed together with the Berceuse (1889) according to the sequence imagined by the artist. uneven, polyglot , Van Gogh’s letters are full of references to the beloved Shakespeare , Dickens and Hugo . An let us know  his curiousity and interest in studing the  artistic innovations of his age. This letters show us  his strong decision to carry out its own original research on the expressive value of the color ( “the painter of the future is a colorist as we do not have yet ,” he wrote ) and an idea of ​​painting as a quest for truth, not in the sense descriptive nature , but as the ability to capture and represent a human truth in all circumstances . That’s way Van Gogh loved the portraits . Under the auspices of Rembrandt , Van Gogh was seeking ” a portrait with thought and  soul ” He was in search of “the representation of humanity .”

“I would like to take portraits that within a century  seem apparitions to the people of that time. It has no sense to try to represent us through photographic resemblance , but through our passionate expressions” he wrote in Willemien June 5, 1890 . In this way his  self-portraits and portraits are full of painful , burning , truth , like that of Dr. Gachet , with  amelancholy look while his mouth makes a face .

After internment  in Saint Remy ( 1890), Dr Gachet is the doctor to whom Van Gogh had entrusted his last hopes , while the psychic crisis became violent. “Dr. Gachet gave me the impression of being rather eccentric ,”Vincent van Gogh wrote to Theo on May 20, 1890. ” It seems to me confused and sick as you and me.” As a doctor, psychiatrist Gachet said may times to Van Gogh not to worry, according to him  Van Gogh’s crises were nothhing serious. On July 29, 1890 Van Gogh shot himself . In the book  Who Killed Vincent van Gogh ? ( Skira ) the historian Pierre Cabanne writes that the coldness and helplessness therapeutic Gachet helped to determine Van Gogh’s tragic gesture.

  (Simona Maggiorelli for weekly magazine Left)

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Arte e pazzia.Un lungo equivoco

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 8, 2013

Antonio Ligabue, Tigre con ragno (1953)

Antonio Ligabue, Tigre con ragno (1953)

Istinto, genialità, follia è il sottotitolo della retrospettiva che il LuCCA dedica, fino al 9 giugno, alla pittura di Antonio Ligabue (1899 – 1965). Unendo tre parole che insieme, con tutta evidenza, non possono stare. Qui (a Lucca) come al Mar Di Ravenna dove prosegue fino al 16 giugno la mostra Borderline, artisti fra normalità e follia, da Bosch a Basquiat, vediamo all’opera uno dei luoghi comuni antiscientifici più duri a morire nel mondo dell’arte. Quello che la malattia mentale possa essere fonte di creatività.

Un“equivoco” di matrice esistenzialista e foucaultiana che nel mondo della cultura italiana, in particolare, è stato diffuso da Basaglia e dal basaglismo che ancora celebra Marco cavallo. E che ha sempre negato l’esistenza della malattia mentale, considerandola un modo di essere “diverso”, originale, ribelle, ignorando il “dolore psichico” dei pazienti e rinunciando ad ogni proposito di cura. Ma forse si può dire di più. Dietro alle fantasmagorie surrealiste e alla fatua euforia di Breton, dietro all’esaltazione della dell’Art brut, come delle ossessive incisioni che un pazzo fece sulle mura del manicomio di Volterra fa capolino un medesimo pensiero che ha origine negli assunti ottocenteschi e razzisti di Cesare Lombroso, autore di Genio e follia. Senza dimenticare che un ruolo primario nella costruzione di questo falso binomio lo ebbe Karl Jaspers che in Psicologia delle visioni del mondo nel 1919 descriveva la pazzia come una forma di esistenza particolare, non come patologia.

Un pensiero che nel 1921 portò lo psichiatra Morgenthaler a scambiare per opere d’arte le allucinazioni di uno schizofrenico e pedofilo come Wölfli. Esattamente un anno dopo, Jaspers, pensatore esistenzialista e a lungo sodale di Heidegger, in un celebre saggio su Van Gogh scrisse che la schizofrenia nell’artista olandese aveva scatenato in lui forze prima inibite determinando «un plus di creatività». Negando così totalmente la fantasia di questo straordinario artista che ha saputo realizzare capolavori universali nonostante la distruttività delle sue crisi.

