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Ala al Aswani: La rivoluzione? E’ solo umana

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 28, 2011

Durante l’occupazione di piazza Tahrir al Cairo faceva ogni notte un comizio dialogando con la gente, ragionando sulle prospettive della rivoluzione e provando a fare i conti con la paura dei cecchini. Medico e scrittore, ‘Ala al Aswani è l’autore di capolavori come Palazzo Yacobian. Dopo l’appuntamento a Mantovaletteratura è in tour in Italia per presentare il suonuovo libro: La rivoluzione egiziana , da poco uscito per Feltrinelli.

Simona Maggiorelli

Ala Al Aswani

Da sempre critico verso il regime di Mubarak e suo strenuo oppositore, lo scrittore e medico egiziano ‘Ala al-Aswani (autore di potenti affreschi della società egiziana come Palazzo Yacoubian) durante la rivoluzione del Cairo ha trascorso quasi tutte le sue notti in piazza Tahrir, facendo comizi e cercando di «dare una mano a chi dal basso organizzava la protesta. Il mio compito – racconta a left lo scrittore – era quello di sviluppare la discussione su questioni di giustizia sociale e  diritti, ma anche di raccogliere le preoccupazioni e le paure della piazza». Paure che si sono fatte rischio concreto di vita quando i cecchini di Mubarak hanno cominciato a sparare con armi ad alta precisione. «Ogni volta che vedevi il laser fermarsi su un punto della piazza sapevi che una vita umana era stata stroncata con un colpo alla testa – dice Al Aswani-.  Ma quel 28 gennaio, quando hanno cominciato a sparare sulla folla, abbiamo avuto anche la certezza che da quel momento il regime era finito», chiosa lo scrittore in tour in Italia per presentare il suo “diario” da piazza Tahrir, una raccolta di articoli apparsi sulla stampa indipendente e ora pubblicati da Feltrinelli con il titolo La rivoluzione egiziana.
«Io non penso di essere una persona particolare, né tanto meno uno sprezzante del rischio. Ma in quella piazza ho sperimentato uno strano fenomeno che alcuni studi – ho letto poi- descrivono come tipico delle rivoluzioni: quando ti trovi in mezzo a eventi storici di questa portata non ragioni più in termini di pericolo individuale, ma valuti le cose nella prospettiva del “noi”».

piazza Tahrir

Ripensando oggi a quelle settimane, dopo che Mubarak è stato deposto ed è finito in tribunale, «la rivoluzione- dice al-Aswani – mi pare ancor più un sogno ad occhi aperti. Vedere gli egiziani ribellarsi alle umiliazioni inflitte dalla dittatura, alzare la testa e lottare con grande dignità è stata una delle cose più belle per me». Nel frattempo ’Ala al-Aswani al Cairo continua a scrivere articoli e a tenere aperto il suo studio di medico e di dentista, da alcuni anni diventato anche luogo di incontro fra intellettuali dissidenti. Mentre l’eccezionalità della congiuntura ha fatto momentaneamente scivolare in secondo piano la sua attività di romanziere, dagli anni Novanta noto in tutto il mondo per la sua capacità di dare voce a una società egiziana negli ultimi anni diventata sempre più povera e oppressa, senza prospettiva.

«Gli egiziani non sono diversi da altri popoli che abbiano subito una dittatura – spiega al-Aswani-, non sono differenti dagli spagnoli sotto Franco o dai sovietici sotto Stalin. Un dittatore non ha mai doti, gli basta uccidere e torturare. Magari vestendo la maschera di padre della patria. E il risultato è che la gente precipita in uno stato di minorità, è prostrata, fiaccata nell’iniziativa. Ma c’è un momento in cui la frustrazione arriva al top e bastano poche scintille perché scoppi la rivolta. Così – aggiunge Al Aswani  sorridendo – da un giorno all’altro ho visto tutti i miei personaggi di Palazzo Yacoubian scrollarsi da dosso l’inerzia e scendere in strada per protestare».
Per piazza Tahrir quale è stata la scintilla decisiva? «Tre sono stati i momenti salienti: il primo risale al 2008, al grande sciopero organizzato da una rete di attiviste che toccò molto l’opinione pubblica. Nel 2010 poi c’è stato il barbaro omicidio di Khaled Said, un ragazzo di 28 anni, ucciso dalle forze dell’ordine, senza un movente, senza che lui avesse mai aderito a gruppi di protesta né fatto attività politica. Quel crimine – spiega al-Aswani – ha fatto capire a molti egiziani che, anche abbassando la testa, standosene ai margini, non si era più al sicuro dalla violenza del regime. Poi ci sono stati i brogli delle elezioni di novembre che, ancora una volta, hanno dato la maggioranza assoluta del Parlamento a Mubarak: la goccia che ha fatto traboccare il vaso». Adesso cosa ci si aspetta? C’è il rischio che elementi religiosi o di controrivoluzione prendano il sopravvento? «Io non credo, perché la società egiziana ha un fondo laico. Ma è anche vero che, nonostante la piazza si sia costituita come Parlamento alternativo, non ne abbiamo ancora uno eletto». E l’esercito che ruolo sta giocando? «La polizia in Egitto non si è comportata come in Libia – ricorda al-Alswani- ma non ha nemmeno preso posizioni chiare per il cambiamento; del resto molti elementi collusi con il vecchio regime allignano nei suoi ranghi. E tanto più nel ministero di Giustizia che è controllato dal Governo. Ma sono certo che la volontà popolare eserciterà una pressione perché non ci siano imbrogli nel processo a Mubarak».  Quanto alla risposta dei governi occidentali, come è stata vista da piazza Tahrir? «Che Guevara diceva che l’onore è dire ciò che si pensa e fare ciò che si pensa. Ecco, speriamo che i governi occidentali si facciano onore, smettendo le doppiezze. Comunque sia – prosegue al-Aswani- se Governi come quello italiano hanno sostenuto il regime di Mubarak rafforzandolo come oppressore della nostra gente, sappiamo che il popolo italiano non la pensa allo stesso modo.  Se si guarda alla risposta della gente, la rivolta di piazza Tahrir è stata sostenuta da ogni parte del mondo, perché – approfondisce lo scrittore – la rivoluzione è una cosa molto umana: è un movimento che nasce per avere rispetto, libertà, democrazia, dignità. Cose che ogni essere umano capisce al volo. Ora è tempo che anche i Governi si alzino in piedi per la difesa dei diritti umani». Poi rivolgendo un pensiero alla questione israelo-palestinese che questa settimana conoscerà un momento importante all’Onu aggiunge: «Se affrontassimo la questione pensando che siamo tutti esseri umani, si troverebbe una soluzione. Anni fa – ricorda al-Aswani – ho scritto un racconto immaginando un pilota israeliano affettuoso a casa e poi freddissimo quando spara sui bambini palestinesi, visti come nemici in erba. I problemi nascono quando tu consideri l’altro come nemico, come arabo, come musulmano, come cristiano. E non come essere umano. La violenza comincia quando neghi l’umanità dell’altro. Se lo guardi negli occhi, trovi l’umanità che ci accomuna e allora non puoi uccidere. I soldati Usa in Vietnam, non a caso, venivano addestrati a non guardare mai il nemico negli occhi.

