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Abbecedario Cattelan

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 6, 2014

Maurizio Cattelan

Maurizio Cattelan

Provocatorio, spiazzante, Maurizio Cattelan, l’artista italiano più noto all’estero, torna alla ribalta con Shit and die, un nuovo progetto per One Torino. E racconta la sua trentennale ricerca a caccia del significato nascosto delle immagini

 di Simona Maggiorelli

Dopo la grande mostra antologica al Guggenheim di New York, nel 2011 Maurizio Cattelan aveva annunciato il suo ritiro. Ma ora, a sorpresa, ricompare a Torino, dove sta preparando un nuovo progetto espositivo per Artissima, in programma dal 6 al 9 novembre 2014. Con il provocatorio titolo Shit and die (citazione ironica di un’opera di Bruce Nauman) questa nuova mostra allestita in Palazzo Cavour e aperta fino al 25 gennaio 2015 promette un insolito viaggio nella storia torinese, costruito attraverso oggetti insoliti, desueti, dimenticati. «Buone cose di pessimo gusto» di gozzaniana memoria, reperti di archeologia industriale, pezzi di avanguardia e ombre lombrosiane.

«Forse non le definirei ombre» precisa l’artista, senza rivelare troppo del progetto nel suo concreto. «Anche Lombroso era all’avanguardia su alcune cose. Oggi sappiamo che ha completamente sbagliato il tiro, ma era comunque un uomo di scienza. Per esempio- racconta Cattelan – il museo ha una collezione sterminata e meticolosissima di riproduzioni su carta dei tatuaggi dei detenuti, con tanto di legenda e racconto biografico di ogni prigioniero. Sono documenti davvero interessanti, solo su quello ci si potrebbe scrivere la sceneggiatura di un film».

Cattelan, la Nona ora

Cattelan, la Nona ora

Mentre Cattelan si diverte a frugare in polverosi archivi, mentre si occupa di storia locale e nel Museo Lombroso si dedica all’esame critico delle tassonomie di una psichiatria positivistica e al fondo razzista, dall’altra parte dell’Oceano, una grande mostra mercato vende le sue opere più famose per cifre che oscillano dai 30mila dollari e 20 milioni.

«Si tratta di una mostra di mercato secondario di cui so poco io stesso. Non più di quello che c’è scritto sui giornali», confessa l’artista. «Quando il lavoro è venduto una prima volta se ne perde il controllo. Fa parte del patto con se stessi. È come dare un figlio in adozione, poi non puoi pretendere di decidere cosa farà da grande». Certo, sembrano passati anni luce da quando Cattelan, lasciata Padova, si aggirava per New York senza un lavoro e senza sapere l’inglese. Riuscendo tuttavia a farsi strada nel mondo dell’arte. «New York è sicuramente cambiata, come il resto del mondo, ma ancora oggi – racconta – anche se stai chiuso in casa, puoi sentire l’energia della città. A soli due isolati di distanza puoi trovare 150 gallerie d’arte. 150 giovani teste che pensano, e basta una passeggiata per incontrarle. Sembra un cliché ma – sottolinea Cattelan – credo che New York possa essere un punto di svolta, come è stato per me anni fa».

Michelangelo Pistoletto dice che «ad un certo punto l’artista deve andare oltre il proprio ego e creare una costellazione». Con un atteggiamento maieutico verso i giovani talenti. Lei non ha mai fatto parte di gruppi, di movimenti precisi. Non ama le parrocchie?

Non amo le etichette, nemmeno quella di solitario: ho sempre sostenuto i giovani artisti nel modo che mi veniva più spontaneo, creando un dialogo, e lavorando in team; come in quest’ultimo caso, con Shit and die, una mostra collettiva in cui non mancano di certo i giovani artisti. Semplicemente non ho mai sentito l’esigenza di fondare una scuola, temo che avrei davvero poco da insegnare.

Da dove trae ispirazione per le sue opere? Come sono nate opere come La nona ora (1999) con papa Wojtyla o Him (2001) che mostra Hitler devoto, che prega?

Cattelam, Him

Cattelam, Him

Qualcuno ha detto che per avere delle idee ci vuole una buona immaginazione e un mucchio di spazzatura: probabilmente non ho abbastanza immaginazione, ma di sicuro ho un sacco di spazzatura! Scherzi a parte, credo che avere idee sia una questione di permettere alla propria mente di distrarsi a sufficienza dall’ovvio: si tratta di un compito rischioso, perché si possono scoprire cose su se stessi che forse era meglio non scoprire.

Mentre il Postmoderno produceva architetture impazzite e gadget, usando quello stesso linguaggio pubblicitario, lei denunciava il vuoto e la violenza di un certo modo di vivere metropolitano (Bidibidodidiboo 1996), additava la cultura che crocifigge la donna (Untitled 2007) e impicca la fantasia dei bambini (Untitled 2004), smascherava ideologia o religione (Ave Maria, 2007). Però non si è mai definito artista politico. Perché?

Non mi sono mai posto la questione in questi termini perché non mi ha mai interessato definirmi a priori, o prendere impegni che non potevo mantenere. Quello che ho fatto è semplicemente ricercare immagini che, in mezzo alla montagna di informazioni inutili da cui siamo sommersi ogni giorno, suscitassero una reazione a livello dello stomaco. Penso che possa essere un ottimo modo per portare in superficie la rabbia, privata della violenza.

«Il mio lavoro è sempre stato quello di prendere i pensieri miei degli altri e di farli vedere a tutti», lei dice nell’Autobiografia non autorizzata (Mondadori, 2011) firmata da Bonami. E poco prima: «Facevo l’incorniciatore di sentimenti, di stati d’animo». Rivelare il lato latente, invisibile, può essere rivoluzionario?

Nessun discorso è neutrale, l’arte non fa eccezione. Ognuno di noi è “impegnato” e rivoluzionario a modo suo, e non è detto che dichiararlo a voce alta lo renda più vero. Il mio impegno è creare immagini che rimangano impresse per più di due secondi… le assicuro che se non è “impegnato” è comunque molto impegnativo.

Cattelan Untitled 2008

Cattelan Untitled 2008

Nel 1993 lei debuttò in Biennale con Bonami. Più di recente è tornato a Venezia con una installazione che ricreava Tourists (1997). Guardando i piccioni impagliati dal sotto in su, standosene lì a naso per aria, ci si sentiva “piccionescamente” complici di un mercato che spaccia per arte qualunque cosa. Una pizzicotto al pubblico perché apra gli occhi?

