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Il meglio della collezione #Gugghenheim a Firenze, last weeks

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 16, 2016

number 18 1950 by Jackson Pollock;

number 18 1950 by Jackson Pollock;

Una selezione del meglio che il Guggenheim di New York e di Venezia insieme possono offrire è in mostra, fino al 24 luglio, nelle sale di Palazzo Strozzi a Firenze con il titolo La grande arte dei Guggenheim, da Kandinsky a Pollock.

Curata da Luca Massimo Barbero (che, forte di una profonda conoscenza delle collezioni Guggenheim, ha già realizzato operazioni analoghe in passato) l’esposizione fiorentina permette di tuffarsi nelle avanguardie del Novecento, seguendo lo sviluppo dell’informale europeo e dell’action painting americana che prima e dopo la guerra si influenzarono a vicenda.

Rothko

Rothko, untiltled

Se fino agli anni Trenta Parigi era l’epicentro della ricerca, con la guerra molti artisti europei emigrarono negli Stati Uniti, a cominciare da Max Ernst, che sposò Peggy Guggenheim e divenne il tramite per la diffusione del Surrealismo oltreoceano. Influenzando anche Jackson Pollock allora giovanissimo protetto di Peggy e ancora alla ricerca di una propria identità. Come lasciano intuire alcune tele come La donna luna e una ampia selezione di opere grafiche in cui appaiono fantasmagorie mitologiche e figure mostruose, metà umane, metà animali.

Ma nella ampia sezione – quasi una mostra nella mostra – dedicata all’inventore dell’action painting compaiono anche opere celebri come Foresta incantata (1947), Senza titolo (argento verde del 1949 e Number 18 (1950) in cui la matassa di linee realizzata con il dripping, facendo colare direttamente il colore sulla tela, sembra percorsa da un movimento continuo che pare espandersi oltre i bordi della tela. È il momento più intenso e vitale della ricerca di Pollock che subito dopo sembra quasi diventare maniera, freddo esercizio di scrittura automatica.

Fanno eccezione nel 1951 alcune serigrafie in cui il contrasto fra bianco e nero diventa inaspettatamente netto e potente, in un gioco di forme astratte e fantastiche che appare come una danza. Altrettanto e forse ancor più suggestiva la sala dedicata a all’astrattismo lirico di Mark Rothko, una stanza scura, diversamente dalle altre, dove scenograficamente le macchie di colore rosso e viola emergono dal buio, quasi le tele fossero in movimento. Poi la mostra presenta ancora molte  altre sorprese quando incontriamo il confronto  fra la materia arsa e dolente di  Alberto Burri e ritmati e vitali tagli di Lucio  Fontana. E poi le sciabolate di nero con cui il più engagé dei maestri dell’astrazione, Emilio Vedova, rappresenta L’immagine del tempo (sbarramento) e un raffinato e lunare quadro di Adolph Gottlieb, quasi giappones,e dal titolo Foschia (1961). Ma questo non è che uno dei percorsi, il nostro, in questa mostra articolata e ricca come una selva fantastica. ( Simona Maggiorelli, left)

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#PaoloPoli: “Adoro le donne vivaci, acute e scandalose”

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 26, 2016

Paolo Poli

Paolo Poli

Per ricordare Paolo Poli, attore colto, grande mattatore che tutte le volte mi faceva sudare sette camice prima di un’intervista. E poi, giocoso e crudele, mi diceva: “se lo scrivi ti stacco il clitoride”!

quotidiano LA NAZIONE, 09/11/2006
Adoro le donne vivaci, acute e scandalose
di Simona Maggiorelli

In prima assoluta per la Toscana, Paolo Poli approda stasera alle 21.15, al Teatro Nazionale di Quarrata, con il nuovissimo “Sei brillanti”, commedia in due tempi- come si usava dire una volta- che lo stesso Poli ha costruito, con piglio divertito e come sempre pungente, tra parole, musica e pittura, andando a ripescare i testi di sei giornaliste che hanno fatto la storia del costume italiano del Novecento. E forse non solo quella. Spesso, facendo scandalo, “sovvertendo le regole dei benpensanti. A partire da quella Maria Volpi Nannipieri, in arte Mura che “negli anni ’20 – ricostruisce Poli – con le sue Perfidie parlava di amori saffici, in un’epoca in cui Mussolini avrebbe avuto parecchio da ridire”.  E poi Paola Masino, giornalista: negli anni che precipitavano verso la crisi economica del ’29 ebbe il coraggio di lanciare, su Omnibus il grido di un inchiesta dal titolo Fame. “Un articolo – dice Poli – che mise più di un maldipancia alla maggioranza rispettabile che se fregava del prossimo”..
Ma poi arrivò Irene Brin, storica firma di Omnibus di Longanesi, a raccontare la società italiana attraverso la moda.
“Già, la poveretta si dovette inventare la “contessa Clara”. Ma era una mente brillantissima.
E Camilla Cederna? Che ricordi ha di lei?
“Insieme si fece anche un pezzo di tv sull’ecologia. Di Camilla ho scelto Il lato debole . Erano gli anni della Dama Bianca e di Coppi.
Giornalista coraggiosa, la Cederna…