Con alcuni distinguo, anche il curatore Maurizio Vanni, con il neuropsichiatra Giuseppe Amadei, ripropone queste vecchie idee (sconfessate dalla moderna psichiatria) proponendo al LuCCA ottanta opere di Ligabue in un percorso «che vuole indagare l’uomo-artista insieme al rapporto tra arte e pazzia». In primo piano – si legge nei testi che accompagnano la mostra – «l’aspetto espressionistico del segno e del colore di Ligabue, quello onirico e quello primitivo nella conformazione delle strutture, l’emozione legata all’uso incondizionato del suo emisfero destro, inerente all’istinto, all’eros e all’irrazionalità». Un guazzabuglio di parole, in cui le neuroscienze si sposano alla fantasticheria di un irrazionale animale. A quanto pare nel mondo dell’arte c’è ancora molto da discutere e approfondire su questi temi. Benvengano dunque iniziative come quella del Festival Per Appiam 13 che l’8 giugno, a Roma, invita psichiatri e artisti a confrontarsi su arte e creatività. In modo nuovo. (Simona Maggiorelli)

 

NEWS_141345L’APPUNTAMENTO. Arte e psichiatria . Gli artisti sono vittime di una serie di luoghi comuni che associano le persone dotate di un talento particolare alla follia. Genio e sregolatezza. Creatività e distruttività. E se è vero che l’arte per essere tale e veramente innovativa si deve differenziare da una normalità, questo scostamento dalla norma è sempre stato pensato in senso negativo. Ovvero fare qualcosa di diverso dal comune significherebbe impazzire. Ma è proprio vero che gli artisti sono tutti pazzi e che la malattia mentale sia fonte di creatività? Da dove viene questa idea? Su quali basi storiche e filosofiche si basa? Quando il genere umano ha iniziato a fare arte? E perché?

Per rispondere a queste e altre domande tre psichiatri-psicoterapeuti e tre esperti a vario titolo delle manifestazioni artistiche del pensiero sono i protagonisti nella Sala Conferenze della Ex Cartiera Latina (sabato 8 giugno, ore 17) del primo Convegno sul rapporto tra arte e psichiatria dal titolo “Psiche e Arte”. Luca Giorgini (psichiatra), Fulvio Iannaco (docente di filosofia e blogger), Ugo Tonietti (architetto), Daniela Polese (psichiatra), Simona Maggiorelli (caporedattore cultura e scienza Left) ed Eva Gebhardt (psichiatra) si interrogano e interrogano l’opera e la vita degli artisti cercando delle risposte in quello che più che un convegno si vuole costituire come un occasione di ricerca. Perché si potrebbe scoprire che l’arte può servire alla psichiatria e non viceversa e che l’opera di artisti geniali possa costituire il mezzo per scoprire la fisiologia della mente e non la malattia.

«Si potrebbe scoprire – dicono Giorgini e Gebhardt, curatori dell’evento – che in passato la medicina della mente ha dimostrato una sostanziale impotenza quando non una aperta aggressione nei confronti degli artisti. Si potrebbe raccontare una storia diversa». A partendo dalla comune associazione tra arte e pazzia, spiega Giorgini «ci si interroga sulla funzione dell’artista nella società e sulle motivazioni per le quali è quasi sempre la società a porre ai suoi margini gli artisti. Si indagano, poi, le possibili risposte emotive esperite di fronte all’opera d’arte con particolare attenzione alle reazioni patologiche». «L’arte non si cura» osserva a sua volta Gebhardt e aggiunge: «Partendo dal fatto evidente che fare arte è un espressione irrazionale dell’essere umano, l’autrice cerca di evidenziare che l’artista essendo irrazionale non è pazzo per definizione, ma che anche lui, come qualsiasi altro, può ammalarsi. Da qui la denuncia di una psichiatria che non è mai riuscita a dare risposte al malessere degli artisti quando è accaduto che questi chiedessero aiuto, ma che al contrario ha rafforzato il pregiudizio millenario di una indissolubile associazione del binomio arte-pazzia contribuendo in questo modo alla violenza perpetrata sugli artisti».
Il convegno Pische e Arte si svolge nell’ambito dl festival Per Appiam ’13 – organizzato dall’associazione Ipazia Immaginepensiero con il patrocinio dell’Ente Parco Regionale dell’Appia Antica – che ruota intorno alla mostra d’arte “Tu sei il mio volto” curata dalla pittrice-filosofa Roberta Pugno (fino al 16 giugno 2013).

Eleonor Purring

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Amsterdam festeggia Van Gogh

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 30, 2013

VanGogh-starry_night_ballance1Per i 160 anni dalla nascita del genio olandese riaprono il Rijksmuseum e Van Gogh Museum. Con una attesa mostra Van Gogh at work

di Simona Maggiorelli

Buon compleanno Vincent van Gogh! ( 30 marzo 1853- 29 luglio 1890). In occasione dei 160 anni dalla sua nascita, Amsterdamsi appresta a festeggiarlo con l’attesa mostra Van Gogh at work e la riapertura del Van Gogh Museum, chiuso per restauri dal settembre scorso. Ma non solo.