Credo che ogni commento e ogni interpretazione siano legittimi, ma non penso che stia a me realizzarli. Credo che non si dovrebbe pensare a chi si sta rivolgendo: nel momento in cui un lavoro viene presentato attraverso i media diventa di patrimonio pubblico e se ne perde inevitabilmente il controllo. Questo accade sia dentro sia fuori dall’istituzione: io ho sempre preferito perdere il controllo da subito, è molto più semplice che dover accettare a posteriori di averlo perso.

Al MoMa, al Pompidou, alla Tate ma anche alla Biennale di Istanbul s’incontrano quasi gli stessi artisti, una medesima estetica e modo di concepire le arti visive. Il mercato internazionale dell’arte nell’ultima ventina di anni ha imposto una sorta di pensiero unico? C’è spazio per chi voglia proporre una diversa ricerca?

Le mostre, le istituzioni e il mercato dell’arte e anche la ricerca sono inevitabilmente collegati tra loro, in quanto costituiscono una catena indissolubile che permette al meccanismo di andare avanti. Sono tutti lati di una stessa medaglia, che non credo possano essere separati. Per quanto riguarda me, ho sempre avuto bisogno di progetti paralleli su cui lavorare, un tempo erano degli intermezzi dal solito lavoro. Adesso una rivista come Toiletpaper, o curare una mostra come Shit and die, o qualsiasi altro progetto futuro sono un buon modo per continuare a lavorare. Il problema è che ci illudiamo di avere tempo e invece non ne abbiamo poi così tanto: qualsiasi cosa verrà dopo, farò del mio meglio perché non sia tempo sprecato.

dal settimnale left  primo -7 novembre

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Nelle trame di Boetti

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 21, 2013

Alighiero Boetti, mappa -ricamo

Alighiero Boetti, mappa -ricamo

Sapeva ricamare le mappe dell’invisibile. E far incontrare tradizione e  avanguardia. Da Londra a Milano e Roma, un trittico di mostre per riscoprire Alighiero Boetti

di Simona Maggiorelli

Con un certo gusto per la provocazione Alighiero Boetti – nome di punta dell’avanguardia italiana del secondo Novecento – amava fare scelte alquanto inattuali. Come andare a vivere in sperduti villaggi afgani, negli anni Sessanta e Settanta ancora senza elettricità e acqua corrente, per apprendere l’arte antichissima della tessitura di tappeti. E, fatto piuttosto insolito per un uomo nato nel 1940, amava anche tramestare tra antichi testi esoterici e di alchimia. Per ricavarne poi opere d’arte che parlavano in modo sorprendente del tempo in cui viveva e dei suoi più drammatici punti di crisi.

Sono nati così i suoi grandi quadri ricamati che raccontano, in colori vivaci, la trama geopolitica degli anni della guerra fredda, le contrapposte ideologie che facevano a fette il mondo, innalzando muri, confini e cortine di ferro. E già disseminavano cacciabombardieri nei cieli come fossero aeroplanini di carta.

Con sorprendente intuizione nelle sue lievi, vaste, tele azzurre punteggiate dai fari lucenti di aerei stilizzati, Alighiero Boetti già preconizzava un futuro di guerre “chirurgiche”, estetizzate dai mass media e spacciate per innocui videogiochi.In un agghiacciante scambio fra reale e virtuale.

Alighiero Boetti, Mettere al mondo il mondo

Alighiero Boetti, Mettere al mondo il mondo

Il suo celeberrimo acquerello e spray oro su carta fotografica intelata Aerei-cieli ad alta quota realizzato nel 1989 ed esposto fino al 22 marzo nello Studio Giangaleazzo Visconti di Milano (insieme ad altre trentasei opere di Boetti) ancora oggi ci appare come una folgorante rappresentazione per immagini di questo fatuo e micidiale modo di giocare con le vite umane: quasi fossero banali puntini di un tiro a segno. Come tragicamente è accaduto durante le guerre in Iraq che hanno prodotto immani stragi di civili. Fece in tempo a vederne i primi funesti capitoli l’artista torinese prematuramente scomparso nel 1994.

La retrospettiva che il MAXXI di Roma gli dedica, dal 23 gennaio al 6 ottobre (catalogo Electa), offre l’occasione per approfondire questo filo rosso di denuncia della guerra che attraversa tutta l’opera dell’artista torinese. Ma anche la sua indiretta critica ai processi di “disumanizzazione” che in modo invisibile operano nelle società del capitalismo avanzato: in cui il tempo è denaro e si è costretti a mettere a valore ogni aspetto di sé per sopravvivere.

Nasce da questo sguardo lungo e corrosivo sulla società contemporanea, per esempio, l’installazione che nei mesi scorsi è stata il fulcro della antologica che la Tate di Londra ha dedicato a Boetti. Una strana scultura composta da una semplice scatola e una lampadina che si accende solo per 11 secondi all’anno. In modo casuale. Senza programmazione. Sperperando il tempo, in modo anti funzionale, in attesa di una imprevedibile illuminazione. Un’opera, insomma che, si potrebbe anche leggere come un auto ritratto dell’artista come perdigiorno. Ma a guardare meglio vi si può anche rintracciare un’ allusione a quel gesto rivoluzionario che, nella società dei consumi, è incrociare le braccia per fermarsi a pensare e a sognare. Lui, eccentrico, elegante, instancabile viaggiatore, insofferente verso le etichette – di fatto – non avrebbe mai accettato di realizzare opere di denuncia in senso stretto. Se non, come in questo caso, con una buona dose di ironia. E forse proprio questo atteggiamento, questa polisemia, lo ha salvato dall’usura che invece ha corroso tanta arte “agit prop” anni Settanta.

da left-avvenimenti del 19 gennaio 2 febbraio

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Wlilliam Kentridge, il griot bianco

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 15, 2012

Kentridge, The refusal of time

Kentridge, The refusal of time

Teatro, musica, cinema e disegno s’incontrano nell’”opera totale” di William  Kentridge, protagonista di una personale al MAXXI  di Roma e  di una mostra di viedeoarte alla Tate di Londra

 di Simona Maggiorelli

Quando da giovane allievo della scuola d’arte a Johannesburg, William Kentridge si trovò alle prese con pennelli, colori ad olio e cavalletto, pensò che fare il pittore non faceva per lui. Ma poi scoprì il disegno come modo originario e immediato di espressione. «Il disegno è pre verbale, istantaneo, irriflesso» dice lui stesso intervistato dal Guardian in occasione della personale che gli dedica la Tate Modern di Londra fino al 20 gennaio. Aggiungendo poi: «L’immediatezza di pensare per disegni è vitale per me».