IL LIBRO

l libro
Una primavera inaspettata
«Perché gli egiziani non si ribellano? Questa era la domanda che veniva posta ripetutamente in Egitto e all’estero». Così esordisce lo scrittore ‘Ala al-Aswani ad incipit del suo nuovo libro, La rivoluzione egiziana (Feltrinelli): Già, perché le condizioni c’erano proprio tutte: la metà della popolazione egiziana viveva da tempo sotto la soglia di povertà, con meno di 2 dollari al giorno, mentre  Hosni Mubarak monopolizzava il potere da trent’anni, con elezioni truccate. Senza contare che ogni giorno gli egiziani subivano torture e violenze sessuali nelle centrali di polizia per estorcere loro confessioni di reati che non avevano commesso. In questo libro in cui l’autore di Palazzo Yacubian e di Chicago raccoglie articoli scritti per giornali indipendenti, emerge il quadro delle complesse ragioni che impedivano quel colpo di reni che, inaspettato ai più, sarebbe arrivato in quella che è stata giustamente chiamata la primavera araba. Una stagione di grandi promesse di libertà e democrazia. Ma in questo libro che fa comprendere più a fondo i molti volti della rivoluzione egiziana, troviamo anche pagine pungenti in cui lo scrittore e medico al-Aswani non solo denuncia la corruzione e gli abusi del regime  ma invita gli egiziani a riflettere sulle violente imposizioni della religione ( «Il niqab impedisce alle donne di vivere come esseri umani»). Una religione che fa ammalare dice coraggiosamente al-Aswani citando ricerche mediche che raccontano l’alta incidenza di problemi e di malattie mentali in un’Arabia Saudita che, in nome di Allah, si pretende virtuosa e invece è solo altamente repressiva.

Da left-avvenimenti

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Un crociera di carta, tra Nilo, faraoni e piramidi

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 28, 2011

Dal 14 al 18 maggio va in scena a Torino la XXII edizione della Fiera internazionale del libro. L’Egitto Paese ospite al Lingotto, in ricordo di un maestro come il Nobel Mahfuz. Sono tantissimi anche gli appuntamenti per l’editoria di casa nostra. Dopo il successo di Palazzo Yocoubian e Chicago, ‘Ala al-Aswani si riconferma voce coraggiosa e anti regime con un nuovo romanzo: Se non fossi egiziano. Mentre nuovi giovani talenti crescono

di Simona Maggiorelli

00155Scontro di civiltà fra Occidente e Oriente? Se ne è fatto un gran parlare negli ultimi anni. A mio avviso, senza senso». Parola di ‘Ala al-Aswani, l’autore di Palazzo Yocoubian e di Chicago (entrambi editi da Feltrinelli), lo scrittore egiziano più letto in Medio Oriente, ma anche il più tradotto in Occidente.
«Ho sempre pensato che la civiltà sia uno dei risultati più alti della creatività umana» accenna lo scrittore al telefono, poco prima della sua partenza per Torino. «Lo scontro, quando avviene – precisa al-Aswani – semmai è causato dal fondamentalismo religioso. Nella storia le religioni sono sempre state usate per sostenere guerre e per uccidere. E in questo le confessioni religiose sono tutte uguali, a qualsiasi libro sacro appartengano. Io sono musulmano perché sono nato in un Paese che professa questa fede, ma se fossi nato in un Paese cattolico, probabilmente sarei stato cattolico…». Sottile e tenace critico della situazione sociale e politico dell’Egitto di oggi, coraggioso nella sfida ai maggiori tabù della tradizione, ‘Ala al-Aswani è uno degli ospiti più attesi della Fiera del libro 2009, in programma al Lingotto dal 14 al 18 maggio. al-Aswani incontrerà il pubblico il 16, in occasione dell’uscita del suo nuovo libro Se non fossi egiziano (Feltrinelli, in libreria dall’9 maggio), in cui lo scrittore egiziano, sullo sfondo delle vie del Cairo, tratteggia una galleria di personaggi di oggi mandando in frantumi ogni oleografia. Così, fra un ricercatore in medicina che non trova come finanziare i suoi progetti, le meschinità di un bottegaio e il moralismo di una studentessa osservante quanto ipocrita, s’incontrano personaggi che nulla hanno di prevedibile e scontato. E proprio questa schiettezza, la sottile ironia, ma anche la calda umanità che “trasuda” dalla scrittura di al-Aswani, ne fanno una voce originalissima nel panorama della letteratura egiziana. Ma anche una delle più criticate dalla fronda più moralistica e religiosa dei lettori. E delle più bersagliate dalla censura.