Il 13 aprile riapre dopo anni un gioiello storico come il Rijksmuseum, epicentro culturale della capitale olandese e raffinato scrigno che ora tornerà a ospitare capolavori di Van Gogh accanto a quelli di Rembrandt di Vermeer e alle opere di tanti altri  protagonisti della storia dell’arte olandese.

Ma procediamo con ordine, cominciando dalla mostra Van Gogh at work che annuncia novità anche per gli studiosi. Frutto di sette anni di ricerche, l’esposizione ricostruisce i rapporti con gli artisti coevi a questo straordinario artista che rivoluzionò la pittura nell’ultimo scorcio dell’Ottocento mandando definitivamente in soffitta la mimesis e la raffigurazione della realtà in termini razionali e oggettivi.

Van Gogh at work

Van Gogh at work

La forza espressiva del colore, una visione onirica e potente, la capacità di creare immagini senza aver bisogno dell’ impalcatura del disegno fanno la cifra personale e originalissima di questo immenso pittore che non conobbe maestri  in senso stretto né allievi. Un’originalità ineguagliabile la sua, frutto di un percorso solitario, ma non avulso dal confronto con il mondo dell’arte  che lo circondava.

Van Gogh è stato spesso considerato genio solitario,  solipsisticamente chiuso nel proprio tormentato mondo interiore, “in realtà – spiega la curatrice Marije Vellekoop nel catalogo  in uscita per la Yale University Press – studiava intensamente le novità che emergevano al suo tempo, si cimentava con varie tecniche, scambiava idee e discuteva con i colleghi”. Insomma Van Gogh fu un genio assoluto, nonostante la malattia mentale; aveva un talento immenso, ma non era affatto un artista incolto e selvaggio. Anzi si impegnava costantemente per fare progressi e imparò a padroneggiare una grande molteplicità di tecniche artistiche in modo da potersi esprimere  in modo pieno, liberamente.

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Il falso mito genio-pazzia

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 21, 2013

Klee (1939)

Klee (1939)

Prometteva un approccio nuovo al tema arte e follia la mostra Borderline aperta dal 17 febbraio al Mar di Ravenna, curata da Claudio Spadoni. Lo lasciava pensare l’incipit del saggio di Giorgio Bedoni pubblicato nel catalogo Gabriele Mazzotta Edizioni che accompagna la rassegna, che fino al 16 giugno, presenta in Italia più di un centinaio di opere da collezioni private e pubbliche, fra le quali anche quadri come Ritratto di uomo (Homo melancholicus) e Le medecin chef de l’asile de Bouffon di Gericault e poi acqueforti, acquetinte e puntesecche di Goya dedicate al tema della pazzia, ma anche tele di Francis Bacon, come Untitled (Head) del 1949, finalmente inclusa in un percorso che ne permette la lettura nei termini di raffigurazione di soggetti affetti da malattia mentale e non come rappresentazione di quella che, secondo certa critica esistenzialista, sarebbe una condizione di angoscia e di lacerazione interiore originaria della condizione umana.

«Dobbiamo a Théodore Géricault, pittore romantico dai molti generi, una galleria tipologica davvero inusuale nella storia dell’arte europea, capace di indagare, con lo spirito sistematico di un alienista, le diverse sembianze della follia», scrive Bedoni nel suo intervento. Ma poi, perdendo di vista e quasi cancellando la preziosa distinzione fra artisti che rappresentano alienati (come aveva fatto magistralmente anche Velàzquez) e malati di mente che realizzano immagini che si possono leggere come sintomi, Bedoni, con Sarah Lombardi, si lancia in una confusa esaltazione dell’artista che esula dalla norma perché pazzo, come colui che attraverso la malattia avrebbe accesso a una visione creativa. Pregiudizio duro a morire quello che vorrebbe che esistesse un nesso fra arte e pazzia, falso mito che Karl Jaspers nel 1922 contribuì a consolidare con un libro su Van Gogh. (Genio e follia, Raffello Cortina)