Così come è centrale nella sua arte il legame con la cultura sudafricana, che Kentridge reinterpreta da inaspettato e originale “griot” bianco. Di fatto, anche per la sua economicità, il disegno conosce una lunga tradizione artistica e popolare in Africa. E Kentridge ne sperimenta le potenzialità e la flessibilità a tutto raggio: dalla puntasecca al carboncino a cui ricorre per portare lo spettatore in un universo sfumato ed evocativo di storie sognate. Usando la pratica della cancellatura, come modo per rigenerare continuamente l’opera. Strumento agile, cangiante, monocromatico (come esigeva fin dagli esordi la sua raffinata estetica) il disegno è alla base dell’affascinante serie di opere grafiche con cui da anni racconta la storia mai scritta dei neri in Sudafrica.

MAXXi_Kentridge_VerticalThinking_ph.ThysDullaart - Figlio di due avvocati bianchi che difendevano gratis le vittime dell’apartheid, da artista, ne ha tratteggiato le drammatiche storie facendole entrare nei musei di tutto il mondo, trasfigurate in un’epica per immagini dal sapore fiabesco. L’universo artistico di Kentridge, come racconta ora anche la bella mostra Vertical time curata da Giulia Ferraccia al MAXXI di Roma (aperta fino al 3 marzo 2013), è popolato di anti eroi, di poetici Don Chisciotte e Sancho Panza dalla pelle scura. Figure che si stagliano nella memoria della mostra che Carolyn Christov-Bakargiev gli dedicò al Castello di Rivoli nel 2004.

Come foglie di una potente edera rampicante le sequenze di fogli disegnati correvano lungo le pareti della dimora sabauda, arrivando fino al soffitto. E alla fine lo spettatore si trovava come al centro di una caleidoscopica palla di vetro che proiettava tutt’intorno sequenze di immagini, fotogrammi, icastici frammenti della dolorosa storia di un servo e del suo sordido padrone.

Kentridge, The Refusal of time

Kentridge, The Refusal of time

Un apologo che ricorre più volte nell’opera di Kentridge facendosi metafora di molte altre schiavitù, mentali prima che fisiche. Per esprimere una dimensione universale di lotta e di opposizione alle avversità e all’oppressione, più di recente, l’artista mette insieme una pluralità di linguaggi espressivi, arrivando anche all’azione teatrale e alla performance, come si è visto al Romaeuropafestival dove Kentridge ha interpretato, con una danzatrice, il suo Refuse the Hour.

Un tema, quello del rifiuto dello scorrere del tempo, che ritroviamo anche al MAXXI dove si può vedere la Wunderkammer animata, The Refusal of Time realizzata, fra echi modernisti e rimandi scientifici, per la stessa Christov-Bakargiev in occasione della recente Documenta 13.  Una video installazione che si presenta come una  suggestiva macchina scenica  in cui metronomi e batterie battono ritmicamente a frequenze diverse. Segnando il ritmo di un tempo basato sul meridiano di Greenwich, secondo il tempo eurocentrico imposto dal colonialismo. Davanti a noi  sedie sparse qua e là di vago gusto retrò. Una scena apparententemente immobile.Finché il ritmo piccato, inesorabile  e battente del metronomo si trasforma in ritmi e percussioni. E calde voci nere  intonano canti tribali evocando ampi orizzonti africani.                                         ( dal settimnale  left-Avvenimenti)

 

Scoppia  la rivoluzione alla Tate Gallery

Kentridge alla Tate gallery

Kentridge alla Tate gallery

Fin dai tempi in cui entrava nell’universo di Italo Svevo facendo del personaggio Zeno Cosini il proprio alter ego, William Kentridge ha sempre avuto dalla sua l’appeal e la chiarezza narrativa del fumetto. Non a caso l’artista suafricano si è imposto all’attenzione internazionale con disegni e filmati. Che affrontano dolorose questioni politiche e sociali come il razzimo.  Con una semplicità e un interesse per la realtà umana rara nell’arte contemporanea. Gli otto cortometraggi che l’artista propone fino al 20 gennaio alla Tate Gallery di Londra in una nuova installazione audiovisiva compiono un passo ulteriore: unendo alla passione civile un linguaggio più raffinato che lavora sulle metafore, sille anologie, sulle evocazioni di senso. Con quella potenza sintetica ed espressiva che appartiene alla poesia. E’ qui forse, in questo suggestivo lavoro dove Kentridge crea un ideale parellellismo fra la lotta dei neri contro il colonialismo e la rivoluzione russa del 1917, che trova realizzazione piena, il suo suo sogno di “arte totale”, combinando linguaggi diversi, dalla videoarte, al cinema, alla  pittura. Le immagini della rivoluzione russa e le sue conseguenze vengono mostrati contemporaneamente ai ritmi sincopati di una colonna sonora in gran parte ispirata da canti sudafricani e canzoni di protesta di epoca dell’apartheid.  Quasi come fosse un contrappunto, intanto, stilizzati disegni ricreano ( e non senza una punta di parodia) l’astrazione geometrica di designer russi costruttivisti grafici come El Lissitzky. Il progetto che comprende le opere Perché io non sono io e Il cavallo non è mio è iniziato come monumentale scenografia per la recente produzione del Metropolitan  di un’ pera di Dmitry Shostakovich  e che Kentridge ha progettato e diretto. L’opera si basa su un racconto fantastico di Nikolai Gogol in cui un funzionario di nome  Kovalyov si sveglia una mattina e scopre che il suo naso è scomparso. Quando lo rintraccia, scopre che è diventato un pubblico ufficiale con un grado leggermente più alto del suo. Tanto che il suo naso si ritiene libero di snobbare il suo proprietario originario. Si scatena così una rocambolesca ridda di avventure fin quando la protuberanza errante si rassegnerà a tornare al suo posto. Nel frattempo,  Kentridge ci ha regalato la possibilità di incontrare snob di San Pietroburgo, personaggi stolidi e ottusi con i manicotti e loschi figuri, tutta quella grottesca fauna che popola la burocrazia russa dela seconda metà del l XIX secolo. Chi ebbe modo di ascoltare la prima dell’opera che ne cavò Shostakovich di certo no faticò a riconoscervi l’obiettivo satirico: lo stato totalitario di Stalin. William Kentridge apre quest’opera musicale alla polisemia, lasciando trasparire in filigrana l’obiettivo di smascherare le sopravvivenze dell’apartheid in Sudafrica. Insomma il capolavoro della letteratura russa firmato da Gogol, trasformato in opera da Shostakovich viene rimontato per stigmatizzare il XXI secolo sudafricano. La dimensione allegorica della storia non cambia, ma ogni secolo si vede attraverso il prisma della sua esperienza politica.