Realtà e immaginazione
Se non fossi egiziano_643371262«Al Cairo – racconta al-Aswani – il primo ad aprire un cinema fu un italiano. Si chiamava Delio Astrologo. Trovandosi sempre di fronte un pubblico che si spaventava a morte quando sullo schermo appariva un treno che sembrava correre verso di lui, adottò questa tecnica: ogni sera, accompagnati gli spettatori in sala, prima che si sedessero, spiegava loro, con tanto di prove a misura di polpastrelli, che quello che avevano davanti non era che un pezzo di stoffa».
Un secolo dopo lo scrittore egiziano confessa di trovarsi in una situazione curiosamente simile. «Tra i lettori di narrativa – chiosa al-Aswani – purtroppo, c’è ancora chi fa la stessa identica confusione tra realtà e immaginazione. Dopo l’uscita del romanzo Chicago ho ricevuto dosi settimanali di insulti da lettori fanatici secondo i quali, rappresentando un personaggio di una ragazza velata che rinuncia ai suoi principi, offendevo tutte le musulmane velate e dunque l’islam stesso». Ma questo, certamente, non è bastato a fermare la fantasia dello scrittore e il gusto di uno scrivere senza censure.
«Terminati gli studi di medicina negli Stati Uniti, alla fine degli anni Ottanta sono tornato a vivere in Egitto – scrive ‘Ala Al -Aswani nel libro – e avrei voluto dedicarmi solo alla scrittura. Ma dovevo fare il dentista per guadagnarmi da vivere. Così ho scisso la mia vita in due: una vita regolare, seria, da persona rispettabile, come medico, e un’altra da scrittore, libera, esente da ogni restrizione sociale e pregiudizio. Tutti i giorni, dopo il lavoro, mi precipitavo alla scoperta della vita nelle sue forme più originali ed eccitanti. Andavo a zonzo nei luoghi più bizzarri, incontravo persone poco convenzionali, spinto da una curiosità impellente e una reale necessità di comprendere la gente e di imparare quel che aveva da insegnarmi».
Una passione per l’umano, in tutti i suoi aspetti, che rende viva e irresistibile la prosa di questo scrittore che qualche critico definisce “il Nagib Mahfuz contemporaneo”. Di fatto il Nobel scomparso nel 2006 è “il nume tutelare” e la personalità forte che aleggia su tutti gli appuntamenti di questa Fiera del libro 2009, che ha scelto l’Egitto come Paese ospite. Ma il 16 maggio la casa editrice Newton Compton gli dedicherà un appuntamento speciale, un reading di pagine scelte dai suoi capolavori, da Rhadopis a Il romanzo dell’Antico Egitto, da La cortigiana del faraone a Il giorno in cui fu ucciso il leader, fino a Karnak cafè. Con una sorpresa per il pubblico italiano: l’uscita, sempre per i tipi di Newton Compton, di Autunno egiziano, un affascinante racconto-affresco del Cairo, a oggi ancora inedito in Italia.

Zigzagando tra gli appuntamenti
Ma zigzagando fra i moltissimi appuntamenti della sezione dedicata all’Egitto – fra i quali segnaliamo in particolare “L’Egitto al femminile” con Radwa Ashur, Salwa Bakr, Ahdaf Soueif e Mira Al Tahawi e la lectio magistralis dell’archeologo Zahi Hawass, autore dell’affascinate Le montagne dei faraoni (Einaudi) – da non perdere di vista, l’incontro con lo scrittore emergente Ahmad al-Aidy, caso letterario in Egitto e in Inghilterra del 2008 proprio per la penetrazione psicologica con cui questo giovane autore egiziano (classe 1974) racconta una generazione «che non ha nulla da perdere». Linguaggio ironico, scheggiato, scrittura sincopata che procede per flash, diversamente dalla prosa più distesa e classica di al-Aswani, quella di al-Aidy nel romanzo Essere Abbas al-Abd (il Saggiatore, dal 7 maggio in libreria) procede per improvvisi scatti, impreviste accelerazioni nel raccontare una porzione di gioventù intrappolata in un mondo di rapporti malati, senza un filo e al tempo stesso scapicollati fra sms, mondi virtuali e McDonald’s. Con un registro completamente diverso, anche qui troviamo il coraggio di uno sguardo “crudele” che va fino in fondo. La voglia di guardare in faccia la realtà senza infingimenti. Con un linguaggio letterario nuovo, creativo, che non si ferma alla cronaca.
«Il successo internazionale di uno scrittore artisticamente maturo come al-Aswani, ma anche l’emergere di voci dichiaratamente controcorrente come al-Aidy sono la riprova di quanto la scena culturale sia cambiata in Egitto, di quanto sia diventata finalmente più libera» commenta Fabio El Ariny, lo scrittore italo egiziano che ha fatto molto parlare di sé con il romanzo d’esordio, Il legame (Besa) nel quale si immagina un nesso fra l’incidente aereo che accadde a Malpensa e l’attentato alle Torri gemelle. Al centro del racconto c’è un giovane immigrato ingiustamente accusato di terrorismo. El Ariny, che come al-Aswani ha una “doppia vita” fra lavoro e scrittura, sarà a Torino il 15 maggio per parlare di letteratura egiziana. In queste settimane è anche al lavoro su un nuovo romanzo «che – ci anticipa – sarà completamente diverso dal precedente, che era stato definito un thriller».

