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Pamuk e i fantasmi del Bosforo

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 9, 2013

Orhan Pamuk nel Museo dell'Innocenza

Orhan Pamuk nel Museo dell’Innocenza

di Simona Maggiorelli da Istanbul

Una strada in salita che si inerpica su per una zona popolare di Istanbul affacciata sul Bosforo dalla parte occidentale.

Fin dalla caduta di Costantinopoli (la presa di Costantinopoli dal punto di vista ottomano) nel 1453 questa era la parte della città abitata da minoranze non musulmane a cui il governo guardava con sospetto, ma anche la zona «delle migliori bettole dell’epoca ottomana» come scrive il premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk. Parliamo del quartiere di çukurcuma.

Qui, prima dei progrom ordinati dal governo turco (l’ultimo avvenne ne 1955), greci, armeni ed ebrei gestivano panetterie, negozi di rigattieri, drogherie, botteghe artigiane e altri piccoli commerci.

Di quell’epoca sopravvivono ancora alcune belle palazzine, fra scheletri di più antiche abitazioni ottomane in legno, andate a fuoco. Oggi svettano cieche e abbandonate fra gallerie d’arte, negozi vintage e nuovi bistrot frequentati da studenti e scrittori. L’università intitolata a Sinan, il grande architetto del Rinascimento ottomano, non è lontana.

Mentre procediamo alla ricerca del Museo dell’Innocenza aperto in questo quartiere dallo scrittore Pamuk, nei vicoli bambini giocano a pallone, fra gatti al sole e donne velate che camminano piano con la spesa. Proprio come nelle pagine del memoir Istanbul (Einaudi, 2006) in cui il Nobel turco rievoca la sua infanzia e la sua formazione negli anni Cinquanta e Sessanta.

Rtpq0GPJLO come in certi poetici scatti in bianco e nero del fotografo turco Ara Güler, il cantore di Istanbul in fotografie di struggente bellezza. Più dei confinanti quartieri di cihangir e beyoglu, çukurcuma, del resto, è il quartiere dei contrasti, della modernità più trendy e cosmopolita che vive accanto ai resti del passato, evocando i fantasmi di uno splendore ottomano irrimediabilmente perduto.

Insieme le due anime della città – moderna e antica, occidentale ed asiatica – contribuiscono a creare quella atmosfera che rende speciale Istanbul. Un sentimento poetico «per molti versi simile a quello che gli artisti occidentali hanno sempre chiamato malinconia», nota Pamuk, «che qui si chiama hüzün ed è una forma di tristezza, non individuale e privata, ma collettiva e condivisa. Per uno splendore passato che è svanito e che ha lasciato un vuoto incolmabile».

Segretamente questa vaga malinconia appare come il genius loci, la malta invisibile che tiene insieme questa immensa città di 11 milioni di abitanti, che si stende lungo le due ali del Corno d’oro.

L’hüzün pervade la letteratura e la musica turca, ma è anche un modo di affrontare la vita. E mentre riflettiamo su come le strade di çukurcuma paiano addirittura plasmate da questo sentimento, d’un tratto,  mimetizzato tra altre palazzine, ecco comparire il Museo dell’Innocenza, a cui Pamuk ha lavorato per più di quindici anni e che già mentre era in fieri era meta di “pellegrinaggi sentimentali” da parte di lettori.

Immagineil museo dell'innocenzaIl colore rosso amaranto e l’insegna dal gusto retrò lo segnalano al passante come un museo piuttosto insolito, all’interno di una affascinate casa torre a più piani. Il portone è chiuso, nessuno all’ingresso. Ma poi dal seminterrato spunta il sorriso dell’addetto alla biglietteria e un gigante in divisa ci fa entrare raccomandandosi di non fare rumore: l’effetto, straniante, è quello di entrare in casa di qualcuno mentre lui non c’è.

Davanti a noi una scala a chiocciola, e una lunga teoria di bacheche piene zeppe di cimeli, di oggetti, di ricordi, di ritagli di giornale, di giochi, di reclame. Un pullulare di «buone cose di pessimo gusto» per dirla con Guido Gozzano. Che a guardare meglio si rivelano essere i tristi souvenir di un amore a cui il giovane Kemal, per ossequio alle regole di una alta borghesia turca, occidentalizzata e fortemente classista, ha voluto-dovuto rinunciare. Lei, bellissima, si chiamava Füsun e faceva la commessa. Lui era il rampollo di una famiglia bene nella Istanbul degli anni Settanta, già destinato a una fanciulla del suo rango.

Kemal e Füsun sono i protagonisti del romanzo Il Museo dell’innocenza (Einaudi, 2009) che Pamuk ha scritto e pubblicato nel 2008 prima di realizzare questo museo: uno dei più insoliti e bizzarri fra quanti possa capitare di vedere. Sbirciando attraverso i vetri delle teche d’antan ai lettori più attenti di Pamuk, nel frattempo non sarà certo sfuggito l’orecchino che Füsun perse quella volta facendo l’amore con Kemal e i tanti mozziconi, con le tracce del rossetto della ragazza, che punteggiano quella passione che a Kemal è fuggita fra le dita. Il romanzo di Pamuk danza intorno alle memorie di questo amore. Precipitate fisicamente in oggetti. Che Pamuk ha recuperato dai robivecchi, nei bric a brac, in casa di amici e parenti oppure si è fatto costruire ad hoc dagli artigiani del quartiere.

«Vedi, in questi silenzi in cui le cose s’abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto», recitano i versi di Eugenio Montale che Pamuk a scelto come esergo de L’innocenza degli oggetti, il libro catalogo da poco uscito in Italia per Einaudi e che racconta la lunga gestazione di questo museo che espone oggetti reali di una storia immaginata, ma «non vuole essere in nessun modo un’illustrazione  grafica del romanzo».

Semmai un proseguimento del romanzo su un altro piano creativo, stabilendo nessi inediti fra letteratura e arti visivi, ma anche sollecitando il pubblico ad interrogarsi sulle tragiche amnesie che attraversano la storia turca. L’apertura del Museo dell’innocenza era già annunciata per il 2009, l’anno di Istanbul città europea della cultura. Ma fu Pamuk stesso a voler rimandare l’inaugurazione per non portare acqua a quel governo turco, che nel 2005 lo aveva incriminato per insulto all’identità nazionale a seguito di alcune dichiarazioni che lo scrittore aveva fatto ad una rivista svizzera sul massacro da parte dei turchi di un milione di armeni e 30mila curdi in Anatolia durante la prima guerra mondiale.

dal settimanale left

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Istanbul, la femmina

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 15, 2011

A colloquio con la filologa Silvia Ronchey, in questi giorni al lavoro a una grande mostra su Bisanzio a Roma, mentre sono usciti di recente due  suoi  nuovi libri, che aiutano a capire di più della storia del Medioriente a noi più vicino.

di Simona Maggiorelli

Istanbul, Mimar di Sinan

Mentre sta lavorando alacremente a una grande mostra storica su Bisanzio che per la prima volta esporrà a Roma i tesori bizantini della Chiesa cattolica, accanto a quelli della Chiesa ortodossa e quelli del Museo di Istanbul, Silvia Ronchey non trascura il lavoro di studiosa e di divulgatrice della storia del Vicino Oriente. Così dopo l’antologia pubblicata a settembre con Tommaso Braccini Il romanzo di Castantinopoli (Einaudi) che riscopre testi di scrittori, viaggiatori, filosofi e artisti sulle rotte della grande città turca, a fine 2010 è uscita anche una sua nuova biografia, Ipazia, la vera storia (Rizzoli), dedicata alla filosofa e scienziata alessandrina Ipazia, assassinata nel IV secolo d.C. da fondamentalisti cristiani. Due lavori che ci hanno dato il la per un incontro con  la docente di Filologia classica e civiltà bizantina dell’Università di Siena.

Professoressa Ronchey,nell’ultimo anno la filosofa alessandrina è stata al centro di una vera e propria riscoperta e sono usciti molti libri. Mancava una biografia scientifica?
E’ vero, c’è stato  un affiorare nelle librerie e nei giornali di pubblicazioni su Ipazia ma molte sono riedizioni, sulla scia del successo del film Agorà di Amenábar. Così La Lepre ha ripreso il libro di Petta e La Tartaruga quello di Moneti Codignola. Io stessa avevo scritto su Ipazia in un volume miscellaneo uscito, ormai diciasette anni fa, per Laterza. E da anni mi riproponevo di tornarci. Il fatto che siano uscite molte rielaborazioni letterarie, attualizzazioni e ricostruzioni libere mi ha dato il la per tornare alla storia con metodo scientifico.

In un convegno su Ipazia organizzato dalla Treccani lei aveva posto l’accento sulla complessità del contesto in cui  fu uccisa. Che cosa deve essere messo a fuoco ancora nell’analisi di quelle vicende?
La vicenda di Ipazia si svolse in un quadro non riducibile solol a uno scontro ideologico fra pagani e cristiani. Da Diderot in poi ha preso campo  la posizione  illuminista che legge l’assassinio di Ipazia come l’uccisione del libero pensiero da parte di una Chiesa. Arrivando anche a vedere in Ipazia una proto-illuminista. Dal punto di vista storico, però, non possiamo trascurare che Ipazia era un’autorevolissima caposcuola di una confraternita platonica, dunque una teurga. Ma ci sono anche tanti altri punti da chiarire senza facili semplificazioni. Anche per questo ho pensato di aggiungere al mio libro un apparato di “documentazione ragionata”. Dove c’è quello che un lettore può voler sapere a partire da quanto racconto nella storia principale. Sono documenti che aiutano a capire la complessità di dibattiti come, per esempio, quello sul monofisismo e che sono sullo sfondo della vicenda di Ipazia.