 

 

 

 

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La svolta geniale dell’ultimo Tiziano

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 30, 2012

di Simona Maggiorelli

Tiziano, Dánae , Prado,(1553-1554)

Dissero che il suo autoritratto di ultra ottuagenario non fosse finito, a causa di quei contorni poco definiti che fanno apparire la nobile figura di Tiziano quasi in dissolvenza

. Mentendo sulla straordinaria forza evocativa di questo volto maturo  su cui dardeggia uno sguardo vivo e penetrante.

Ma i cronisti cinquecenteschi  dissero che Tiziano non ci vedeva più e che, per questo, nelle sue ultime opere usava pennellate materiche, sfrangiate e dipingeva figure evanescenti su sfondi bruniti.

Come nel feroce Supplizio di Marsia (1570)conservato nel Castello ceco di Kromeriz in cui un sadico Apollo,  con un coltellacci,  scuoia un malcapitato Marzia, appeso a testa in giù, come condanna per aver osato sfidare la divinità nella musica. Su uno sfondo ribollente di rossi e di marroni, figure come arse da un fuoco paiono baluginare alla superficie della tela per poi svanire.

Tiziano, supplizio di Marsia

Davanti allo sguardo dello spettatore appare una composizione drammatica, addensata di personaggi, immersa in una natura selvaggia, fuori dal tempo, eppure in movimento, quasi fosse il riflesso dall’inquietudine più intima del pittore (che si autoritrae meditabondo nella parte destra della tela). Quella che anche il Vasari ebbe a giudicare, tra le righe, come la fine di un grande artista era, in realtà, un geniale cambio di poetica e un imprevisto salto in avanti.

In vecchiaia Tiziano seppe rinnovare interamente la propria pittura, come ricostruisce Fabrizio Biferali nel libro Tiziano, il genio e il potere (Laterza). Un saggio che, diversamente dalla appassionata biografia scritta da Alvise Zorzi (Il colore e la gloria, Mondadori), non ricorre alla seduzione dello stile romanzato volendo mettere in primo piano una ricostruzione scientifica della lunga parabola tizianesca.

Che fin dall’adolescenza fu all’insegna di una piena consapevolezza dei propri mezzi espressivi e di una fiera indipendenza: un’esigenza di autonomia che portò il pittore veneto a farsi cantore di una Venezia cosmopolita, laica e sensuale e ad opporre recisi rifiuti agli inviti papali di trasferirsi a Roma.

Dagli esordi sotto l’ombra dei Bellini, alla competizione con Giorgione (del quale Tiziano si diceva collega, aumentandosi gli anni) fino alle commissioni delle più importanti corti internazionali, per le quali nacquero misteriose e sensuali immagini di donna come la Danae del Prado.

Tiziano, autoritratto 1566

Già in  quadri come questo datato ’53-’54, e più ancora nel malinconico Ratto di Europa del ’59, si possono cogliere i segnali del profondo cambiamento a cui la pittura di Tiziano stava andando incontro . Basta guardare alla morbidezza delle linee, ai bagliori di luce, alla perdita di nitore delle figure. Di lì a poco il sontuoso e brillante colorismo tizianesco avrebbe lasciato il posto a una tavolozza più scura. Da ritratti ufficiali e quadri ricchi di dettagli, il Tiziano più maturo sarebbe passato a una pittura che badava solo all’essenziale, a ciò che vibra sotto la superficie delle cose, a quel guizzo vitale che fa di molti ritratti dell’artista cadorino opere universali. Come ci ricorda ora la mostra Da Vermeer a Kandinsky, capolavori dai musei del mondo che si apre il 21 gennaio in Castel Sismondo a Rimini e che, all’interno di una ampia sezione dedicata alla pittura veneta, riporta temporaneamente in Italia l’elegante Ritratto di uomo con libro del Museum of Fine Arts di Boston.

Senza dimenticare la serie di mostre a staffetta che la rete museale della Gran Bretagna sta dedicando alle opere di Tiziano conservate alla National Gallery.  Da qui è partito il quadro Diana e Atteone di Tiziano che dal 13 gennaio scorso è in mostra alla Tate Gallery di Liverpool per poi andare in tour a Cardiff e in altre città. Ma alle Metamorfosi di Tiziano, ovvero alle tele di Tiziano ispirate ad Ovidio, che raccontano  i prodromi di questa ultima geniale fase di Tiziano nei prossimi mesi sarà dedicata anche una delle più interessanti mostre dell’anno ovvero Metamorphosis: Titian 2012  che negli spazi della National Gallery , alla Royal Opera House vedrà artisti visuali come Chris Ofili, Conrad Shawcross e Mark Wallinger , ma anche coreografi, musicisti e compositori presentare nuove opere, ispirate a Tiziano.

da left-avvenimenti

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Viaggio nella luce

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 18, 2011

di Simona Maggiorelli

Van Gogh, Il seminatore di Arles

«Ovunque c’è oro antico, bronzo, rame e tutto ciò con il verde azzurro, intensissimo del cielo offre un colore armonioso all’estremo, con tonalità frante alla Delacroix…» scriveva Vincent van Gogh al fratello Theo, nel 1888 da quel Midi che aveva a lungo agognato, come risveglio del colore e della creatività, dopo un cupo periodo di crisi.

Erano gli anni in cui il pittore olandese ancora sognava di poter dare vita a un collettivo di artisti, per dipingere insieme nella luce squillante della Provenza, portando avanti ognuno la propria ricerca, ma lontano dallo sguardo freddo  di commercianti e detrattori. «Se Gauguin volesse raggiungerci, credo, avremmo fatto un passo avanti», annotava ancora in quella famosa lettera. «Potremmo così essere riconosciuti come i pittori del Sud e nessuno avrebbe nulla da ridire».

progetto che dopo i primi scontri con Gauguin, sarebbe presto naufragato. Ma Van Gogh, intanto, continuava con un ardore quasi furioso a cercare compattezza nel colore in opere potenti e visionarie che- lui stesso ammetteva – ammazzavano tutte le sue precedenti. Così rendeva d’un tratto superata la tiepida visione inpressionista che Van Gogh, del resto, non aveva mai amato. Proprio a Arles, quel raptus creativo che lo portava a incendiare le tele di colore, toccò un acme irripetibile. In pochissimo tempo van Gogh realizzò capolavori, in cui le forme prendevano vita dal solo colore, senza ricorrere a linee di contorno. Capolavori come l’inquieto autoritratto del 1888 e l’abbagliante Seminatore, tele che dallo scorso 12 novem al 15 aprile ( con apertura straordinaria fino alle tre del mattino per l’ultimo dell’anno)   sono in  mostra a Genova, insieme a un importante selezione di quadri del genio olandese provenienti dai Musei di Amsterdam e di Otterlo. Il curatore Marco Goldin ha lavorato anni per riuscire ad ottenerne il prestito.