Un Paese democratico?
Nato in Italia, El Ariny è cresciuto e ha studiato in Egitto. «Là vivono i miei genitori e da quando nel 1992 mi sono trasferito in Italia ho continuato a frequentare molto il Paese – racconta – così ho potuto vedere passo dopo passo il cambiamento che l’Egitto ha fatto dalla fine degli anni Ottanta. Allora era impossibile criticare il governo. Non c’erano giornali, se non quelli di regime e in pubblico bisognava stare molto attenti a quel che uno diceva. Oggi, giustamente, c’è chi dice che l’Egitto non sia un Paese democratico ma bisogna ammettere anche che la censura si è un po’ allentata: quando ero piccolo, per esempio, certi libri di Mahfuz si potevano acquistare solo in Libano, che sotto questo riguardo è sempre stato un Paese più libero dell’Egitto. Negli ultimi anni sono nati giornali di opposizione, possono emergere voci libere di scrittori, anche apertamente critiche. Molti di loro saranno ospiti a Torino. E proprio per questo sarebbe assurdo boicottare la Fiera».
«La scena editoriale egiziana è molto cresciuta e si è molto movimentata negli ultimi anni. Accanto alle case editrici più grandi e ufficiali sono nate imprese più piccole e indipendenti, che qualche anno fa sarebbero state impensabili» conferma Barbara Ferri, che per le Edizioni e/o segue il progetto Sharq/Gharb: una costola della casa editrice romana che traduce e pubblica in arabo letteratura italiana contemporanea ma al contempo promuove coedizioni arabe di opere di autori mediorientali. «La Fiera del libro del Cairo è un buon termometro della situazione. E l’ultima edizione è stata quanto mai frequentata e ricca di proposte. Anche dal punto di vista dell’editoria – sottolinea Ferri -. Ovviamente non si può parlare dei Paesi arabi in generale, perché ciascuno ha la sua storia. Ma se, per esempio, in Siria non siamo ancora riusciti a creare rapporti di collaborazione con l’editoria locale, a causa di una forte presenza della censura, in Libano non abbiamo mai avuto problemi. La novità ora riguarda proprio l’Egitto dove per la prima volta sta nascendo un’attenzione viva anche per quel si pubblica nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo».

IL PUNTO Quelle star del boicotaggio
di Tahar Lamri
*

Il direttore della Fiera del libro di Torino, Ernesto Ferrero, ha dichiarato a Libero: «Ci saranno tante star e ne siamo contenti, perché servono a creare movimento e ottengono spazio sui mezzi di informazione». L’evocazione di queste parole (star, movimento e ottenere spazio), in ambito letterario, è già di per sé motivo sufficiente per boicottare una manifestazione. Non per motivi ideologici, ma perché, in un mondo letterario perfetto, il libro è invito alla lentezza e a combattere le forme dello star system e dello sgomitare per avere un posto sui media.
L’appello a boicottare la Fiera, sottoscritto anche da Gianni Vattimo, crea proprio quel movimento che assicura spazio sui mezzi di informazione e fa di Vattimo una star e siccome questo movimento tende a fagocitare il suo nucleo, cioè in questo caso la difesa dei diritti umani, e focalizzare tutta l’attenzione sulla periferia, cioè la polemica-spazzatura che si nutre di vecchie e nuove polemiche, alcuni giornalisti fanno i conti con chi davvero difende i diritti umani e spostano l’asse della discussione su tutto ciò che è marginale: Israele è più democratico dell’Egitto, Tariq Ramadan non dovrebbe essere invitato perché l’anno scorso… ecc.
Sheherazade ci insegna che la letteratura salva la vita, ma è da molto tempo che la letteratura si è dimessa da questa funzione. Dai tempi di Camus, Franz Fanon, Aimée Cesaire, molti scrittori sudamericani torturati, segregati, confinati, proprio per difendere i diritti umani e il diritto alla parola. Poeti Cheyenne che vivono a stenti nelle democrazie consolidate. Boicottare o non boicottare una Fiera del libro è soltanto un esercizio ozioso per creare, appunto, star, movimento e ottenere spazio.

*Scrittore e studioso di intercul  10 maggio 2009

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Né deboli né positivisti

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 22, 2011

Non si può dire addio alla verità. Ma nemmeno rinunciare all’interpretazione. Nella querelle fra New Realism e Postmoderno che ha animato l’estate interviene il filosofo Salvatore Veca indicando una terza strada possibile.