BRAUN GEORG, Alessandria d'Egitto (1572)

La quantità di interventi su Ipazia  che si possono leggere anche in rete testimoniano un interesse vivo e diffuso.Perché secondo lei si accende proprio oggi?
Ci troviamo in un momento storico in cui la laicità ritorna di attualità e ha bisogno di attingere a qualche precedente. Abbiamo attraversato periodi di grandi fedi secolari, di grandi fedi e ideologie pervasive che a un certo punto sono venute a  crollare. Al contempo abbiamo assistito a un rigurgito teocon, alla salita al soglio pontificio dell’ala più conservatrice della Chiesa cattolica. C’è da notare che l’ayatollah Khomeini e Woytila sono ascesi al vertice in contemporanea. Poi il pontificato di Ratzinger ha portato un alteriore irrigidimento fondamentalista. Insomma appare chiaro quanto sia urgente un dibattito sulla laicità. E spero che il mio libro possa contribuirvi. Al centro non a caso c’è il tema del rapporto fra Stato e Chiesa. Nella Alessandria del IV secolo c’era un’influenza politica diretta sullo Stato da parte di Cirillo che fu fortemente contrastata nel mondo bizantino. Un’infiltrazione che  divenne una bandiera dell’infiltrazione papista cattolica nello Stato. Questo ci spiega perché la vicenda di Ipazia sia stata così censurata in Occidente.

Dervisci turchi

Alessandria d’Egitto era una città multietnica e multiculturale. E ancor più lo è stata Costantinopoli lungo i secoli. Da qui il fascino di Istanbul?
Qui ci riallacciamo a quanto dicevo prima: Costantinopoli fu lo specchio della civiltà di cui era capitale. Per più di undici secoli, sommando quelli bizantini a quelli ottomani. Gli ottomani che conquistarono Costantinopoli nel 1453 si posero come continuatori di quella civiltà statale che era stata dell’impero multietnico bizantino. Una convivenza, non solo di etnie ma di culti era alla base dell’esistenza stessa di questa superpotenza del Medioevo che lo sarà anche nell’Età moderna. La forza bizantina, e poi ottomana, stava nella capacità di mescolare, di amalgamare tradizioni e culture o, nel caso, di tollerarle. Quello ottomano era uno stato laico con una distinzione netta fra potere spirituale e temporale. Già al momento della conquista, Maometto II non impose l’islam come religione di Stato ma nominò un patriarca ortodosso, cosa che non fecero i crociati che, invece, presa Costantinopoli, sostituirono al patriarca bizantino ortodosso un loro patriarca latino. Il fascino di questa città nasce dal suo incarnare un ideale di fusione e di tolleranza, come capacità inclusiva. Per questo il passato bizantino ha molto da dare a un’epoca come la nostra di scontro di civiltà. Per undici secoli questo scontro è stato evitato proprio lì, sull’istmo. Il volto di Istanbul appare, ieri come oggi, molto stratifico. è la città che più di ogni altra al mondo mantiene i simboli delle civiltà sconfitte. E proprio questo è il filo di Arianna che abbiamo seguito con Baccini nel preparare questa antologia. L’architettura e la pittura a Istanbul condensano questa sua realtà storica.

Istanbul, Suleimaniye Mosque

Curiosamente molti scrittori e viaggiatori parlavano di Costantinopoli al femminile. Perché?
Istanbul è la città femminile per eccellenza, fin dall’età pagana. Già prima di Teodosio era consacrata ad Artemide. La falce lunare che nei secoli ha continuato a rappresentare la città, in origine era il simbolo di Artemide. Poi anche la Madonna così è diventata una divinità femminile e lunare. Questo simbolo della falce lunare campeggia anche nella bandiera ottomana. C’è una continuità femminile che ritorna anche nelle titolazioni delle chiese, a cominciare da Santa Sofia. Non solo. La “femminilità” di questa città fu captata anche dai conquistatori. In alcune cronache incluse nel Romanzo di Costantinopoli si parla quasi in termini “pornografici” della penetrazione in città.

Nella prefazione a Figure bizantine di Charles Diehl lei ricorda che opere letterarie e teatrali come Teodora contribuirono a creare il mito di un Oriente seducente ma pericoloso.
Cocteau definiva Costantinopoli «la decrepita mano ingioiellata che si protende verso l’Europa». Lo stereotipo della decadenza cominciò già a definire Bisanzio e continuò nella definizione di Costantinopoli.  Vista come minaccia ipnotica seduttiva, quasi vampiresca. Ma va anche detto che molti scrittori, soprattutto nell’Ottocento, che parlavano di questa malìa negativa, scrissero le loro cose migliori proprio a Costantinopoli o grazie a un’ispirazione che veniva loro da lì. Vale per Flaubert  per Potocki, per Byron e molti altri. Per cui sì, lo stereotipo della seduttrice pericolosa è la creazione di uno stereotipo orientale, di una Medea, di una sirena, a lungo operante, ma che ripaga gli scrittori, trasformandosi a posteriori in musa.

Proprio parlando di sirene è intervenuta di recente su Radio 3, ne nascerà un libro?
Il mio intervento si basava su un libro di Luigi Spina, Il mito delle sirene. Uno studio fantastico che ripercorre anche l’oltre vita simbolico e letterario della sirena. A questo non c’è da aggiungere altro. Mi interessava il fatto che questo mito ci lascia intendere che già i greci avevano una visione alterata dell’immagine femminile. La paura della donna c’era già in Omero. Da sempre l’immagine femminile si sdoppia in un’immagine materna (la Madonna) e un’immagine mortifera, che in realtà è l’altra faccia della madre. In una battuta, ecco perché molto spesso gli uomini hanno una moglie e un’amante. C’è una scissione nella ricerca, nell’attrazione per l’immagine femminile. E questo è un aspetto che obiettivamente manca nella donna. I miti antichi ci danno conto di questa inquietudine per quel volto, la faccia scura della Madonna,  simbolo lunare. La donna sarebbe questo essere che ti fa perdere i confini dell’io, trascinandoti in una naturalità, in un mondo di puro istinto, di pura passione. Un mondo di smarrimento, di ebbrezza. Le figure del mito non a caso sono tutte legate a elementi dionisiaci, perfino alle droghe, il nepente di Elena, il nome stesso di Medea si lega alla sua capacità di preparare droghe. Similmente per Medusa. Oggi i greci per dire sirena usano Gorgone. Quello delle sirene è un canto, legato a una dimensione dionisiaca che fa uscire l’uomo dalla coscienza, questa è la sua grande forza. Da qui la paura della passione che scinde l’animo del maschio, che sia Odisseo o che sia quello di oggi.

IN MOSTRA Istanbul nello sguardo di Gabriele Basilico Come si fa a cogliere la forma di una città? Quella non solo esteriore ma che rimanda a un’immagine più nascosta? Di certo ci vuole lo sguardo di un artista. Specie quando si tratta di una città particolare come Istanbul, megalopoli che sia sul versante asiatico che su quello occidentale sembra percorsa da morbide onde di strade e palazzi, a perdita d’occhio, senza soluzione di continuità fino al mare. Uno scintillante tappeto di luci negli scatti notturni del grande fotografo Gabriele Basilico. Catturando  il profilo della città dalle colline al Bosforo.  è una delle immagini guida  della mostra Gabriele Basilico Istanbul 05.010, che si è tenuta alla Fondazione Stelline di Milano e raccantata in volume edito da Corraini. Una mostra in cui Basilico torna a rappresentare la città amata, cogliendone la vitalità, il flusso continuo di persone che la percorre a ogni ora ma anche gli aspetti più malinconici, come le splendide ville di legno sul mare della borghesia turca del secolo scorso e oggi perlopiù abbandonate.  «Pur rimanendo fedele al proprio sguardo esatto, il grande fotografo milanese – annota Luca Doninelli nel catalogo – non rinuncia al senso del mistero. Come il narratore di talento – prosegue lo scrittore – sa cavare il fascino delle sue storie dalla scrupolosa messa in fila degli eventi, senza nulla  concedere alle facili evocazioni d’atmosfera, lasciando che la complessità delle cose si trasformi in esattezza di sguardo».
L’Oriente è un’invenzione dell’Occidente», scriveva Edward W. Said in un saggio che è già un classico: Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, uscito in Italia per Feltrinelli. Un’invenzione esotica, abbagliante, che però nasconde uno sguardo colonialista e maschilista. «Non possono rappresentare se stessi devono essere rappresentati», del resto, denunciava già Marx. E in questa trappola di un orientalismo seducente ma ambiguo sono caduti anche letterati di rango. A cominciare da Gustave Flaubert, ideatore di uno stereotipo letterario della donna orientale destinato ad avere lungo successo: la cortigiana egizia di Flaubert non parla mai di sé, non esprime le proprie emozioni, la propria sensibilità o la propria storia. «è lo scrittore francese a farlo per lei», faceva notare Said. Parallelamente, come ora ricostruisce Emmanuelle Gaillard nel volume L’orientalismo e le arti (Electa), in pittura e in architettura si sviluppava nell’Europa dell’Ottocento uno stile di gran moda. Sul piano alto della ricerca, intanto, grandi artisti come Delacroix e Matisse hanno contribuito ad allargare il nostro sguardo oltre un asfittico eurocentrismo, regalandoci immagini sontuose di Babilonia, di Algeri, di Casablanca. Ma al tempo stesso con le loro splendide odalische hanno contribuito a fissare nel nostro immaginario fantasie di un Vicino Oriente femminile ma del tutto inerte. In questo suo nuovo lavoro, Gaillard analizza queste rappresentazioni riavvolgendo il nastro della storia fino al XVII secolo, quando comparvero i primi vagheggiamenti di un Oriente, terra lontana, luogo opulento, mitico, d’evasione.                          s.m.
dal settimanale left-avvenimenti