Gauguin, Da dove veniamo?

Nelle sale di Palazzo Ducale adesso campeggiano accanto a tele di Guaguin come il dipinto “testamento” Da dove veniamo? (1897-98) che il Museo di Boston non aveva concesso nemmeno alla Tate per l’antologica dell’anno scorso dedicata al pittore francese. L’idea di Goldin era di realizzare una grande esposizione che indagasse il tema del viaggio in pittura, inteso come ricerca, soprattutto interiore.

Il risultato è questa spettacolare mostra genovese dal titolo  Van Gogh e il viaggio di Gauguin, (prodotta da Linea d’ombra) in cui, accanto alle opere dei due maestri realizzate rispettivamente ad Arles e nella lontana Thaiti, s’incontrano testimonianze del viaggio nella luce che Monet fece in assoluta solitudine nel 1884, scendendo verso la costa del Mediterraneo, alla scoperta di un colore che richiederebbe «una tavolozza di diamanti». Per rappresentare un altro tipo di viaggio nel colore, questa volta tutto di fantasia, Goldin ha scelto le improvvisazioni “musicali” di Kandinsky e tele degli artisti del Cavaliere azzurro. E ancora il silenzioso tuffo nel colore di Rothko e le prime sperimentazioni dei pittori della Scuola di New York, per arrivare ai più prosaici viaggi nell’America selvaggia di un lungo stuolo di artisti americani fino agli aridi e desolati paesaggi interiori di Hopper.

da left-avvenimenti

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Il respiro del colore

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 1, 2010

Rappresentare l’invisibile, era l’obiettivo di Mark Rohtko. Cercava una pittura fatta di solo colore. Un’intuizione geniale che, però, si scontrava con la sua “fede” nel Surrealismo e il contro il credo razionale della psiconalisi.

 

rothko

 

di Simona Maggiorelli

 

«Quando attorno al 1950 mi trovai per la prima volta dinanzi alle immense tele-pareti di Rothko che l’artista, nello stanzone che gli serviva allora da studio, mi faceva passare davanti agli occhi servendosi di un gioco di carrucole rimasi molto più scosso da queste vaste e amorfe superfici di colore che dalle arruffate matasse di Pollock».

 

Così raccontava Gillo Dorfles in un suo noto saggio degli anni Settanta e ora rielaborato per la grande retrospettiva di Mark Rothko che si apre il 6 ottobre 2007 al Palaexpo di Roma. A colpire il critico Dorfles fu «la folgorazione dei colori che coprivano la vasta superficie con dei bagliori luminescenti che sfumavano dal giallo all’arancione al rosso e dove la stesura delle tinte all’olio creava una continuità senza confini». La scommessa di Rothko era grande: tentare di rappresentare l’invisibile, scegliendo il colore e la grande dimensione delle tele per l’ impatto emotivo inequivocabile, optando per forme piatte «perché distruggono l’illusione e rivelano la verità».

Forme piatte che però, come accade per le opere più interessanti di Rothko, quelle della fine degli anni Quaranta e che formano il nucleo centrale e forte della mostra romana, riescono ad avere una straordinaria profondità, sembrando come percorse da un movimento interno. Assimilata la ricerca del cubismo ma, soprattutto, colpito dal genio rivoluzionario di Picasso e di Matisse, Rothko esprimeva un rifiuto netto della mimesis. «l’artista moderno – scriveva – si è in varia misura distaccato dalle apparenze del mondo naturale… le nature morte di Braque stanno alla tradizione della natura morta e del paesaggio quanto le doppie immagini di Picasso stanno a quelle del ritratto. Nuovi tempi! Nuove idee! Nuovi metodi!». E lungo questa strada l’americano di origini russe Mark Rothko (il vero nome era Marcus Rothkowitz) si ribella alla tradizione accademica quanto alla freddezza geometrica dell’arte astratta. Artista ribelle, anticonformista, ma anche artista intellettuale che costruisce le sue opere con gesto pittorico meditato, attento, Rothko torna a mettere al centro dell’arte la dimensione umana – racconta Oliver Wick, curatore della antologica  Mark Rothko (al Palazzo delle Esposizion di Roma fino al 6 gennaio 2008, catalogo Skira) proponendo una nuova immagine dell’uomo del Rinascimento «inteso come totalità».


Ma Rothko, che sostituisce la nozione di spazio pittorico con quella di “Breathingness” (respirabilità) propone anche un nuovo rapporto con lo spettatore, improntato all’“emozione”, all’“intimità”, a una “visione dinamica”, sottolinea Wick. E quando qualcuno gli parlava della calma armonia che avrebbero emanato le sue grandi opere colorate, rimaneva stupito, perché spiega Wick, lui cercava «il potenziale cinetico», cercava di portare allo zenit la forza racchiusa nel quadro, di rendere l’equilibrio precario che c’è nell’imminenza di un cambiamento dirompente.


8363-lot-33-rothko-untitled-black2«È la violenza l’humus dei miei quadri», rivendicava Rothko. La violenza «che precede il dramma». E il magico e potente equilibrio in divenire che si realizza in quella rapida serie di opere tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta presto si spezza. Lo dicono opere comeNero su marrone e le altre otto tele di grandi dimensioni e molto simili fra loro che compongono il ciclo Quattro stagioni, concepite per un ristorante di New York e poi donate alla Tate Gallery di Londra. Hanno bande verticali, come finestre cieche, violacee e scure. La tonalità luminosa sul fondo di colore uniforme comunica il senso di una visione evanescente che si va sfaldando. Le tele circondano da tutti e quattro i lati lo spettatore come chiudendolo in una scatola dall’aria ferma, stagnante. Qui e ancora di più nella serialità ripetitiva e cupa degli acrilici degli ultimi anni Rothko non riusciva più a realizzare quel «laboratorio di alchimista» del colore, per dirla con Butor, con cui riusciva a far comparire sulla tela “un’oasi” di luce viva. Adesso è l’elemento del tragico a prevalere e la pittura di Rothko perde di leggerezza, si fa opaca, pesantemente materica.