. Ed ecco che a Ravenna troviamo ancora una volta – dopo la mostra di Vittorio Sgarbi a Siena -, l’esaltazione della schizofrenia di Adolf Wölfli, scambiata per espressione di originalità artistica. E la riproposizione dell’Art brut, espressione coniata da Jean Dubuffet nel 1945, come frontiera di avanguardia. Nonostante la psichiatria abbia chiarito da tempo che nella pazzia non c’è creatività, ma solo ripetizione e meccanicità patologica, non c’è un linguaggio artistico universale. E invece la mostra Borderline torna ad accostare ciò che non si può in nessun modo accostare, ovvero il mondo interiore dei bambini e le immagini irrazionali e creative di artisti come Van Gogh, Cézanne e Picasso con espressioni di psicopatologiche bizzarre, strane, ma assolutamente prive di fantasia e di vera originalità. Ed ecco anche le fantasmagorie di Max Ernst, Salvador Dalì, Andrè Masson e altri surrealisti, spacciate qui, ancora una volta come rappresentazioni oniriche, quando al più sono trascrizioni razionali, descrizioni disseccate e sterili del mondo di immagini che viviamo di notte. Mentre si celebra la bellezza surrealista che, secondo Breton, consisteva nello scendere in strada, con la pistola e sparare a caso sulla folla. (Simona Maggiorelli)

da left-avvenimenti

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Il fascino della vita zingara

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 13, 2013

Van Gogh, la carovana degli zingari vicinoad Arles (1988)

Van Gogh, La carovana degli zingari vicino ad Arles (1888)

di Simona Maggiorelli

Ultimi giorni per vedere una mostra  affascinante come Bohèmes al Grand Palais di Parigi. Di fatto due esposizioni in una: la prima dedicata alla cultura zingara e l’altra alla vita ribelle di quegli artisti che nell’Ottocento sceglievano di vivere come nomadi, per una esigenza di libertà interiore, di ricerca, per un netto rifiuto di una società borghese sempre più positivista e basata solo sul calcolo e sul guadagno.

Merito del curatore Sylvain Amic è aver voluto esplicitare questo nesso che percorre come un fiume carsico la pittura più viva e fertile del XIX secolo.

Ma anche, e ben più tragicamente, il Novecento quando zingari e artisti d’avanguardia, bollati come degenerati, furono perseguitati dal nazismo.

Attraverso un centinaio di opere e inanellando capolavori di artisti dai linguaggi espressivi assai diversi – da Corot a  Courbet da Van Gogh a Turner e oltre – la mostra Bohèmes ( aperta fino al 14 gennaio) mette a fuoco un modo di intendere la pittura che si ribellava agli accademismi, all’establishment cristallizzato, recuperando una struggente e viva sensibilità, vissuta a fior di pelle. Raccontando come gli emarginati, i vagabondi, gli anarchici e gli artisti che sfidavano la società ricca e inerte si trovarono idealmente ad incontrarsi.

Sotto la cupola trasparente del Grand Palais, il percorso espositivo inizia, non a caso, con immagini di zingari visti attraverso lo sguardo dei grandi maestri, da quelli immaginifici disegnati da Leonardo da Vinci in un disegno conservato a Londra, alle scene di vita in carovana raffigurate analiticamente nelle incisioni di Callot, fino ai nomadi ritratti come soggetti “esotici” da Delacroix.

Courbet, Lhomme à la pipe (1846)

Courbet, Lhomme à la pipe (1846)

Fin dal Medioevo gli zingari venivano chiamati “egiziani”, erano trattati con diffidenza per i loro furti e al tempo stesso ammirati per la loro libertà. Il fascino romantico dell’Oriente rafforzò questa visione. Così ecco pittori come Dehodencq, ma anche come innovatori radicali come Manet che si lasciarono ispirare dagli zingari di Spagna. Mentre Diaz de la Peña, Bellet e Poisat si fecero quasi etnografi per raccontarne la vita.

Il vento del socialismo  influì sulle menti più aperte della Bohème. Portando Van Gogh sulla strada di Corot e dell’epica degli umili, per quanto intrisa di religiosità spartana e protestante. Sul versante più tipicamente romantico spicca, invece, Gustave Courbet, l’autore dello “scandaloso” L’origine del mondo e del Manifesto del bohèmien, superbamente rappresentato in mostra dal celebre autoritratto con la pipa del 1846, non solo dal più teatrale ritratto in cui appare con lo sguardo sgranato, come colto di sorpresa da una realtà nuova e sconvolgente.

Un modo di intendere la Bohème,  quello di Courbet, che trovò assonanze nei versi di Baudelaire e fu reso estremo e maudit da Rimbaud e Verlaine. Transitando poi nella prima avanguardia delle folli notti parigine, di arte, amori e assenzio, raccontate da Degas e vissute fino a rimetterci la pelle da  Modigliani e Toulouse-Lautrec.  A percorrere l’intera mostra sono giochi di assonanze, “corrispondenze di amorosi sensi”, ma anche scivoloni nel melodramma. Basta pensare alla Bohème di Murger a cui si ispirò Puccini.