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Costantinopolitismo

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 10, 2010

di Simona Maggiorelli da Istanbul

Istanbul

Per una iniziativa partita dalla società civile un gruppo di intellettuali turchi nel 1999 perorò la causa di Istanbul capitale europea della cultura ricevendo un secco no dalla Ue dal momento che la Turchia non ne fa parte. Ma quella proposta partita dal basso, sul lungo periodo, ha dato i suoi frutti e il 16 gennaio Istanbul avrà la sua incoronazione ufficiale come capitale del 2010. La cultura in questo caso ha preceduto la politica. Dimostrandosi più sensibile e lungimirante nel preconizzare un allargamento dell’Europa che significherebbe anche riconoscerne le radici multiculturali e, dal punto di vista delle religioni, certamente non solo cattoliche ma anche islamiche e chissà – di questo passo, ci auguriamo – anche pagane. Da parte sua la capitale turca punta a festeggiare l’atteso evento con una ridda di appuntamenti internazionali di arte, letteratura, musica, danza e perfino di cucina e di moda.

Se ne è avuto qualche assaggio già durante le recenti festività, in una Istanbul che da alcune settimane insolitamente inonda di luci il mare scuro e profondo del Bosforo. Una Costantinopoli degli anni Duemila animata più che mai di locali, di feste e di concerti improvvisati a ogni angolo di strada, secondo la tradizione zingara più intima e seducente della città. Ma anche una capitale piena di cantieri aperti per restauro di monumenti simbolo come il Ponte di Galata sul Corno d’Oro e per la costruzione di nuovi centri culturali come il Museo dell’innocenza che il premio Nobel per la letteratura Ohran Pamuk ha fondato a pochi metri dalla sua casa-studio nello storico quartiere di Cihangir, traducendo in realtà una fantasia del protagonista del suo ultimo omonimo romanzo. E ancora per le centinaia di migliaia di turisti che durante le feste di capodanno hanno letteralmente preso “d’assalto” la metropoli (in tutto il 2009 sono stati 7,5 milioni e se ne attendono più di 10 milioni nel 2010) si aprono grandi mostre dedicate all’arte della Persia antica e ai rapporti fra Venezia e l’impero ottomano, mentre sfodera tutti i suoi gioielli lo storico Topkapi, che per secoli, con il suo dedalo di sale per consigli politici (divan), giardini con fontane, harem, ha fatto da palazzo pubblico e privato dei sultani ottomani. Intanto sul pontile di Galata pescatori di ogni età continuano a prendere all’amo pesci messi in fuga dal passaggio delle navi, per le strade del vecchio quartiere di Sultanahmet strillano i venditori di ciambelle, i gatti dormono sui tappeti in vetrina e la voce del muezzin continua a scandire le ore di preghiera in questa megalopoli (che dagli anni Cinquanta a oggi è passata da poco più di un milione di abitanti agli attuali 12 milioni) in cui da sempre convivono differenti culture e religioni e dove oggi fiere ragazze con la minigonna sfrecciano per le vie di Beyoglu accanto a donne velate. Una mescolanza singolare, non solo di culture turche, arabe, greche, armene, curde, come racconta la scrittrice turca Elif Shafak ne La bastarda di Istanbul (Rizzoli) e nel suo nuovo romanzo ma anche una particolarissima coesistenza di antico e moderno, di inerzia e movimento continuano a essere la cifra più vera di questa Bisanzio del nuovo millennio. Così il Museo di arte moderna, nato cinque anni fa, con il suo giardino di sculture in acciaio colorato si inserisce nello scosceso panorama di viuzze del quartiere di Cihangir (quello di Pamuk appunto), dominato da una svettante moschea. E in Santa Sofia una Madonna bizantina campeggia accanto a versetti del Corano.

Istanbul by night

Compresenze di Oriente e di Occidente che fanno il fascino sottile di questa capitale della cultura che, unica al mondo, si stende su due continenti. Una città che sul versante occidentale come sul quello asiatico continua a crescere in orizzontale, disinvoltamente senza centro, come volesse procedere all’infinito. Nei quartieri della parte più europea, palazzoni di cemento e piccole case di legno si ergono fianco a fianco, giocandosela in solitario nel conquistare un proprio posto in uno skyline “creativo”, gaddianamente «patrufaziano». Istanbul – e questo è parte della sua magia – trova anche il modo di far convivere il razionalismo dell’edilizia anni Settanta con il romanticismo delle vecchie Yali in legno, residenze di villeggiatura sul Bosforo della buona borghesia turca. Alcune sopravvivono come se il tempo non fosse passato, altre anche in mezzo all’abitato appaiono drammaticamente spanciate e ridotte a macerie da incendi e terremoti. Come quello, devastante, che colpì Istanbul nel 1999 causando più di 30mila morti. La città turca, di fatto, sorge su una faglia simile a quella californiana senza mai essersi dotata di adeguata edilizia anti sismica. E come scrive lo stesso Pamuk nel libro Altri colori (Einaudi) non c’è cupola o minareto qui che, nei secoli, non sia stato ricostruito almeno una volta. «Compresi quelli che ai nostri occhi hanno sempre rappresentato la continuità ottomana nei secoli». Comprese anche le magnifiche moschee del più importante architetto ottomano, Sinan (1489-1588), che punteggiano la città di monumentali cupole finemente decorate all’interno con ceramiche dipinte e con un complesso lessico aniconico. I fondi che il governo di Ankara è riuscito a racimolare grazie al fatto che Istanbul sia stata riconosciuta capitale europea 2010 serviranno in larga parte proprio a questo, a fare lavori di restauro e di consolidamento dei molti tesori d’arte che Istanbul possiede. Ma la faccenda potrebbe in realtà essere più complicata. Sui giornali turchi, infatti, nei mesi scorsi si è accesa una violenta polemica sulla gestione delle celebrazioni da parte dell’agenzia turca Istanbul 2010 european capital of culture. Nell’ufficio del suo segretario generale Yilmaz Kurt sono passate più di duemila proposte di progetti culturali dei quali ne sono stati selezionati 467 da spalmare durante tutto l’arco dell’anno. Fra questi, il restauro di Santa Sophia e di Palazzo Topkapi, ma anche progetti di festival cinematografici e di concerti di rockstar come gli U2. Il tutto con un budget che si aggira sui 375 milioni di lire turche. Metin Karada, noto architetto e segretario dell’Ordine, in più di un’intervista ha detto che l’Agenzia ha una struttura caotica e la suddivisione dei fondi «non è trasparente».