 

Come nel suo primo periodo surrealista, formalmente abbandonato nel’47 (ma di fatto mai del tutto superato e che la mostra al Palaexpo ha il merito di documentare) sembra emergere in Rothko un pensiero di matrice esistenzialista e l’idea (sono parole sue) di una «tragica inconciliabilità», di «una violenza di base che sta al fondo dell’esistenza umana». Un’idea di conflitto interiore, di scissione insanabile che aveva evocato già nel ’43, all’epoca di quadri e disegni che riprendevano fantasmagorie surrealiste o paesaggi mitologici «in cui uomo, uccello, bestia e albero si fondono convergendo in un’unica idea tragica». E viene da chiedersi quanto questa matrice surrealista che condiziona il rapporto con la dimensione non cosciente possa aver influito nella perdita di vitalità che segnò la ricerca artistica di Rothko negli ultimi trent’anni della sua vita. Come suggerisce anche questa ampia retrospettiva romana che raccoglie una settantina di opere, Rothko non si separò mai da quella matrice di pensiero: «Il surrealista- annotava nel ’45- ha svelato il vocabolario del mito e ha stabilito una corrispondenza tra le fantasmagorie dell’inconscio e gli oggetti della vita quotidiana. Questa corrispondenza costituisce l’esperienza euforicamente tragica da cui l’artista attinge il proprio materiale». Ma con un guizzo di intuizione aggiungeva: «Ho troppo a cuore sia l’oggetto che il sogno per vederli dissolversi nell’inconsistenza vaporosa del ricordo e dell’allucinazione». Poi, però, l’annuncio del proprio suicidio artistico:«Litigo con l’arte surrealista e astratta come si litiga con il padre e la madre: riconosco l’ineluttabilità e la funzione delle mie radici». Trenta anni dopo si uccise davvero. 

 

Da left-Avvenimenti novembre 2007

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ABO e i portatori di tempo

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 2, 2010

di Simona Maggiorelli

Picasso, disegni di luce

E’ dedicato a tutti i grandi «portatori del tempo» il nuovo progetto editoriale del curatore e critico d’arte Achille Bonito Oliva. Ovvero a tutti quegli artisti, scienziati, filosofi, registi, compositori e scrittori che nel corso del Novecento hanno inaugurato un modo nuovo di sperimentare la dimensione del tempo. Che per le avanguardie storiche, per esempio, diventò d’un tratto simultaneità, sinestesia, improvvisa connessione di senso, alla velocità fulminea dell’intuizione. E questo non solo nel dinamismo della pittura futurista e nei primi esperimenti cinematografici di Balla e Bragaglia. O nelle danzanti composizioni astratte di Kandinsky.

Ma anche in settori come la musica che, con la dodecafonia, rompe la linearità di una partitura classica iscritta in un movimento ritornante e prevedibile. Per non dire poi del romanzo che, da Kafka a Joyce, abbandona la grande narrazione descrittiva ottocentesca per aprirsi a improvvise epifanie, per farsi torrenziale racconto interiore (il cosiddetto stream of consciousness). E molto oltre.  Andando ancora più a fondo con la visionarietà potente di prose liriche che trascolorano i contorni intagliati e secchi della percezione razionale.

Proprio ricercando i segni di una diversa dimensione del tempo nelle arti del XX secolo,  Achille Bonito Oliva ha ideato per Electa una Enciclopedia delle arti contemporanee, di cui il 3 settembre al festival della mente di Sarzana presenta il primo libro, dedicato al tempo comico; un volume a più mani (tutta l’opera si avvale di un team di giovani esperti) sulla cui copertina campeggia il celebre telefono di Dalì con una rossa aragosta al posto della cornetta. Un lavoro letteralmente sconfinato dacché studia come sono mutate la letteratura, la musica, la pittura, l’architettura, la videoarte, il cinema, la musica, il teatro in base «all’incursione di una nuova temporalità nel processo creativo e nella fruizione dell’opera».

Ma non è un’enciclopedia di tutto lo scibile, mette le mani avanti ABO. «Piuttosto è un progetto direzionato – dice – concepito seguendo il filo di un pensiero elaborato in vent’anni di studi che mi hanno fatto rendere conto di quanto il tempo sia il “frullatore” di ogni specificità linguistica, producendo una rivoluzione non solo linguistica, direi proprio antropologica nel contemporaneo». A questo si intreccia l’analisi dei cambiamenti apportati dallo sviluppo delle tecniche e delle tecnologie nel Novecento e che, nelle mani degli artisti, sono diventate mezzi per dilatare e accorciare la sensazione del tempo. E più in generale strumenti per allargare le potenzialità espressive «facilitando – ricorda ABO – l’avvicinamento fra discipline umanistiche e scientifiche ma anche esperimenti di commistione dei linguaggi».

Fra le sue declinazioni della temporalità spicca «il tempo interiore» affermato da alcuni artisti, ribelli alla mimesi. Picasso ne fu “il campione”?
Certamente ma anche alcuni surrealisti hanno esplorato questo ambito, evocando una fantasia che promana dal profondo. Ma nel caso di Picasso senz’altro ci troviamo davanti a una soggettività molto forte. In lui c’è quasi un furor, una straordinaria capacità scompositiva e compositiva – pensi al periodo del cubismo analitico -. Il suo è un modo personalissimo di rappresentare il tempo interiore.

Un modo di rappresentare che obbliga lo spettatore a un cambiamento?
L’irruzione del tempo interiore elimina ogni elemento di contemplazione, spinge al movimento, favorisce “una guardata curva”. C’è una voluta incompiutezza nell’arte contemporanea. Che non ha nulla a che vedere con il non finito di Michelangelo (dovuto al pensiero che l’uomo è un demiurgo terreno che non ha la forza del divino). L’arte contemporanea chiede allo spettatore una partecipazione attiva, nel creare  la sua visione completa.

Per questo primo volume sul tempo comico dice di aver preso spunto da Nietzsche.  In che modo?
Nietzsche parlava di un tempo comico come tempo dell’irrilevanza, della fine del valore della cosa in sé, come tempo della vita immediata, opposto allo spirito assoluto. Da qui ho ricavato lo spunto per l’esplorazione di alcune figure del tempo comico.

Cita anche Giordano Bruno come anticipatore di molti di questi temi.
Tornando a leggerlo mi sono reso conto che, pur nella sua concezione neoplatonica, dà importanza alla vita. C’è un forte privilegio della materia. è una strana figura Bruno, di santo e di eversore. Il suo linguaggio ha una nota di erotismo. Ama trasfigurare. E poi Bruno è caparbio. Finì al rogo per non voler dire una parolina che Galileo, invece, si lasciò sfuggire subito. Bruno ricorre alla follia per uscire dal logos occidentale.