di Simona Maggiorelli

Salvatore Veca

“Non si può dire addio alla verità. Non si può abdicare all’impegno nella ricerca della verità in filosofia. Pur sapendo che questa ricerca non ha sempre un happy end. Si procede per prove e errori. Esattamente come nella scienza». Da sempre critico verso il cosiddetto Postmoderno il filosofo Salvatore Veca interviene così, con una forte presa di posizione a favore dell’«irriducibilità dei fatti» e del valore irrinunciabile della conoscenza nella querelle fra Pensiero debole e Nuovo realismo che, dopo aver animato per settimane i giornali, nel fine settimana è andato  in piazza al Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo dove Maurizio Ferraris ha tenuto  il 17 settembre una lectio magistralis sul New Realism (vedi left n.35), ma anche nel Castello dei conti Guidi a Poppi (AR) dove, nell’ambito di una tre giorni di seminari, domenica 18 settembre Veca ha tenuto una conferenza su un tema cruciale come la giustizia. Che qualsiasi addio alla verità renderebbe impraticabile.
Professor Veca, nel libro L’idea di incompletezza di recente uscito per Feltrinelli lei dedica ampio spazio al tema dell’interpretazione. Come è noto i pensatori deboli eleggono a slogan la frase di Nietzsche: “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Qual è la sua posizione?
Dagli anni Settanta, Vattimo in Italia, Lyotard in Francia e Rorty negli Usa, a partire da quel motto di Nietzsche, hanno detto che non possiamo ancorare i nostri discorsi, privati e pubblici, alla ricerca scientifica. Sostenendo che il pensiero non può mai trovare un fondamento saldo e roccioso ma solo un vortice di possibilità. Il contesto era quello del collasso delle ideologie e della crisi delle grandi narrazioni degli ultimi vent’anni del Novecento in Occidente. E loro pensavano che abbandonare l’idea di una oggettività dei fatti avesse un effetto emancipatorio. Ma di fronte a un acquazzone, dire che piove è un’affermazione vera; è un fatto inemendabile come direbbe il mio amico  MaurizioFerraris. Nel libro che lei ricorda cerco di connettere la posizione di Nietzsche alla tesi scettica: come fai a sapere che è così? Come fai a dimostrare la veridicità delle tue asserzioni? La mia idea è di prendere sul serio le ragioni degli ermeneutici, degli interpretazionisti, ma con una obiezione. D’accordo dire che qualsiasi fatto può essere interpretato. Ma non tutti i fatti congiuntamente possono essere sottoposti a interpretazione. Qualcosa deve star fermo perché altro si possa muovere. Qualcosa deve essere tenuto fuori dal dubbio perché si possa dubitare di qualcosa. Qualunque credenza può essere messa in discussione, è una vecchia idea illuministica. Però non posso criticare tutto allo stesso tempo. Dunque, diversamente dai “debolisti” io penso che una verità sia tale fino a prova contraria, Questo non elide lo spazio d’interpretazione. Un esempio: pensiamo al 14 luglio del 1789, che chiamiamo presa della Bastiglia. In realtà solo il 2 agosto si arrivò a all’interpretazione chiara che si era trattato di un gesto per la libertà contro il dispotismo. Ogni volta che noi ci rivolgiamo alla reinterpretazione del passato non facciamo altro che rendere insaturi i fatti, riapriamo il gioco delle interpretazioni.
Estremizzando il pensiero di Nietzsche si arriva al nihilismo, D’altro canto il New Realism rischia il neopositivismo, L’essere umano non è fatto solo di razionalità. Cosa ne pensa?
Senza dubbio. Sono più che d’accordo. Tanto  che negli anni ho cercato di riflettere su una terza strada diversa dalle due menzionate. Faccio un esempio concreto. Non possiamo trascurare che mentre per noi è possibile studiare e classificare le proteine, quando cerchiamo di capire qualcosa di più delle rivolte arabe, abbiamo a che fare con strani tipi di oggetti che tendono a autodefinirsi. Lo stesso vale per i riots a Londra. In questo caso cosa vuol dire interpretare? Possiamo attribuire volontà collettive? In Medioriente prevalgono i jihaidisti? O i giovani twitters?. Non nego i fatti, ma resta aperto l’onere intellettuale dell’interpretazione. E se si irrigidisce, se si ipostatizza la si può sempre fluidificare. Ecco il punto.
In una conferenza al Festival della mente ha parlato di immaginazione filosofica. Un concetto quasi ossimorico vista la nascita del Logos come pensiero razionale…
L’immaginazione, per me, è un cardine. Non so neanche pensare che si possa fare ricerca filosofica senza che il primo passo non coincida con la capacità di “vedere” le cose, di immaginare un mondo, una questione, un problema. Il nostro lavoro è fatto da una continua tensione fra la ricerca di nessi, connessioni, fra idee e quella che io chiamo coltivazione di memorie: cioè lasciare che riemerga l’eco della tradizione, così pasticciata e meticcia e veramente creola quale è quella alle nostre spalle. Poi certo esistono metodi con cui si cerca di “acchiappare” ciò che si è intravisto. Mi sembra di vedere in una certa area qualcosa che mi attrae e cerco di andarci. Naturalmente per andarci servono dei metodi che siano giustificabili e non dipendenti dalle mie idiosincrasie. Per dirlo in una battuta, la visione filosofica è cieca se non c’è l’analisi, ma l’analisi è vuota se non viene messa in moto dall’immaginazione filosofica.
Un altro filone della sua ricerca riguarda l’eros, criticando la trattazione platonica, ma anche quella cristiana.
Ho ripreso questo tema di ricerca per il festival di Sarzana, ma il lavoro più completo che gli ho dedicato è in un libro di qualche anno fa, L’offerta filosofica. Mi interessava provare a mettere alla prova il motore della ricerca, provare a vedere sotto il profilo filosofico la passione, come accade che ci innamoriamo di qualcuno. Intanto continuo un corpo a corpo va con il Discorso sul metodo di Cartesio, con quel suo tentativo di dire: metto sotto pressione tutte le credenze e arriverò a una credenza che non posso mettere in questione. Cartesio lo risolve con il problema di Dio. Ma io dico che anche quella credenza lì è questionabile. Infine anche nell’intervento che ho preparato per Poppi continuo su un filone a cui mi dedico da trent’anni: il problema della giustizia sociale. Ce la facciamo a estendere concetti di giustizia a tutta l’umanità presente sul globo? Qui uso il pensiero politico di Rawls come punto di partenza.
Lei ha affrontato il tema della giustizia ora anche in forma di epos moderno, molto intensa in Sarabanda?
Nasce, in realtà, come reading per il teatro sociale fondato da Teresa Pomodoro a Milano… Sui miei libri filosofici posso rispondere lucidamente, ma riguardo a questo esordio mi sento un po’ come ragazzino. Lì c’è il precipitato dei miei ricordi, di ciò che ho provato di fronte all’ingiustizia. Una cosa però la posso dire: sono molto legato al fatto che il primo atto cominci con voce di donna.