santralistanbul

Ma ci sono state anche altre accuse di corruzione e di mala gestione. Che a oggi però non sono state ancora provate. «Sull’Agenzia si sono fatte molte chiacchere – ha commentato il ministro della Cultura e del turismo Günay al quotidiano Daily News -. In realtà molti progetti sono stati rifiutati perché molto costosi oppure perché giudicati inadeguati, e questo ha generato malcontento fra chi li aveva avanzati». Di fatto, forte è stato lo scontento nel mondo dell’arte contemporanea per la selezione dei progetti. Un mondo che però a Istanbul vive da più di una decina di anni una stagione vivacissima. Basta dare uno sguardo a Santralistanbul (www.santralistanbul.com), uno straordinario reperto di archeologia industriale (si tratta della prima centrale elettrica dell’impero ottomano costruita nel 1911) trasformato da tre anni a questa parte in un cantiere internazionale d’arte dove si incontrano differenti linguaggi delle arti visive, della musica, della danza. Oppure al Museo di arte moderna o alla storia della lanciatissima Biennale di Istanbul, nata nel 1987. La vera movida di Istanbul abita qui. E continua a crescere da più di una decina di anni. er una iniziativa partita dalla società civile un gruppo di intellettuali turchi nel 1999 perorò la causa di Istanbul capitale europea della cultura ricevendo un secco no dalla Ue dal momento che la Turchia non ne fa parte. Ma quella proposta partita dal basso, sul lungo periodo, ha dato i suoi frutti e il 16 gennaio Istanbul avrà la sua incoronazione ufficiale come capitale del 2010. La cultura in questo caso ha preceduto la politica. Dimostrandosi più sensibile e lungimirante nel preconizzare un allargamento dell’Europa che significherebbe anche riconoscerne le radici multiculturali e, dal punto di vista delle religioni, certamente non solo cattoliche ma anche islamiche e chissà – di questo passo, ci auguriamo – anche pagane. Da parte sua la capitale turca punta a festeggiare l’atteso evento con una ridda di appuntamenti internazionali di arte, letteratura, musica, danza e perfino di cucina e di moda. Se ne è avuto qualche assaggio già durante le recenti festività, in una Istanbul che da alcune settimane insolitamente inonda di luci il mare scuro e profondo del Bosforo. Una Costantinopoli degli anni Duemila animata più che mai di locali, di feste e di concerti improvvisati a ogni angolo di strada, secondo la tradizione zingara più intima e seducente della città. Ma anche una capitale piena di cantieri aperti per restauro di monumenti simbolo come il Ponte di Galata sul Corno d’Oro e per la costruzione di nuovi centri culturali come il Museo dell’innocenza che il premio Nobel per la letteratura Ohran Pamuk ha fondato a pochi metri dalla sua casa-studio nello storico quartiere di Cihangir, traducendo in realtà una fantasia del protagonista del suo ultimo omonimo romanzo. E ancora per le centinaia di migliaia di turisti che durante le feste di capodanno hanno letteralmente preso “d’assalto” la metropoli (in tutto il 2009 sono stati 7,5 milioni e se ne attendono più di 10 milioni nel 2010) si aprono grandi mostre dedicate all’arte della Persia antica e ai rapporti fra Venezia e l’impero ottomano, mentre sfodera tutti i suoi gioielli lo storico Topkapi, che per secoli, con il suo dedalo di sale per consigli politici (divan), giardini con fontane, harem, ha fatto da palazzo pubblico e privato dei sultani ottomani. Intanto sul pontile di Galata pescatori di ogni età continuano a prendere all’amo pesci messi in fuga dal passaggio delle navi, per le strade del vecchio quartiere di Sultanahmet strillano i venditori di ciambelle, i gatti dormono sui tappeti in vetrina e la voce del muezzin continua a scandire le ore di preghiera in questa megalopoli (che dagli anni Cinquanta a oggi è passata da poco più di un milione di abitanti agli attuali 12 milioni) in cui da sempre convivono differenti culture e religioni e dove oggi fiere ragazze con la minigonna sfrecciano per le vie di Beyoglu accanto a donne velate. Una mescolanza singolare, non solo di culture turche, arabe, greche, armene, curde, come racconta la scrittrice turca Elif Shafak ne La bastarda di Istanbul (Rizzoli) e nel suo nuovo romanzo ma anche una particolarissima coesistenza di antico e moderno, di inerzia e movimento continuano a essere la cifra più vera di questa Bisanzio del nuovo millennio. Così il Museo di arte moderna, nato cinque anni fa, con il suo giardino di sculture in acciaio colorato si inserisce nello scosceso panorama di viuzze del quartiere di Cihangir (quello di Pamuk appunto), dominato da una svettante moschea. E in Santa Sofia una Madonna bizantina campeggia accanto a versetti del Corano. Compresenze di Oriente e di Occidente che fanno il fascino sottile di questa capitale della cultura che, unica al mondo, si stende su due continenti. Una città che sul versante occidentale come sul quello asiatico continua a crescere in orizzontale, disinvoltamente senza centro, come volesse procedere all’infinito. Nei quartieri della parte più europea, palazzoni di cemento e piccole case di legno si ergono fianco a fianco, giocandosela in solitario nel conquistare un proprio posto in uno skyline “creativo”, gaddianamente «patrufaziano». Istanbul – e questo è parte della sua magia – trova anche il modo di far convivere il razionalismo dell’edilizia anni Settanta con il romanticismo delle vecchie Yali in legno, residenze di villeggiatura sul Bosforo della buona borghesia turca. Alcune sopravvivono come se il tempo non fosse passato, altre anche in mezzo all’abitato appaiono drammaticamente spanciate e ridotte a macerie da incendi e terremoti. Come quello, devastante, che colpì Istanbul nel 1999 causando più di 30mila morti. La città turca, di fatto, sorge su una faglia simile a quella californiana senza mai essersi dotata di adeguata edilizia anti sismica. E come scrive lo stesso Pamuk nel libro Altri colori (Einaudi) non c’è cupola o minareto qui che, nei secoli, non sia stato ricostruito almeno una volta. «Compresi quelli che ai nostri occhi hanno sempre rappresentato la continuità ottomana nei secoli». Comprese anche le magnifiche moschee del più importante architetto ottomano, Sinan (1489-1588), che punteggiano la città di monumentali cupole finemente decorate all’interno con ceramiche dipinte e con un complesso lessico aniconico. I fondi che il governo di Ankara è riuscito a racimolare grazie al fatto che Istanbul sia stata riconosciuta capitale europea 2010 serviranno in larga parte proprio a questo, a fare lavori di restauro e di consolidamento dei molti tesori d’arte che Istanbul possiede. Ma la faccenda potrebbe in realtà essere più complicata. Sui giornali turchi, infatti, nei mesi scorsi si è accesa una violenta polemica sulla gestione delle celebrazioni da parte dell’agenzia turca Istanbul 2010 european capital of culture. Nell’ufficio del suo segretario generale Yilmaz Kurt sono passate più di duemila proposte di progetti culturali dei quali ne sono stati selezionati 467 da spalmare durante tutto l’arco dell’anno. Fra questi, il restauro di Santa Sophia e di Palazzo Topkapi, ma anche progetti di festival cinematografici e di concerti di rockstar come gli U2. Il tutto con un budget che si aggira sui 375 milioni di lire turche. Metin Karada, noto architetto e segretario dell’Ordine, in più di un’intervista ha detto che l’Agenzia ha una struttura caotica e la suddivisione dei fondi «non è trasparente». Ma ci sono state anche altre accuse di corruzione e di mala gestione. Che a oggi però non sono state ancora provate. «Sull’Agenzia si sono fatte molte chiacchere – ha commentato il ministro della Cultura e del turismo Günay al quotidiano Daily News -. In realtà molti progetti sono stati rifiutati perché molto costosi oppure perché giudicati inadeguati, e questo ha generato malcontento fra chi li aveva avanzati». Di fatto, forte è stato lo scontento nel mondo dell’arte contemporanea per la selezione dei progetti. Un mondo che però a Istanbul vive da più di una decina di anni una stagione vivacissima. Basta dare uno sguardo a Santralistanbul (www.santralistanbul.com), uno straordinario reperto di archeologia industriale (si tratta della prima centrale elettrica dell’impero ottomano costruita nel 1911) trasformato da tre anni a questa parte in un cantiere internazionale d’arte dove si incontrano differenti linguaggi delle arti visive, della musica, della danza. Oppure al Museo di arte moderna o alla storia della lanciatissima Biennale di Istanbul, nata nel 1987. La vera movida di Istanbul abita qui. E continua a crescere da più di una decina di anni.

Le due signore del Mediterraneo

Istanbul e Venezia, un rapporto lungo secoli

interno moschea, Istanbul

Centoventisei opere provenienti dai Musei civici veneziani e quarantacinque dai musei di Istanbul documentano in una grande mostra al museo Sakip Sabanci la lunga trama di rapporti che le due città ebbero nei secoli. Con il titolo Venezia e Istanbul in epoca ottomana (fino al 28 febbraio, catalogo Electa) questa rassegna, ideata per Istanbul capitale europea della cultura 2010, si concentra in particolare sul periodo che va dalla caduta di Costantinopoli nel 1453 alla battaglia di Lepanto del 1571 vinta dai cristiani (anche se, come è noto, si trattò di una data molto più simbolica che risolutiva in termini di egemonia). Arrivando poi fino al 1718, l’anno in cui i rapporti fra la Repubblica marciana e la Sublime Porta si conclusero definitivamente. (Vedi in proposito quanto scrive Ennio Concina nel libro Venezia e Istanbul, incontri, confronti e scambi, Forum). Dunque un lungo percorso con molte testimonianze di arte bizantina, di arte veneta protorinascimentale e rinascimentale, per arrivare all’orientalismo dell’arte ottocentesca. E se come ci ha insegnato lo storico dell’arte Otto Demus in libri come L’arte bizantina e l’Occidente (Einaudi) il ruolo svolto dall’arte bizantina nell’evoluzione dell’arte occidentale è stato fondamentale, con tanto di artisti bizantini usati come maestri e maldestri tentativi occidentali di imitazione, non meno trascurabile è stata l’influenza dell’arte turco-ottomana e, attraverso i traffici commerciali e i rapporti diplomatici con Istanbul, quella proveniente dai Paesi arabi. Le due signore del Mediterraneo La mostra al Sakip Sabanci, dunque, racconta di un ricco scambio biunivoco fra le due differenti culture, che da parte “europea” vide protagonista assoluta l’arte di Gentile Bellini con il suo potente ritratto del doge Giovanni Mocenigo (in mostra a Istanbul) ma anche con il suo celeberrimo Ritratto del sultano Mehmed II del 1480 conservato alla Nataional gallery di Londra. Un quadro che il pittore veneziano – primo artista occidentale a lavorare direttamente su committenza ottomana – realizzò vivendo per un periodo presso la corte del sultano. E non è certo un caso che si trattasse di un pittore che aveva bottega a Venezia. La Repubblica nei primi tre secoli di conflitti con i turchi aveva mostrato una certa condiscendenza sprezzante verso i rivali, cavalieri delle steppe abili nell’arte equestre ma nuovi all’arte nautica. Ma poi, vista l’esiguità del proprio apparato militare e per non offrire vantaggi alla rivale Genova, pensò bene di optare per una politica neutrale verso i turchi. Una politica che si tradusse in fitti scambi commerciali e qualche volta perfino in alleanze militari.