Alla follia dell’arte, intesa come coraggio creativo, lei dedica una mostra a Ravello. In questo sistema globalizzato dell’arte dominato da un’estetica occidentale che lei stigmatizza come «puritana, razionale, asettica» c’è ancora spazio per chi fa ricerca?
Sì, ma a prezzo di una inevitabile solitudine. In questo senso parlo di follia. Come capacità di un artista di prodursi in nuove forme che intercettano e bucano l’immaginario collettivo, oggi, sempre più anestetizzato, votato a una sensibilità superficiale. Viviamo ancora in tempi di post modernità. Sono cadute le vecchie ideologie ma domina il sistema dell’arte delle sette sorelle (il circuito che va dal MoMa alla Tate, al Centre Pompidou ndr). E tutti aspirano ad andare a esporre in quei sancta sanctorum, secondo quegli standard. Con le mostre, con questa enciclopedia, da parte mia, non smetterò di massaggiare i muscoli  atrofizzati della sensibilità del pubblico.

da left-avvenimenti del 26 agosto 2010

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Tutti i colori del nero

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 15, 2010


Né neri né monocromi come appaiono a prima vista. Venturi rilegge la storia dei Black paintings

di Simona Maggiorelli

Reinhardt

Ad Reinhardt

Grandi maestri del passato come Antonello da Messina, Leonardo, e più ancora Caravaggio, ci hanno insegnato che l’ombra, il buio, ma anche il nero più pesto, in pittura possono offrire sfumature infinite, cariche di senso e di espressione. Che il nero non sia affatto “un non colore” lo ha dimostrato anche un geniale sperimentatore come Van Gogh, che negli ultimi anni, in pennellate  sempre più dense e materiche, usò il nero per marcare drammaticamente una visione che si faceva via via più vertiginosa e instabile, precipitando verso la crisi più grave che l’avrebbe portato al suicidio. Ma anche Matisse, con tutt’altro  registro e fine, mise in primo piano il nero dipingendo una finestra aperta sul buio più scuro in un’opera singolare come  Portafinestra Collioure (1914) ora conservata al Centre Pompidou. Un quadro che rimase curiosamente inedito fin dopo la morte del pittore. E che mostra sapientemente quanto il nero possa essere vivo, animato di morbidi riflessi, accendendo così l’attenzione dello spettatore verso ciò che è latente, apparentemente invisibile. E l’excursus sui molti e più creativi usi del nero in arte potrebbe continuare ancora a lungo, toccando la vitalità e la potenza del nero picassiano oppure, al contrario, l’uso sfumato e tormentato che ne fece Rothko in Nero su marrone, l’opera in più pannelli oggi alla Tate Galery di Londra. Ma un critico come Riccardo Venturi con il suo nuovo libro intitolato Black paintings eclissi del modernismo (Electa) oggi ci invita a uscire dalle piste più battute per andare a scovare barlumi di ricerca e un uso originale del nero, là dove  non ci aspetteremmo, ovvero nell’arte americana degli anni Sessanta e Settanta.  E in particolare nelle “pitture nere “ che realizzarono Frank Stella e Ad Reinhardt  «In realtà i black paintings di Reinhardt – nota  Venturi – non sono né neri né monocromi. Osservandoli qualche minuto ci si accorge che  il suo nero è colorato come un’ombra impressionista». Un effetto di profondità che Reinhardt riuscì a realizzare attraverso la sovrapposizione di numerosi strati di colore: dal blu al rosso al verde, al marrone, all’ocra, al porpora.

Contrariamente alla lunga tradizione ottocentesca, da Goya a Redon, che aveva usato il nero per  trasmettere un senso tenebroso di distruzione e  di violenza,  anche psicologica, secondo Venturi la ricerca di Reinhardt e Stella «rigetta ogni facile lettura simbolica» cercando nel nero un movimento, e strade nuove per  dare fiato a «un’arte vivente che non finiva di venire al mondo». Ipotesi suggestiva, ma se vogliamo regalare qualcosa a Reinhardt, bisogna allora anche dire che il suo fu l’ultimo tentativo di ricerca. Ben presto la minimal art e l’arte concettuale, a partire dal nero oggettivante di Forma zero di Malevich, avrebbero calato una calotta nera, funerea e opprimente su tutta l’arte americana

da left-avvenimenti 8 maggio 2009

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Cercasi genio disperatamente

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 28, 2009

Da Cattelan a Hirst, ai nuovi emergenti. Sarah Thornton mette a nudo i meccanismi alterati del sistema globalizzato

di Simona Maggiorelli

Cattelan, collezione Pinault

Cattelan, collezione Pinault

Sembrava che dopo lo sferzante ritratto del mondo dell’arte contemporanea tratteggiato da Tom Wolfe poco altro restasse da dire sul sistema adulterato delle aste, sulle quotazioni stratosferiche di “sculture” improponibili come le aspirapolveri di Jeff Koons e più in generale su quella comunità ristretta di collezionisti e frequentatori delle fiere che già negli anni Ottanta Wolfe aveva battezzato «statusfera»: un mondo di poca cultura, dove l’opera è una merce che fa status symbol, anche se ci si affanna a dire che l’arte non ha prezzo.

L’accelerazione dei processi di globalizzazione degli ultimi trent’anni, a cui si è aggiunta la recente crisi economica, di fatto ha aperto ulteriori nuovi spazi per la lingua franca dell’arte, capace di travalicare i confini linguistici. E ne ha internazionalizzato il mercato, con conseguenze non di rado estreme e paradossali. In anni recenti, racconta la canadese Sarah Thornton nel libro Il giro del mondo dell’arte in sette giorni (Feltrinelli), sempre più «il mondo dell’arte si comporta come una comunità di credenti», con competenze ridotte, con poco tempo per approfondire e molta fede verso le ultime tendenze. Poco importa se da New York a Londra, a Berlino è una manciata di collezionisti plurimiliardari a imporle. Complici le aste, uno stuolo di intermediari ma anche premi, mostre e scuole che sfornano artisti griffati, pronti a uniformarsi al sistema.

Da sociologa e storica dell’arte, raccontando sette “piazze” emblematiche – l’asta, il master, la fiera, la rivista, lo studio d’artista e la biennale – Thornton analizza i meccanismi e le ideologie sottese a questi diversi contesti e i processi di valutazione dell’opera da quando lascia lo studio a quando entra in un museo (perlopiù passando per collezioni private blasonate). L’iter con cui un pezzo di Damien Hirst diventa “opera d’arte” è ben noto: Warhol docet nel captare le tendenze del mercato. Ma anche Duchamp quanto a gusto per la bizzarria e l’assurdo e per la capacità di produrre uno choc nel pubblico. Così, uscito da un “artistificio” come la scuola Goldsmiths di Londra, dopo aver incontrato un intermediario come l’ex pubblicitario Saatchi, ideatore del “brand” young british artists, Hirst a meno di quarant’anni anni aveva già compiuto un iter ad hoc e il suo squalo, le sue teste di bovini scuoiate e tutta la sua pharmacy erano pronte per quotazioni da capogiro.