da left-avvenimenti

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I passi silenziosi di Chen Zen

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 15, 2011

Negli spazi  della galleria arte Continua a San Gimignano, fino a gennaio, una importante retrospettiva del cinese Chen Zen. Artista “cult” che negli anni di esilio a Parigi ha molto riflettuto sui temi esistenziali e di gande respiro filosofico Tra Oriente e Occidente

di Simona Maggiorelli

chen zen

Somparso prematuramente a Parigi nel Duemila e presto diventato una figura quasi mitica dell’arte contemporanea internazionale, Chen Zen è ricordato ora in una intensa retrospettiva organizzata da Galleria Continua a San Gimignano: lo spazio d’avanguardia che per primo l’ha portato in Italia facendo conoscere il lavoro di questo schivo e appartato artista cinese anche da noi.
Con il titolo Les pas silencieux – che ben rappresenta l’attraversamento di Chen Zen, quasi in punta di piedi, della scena di fine Novecento – questa antologica riunisce (dal 10 settembre al 28 gennaio) alcune delle opere più significative realizzate fra il 1990 e il 2000. Così, nel suggestivo spazio dell’ex cinema teatro dell’Arco dei Becci – sul palcoscenico, in platea, nelle sale attigue e nel giardino – si ritrovano disseminate sculture emblematiche come la serie di ideogrammi di cera che, in forma di fragili casette,  evocano poeticamente una lingua madre da abitare, ma anche ormai lontana e quasi irreale, come fredda e astratta risuonava la parola “patria” alle orecchie di Chen Zen che dal 1986  viveva esule in Francia.

chen zen house

Ma qui a San Gimignano si ritrovano anche gli strani strumenti musicali costruiti con materiali poveri, con cui Chen Zen, riprendendo antiche tradizioni della Cina pre-imperiale, invitava idealmente il pubblico a crearsi un proprio percorso di “musicoterapia” utilizzando il contrasto fra le risonanze scure e profonde di tamburi e  quelle chiassose delle campane. Che si tratti di sculture sonore (come Un interrupted voice del 1988 o come la Biblioteche musicale del 2000) o che si tratti di aeree installazioni luminose (come Le bureau de change del 1996, ricreato in questa mostra) oppure di strane creature di vetro, leggere e trasparenti, come quelle della collezione Pinault, troviamo sempre un filo rosso di riflessione filosofica ed esistenziale a legarle in un percorso unitario. Un pensiero che Chen Zen attingeva alla più antica tradizione culturale cinese riletta alla luce di un’esperienza personale spesso anche dura, fatta di sradicamento e poi anche di lotta contro la malattia dopo che, all’età di venticinque anni, gli fu diagnosticata una anemia emolitica.

Negli ultimi tempi, in modo particolare, l’opera di Chen Zen cercò di nutrirsi anche di questa esperienza tentando di darle un significato. Mentre accanto alla dialettica bipolare fra  yin e yang, si affacciavano sempre più spesso temi della filosofia buddista. Come racconta l’opera Six Roots/Memory del 2000 qui riproposta e che rappresenta i sei stadi della vita secondo la tradizione  buddista.

da left -avvenimenti

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Il segno schietto di Mauro Staccioli

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 15, 2011

di Simona Maggiorelli

Mario Staccioli Scolacium

Un arco enigmatico ed elegante attraversa, imprevisto, l’anfiteatro deserto di Scolacium. Più in là, ad incorniciare tratti di oliveto, compare un immaginifico quadrato rosso che sembra volersi fare cerchio. Una tensione interna, un’energia segreta, ne attraversa la struttura, rendendola instabile ma anche dinamica.

Sono alcune delle umanissime epifanie che lo scultore Mauro Staccioli ha disseminato “magicamente” nel parco archeologico della Calabria. Complice il direttore del Museo Marca di Catanzaro Alberto Fiz, l’artista toscano ha ricreato in questa assolata terra alcune delle sue installazioni realizzate anni fa sulle balze di Volterra, sua città d’origine. Etrusco mistero e schiettezza contadina si fondono nell’opera di questo maestro di un’arte povera che non è mai dimesso minimalismo. La forza ieratica di antichissimi Dolmen rivive nelle sue sculture che trasformano il paesaggio, arricchendolo di nuovi significati. Non è mai stata un’arte “naturalistica” la sua, né tanto meno esornativa. Lungi dal voler fare “arte da giardino”, Staccioli richiama nei suoi monumentali interventi la millenaria fatica dell’uomo nei campi, la sua azione risoluta e paziente per trarne nuovi e inaspettati frutti. Un umanesimo profondo connota tutta l’opera di Staccioli fin dagli anni Settanta.

Mauro Staccioli The ring

Realizzare opere site-specific all’aperto non è mai stato per lui espressione di un rapporto solipsistico con la natura, ma azione sociale, rapporto con gli altri essere umani, per vivere insieme nuovi spazi collettivi. Negli anni questo suo intento si è fatto più poetico e intimo, esprimendosi con archi e morbide linee curve, senza più quelle forme aggressive e aguzze che punteggiavano gli anni giovanili della sua protesta politica. Come, del resto, ammette lui stesso nel bel dialogo con Gillo Dorfles pubblicato nel catalogo Electa che accompagna questa mostra aperta fino al 9 ottobre.