 

dal settimanale left-avvenimenti 12 gennaio 2013

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Oltre il ritratto

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 2, 2012

Dal potente realismo di  Mantegna alle irruenti scomposizioni di Picasso. Cento capolavori,  in mostra aVicenza, in un suggestivo excursus sui modi di rappresentare volti, sguardi, persone. Dal Quattrocento al Novecento

di Simona Maggiorelli

Picasso, l'Italiana, 1917

Picasso, l’Italiana, 1917

L’arte del ritratto è fra le più antiche d’ Occidente e, nel corso dei secoli, ha conosciuto enormi mutamenti, fino a diventare altro di sé, rinnovandosi completamente, in coincidenza con la scoperta del mezzo fotografico. Dall’Ottocento in poi il ritratto dipinto perde ogni necessità descrittiva, si affranca dalla piatta visione retinica, lasciando emergere sulla tela qualcosa di più profondo: una forma latente, alludendo a quell’immagine interiore che rende vitale, mobile, espressivo, unico e irripetibile,  un volto umano.

Lo sapevano bene gli artisti delle avanguardie storiche e prima ancora i pittori coevi al  fotografo francese Nadar. Ma non solo.

Arrotolando il filo del tempo già in Rembrandt si trova traccia di questa ricerca di un’immagine pittorica profonda e vibrante, libera dalla mimesis; un’immagine che il pittore olandese nei ritratti (e negli autoritratti) rendeva sfocata e sfuggente. E per questo più intensa e allusiva. Lasciando trasparire il mondo interiore del soggetto rappresentato.

Ad aprirgli la strada era stato lo sfumato di Leonardo da Vinci, ma anche il ductus nervoso e inquieto di Albrecht Dürer. Insieme alle atmosfere malinconiche e seducenti che avvolgono certi ritratti di Giorgione.

Giorgione, ritratto di giovane

Giorgione, ritratto di giovane

Come il suo misterioso Ritratto di giovane (1510) conservato a Budapest. Che insieme all’inquieto Ritratto di giovane (1500-1510) di Dürer e ai ritratti degli Elison (1634) di Rembrandt costituiscono l’asse portante della mostra Raffaello verso Picasso, storie di sguardi, volti e figure , aperta fino al 20 gennaio 2013  nella restaurata Basilica Palladiana di Vicenza, squadernando un centinaio di opere (e fra queste molti capolavori) di pittori come  Mantegna, Bellini, Giorgione, Dürer, Cranach, Tiziano, El Greco, Rembrandt, Caravaggio, Velàzquez, Goya, per arrivare ad assoluti “fuori classe” del ritratto come lo furono nella svolta fra Ottocento e Novecento – in maniera diversissima fra loro e originale – Van Gogh, Cézanne, Matisse e Picasso.

Ancora una volta,  il curatore Marco Goldin tenta un’impresa colossale, costruendo un percorso espositivo fatto di opere eccezionali per avventurarsi in un suggestivo excursus sull’evoluzione della “forma-ritratto”, a partire dal Quattrocento e fino al Novecento inoltrato. Un’impresa immane, ma inattaccabile dal punto di vista della qualità delle opere esposte.

L’incipit della mostra è dedicato alla ritrattistica ufficiale rinascimentale, fra tentativi quattrocenteschi di innovare rispetto alla stereotipia delle raffigurazioni sacre e opere più celebrative e cristallizzate; un’arte rinascimentale che nel Cinquecento sarà percorsa dalle improvvise rotture di artisti iconoclasti come Pontormo e Rosso Fiorentino.

Van Gogh la Berceuse

Van Gogh la Berceuse

Riscoprendo parallelamente il genio di pittori come Jacopo e Giovanni Bellini, inventori del colorismo veneto e capaci- entro il canone rigido delle pale religiose – di dare un volto sensibile e vivo anche alla Madonna, secondo tradizione,  icona glaciale.

Il climax emozionale della mostra, almeno per chi scrive,  tocca l’apice nella sezione dedicata alle avanguardie storiche dove s’incontrano un potente autoritratto di Van Gogh del 1887-1888 e il flusso di giallo screziato di rosso e il verde brillante con cui il pittore olandese “costruì” La Berceuse (1889).  E se il ritratto per Van Gogh diventa visione sfrangiata di un’immagine interiore costruita con vorticoso colore, per Cézanne è quella sottile deformazione delle forme a  comunicare allo spettatore il senso profondo del ritratto che il pittore di Aix ci propone; qui è quello del padre dell’artista  tradotto in una visione  carica di affetti e che sembra restituirci ciò che si muove nel suo intimo .