Lorenzo Lotto carpet

Testimonianze del secolare rapporto di Venezia con la cultura ottomana, anche per questo, si trovano nelle tele commissionate da ricchi committenti veneziani ai pittori più importanti tra fine Quattrocento e fine Cinquecento. Basta pensare alla precisa raffigurazione di tappeti turchi in alcune opere di Lorenzo Lotto. Oppure alla foggia di vestiti con turbante e alla presenza di minareti sullo sfondo di alcune tele di Carpaccio e in molta pittura “orientalista” che si sviluppò a Venezia dal XV al XVII secolo. Senza contare che determinante per la nascita del cosiddetto colorismo veneto (di cui furono protagonisti Tiziano, Veronese, Tintoretto e poi Tiepolo) fu l’impiego di particolari pigmenti usati dai miniaturisti persiani e ottomani e l’uso di polvere di pietre preziose nell’amalgama dei colori. E se prestiti orientali quasi non si contano nelle lacche veneziane e nelle rilegature di libri veneziani del XVI secolo, così come nella lavorazione di metalli ageminati, nei tessuti e nei velluti, colpisce a livello meno patente la penetrazione di certe suggestioni della cultura islamica contenute in capolavori come I tre filosofi (1504-08) di Giorgione in cui l’artista dà particolare rilievo e fierezza alla figura che secondo la lettura di Michael Barry (in Venezia e l’islam 828-1797, Marsilio) andrebbe letta come ritratto del filosofo Averroè.

Vermeer spleeping maid

Ma se i prestiti della cultura turco-ottomana all’arte italiana sono ancora materia per specialisti e, purtroppo, non compaiono sui manuali di scuola, spostandoci dal museo Sakip Sabanci al ricchissimo Museo di arte turca e islamica nei pressi della Moschea blu non si può non restare colpiti dal sistema di catalogazione delle opere e dei reperti. Questi ultimi per lo più sono schedati con il nome dell’archeologo occidentale che li ha riportati alla luce. Mentre per indicare le diverse e complesse grafie dei tappeti turchi vengono comunemente usati i nomi dei pittori italiani e olandesi (Bellini, Lotto, Holbein ecc) che dipinsero quelle tipologie di tappeto nei loro quadri. Tristemente, quasi fosse lo sguardo dell’Occidente a definirne il valore.

La pazzia del sultano, il tarlo ottomano

I loro antenati erano i turcomanni del III millennio a.C. Ma il potere ottomano non fu strutturato solo sulla potenza “equestre”. La chiave del lungo successo dell’impero, racconta Jason Goodwin ne I signori degli orizzonti (Einaudi), risiedeva in un complesso sistema militare e di governo. «Tra il 1320 e il 1390 gli Ottomani travolsero come un’onda impetuosa le secche del potere bizantino che aveva dominato per più di mille anni» scrive lo storico inglese. Nel 1326 gli Ottomani conquistarono Bursa facendone la loro capitale, poi a poco a poco si impadronirono della Grecia settentrionale, della Macedonia, della Bulgaria e quindi della Tracia e di Adrianopoli che, ribattezzata Edirne, divenne nel 1366 la loro capitale sul suolo europeo. La travolgente avanzata ottomana fu temporaneamente arrestata da Timur nel 1402 nella battaglia di Ankara. Nel 1453 però i turchi conquistarono Istanbul (gli occidentali la registrarono come la caduta di Costantinopoli). E l’avanzata ottomana riprese con forza fino ad arrivare poi a Vienna, nel cuore dell’Europa. Ma l’impero significò anche la costruzione di un’importante rete di istituzioni culturali e islamiche che permisero di presidiare il territorio conquistato: ovvero moschee, madrasse, biblioteche ma anche caravanserragli, bazar, ponti, acquedotti, ospedali e ospizi. Se gli Ottomani, insomma, non andavano tanto per il sottile quando erano in guerra, usavano il guanto di velluto quando si trattava poi di governare, lasciando che i popoli conservassero le loro tradizioni e credenze religiose. Ma quell’impero ottomano, che con il cosiddetto tributo dei ragazzi aveva congegnato un sistema di cooptazione della classe militare e della burocrazia facendo fuori ogni privilegio di sangue e ogni infida aristocrazia, aveva nella legge fratricida il proprio tallone di Achille. Con questa legge (che fu abolita solo nel 1603) i fratelli e i parenti del sultano venivano uccisi o rinchiusi in prigione perché non potessero tramare contro di lui. Ma la pratica invalidante di imprigionare i principi nelle gabbie finì per creare dinastie di disadattati. Osman III, per esempio, aveva passato cinquanta anni in una gabbia con sordomuti quando fu ripescato per prendere il posto del sultano che nel frattempo era morto. «Molti sultani – scrive Goodwin – erano mentalmente disturbati, un fatto che non può essere attribuito ai pericoli dei matrimoni tra consanguinei ma si spiega con le atroci condizioni in cui venivano allevati». s.m.

L’altra Istanbul. Uno scenario underground

C’è voluto il lungometraggio del turco tedesco Fatih Akin “Crossing the Bridge: il sound di Istanbul”, nel 2005, perché si cominciasse a parlare della Istanbul underground. Sezen Aksu, dalla band neo psichedelica Baba Zula alla cantante tradizionale curda Aynur Dogan, il mondo sotterraneo che gravita dal ponte di Galata a Istiklal Caddesi, sul lato occidentale di Costantinopoli, trovava finalmente diffusione. Istanbul è anche, e forse ultimamente soprattutto, questo. Una generazione nata lontana dalla città sul Bosforo, che fino a cinquant’anni fa era anche greca, figlia della città operaia di Izmit o emigrata dal Kurdistan in seguito al conflitto col Pkk. E approdata nel quartiere di Beyoglu, fra affitti improponibili, case occupate e disagi metropolitani, dopo essere cresciuta sotto la repressione del colpo di Stato, il divieto di apertura verso ovest ed Est, il nazionalismo e il militarismo più estremi, fino a sviluppare correnti e suoni del tutto unici. Non è Occidente né Oriente, la scena musicale di Istanbul: è semplicemente tutto quel che si può immaginare. Il turbo folk balcanico, la musica elettronica suonata col saz, e soprattutto la strada, luogo di socializzazione privilegiato di tutta l’area ottomana. A Istiklal si gira con lo strumento e ci si siede a suonare mentre dal lato occidentale, a Kadikoy, si vanno a incidere album che poi invadono internet e negozi. Dietro a tutto questo c’è anche molta politica; perché la libera espressione, in Turchia, è prima di tutto un atto di denuncia. C’è la questione delle minoranze curde, alevite, arabe e rom, per chi vuole fare musica tradizionale; c’è la questione dei diritti umani, per chi va a suonare agli scioperi e alle manifestazioni e per chi ha le radici ben piantate nel cemento della Turchia del boom economico e quindi del rock, del rap, e dell’elettronica; e ci sono i diritti dei migranti, perché Istanbul è anche un crocevia di profughi in arrivo da Africa, Afghanistan, Iraq e Palestina. Un esempio di questa commistione è Enzo Ikah, venticinquenne esule politico congolese; nato in Italia, studente della Sorbona, bassista di Youssu’n Dour e infine fuggitivo per aver criticato il regime della Repubblica Democratica del Congo, oggi fa il cantante reggae a Istanbul. In turco. Un fenomeno locale, che dopo due anni di concerti sta finalmente per pubblicare il primo disco – entro fine gennaio, pare. Alle sue spalle, un intero collettivo di band politicamente impegnate, l’Oppa tzupa sound. system. Una costellazione di esperienze che comprende la rock band Ahibba, che canta in arabo facendo metal con strumenti tradizionali; lo ska punk balcanico dei Bandista, che cantano in turco “Bella ciao” e “Fischia il vento”; il folk-jazz di Julide Oksel; e così via, evolvendosi ed espandendosi a un ritmo impressionante, inglobando collaborazioni con film maker, movimenti politici, artisti visuali e tutto ciò che di unico questa città sta producendo. In tempo reale.(contributo su Istanbul underground di Annalena Di Giovanni)

da left-avvenimenti

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Lettera d’amore a Istanbul

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 9, 2010

Orhan Pamuk presenta il  libro fotografico di un compagno di infannzia e sodale nella ricerca artisticaGli scatti  di Güler offrono la possibilità di vedere «accanto alla modernità, la semplicità e l’ingenuità». E scrive l’autore del romanzo Il mio nome  è rosso: «non è tristezza»

di Simona Maggiorelli

Istanbul

E’ una Istanbul in poetico  bianco e nero, di palazzi antichi, minareti e rigattarie, di nebbia mista a odore di spezie e caffè. Una città dal fascino retrò con baci rubati per le strade e donne velate in luoghi di preghiera. Una capitale in cui, negli anni Cinquanta, la modernità arrivava a passo lento ma inarrestabile fra i resti scintillanti dell’impero ottomano e la voce potente del muezzin. Il fotografo Ara Güler nel libro Istanbul (Mondadori) ha composto una lettera d’amore per immagini dedicata alla sua città natale. Riportando anche lo scrittore e Premio Nobel Orhan Pamuk a rivivere le atmosfere di un’infanzia trascorsa a giocare sul selciato di antiche chiese bizantine e al porto, fra i pescatori, a guardare le navi partire.