La consacrazione è avvenuta quando il tycoon francese Pinault ha comprato una sua opera per 8 milioni di dollari. La testa di toro acquisiva così un valore di mercato certo sulla scena internazionale. E molti altri collezionisti avrebbero aspirato a possederne una. Poi il “colpo da maestro”: in barba all’immagine d’artista disinteressato alle aste, saltando ogni intermediario, Hirst ha fatto battere da Sotheby’s tutte le sue opere incassando il cento per cento del fatturato, con grande attenzione della stampa. Diversa la strategia di Maurizio Cattelan. Costruitosi un’immagine di artista spiazzante e imprevedibile con interventi come i fantocci di bambini impiccati a piazza Duomo a Milano, Cattelan è attento a non produrre più di quanto il mercato possa assorbire. L’artista giapponese Murakami, invece, ha portato all’estremo l’idea della factory di Warhol. In tre studi d’artista (che dirige in videoconferenza e con attenzione ossessiva al dettaglio) ha in cantiere quaranta progetti in contemporanea. Evocando l’immagine della bottega rinascimentale ma con un sistema simil fabbrica Toyota, Murakami produce i suoi dipinti «superpiatti» (termine coniato da lui stesso), facendo disegni e poi affidandoli ai computer grafici e ad assistenti pittori. Che lavorano in silenzio a ritmi serrati. Quando Thornton chiede se c’è creatività nel loro lavoro una pittrice risponde candidamente: «Assolutamente no». Al lettore non resta che riconoscerne il coraggio. Alla prestigiosa Carl art di Los Angeles, come nei templi della Tate gallery e del Turner prize, l’autrice aveva ricevuto risposte ben più elusive e imbarazzate.

da left -avvenimenti 28 agosto 2009

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Un bacio da capogiro

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 6, 2009

Towmbly, le quattro stagioni

Towmbly, le quattro stagioni

Compagno di ricerche di Rothko, e sodale di Rauschenberg l’artista americano Cy Twombly,che dal 1957 vive a Roma, è protagonista di una importante retrospettiva alla galleria di arte moderna della Capitale. Una personale che parte dagli anni Quaranta per arrivare ai nostri giorni e che comprende una suite di opere come Le quattro stagioni, in cui Twombly ricrea in pittura astratta, – fra colpi di colori e pause di bianco- una suggestione pittorica dal compositore Vivaldi. Dopo un’anteprima alla Tate Gallery di Londra dal 24 maggio, alla chiusura della mostra romana inaugurata il 5 marzo, la retrospettiva migrerà al Guggenheim di Bilbao. Ed è proprio Sir Nicholas Serota, da vent’anni direttore della Tate a raccontare a Notizie Verdi i prodromi di questa retrospettiva. “Ci stiamo lavorando da molto tempo- ammette Serota – cercando di comporre la ricerca rigorosissima e schiva di Cy Twombly in una mostra che possa dar conto in modo autentico della sua parabola creativa, anche al di là dall’immediata onda di successo di questi ultimi anni”. Un’onda di successo che, dopo aver toccato cifre record nelle aste internazionali, ha avuto anche esiti curiosi sul piano della cronaca, dopo che 2007, durante una visita alla collection Lambert Museum di Avignone, un artista franco cambogiano non ha trovato di meglio per esprimere il suo apprezzamento all’arte di Twombly che dare uno schietto bacio alla tela. Il collezionista proprietario dell’opera, convinto che questo gesto l’avesse irrimediabilmente danneggiata, ha poi citato l’appassionato visitatore della mostra per danni di milioni di dollari. Che alla fine, tutto compreso, lo ha obbligato a versare al proprietario circa mille dollari. s.m. da Notizie Verdi 6 marzo 2009

Quel bianco profanato

Compagno di ricerche di Rothko, Cy Twombly è protagonista di una retrospettiva alla Gnam di Roma

di Simona Maggiorelli

«Chi non ha mai lasciato il segno su un muro, inarrestabile impulso di tracciar un segno, di fare un gesto sul puro muro bianco? Solo una superficie dapprima, poi i segni si sovrappongono, creano un tempo e uno spazio, il muro ora ha una sua profondità», scriveva Palma Bucarelli nel 1958, presentando al pubblico italiano l’opera di Cy Twombly. Figura ormai quasi leggendaria, studiosa di intelligenza acuta, l’allora soprintendente della Galleria di arte moderna (Gnam) regalava all’artista americano un’immagine e una profondità espressiva che in quei suoi primi gesti di action painting, quasi graffi incisi nel bianco metafisico del muro, forse non aveva, se non come primitiva intuizione. Quella profondità, di cui parlava Bucarelli, Twombly l’avrebbe realizzata poi in tempi recenti, quasi alla soglia degli ottant’anni. Ce ne rendiamo conto ripercorrendo a ritroso la parabola dell’artista dai primi anni 40 a Boston e a New York per arrivare all’oggi e al suo successo internazionale. Così come ce la ripropone nelle sale della Gnam Nicholas Serota, direttore della Tate gallery di Londra e curatore della retrospettiva romana aperta fino al 24 maggio (catalogo Electa), che poi andrà al Guggenheim di Bilbao. Coetaneo di Rothko, Twombly, diversamente dal geniale pittore russo-americano, non osa una regressione creativa fino a grandi campiture di puro colore.

Preferisce lavorare sul margine di questa grande ricerca. Raccontandosi attraverso forti colpi di colore su un bianco che, in alcune composizioni, riecheggia il calore di certi bianchi pastosi e stratificati di Utrillo. Nella serie Quattro stagioni (1993-1995), in particolare, Twombly sembra toccare lo zenit della sua arte: e sono variazioni di bianco, grondanti colori, ma anche composizioni di lettere e immagini che hanno il ritmo di variazioni musicali. Schivo, parco di interviste, Cy Twombly vive quasi inosservato dal 1957 in Italia, prima lavorando nello studio di Campo de’ Fiori a Roma, poi a Gaeta, in cerca dei riflessi del Mediterraneo. Intanto le quotazioni dei suoi quadri curiosamente hanno raggiunto cifre da capogiro e c’è stato anche chi ha dato di matto, baciando una sua tela. Per questo gesto durante una visita alla collection Lambert museum di Avignone, l’artista franco-cambogiano Rindy Sam ha rischiato una multa di 2 milioni di dollari. Il collezionista proprietario della tela di Twombly era convinto che quel bacio l’avesse danneggiata.

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