Picasso dichiarava di non aver avuto maestri. Eccetto Cézanne. E prendendo forza dalla visione onirica di Cézanne fece il grande salto, arrivando a scomporre la figura ritratta secondo piani intersecanti e che offrono una pluralità di punti di vista in contemporanea. Nascono così i suoi acuti e spietati ritratti di Dora Maar. Ma anche quelli più sognanti della bionda Marie Thérese.  Immagini irrazionali, oniriche, ma che non sono mai la trascrizione di sogni come pretendevano di fare i Surrealisti. Sono creazione di immagini che offrono una visione nuova e dirompente del soggetto ritratto.

 

dal settimanale Left-Avvenimenti

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Arte cinese. Paesaggi del mondo interiore

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 6, 2012

di Simona Maggiorelli

Ma Yuan, paesaggio

Mentre a Roma (con la rassegna Ad Oriente) e al Must di Lucca due mostre raccontano, da differenti punti di vista, la storia dell’antica Via della seta, Electa pubblica l’edizione italiana di Pittura cinese dal V al XIX secolo: un affascinante viaggio attraverso i capolavori che hanno connotato le varie epoche della Cina imperiale, dalle pitture parietali nelle grotte medievali di Gansu fino alle raffinate opere di pittura e calligrafia con cui artisti cinesi dell’Ottocento hanno raggiunto vette espressive altissime, realizzando entro una tradizione fortemente codificata, stili personali unici e originali.

Proprio la tensione sotterranea fra la rigidità di un canone che per secoli ha imposto un repertorio stabile di immagini e l’esigenza degli artisti di esprimere liberamente la propria creatività caratterizza la storia dell’arte cinese punteggiata – come ci racconta questo importante volume curato da Zheng Xinmiao – da opere straordinariamente vibranti, cariche di energia, nonostante l’assonanza delle forme che, a tutta prima, colpisce uno sguardo superficiale.

Ma basta approfondire la conoscenza, lasciandosi prendere dal piacere della scoperta di questa cultura così diversa dalla nostra, per rendersi conto di quanto complessa e variegata sia la millenaria tradizione delle arti del pennello in cui la calligrafia equivale alla pittura ed entrambe si incontrano con la poesia. In una suggestiva sinergia di segno, suono e immagine.

Guo art, dame cavalieri a passeggio, periodo Tang

La tradizione orientale, infatti, non valorizza solo la perizia nell’uso del pennello morbido dalla punta acuminata (per modulare la linea) ma anche la fluidità del gesto pittorico e soprattutto la capacità dell’artista di esprimere attraverso segni e forme la ricchezza e la vitalità del proprio mondo interno. Secondo l’insegnamento della filosofia buddista di cui era intrisa l’arte medievale cinese, soprattutto nelle regioni che avevano più stretti contatti con l’India.

Proprio in questa koinè fiorirono i complessi rupestri di Gansu e in particolare le grotte affrescate di Mogao e Dunhuang con i loro 45mila metri quadri di pitture mozzafiato, in cui spiccano eleganti composizioni di cavalli bianchi su sfondo marrone e scintillanti scene corali in cui si racconta la visione di mille Buddha d’oro sul monte Mingsha.

Questa pittura rupestre, detta Ruru Jataka, risale al 366 ed è una delle più antiche all’interno di una serie di grotte scavate nella roccia e decorate. Proprio da qui parte il viaggio di seicento pagine, fra scritti e illustrazioni (di altissima qualità), che Zheng Xinmiao ha stilato con la collaborazione di un team di studiosi; un immaginifico viaggio lungo cui presto si incontra uno dei massimi classici della pittura cinese medievale, La ninfa del fiume Luo, un dipinto ad episodi, in colori brillanti, in cui il pittore Gu Kaizhi (344-405) narrava per immagini il poema amoroso di Cao Zhi dedicato alla perdita della dama amata e alla ricomparsa della sua immagine in sogno.

Pittura cinese, ElectaImpossibile dare conto qui della ricchezza di tutti i percorsi suggeriti da questa opera monumentale, ma certo non si può non accennare a quel duraturo filone di pittura di paesaggio cinese, che insieme, alle stampe giapponesi, a partire dall’esposizione universale di Parigi colpì profondamente outsiders come Van Gogh e Lautrec e poi la fantasia di molti protagonisti delle avanguardie del Novecento, da Matisse a Picasso, da Rohtko a Pollock. Pittura cinese dal V al XIX secolo pone l’accento in particolare sul significato intimo e poetico di questo tipo di pittura portata ai massimi vertici da una cerchia di pittori intellettuali intorno all’anno mille, durante la dinastia Song (960-1279) e, soprattutto, sotto la dinastia Yuan dopo la conquista della Cina da parte del mongolo Kublai Khan, quando all’elite intellettuale cinese fu impedita la carriera burocratica nell’impero e molti si dettero a una pittura raffinata che evocava immagini di ritiro dalla vita mondana, di otium dedicato alla poesia e alla musica.