«Seduti in un caffè sulle rive del Bosforo non vediamo più i pescatori stendere le reti sul pontile o sulla banchina, Ma d’inverno e in autunno capita ancora che una miriade di pesci affluisca nelle acque del Bosforo e, come nelle fotografie di Ara Güler – annota Pamuk nel libro -l’ingresso del Bosforo o del Corno d’Oro si riempiano improvvisamente di centinaia di migliaia di barche». Un paesaggio che oggi lo scrittore turco osserva da lontano, dalla finestra del suo appartamento di Cihangir dove scrive i suoi romanzi. E queste foto di Güler velate di malinconia, mostrando contasti e inaspettate coesistenze fra vecchio e nuovo, suonano come il perfetto alter ego della vista sulla capitale che Pamuk ha affrescato due anni fa nel libro Istanbul (Einaudi).

Forse non è un caso che entrambi, da giovani, volessero fare i pittori. Gli scatti di Güler offrono la possibilità d vedere «accanto alla modernità, la semplicità e l’ingenuità e – fa giustamente notare Pamuk- non è tristezza». Per quanto poveri siano i carretti e spiazzanti gli asini dei venditori di pane in mezzo a rutilante movimento della capitale, o per quanto sfuggente sia lo sguardo delle donne impaurite e sorprese dall’obiettivo, la sensazione che le immagini di Güler comunicano a prima vista è quella di una contagiosa vitalità, oseremmo quasi dire di allegria.
Perfino nelle fabbriche abbandonate e nelle case fatiscenti l’atmosfera non è mai oppressiva o del tutto disperata. Quasi che l’umanità di chi le abita colorasse i luoghi. E di fronte a questi toccanti quadri hanno il sapore di somma sprezzatura le parole di Ara Güler quando afferma che «la fotografia non è arte» e che le sue immagini hanno un valore puramente documentaristico.

I CANTASTORIE DI  STAMBOUL

Ho voluto offrire in quest’antologia, una rosa di storie che con le mie stesse mani ho raccolto nel variopinto giardino del folklore turco» scriveva lo studioso ungherese Ignácz Kúnos dando alle stampe le fiabe raccolte nel corso dei suoi viaggi attraverso l’Anatolia e ora riproposte da Donzelli in un ricco volume illustrato.
«Non mi sono servito di libri – spiegava Kúnos – dal momento che la Turchia non è terra di lettere, e non esiste nessun libro del genere; ma, quale attento ascoltatore dei cantastorie, mi sono messo a trascriverli. Sono le storie che si possono udire ogni giorno, nei pressi di Stamboul, nelle casette sgangherate che formano questo quartiere di Costantinopoli essenzialmente turco, e che le donne del luogo, intorno al focolare, raccontano ai bambini o alle amiche». Le fiabe turche, proseguiva Kúnos «sono come il cristallo, che riverbera i raggi del sole in una miriade di fulgidi colori; limpide come il cielo sereno; trasparenti come la rugiada su un bocciolo di rosa. In breve, le fiabe turche non sono Le Mille e una notte. Sono, piuttosto, I Mille e un giorno».
Lo studioso di folklore decise di consegnare alla scrittura il patrimonio favolistico popolare di una cruciale terra di confine tra Oriente e Occidente. E perché la circolazione di queste fiabe fosse la più ampia possibile, scelse di trascriverle e pubblicarle in inglese. Prima di oggi quelle storie di Padiscià, sultane, visir, animali parlanti, draghi, spiritelli buoni e dei crudeli non avevano mai raggiunto direttamente il pubblico italiano. La carica immaginifica di queste Fiabe turche edite da Donzelli trova forza anche nella grafica risposta secondo i disegni originali concepiti da Pogány e qui fedelmente riprodotti.

QUELLA BISANZIO CHE PER I CATTOLICI ERA IL MALE
Per secoli gli studi medievali occidentali Bisanzio era stata considerata più che altro come una coda tardiva e decadente dell’antichità greco-romana. E quando uno studioso russo come Georg Ostrogorsky cominciò a dimostrare con i suoi libri quanta importanza avesse avuto nello sviluppo della civiltà, in Europa di metà ’900 ancora c’era chi sgranava gli occhi. «Che quell’impero millenario, oggetto di pregiudizi tenaci e secolari rancori confessionali da parte della Chiesa di Roma, non meritasse il disdegno da cui era tradizionalmente circondato fu per molti una vera rivelazione» annota Mario Gallina nell’introduzione al libro di Ivan Djuric’ Il crepuscolo di Bisanzio (Donzelli, 412 pagine, 19,50 euro). Cresciuto intellettualmente nella scuola di studi bizantini che Ostrogorsky fondò a Belgrado dopo essere stato cacciato dalla Germania nazista, Djuric’ mette a profitto la lezione del maestro, dimostrando l’infondatezza scientifica di quei pregiudizi che avevano sempre dipinto Bisanzio come il regno del “Male”, incarnato in un esasperato politicismo e nella decadenza dello spirito pubblico. Al centro di questo studio che si legge come un romanzo in primis gli eventi storici del XIV quando Bisanzio «non era più padrona di sé e fu costretta a fare i conti con il suo declino».        s.m.

Lo “SCONTRO” DI CIVILTA^ SECONDO WU MING
Dieci  anni fa esordirono firmandosi Luther Blissett. La vicenda si svolgeva nella Istanbul del 1555 e in Q si ripercorreva a ritroso la storia d’Europa e le guerre interne alla cristianità. Oggi, quello stesso collettivo di scrittori si firma Wu Ming e ritorna a parlare delle guerre ai confini dell’Impero ottomano. Questa volta in Altai (Einaudi, 411 pagine, 19,50 euro) le gesta narrate da Wu Ming muovono da Venezia.
Siamo nel 1569 e un boato scuote la notte.
È l’Arsenale che va a fuoco, subito si apre la caccia al colpevole. Un agente della Serenissima fugge verso oriente, smarrito, «l’anima rigirata come un paio di brache». Approderà a Costantinopoli. Qui conosce Giuseppe Nasi, nemico e spauracchio d’Europa, potente giudeo che dal Bosforo lancia una sfida al mondo e a due millenni di oppressione. Intanto, sempre ai confini dell’Impero, un altro uomo si mette in viaggio, per l’ultimo appuntamento con la Storia. Gli echi di rivolte, intrighi, scontri di civiltà incalzano. Nicosia, Famagosta, Lepanto: uomini e navi corrono verso lo scontro finale tra islam e cristianesimo. Tra Oriente e Occidente. Mondi divisi e diversi in tutto. Anche negli effluvi. «Ogni città ha un odore di fondo: Venezia è muffa e salmastro, Salonicco sa di piscio, Costantinopoli di terra bagnata e fatica e sogno».

IL REGNO DEI SIGNORI DEGLI ORIZZONTI
A Est, dal Mar Rosso lungo il Nilo sino all’Algeria; a Ovest, dal Mar Caspio fino alle porte di Vienna lungo il Danubio. Quella degli Ottomani è stata una storia di espansione e declino durata 600 anni. Comincia al termine del XIII secolo ai piedi delle montagne dell’Anatolia, da qui si muove travolgendo il potere bizantino fino ad arrivare alla costruzione di un impero che all’epoca del suo massimo splendore si estendeva, appunto, dal Danubio al Nilo. L’impero era islamico, ma molti dei suoi sudditi non erano musulmani e nessuno cercava di convertirli. Nel saggio storico I signori degli orizzonti (Einaudi, 356 pagine, 32 euro) Jason Goodwin ci accompagna lungo un viaggio che segue ora il ritmo di vita all’interno dell’Impero ora il modo in cui gli Ottomani combattevano o andavano per mare. L’impressione che si prova è di trovarsi davvero nel regno dei «signori degli orizzonti». Non meno intriganti sono i tre libri che hanno come protagonista Yashim, l’eunuco detective che vive nella Istanbul dell’Ottocento. Ne Il ritratto di Bellini, Il serpente di pietra e L’albero dei giannizzeri, tutti pubblicati per Einaudi, attraverso le inchieste del saggio Yashim, Goodwin offre un elegantissimo affresco dell’antica grandezza della capitale imperiale ottomana. La cui storia non può prescindere dai rapporti, anche culturali, con Venezia e Vienna.

dal quotidiano Terra 5 dicembre 2009

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Il codice cifrato della bellezza