Intanto al Museo Marca:
Berlin anni 80
Un tuffo nella Berlino del punk e della sperimentazione dei primi anni 80, quando pesava la separazione fra l’Est e l’Ovest. Ma gruppi di artisti d’avanguardia underground già preconizzavano la caduta del muro. Non solo metaforicamente. Bernd Zimmer la rappresentò in un quadro dalle tinte forti, che risentiva della lezione dell’Espressionismo tedesco e, ancor più, di quella dei cosiddetti Nuovi Selvaggi. Lo raccontano la mostra al Museo Marca di Catanzaro Berlinottanta. Pittura irruente e un catalogo Electa che documenta l’opera di Zimmer, Middendorf, Fetting ed altri.

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Marcela Serrano: il Cile è ad una svolta

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 4, 2011

Mentre nel Paese di Allende tornano vecchi fantasmi di destra, si alza la voce della rivolta studentesca e delle  donne. A Festivaletteratura di Mantova Marcela Serrano parla del futuro del Cile e del suo nuovo romanzo Dieci donne

di Simona Maggiorelli

Marcela Serrano

Dieci donne. Dieci ritratti di donne diversissime. Per età, per cultura, per scelte di vita. Ma che si trovano tutte quante a dover fare i conti con la depressione. Nel suo nuovo romanzo appena uscito per Feltrinelli, la scrittrice cilena Marcela Serrano immagina che ad unirle sia l’essersi incontrate nello studio di una psicoanalista; figura che, di fatto, in Dieci donne è una presenza muta, evocata all’inizio per poi subito sparire di scena. Come se fossimo a teatro, alla ribalta, salgono invece, una dopo l’altra le dieci protagoniste per raccontare le proprie storie.

Alcune davvero drammatiche, che incrociano dittature e guerre come quella di Luisa che ha passato la vita a lavorare aspettando un impossibile ritorno del marito desaparecido. O come quella della reporter palestinese Layla che si mette a bere dopo essere stata stuprata da soldati israeliani. Ma ci sono anche storie apparentemente più piccole e comuni come quella di Simona, una donna realizzata nella vita e nella professione e che, d’un tratto, sente che il rapporto con il proprio compagno è diventato solo abitudine. Con voce viva, ciascuna di loro ci dice, tra le righe, della difficoltà che ancora le donne incontrano nel realizzare la propria identità, non solo quella sociale. «Il punto è che noi donne stiamo ancora cercando di capire cosa sia la libertà. La nostra indipendenza ha una storia troppo recente. Siamo come un Paese appena nato, che deve darsi una costituzione, le proprie leggi, capire cosa sia il potere. Secoli e secoli di discriminazione, non possono sparire per magia» commenta Marcela Serrano che il 9 settembre presenterà Dieci donne al Festivaletteratura di  Mantova (il 12 sarà alla Feltrinelli di  Milano, il 13 a Bologna e il 14 a Firenze).

Marcela, questa è una battaglia da fare da sole, lasciando da parte gli uomini?
La libertà non riguarda gli altri, ma noi stesse. Io però non mai pensato che si potesse affrontare questa lotta escludendo gli uomini. Il rapporto fra uomo e donna è centrale. Ma ancora dobbiamo combattere la nostra dipendenza passiva dagli uomini.
In Cile una donna presidente, Michelle Bachelet, ha aperto una nuova stagione. Ma molti problemi sono ancora irrisolti?
Quella che lei chiama nuova stagione, in realtà, è il quarto governo de “La Concertación”, del gruppo che disarcionò Pinochet. E ha dovuto fare i conti con i lacci e lacciuoli lasciati dalla dittatura. Liberarsene è stato un processo difficile e lento. Ma ha cambiato il Paese. Anche se non si è riusciti a svoltare del tutto. Questo è ciò che la gente pretende oggi; ora che gli “eredi” di Pinochet sono tornati.

camila-vallejo

La voce della protesta degli studenti oggi in Cile è forte. Ma la repressione è durissima..
La polizia ha il beneplacito del Governo. Sanno di poter agire indisturbati perché c’è chi copre loro le spalle. Vedendoli posso solo pensare che la polizia di Pinochet sia ancora lì.
La giovane leader degli studenti, Camila, è stata attaccata e offesa brutalmente dalle forze dell’ordine.
Vedere che il fascismo è ancora attivo in Cile, incarnato da quella donna che l’ha attaccata, è stato orribile. La destra è sempre stata forte ma durante I governi della Concertación restava nascosta, quasi temendo di mostrarsi per ciò che è. Oggi si sono tolti la maschera e li riconosciamo. Sono sempre stati là.