Generi che risuonano profondamente in questa pittura di paesaggio, spesso monocroma, essenziale ed allusiva, che diventava la via principe per esprimere il proprio universo interiore. Nascono così, in un sincretismo laico, tipicamente cinese, fra buddismo, daoismo e confucianesimo, vedute realizzate con stili grafici diversi, che vanno dall’uso spigoloso della linea, cosiddetto “a colpi d’ascia”, tipico di Ma Yuan (1140-1195) e della sua famiglia di pittori alla corte Song fino allo stile introverso e chiaroscurale di artisti del Cinquecento come Xu Wei (1521-1593) e alle linee arcaicizzanti con sfumature in azzurrite e malachite di Lang Ying (1585-1644) del tardo periodo Ming.

Wang Mian pruno in fiore

A fare da filo rosso a questo ricco sviluppo della pittura di paesaggio è il concetto di “Qi”, «il ritmo vibrante dell’energia universale» che l’artista deve saper infondere alle proprie immagini d’inchiostro sulla carta o dipinte su tela, su seta o su altri supporti preziosi. Nascono così straordinari paesaggi “in movimento” che rappresentano il flusso incessante della vita naturale e la tessitura dinamica degli elementi. Suscitando emozioni in chi guarda come se il pittore avesse alienato qualcosa della propria immagine interiore in quelle vedute angolate, scorci vertiginosi, inaspettati germogli o lussureggianti fioriture. «Parliamo di un tipo di pittura in cui il macrocosmo corrisponde al microcosmo- fa notare Nicoletta Celli autrice della voce arte e archeologia dell’enciclopedia Einaudi dedicata alla Cina -. Di una pittura, cioè in cui il paesaggio diventa metafora della rappresentazione dell’interiorità umana e dell’invisibile».

da left-avvenimenti

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La bella follia di inizio Novecento

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 7, 2011

In mostra a Ferrara l’avanguardia che segnò una svolta storica. Da Matisse a Modigliani a Picasso, quando Parigi era fucina creativa di talenti

di Simona Maggiorelli

Modigliani Nudo 1917

Un Monet come non te lo saresti mai aspettato, scuro, vibrante, potente nel reinventare radicalmente la solita visione di un ponte sulle ninfee,  apre la danza de Gli anni folli, la mostra aperta fino all’8 gennaio in Palazzo Diamanti a Ferrara. Dando il la ad una esposizione che si offre come un appassionato viaggio nella Parigi di inizio Novecento, quando la capitale francese era una un’autentica fucina di talenti e di nuove tendenze. La rivoluzione del colore compiuta da Van Gogh in soli dieci anni, davvero brucianti, era appena alle spalle.

E ancora forte sui giovani artisti di Montparnasse e di Montmatre era l’influenza di Cézanne, il fascino delle sue figure oniriche e deformate, dalle braccia lunghissime. Pur venendo da esperienze diversissime, e avendo sviluppato poetiche quanto mai distanti, i due maestri avevano inaugurato una ricerca e un modo nuovo di dipingere che, per la prima volta, dopo più di un secolo di rigida pittura d’accademia, superava la visione piatta e razionale della realtà.

Picasso, 1924

Perfino Claude Monet, negli ultimi anni, ebbe inaspettatamente il coraggio di rimettersi in discussione e di riaprire i giochi della ricerca a partire dalla pennellata densa e materica di Van Gogh e dalle forme solide eppure senza contorni di Cézanne

Ci invita a pensarlo anche questa tela di Monet che arde di verdi, marroni e viola, questo Ponte giapponese a Giverny a cui il pittore impressionista lavorò tra il 1918 e il 1924 e che la curatrice, Maria Luisa Pacelli, ha scelto significativamente come incipit di questa collettiva che ripercorre tutto l’arco fra le due guerre.