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 30, 2009

di Simona Maggiorelli
Nella  galassia dell’ arte islamica in cui si intrecciano differenti culture. Lo storico dell’arte Luca Mozzati con il nuovo libro Arte islamica (Mondadori arte) invita a un viaggio nel mondo variegato nato dall’incontro fra i primi conquistatori arabi e la straordinaria eredità mesopotamica, iranica, ma anche bizantina. Un universo complesso che trova espressione nella pittura, nell’architettura, nella calligrafia, nella ceramica, nei tappeti e che a nostri occhi occidentali, troppo spesso, risulta lontano, appiattito, alterato da pregiudizi. Come quello che vorrebbe l’arte islamica rigidamente aniconica  oppure la posizione dell’artista tout court schiacciata da quella del committente religioso, quando in realtà nell’Islam, come scrive Mozzati « non esistono chiesa, sacerdoti o sacramenti».
«Per cominciare – spiega il professore – va detto che nell’arte islamica il concetto di artista, come soggetto creatore, non esiste. Fino al Rinascimento non ci fu nemmeno da noi. Possiamo parlare di esplicita volontà individuale con artisti come Michelangelo. Non prima. Ma il fatto che uno si muova all’interno di canoni formali non pregiudica l’eventuale espressione di contenuti individuali, anche se nell’Islam per noi possono non essere immediatamente leggibili».
Così se la floridissima miniatura e la tradizione di libri illustrati che si sviluppò nell’impero ottomano, in Persia e in parte dell’Asia ci appare in certo modo più familiare, la scintillante cascata di stalattiti (muqarnas) che sovrasta moschee, madrase e tante architetture islamiche ci seduce sul piano emotivo, ma perlopiù ci lascia disarmati dal punto di vista della decodificazione del suo significato di rappresentazione della bellezza dell’infinito pulsare del cosmo. «Importanti apparati decorativi a carattere logico-matematico connotano l’arte islamica – approfondisce Mozzati -. Si presentano come una sorta di linguaggio cifrato. Chi è in grado di comprenderne la bellezza,  vi può cogliere quell’assoluto che nell’Islam pertiene all’ambito del divino». In capolavori come la ceramica a mosaico della moschea del venerdì a Yazsd, per esempio, l’ alternanza ritmica  di bianco turchese blu e marrone e la trama delicata del disegno floreale crescono su un rigoroso disegno geometrico. «Il senso lirico sovrapposto a quello razionale – prosegue Mozzati – sembra ricordare che per cogliere l’invisibile che si cela dietro quanto possiamo vedere bisogna fare appello alle facoltà intellettuali come a quelle emotive».
Professor Mozzati, nell’ Islam il divino è ritenuto non rappresentabile?
Certo non è rappresentabile in forma antropomorfa. Per i musulmani, così come per gli ebrei, sarebbe una bestemmia. Lo rappresentano in letteratura ma mai in pittura tranne rarissime eccezioni. Per trasmettere un messaggio che parli dell’esistenza di dio fanno ricorso a un tipo di bellezza che non è individuale e arbitraria ma astratto-geometrica. Rimanda alla legge che sottostà alla creazione. Come espressione di un’intelligenza divina che secondo la logica islamica permea tutto.
Dio creatore onnipotente  e insieme arbitrio umano. Come possono coesistere?
E una delle aporie dell’Islam. Nel Corano c’è l’assoluta necessità di obbedire a Dio, quanto la possibilità di agire secondo ciò che si sente. La lettura fondamentalista porta alla tragedia. Come è accaduto anche nel Cristianesimo. Le matrici delle due religioni sono simili: l’Islam, del resto, emerge dal  Cristianesimo orientale del  V e VI secolo.
Lei accennava al nesso fra bellezza e geometria.Quali rapporti ci furono fra Islam, Platonismo e poi con il neoplatonismo?
Il rapporto con tutta la filosofia greca antica fu molto forte. Nell’Islam c’è stata enorme attenzione per la scienza greca, almeno fino al XII e XIII secolo. Le più importanti personalità della matematica, della geometria, dell’astronomia nel X e XI secolo, non a caso, sono emerse in ambito islamico. La filosofia neoplatonica ipotizza un mondo superiore, un mondo altro, diverso da quello quotidiano. E in questo ci può essere un nesso. I musulmani credono che tutto accadrà nell’al di là, ma a differenza dei cristiani non hanno il senso drammatico del peccato, della colpa da espiare.
Alle origini del Cristianesimo ci fu una fase di iconoclastia feroce. Si parla di aniconismo, invece, per l’arte islamica. è corretto?
La nostra iconoclastia fu contemporanea al sorgere dell’Islam che molto probabilmente ne fu influenzato. Il rischio dell’idolatria era molto sentito dagli intellettuali costantinopolitani. Ma i monaci erano iconolatri e ritenevano l’icona fondamentale per la trasmissione del messaggio. Nell’Islam, in realtà, la questione dell’aniconismo è più tarda:  nell VIII secolo troviamo i primi hadit che proibiscono le immagini nei luoghi sacri. (O meglio di preghiera dacché nell’Islam non esistono luoghi sacri eccezion fatta per la Mecca). Dipingere figure umane in una moschea sarebbe blasfemia perché ci si metterebbe in concorrenza con il creatore e si farebbe una brutta copia di ciò che lui ha realizzato. Non dimentichiamo che nella spiritualità orientale la figura umana rappresentata è pensata come animata e viva. Quando gli egizi facevano delle statue poi “ infondevano” loro la vita. In tutto l’Oriente si riscontra un  certo pudore nel rappresentare l’essere umano.
Ma a Damasco ci sono scene erotiche nelle case affrescate fatte costruire dai califfi. Come si spiega?
I primi Califfi vi trovarono chiese cristiane piene di affreschi e ne percepirono il significato propagandistico. Così si dettero a costruire splendide architetture per dare un senso identitario ai musulmani. Per le moschee scelgono decorazioni a dimensione astratta e atemporale ma nelle abitazioni profane aristocratiche si riscontra una assoluta libertà di rappresentazione: scene di caccia e di guerra, balli, donne nude, scene erotiche esplicite, ma confinate nella sfera privata. Non si ostentavano perché il popolo non avrebbe accettato questa libertà delle élite.
I califfi rifiutarono la condanna dell’architettura espressa da Maometto?
Gli Abbasidi, in particolare, ristabilirono un culto imperiale di tipo persiano: il califfo aveva un suo spazio a parte nella moschea, camminava sui tappeti, era una sorta di dio in terra, cosa del tutto inusuale nell’Islam che non conosce una gerarchia nel luogo di preghiera.  Di fatto gli arabi erano stati dei barboni nel deserto e dal deserto poi  partì la rivolta contro la corruzione di quelli arrivati al trono.  Nel mondo arabo è successo molte volte. Gli arabi, diversamente dai persiani, venivano dal deserto ed erano abituati a condizioni di vita estreme e avevano un radicalismo di pensiero altrettanto estremo. i Persiani, invece, avevano una cultura diversa, alta, millenaria.
L’influenza araba fu importante anche in Spagna e in Sicilia; come si configurò questo rapporto che oggi appare stranamente rimmegato negli studi e più ancora nella politica che ha parlato di radici cristiane dell’Europa?
Gli artigiani e gli artisti che i Normanni radunarono intorno a sé erano cristiani che avendo lavorato in ambito musulmano si erano islamizzati nello stile. Così in Sicilia troviamo opere dall’iconografia cristiana ma di “spirito” islamico, a sua volta sedimentato sul bizantino cristiano. Così nascono i padiglioni di caccia normanni. La zisa, la cuba, la cubola sono architetture islamico orientali, fatte per regnanti cristiani. Lo stesso vale per le cattedrali di Cefalù e Monreale. In Spagna c’è l’arte mozarabica, per la Sicilia parliamo di arte normanna ma bisognerebbe dire arte islamica in tempo cristiano. Non abbiamo una definizione corretta. Di certo ci fu un’osmosi continua fra le diverse culture.
da left-avvenimenti del 18 dicembre 2009
pondi
Inoltra

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Mediterraneo, mare d’arte

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 31, 2009


Dal 7 giugno la 53ª Biennale di Venezia si fa porta d’Oriente, invitando a scoprire le tracce di un millenario incontro di civiltà.

di Simona Maggiorelli

Binabine, masque

Binabine, masque

Per secoli Venezia ha costruito la sua identità in un tessuto vivo di rapporti con l’Oriente. I viaggi di Marco Polo ce lo raccontano in chiave immaginifica e potente. Ma basta dare un’occhiata alla storia della Repubblica veneziana, nella lunga durata che va dall’anno Mille fino alla sua caduta alla fine del Settecento, per rendersi conto degli scambi continui con il mondo arabo abbiano sedimentato in lagunam le tracce di un millenario incontro di civiltà ricca e aperta alle suggestioni provenienti da Bisanzio ma anche dalla via carovaniera dell’incenso e delle spezie, dalla Persia e dall’Impero ottomano. La pittura veneta ne reca tracce brillanti, come rivelano i broccati delle trecentesche Madonne di Paolo Veneziano nel museo dell’Accademia. E più ancora certi capolavori del Quattrocento. Emblematico il Ritratto del sultano Mehmed II di Gentile Bellini.