Come vede il futuro del Cile?
Il mio Paese deve cambiare una volta per tutte. Viviamo in un capitalismo selvaggio inventato dai “Chicago Boys” e dai neoconservatori di Pinochet. La nostra economia va bene. Molto meglio che in molte nazioni europee. Ma la disuguaglianza sociale è un grave problema. Oggi il Cile è molto diverso da venti anni fa. La gente è molto più colta e informata. E non accetta di vivere in una società organizzata solo in base alla ricchezza. Abbiamo molti problemi in comune con il resto del Sud America. Ma ho ancora grandi speranze per il nostro continente, giovane e vitale. Se la corruzione del narcotraffico fosse battuta, questa parte del mondo sarebbe un luogo meraviglioso dove vivere.

da left-avvenimenti

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Non sparate sul poeta

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 3, 2011

di Simona Maggiorelli

bjorn larsson

La poesia non può essere per finta. Perché cerca la verità. Una verità diversa da quella della logica. E più profonda. «Per riuscire ad esprimere un frammento di bellezza, una scheggia di verità, il poeta deve sapersi separare da tutto, rinunciare ad ogni compresso». Così nel suo nuovo romanzo I poeti morti non scrivono gialli (in uscita il 5 settembre per Iperborea), dopo avvincenti avventure come La vera storia del pirata Long John Silver e intense opere autobiografiche come La saggezza del mare, lo scrittore e viaggiatore svedese Björn Larsson tesse un inno alla poesia, un’arte apparentemente desueta in questo nostro scapicollato e distratto vivere quotidiano. Per di più, spiazzando, lo fa in una forma antitetica alla poesia: quella del romanzo giallo. Che nelle mani di Larsson diventa noir esistenziale, sovvertimento della narrazione di genere e un modo per attrarre il numeroso pubblico della letteratura di consumo e coinvolgerlo in riflessioni ben più interessanti.
«Lo spunto, in realtà, mi è venuto da discussioni di anni con un mio amico poeta – ci racconta Larsson al telefono dalla Svezia, in perfetto italiano-. Lui dice sempre che la poesia è verità. Non una verità specifica, ma la verità a lungo termine di cose che ci toccano intimamente. E fa questa differenza: il romanziere inventa una realtà, mentre il poeta non inventa, esprime una realtà profonda in parole condensate, vibranti». E a quale conclusione siete giunti? «Direi che la questione è ancora aperta», dice Larsson ridendo.

Lei una volta ha detto che la letteratura non dovrebbe mai essere di genere, «perché deve saper interrogare e infrangere degli stereotipi», perché allora scrivere un giallo, per quanto in maniera assai originale? «La moda imperversante del thriller nordico, devo dire, mi ha un po’ annoiato – confessa lo scrittore -, ma mi ha anche spinto a mettere un punto di domanda sul modo di presentare la realtà che questa narrativa ci offre. Il giallo svedese, di fatto, ha preso il posto di quello che un tempo era il romanzo realistico. Ed è anche diventato, all’estero, il veicolo di un’immagine della Svezia assai distorta».
Nei mesi scorsi, dopo la strage di Oslo, i media europei hanno creduto di poter individuare proprio nei gialli scandinavi segnali di quel malessere profondo che starebbe cambiando il volto delle laiche e moderne socialdemocrazie del Nord Europa. Del resto sono molti i fatti che parlano di una emergente xenofobia.

Anche dal nuovo romanzo di Larsson emerge la figura di un ex attivista di sinistra che, in tempi di crisi, cade in retrivi movimenti di stampo “leghista” con tangenze addirittura neonaziste. «Non nego che abbiamo seri problemi. Sono comparsi gruppi di destra e anche neonazisti. Questa è una realtà. Ma va detto anche – aggiunge lo scrittore – che coinvolgono un migliaio di persone. Non di più. Leggendo i gialli nordici sembra che la società svedese sia tutta ammalata e in mano alla criminalità politica. E questo non è vero. Anche guardando al numero degli omicidi – prosegue Larsson-, si vede che statisticamente sono piuttosto rari. Nell’ottanta per cento dei casi chi commette questi crimini è affetto da gravi patologie mentali». Un fatto che, al di là dei numeri, sembra aver colpito profondamente la fantasia di Björn Larsson: nel romanzo I poeti morti non scrivono gialli (che l’autore, filologo e docente dell’Università di Lund presenterà il 7 settembre al Festivaletteratura di Mantova), per esempio, compare la figura del padre del protagonista Jan Y.Nilsson, un cristiano che, ligio a una ferrea ideologia protestante del lavoro, ha chiuso tutti i rapporti con il figlio quando questi ha cominciato a dedicarsi alla poesia; un predicatore che al poliziotto, che lo sospetta di aver ucciso il poeta, confessa di aver amato sua madre come tramite verso Dio.

Così, dopo aver “preconizzato” un tragico attentato da parte di un gruppo di estremisti musulmani nel romanzo L’occhio del male uscito poco prima dell’attacco alle Torri Gemelle, in questo suo ultimo lavoro Larsson accende la riflessione su quel fondamentalismo cristiano che molti media italiani hanno cercato di non vedere nella matrice della strage di Oslo. «Il punto è che le religioni, tutte le religioni, hanno un nucleo di fondamentalismo – chiosa Larsson -c’è sempre qualcosa di terribilmente violento quando uno pensa e dice di parlare in nome di Dio».

Ma c’è anche un altro personaggio in questo romanzo che si rivelerà assai inquietante. Intorno all’assassinio del poeta Jan Y. ruota anche la figura di un’irreprensibile infermiera, Tina, dalla bellezza algida, che dopo un casuale incontro in una libreria decide di dedicare tutta se stessa all’opera di questo solitario poeta che vive su una barca ormeggiata al porto, entrando nella sua vita come compagna, segretaria e fedele custode del suo lavoro. Una donna apparentemente normale, amante della letteratura ma che dietro a questo suo assoluto amore per la «purezza» della poesia nasconde una totale mancanza di affetti. Tina ha perso ogni rapporto con l’umano? «Sì al fondo c’è questa idea di perdita di umanità. Ricordo – dice Larsson – di aver letto alcuni articoli che parlavano di fenomeni che riguardano le star del mondo del cinema e della musica. Si parlava di un’ammirazione senza limite, che diventa del tutto irreale. Nessuno, neanche un poeta, ha diritto di essere ammirato così».

da left-avvenimenti

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