E l’eco della solitaria ricerca di Cézanne (che era morto nel 1906) si avverte fortissima anche nell’evidenza plastica, quasi scultorea e tridimensionale, dei ritratti di Amedeo Modigliani, che proprio negli anni della bohème parigina, a contatto con artisti immigrati da tutto il mondo e studiando le opere del maestro di Aix-en Provence, riuscì a realizzare un proprio linguaggio originale, liberandosi del provincialismo macchiaiolo assorbito durante la prima formazione livornese. A Ferrara, oltre al celebre nudo del 1917 conservato al Guggenheim Museum di New York, si può vedere un raro e solare ritratto di fanciullo, Ragazzo con pantaloni corti (1918) proveniente da Dallas, che dallo sgabello dove è seduto sembra scivolare in avanti verso lo spettatore, come il celebre ritratto della moglie di Cézanne. Ma per ricreare l’aria di libertà e di fermento creativo che si respirava nella Parigi di inizio Novecento non potevano mancare in mostra anche alcune testimonianze della stagione cubista: opere pittoriche di Georges Braque, di Juan Gris e dei più tardivi Fernand Léger e Robert Delaunay che ( qui come del resto nei grandi musei di Parigi ) finiscono per sembrare degli esercizi di stile se paragonate alla potenza espressiva delle figure decostruite e scomposte  di Picasso. Accade qui per un tardivo Tavolino rotondo di Braque degli anni Venti e che le curatrici della mostra hanno messo crudelmente a confronto con una coeva natura morta di Picasso, in cui  gli oggetti appaiono stagliati su due diverse tonalità di fondo rosso, tracciati da linee nere, nette come incisioni sulla tela.  In quegli anni Venti, però, anche Picasso avrebbe risentito di un generale e torvo vento di riflusso che lo avrebbe portato a rifugiarsi in matronali figure femminili che paiono scimmiottare l’antico (Maternità, 1921). Per lui sarà solo la crisi di un momento. Non così per Derain, per Campigli, Severini e certo De Chirico che, nel calco dall’antico, caddero senza un filo di ironia. Mentre i surrealisti deviarono verso sogni iperlucidi, bizzarrie gelide e senza fantasia.

da left-avvenimenti

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Riscoprire Tancredi

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 14, 2011

Una parabola artistica breve e quanto mai intensa. Prima di quel salto dal parapetto, a soli 37 anni. Nella sua città natale, Feltre, una mostra invita a studiare l’opera di Tancredi. A cominciare dalla sua opera grafica a cui lui dava grande importanza come mezzo per arrivare a rappresentare la profondità dell’essere umano.

di Simona Maggiorelli

un'opera di Tancredi esposta a Feltre

Corpose pennellate dai forti contrasti cromatici, con un effetto quasi da action painting. Ma il drammatico uso dei neri di Trancredi tradisce ben altra fonte, e più impegnata, di quella dell’americano Jackson Pollock (che il pittore veneto conobbe alla Biennale di Venezia del 1948).

Il suo vero maestro di pittura astratta fu piuttosto Emilio Vedova, incontrato da giovanissimo, dopo l’esperienza partigiana. Anche da questa amicizia nacque l’adesione di Tancredi al Fronte nuovo delle arti che a Venezia si batteva contro l’opprimente autarchia della cultura fascista.

Ma poco più che adolescente il pittore di Feltre era anche andato alla scuola di nudo di un altro maestro dell’arte italiana che aveva intensamente preso parte alla Resistenza: Armando Pizzinato. Con lui Tancredi condivideva l’amore per le esplosioni pittoriche di Tiziano e per le deflagrazioni di luce di Tintoretto. Ma non la scelta figurativa che portò Pizzinato a restare vicino alle forme del realismo socialista. Inquieto, informato su tutte le novità di rango internazionale, a cominciare dal cubismo, nella sua breve vita e nei dieci, folgoranti, anni di carriera come pittore, non smise mai di sperimentare. Dai primi autoritratti tormentati, di profondo scavo psicologico e realizzati con pennellate materiche alla Van Gogh, fino agli ultimi essenziali disegni, in cui si può leggere in filigrana i segni di quella corrosiva  malattia  interiore che lo portò, a 37 anni, a gettarsi nel Tevere.

Lo racconta la bella mostra che la Galleria d’arte moderna di Feltre gli dedica fino al 28 agosto e affidata alla cura di Luca Massimo Barbero. Una retrospettiva che raccoglie un centinaio di opere fra dipinti e disegni  accompagnata da un catalogo Silvana editoriale, denso di contributi critici significativi, a cominciare da quelli firmati dallo stesso Barbero, da Fabrizio D’Amico e da Francesca Pola. Ed proprio la studiosa a riportare in primo piano un aspetto della produzione di Tancredi spesso rimasto in ombra: la sua ricca produzione grafica. Tancredi disegnava ovunque. Sulla carta da pacchi (merce rara in tempo di guerra), sul retro di fatture e perfino su tovaglioli. Regalando poi lo schizzo a chi gli stava seduto accanto a tavola. Lo strumento grafico era quello che sentiva più efficace nell’arrivare a una forma sintetica. Perlopiù si trattava di ritratti dalle figure deformate,  plastiche, ma senza ombreggiature. Realizzati con una linea continua, che non conosce soluzioni di continuità. «Era profondamente convinto – scrive Pola – che questo fosse il modo per esprimere il contenuto umano più profondo».

da left-avvenimenti

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