Ma “visioni” di Oriente compaiono anche in Carpaccio mentre Giorgione ne I tre filosofi (1508) sembra lasciarsi affascinare dall’averroismo. Per non dire poi delle ascendenze arabe della cifra più caratteristica della pittura veneta: il colorismo, che maestri come Bellini, Tiziano, Veronese e Tintoretto svilupparono anche attraverso lo studio dei pigmenti delle miniature persiane, aprendosi agli effetti cromatici e alle spettacolari variazioni di toni di quelle opere di piccole dimensioni che arrivano dall’Oriente in opere di raffinta riilegatura. Un incontro di culture che ha lasciato tantissime testimonianze nelle chiese e nei musei di Venezia. E che la 53esima edizione della Biennale d’arte dal 6 giugno invita a riscoprire, disseminando mostre ed eventi collaterali alla rassegna intitolata Fare mondi negli angoli più diversi e suggestivi della città. Con un’attenzione particolare al dialogo fra arte contemporanea d’Oriente e di Occidente.

Emily Jacir, stazione 2008-2209

Emily Jacir, stazione 2008-2209

Così fra i 77 padiglioni nazionali, che quest’anno fanno segnare un record di presenze alla Biennale diretta da Daniel Birnbaum, compaiono per la prima volta gli Emirati Arabi, mentre tornano a essere rappresentati in laguna Iran, Siria e Palestina. E se manifestazioni come Art Dubai o la nona edizione della Sharjah biennal hanno avuto nei mesi scorsi una forte risonanza in Europa, l’effetto spiazzamento che ha prodotto la collettiva Unveiled, new art of the middle East proposta fino al 6 maggio scorso dalla Galleria Saatchi di Londra la dice lunga sui cliché con cui il pubblico occidentale ancora oggi si accosta alla sfaccettata galassia dell’arte araba. «Dopo anni spesi a cercare di trasmettere il mio appassionato interesse per il Medio Oriente e per l’arte araba moderna e contemporanea, l’argomento è diventato di gran moda» commenta la storica dell’arte Martina Corgnati sulla rivista Magazines. Ma da quel momento, nota la studiosa, è diventato tutto un proliferare di “esperti”, di viaggiatori dell’ultima ora, «di mostre e pubblicazioni che, fatte salve come sempre le eccezioni, hannosoltanto contribuito ad accrescere l’immensa confusione che oggi è diventata più densa e impenetrabile delle tempeste di sabbia nei deserti». Fra le confusioni interpretative più comuni e macroscopiche, la riduzione di tutti o quasi gli artisti arabi a una medesima matrice religiosa islamica. Tanto che di fronte alle opere d’arte (figurativa e non) selezionate da un gallerista pur à la page come Saatchi, c’è stato chi si è stupito del loro tono polemico e talvolta provocatorio. Ma se è vero che gli artisti di Unveiled erano soprattutto giovani emigrati in Occidente decisi a tagliare recisamente i ponti con le rispettive culture d’origine, la Biennale di Venezia – almeno sulla carta- dichiara di voler offrire panoramiche approfondite sulla scena artistica di città simbolo del mondo arabo come, per esempio, Marrakech, Teheran e Damasco. Così nel padiglione del Marocco allestito in Santa Maria della Pietà dal 6 giugno si potrà conoscere più da vicino la nuova “onda marocchina” cresciuta dal 2006 intorno al Centro di arte contemporanea di Rabat ma anche il lavoro di due personalità di spicco come l’artista Fathiya Tahiri che rilegge in forme sensuali i gioielli femminili della tradizione berbera, praticando al contempo una pittura astratta, intimista e altamente poetica.legato alla tradizione africana, rielabora l’iconografia delle maschere e dei totem scolpiti l’artista e scrittore Mahi Binebine, usando pigmenti puri stesi con le mani sulla tela oppure realizzando immagini inquiete e dolenti, con interventi che bruciano la tela. Immagini sfocate, indefinite con cui Binebine “completa” l’epos dei suoi romanzi, spesso dedicati all’esilio e all’emigrazione. E se i temi politici e la denuncia dei diritti umani violati sono il filo rosso che lega il lavoro dei sette artisti che a Venezia rappresentano la Palestina, negli spazi del Convento di S. Cosma e S. Damiano accanto a opere di forte impatto emotivo che vogliono dare un volto e una voce alle vittime civili dell’esercito israeliano, troviamo anche le creazioni di Emily Jacir che provano a immaginarsi un futuro multietnico e aperto al dialogo fra culture diverse. Al registro poetico e vitale della giovane artista palestinese fa eco il registro alto ma intriso di dolore della più matura Mona Hatoum. Artista palestinese che ha vissuto per molti anni da esule a Londra. Al suo lavoro trentennale la Fondazione Querini Stampalia dedica la retrospettiva Interior landscape, con 25 opere scelte insieme alla curatrice Chiara Bertola e in cui Hatoum evoca dolenti ”paesaggi interiori” legati a situazioni di sradicamento, di lontanza, di guerra. Solo nel padiglione della Siria, alla fine, ritroviamo la seduzione di un possibile e pieno dialogo fra culture diverse, senza sanguinose lacerazioni.In Ca’ Zenobio dal 7 giugno artisti siriani e italiani s’incontrano sul tema “Mediterraneo, crocevia di arte”. Curata da Spatafora e Dall’Ara la rassegna getta un ponte fra l’arte materica di un maestro come Yasser Hammoud e il realismo magico di Issam Darwich. Con loro si dipana la riflessione di artisti come Franca Pisani, Concetto Pozzati e molti altri.

L’Inaugurazione

La nuova Punta

della Dogana

punta della dogana

punta della dogana

Se ne parla da anni ed è uno dei più attesi eventi d’arte dell’anno: parliamo del recupero del complesso monumentale di Punta della Dogana, restaurato dall’architetto giapponese Tadao Ando, nel rispetto degli spazi originari. «L’edificio di Punta della Dogana – ha spiegato lo stesso Ando – ha una struttura semplice. Il volume crea un triangolo, analogo alla punta dell’isola di Dorsoduro, mentre gli interni sono ripartiti in lunghi rettangoli. Il lavoro di restauro – precisa l’architetto giapponese – è stato eseguito con un profondo rispetto per questo edificio emblematico, tutte le partizioni aggiunte nel corso delle ristrutturazioni precedenti sono state rimosse per ripristinare le forme della primissima costruzione. Riportando alla luce le pareti in mattoni e le capriate. In modo che lo spazio che rimanda alle antiche usanze marinare, ritrovasse le sua propria energia». In queste suggestive sale affacciate sul mare il francese Francois Pinault (che gestisce già Palazzo Grassi) espone opere della sua vastissima collezione d’arte.

Granelli di poesia

Incontro con l’artista iraniano Mosehen Vasiri

«Le immagini della pittura di Vasiri appartengono alla categoria delle impronte, dei segni, cioè, che il nostro essere imprime nell’essere del mondo e per mezzo dei quali costruisce la sua esperienza» scriveva Argan nel 1960 a proposito delle sorprendenti Sabbie interiori con cui l’artista iraniano esordiva nel panorama dell’arte italiana, in quegli anni vivacizzato dallanuova esperienza dell’Arte povera. Arrivato a Roma pochi anni prima, senza conoscere una parola di italiano e con pochi soldi, il giovanissimo Vasiri, fresco di diploma all’Accademia di Teheran, aveva deciso di andare all’estero per crescere artisticamente nel confronto con altre culture. «In Accademia non avevo incontrato maestri in grado di insegnarmi cose nuove – racconta Vasiri che a 85 anni continua ogni giorno a sviluppare la sua ricerca artistica-. Ma soprattutto il modello che ci veniva indicato era un certo realismo sociale mutuato dall’Urss. In pratica realismo di regime. «Benché all’epoca sapessi poco di arte – spiega Vasiri- maturai un istintivo rifiuto verso questo modo di dipingere, perché vedevo che il colore non era mezzo di espressione ma serviva solo a riprodurre la realtà». A fagli cambiare strada di lì a poco sarebbe stato l’incontro, anche se indiretto, con l’arte di Van Gogh e di Cézanne: «Un insegnante dell’Accademia tornò da Parigi con alcune stampe. D’un tratto mi si aprì un orizzonte sconosciuto di libertà di espressione e decisi di seguire quella via». Una strada di ricerca personale che di lì a poco in Italia sarebbe stata corroborata da alcuni incontri, come quello con Toti Scjaloia, che fece conoscere a Vasiri l’action painting di Pollock. Ma importante fu anche conoscere l’arte di Burri e di Fontana. Fino a quella improvvisa intuizione che la sabbia di Castel Gandolfo che ricordava a Vasiri quella del deserto, poteva formare immagini evocative, segni sconosciuti ma che parlavano a chi sapeva lasciarsi andare nel guardarli. Nasce così la prima serie di Sabbie interiori che Vasiri realizzò a Roma tra il ‘60 e il ‘63 e che dal 5 al 30 giugno la storica dell’arte Marina Giorgini presenta nello spazio Studioplano in Fondamenta della Misericordia a Venezia. «Vasiri torna a Venezia dopo cinquant’anni dalla sua prima partecipazione alla 29° edizione della Biennale – annota la curatrice – un appuntamento a cui Vasiri si era presentato con un dipinto ancora figurativo e riecheggiante memorie persiane».

da left-Avvenimenti del 29 maggio 2009

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