“Coraggiosissima. Come tutte le donne. Che possono fare barba e capelli alla gran parte degli uomini. Guardi, perfino la Petacci non era poi così male. Senz’altro meglio di Mussolini. Lei si limitava ad andar per letti.”
Per raccontare l’attualità invece, ha scelto due firme lontane, Natalia Aspesi e Elena Giannini Belotti

. “Due amiche. Con la Aspesi, quando si era più giovani si andava via in macchina,senza meta, non si sapeva dove si sarebbe arrivati. Lei guidava senza occhiali”
E la Belotti?
“Al suo Adagio poco mosso riconosco il coraggio di aver raccontato un mondo di vecchie, quando pochi vogliono sentirne parlare.”
Insomma Poli, scopriamo che le piacciono le donne?
“Quelle come mia sorella Lucia, vivaci, che scodellano come gli uomini e corrono a destra e a manca, detestano i lavori prigionieri.”
Detesta il tipo della casalinga?
“Mi stanno simpatiche le filippine, come tutte quante le domestiche, ma non sopporto il tipo della mamma con lo scialle nero che ha sempre qualche figlio da piangere. E poi finisce per farlo morire per davvero. ”
In Sei brillanti l’omaggio alla donna è anche musicale?
“Mi sono divertito a creare dei quadri musicali, che raccontano l’Italia degli anni Trenta, della nascita della radio, l’Italia dei cori femminili di Tulli, tulli-pan per arrivare agli anni Ottanta di Splendido splendente e Bello impossibile”
Quadri musicali ma anche pittorici. Come immagini di Delavaux, dei surrealisti, di Picasso.
“E’ tutta colpa di un compagno di viaggi come Emanuele Luzzati, che come me, ha una memoria di ferro per i tempi lontani. Io, per esempio, mi ricordo perfettamente di quando venne Hitler a Firenze, e avevo nove anni. Da parte sua Lele si ricorda bene di quella volta che vedendo un omino in calzoncini corti che annaffiava il giardino gli chiese: mi scusi, ma lei è Picasso?”

 

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Il riscatto del Pollaiolo

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 12, 2015

Piero del Pollaiolo (1465)

Piero del Pollaiolo (1465)

Nella vicenda dei Pollaiolo si legge il cambiamento di status dell’artista rinascimentale, non più artigiano ma creatore. Ma grazie alle ricerche di Aldo Galli finalmente Piero del Polloialo torna in piena luce, rispetto al più celebrato Antonio, di cui Vasari fece una sorta di exemplum

 

Nel Rinascimento l’apparizione delle donne sulla scena pubblica era cosa rara. La vita delle giovani come delle più mature, specie se di alto rango, si svolgeva soprattutto nei palazzi privati. E rari erano anche i ritratti di donne. Fra i quali si segnalano le quattro figure femminili dipinte da Antonio e Piero Pollaiolo che fino al 16 febbraio  2015 eccezionalmente erano riunite in Museo Poldi Pezzoli a Milano. Insieme a disegni, ori e piccoli bronzi usciti dalla bottega che il più grande dei fratelli Pollaiolo, Antonio, che aprì una bottega orafa in via Vacchereccia, vicino a piazza della Signoria, riscattandosi dall’umile estrazione sociale del padre e del nonno, entrambi pollivendoli.

La sua storia di scultore e disegnatore di grande talento che seppe farsi strada anche alla corte papale fu trasformata dal Vasari nelle due edizioni delle Vite (1550 e 1568) in vicenda esemplare, perfetta incarnazione del nuovo status dell’artista, che – dalla seconda metà del Quattrocento in poi – non fu più semplice artigiano dedito alle arti meccaniche. Un passaggio epocale nella storia dell’arte dell’Occidente come documenta Édouard Pommier ne L’invenzione dell’arte nell’Italia del Rinascimento (Einaudi, 2007). Un salto di paradigma che Vasari intuì e sostenne al punto di falsificare la biografia dei Pollaiolo attribuendo ad Antonio la paternità di quadri che invece erano stati dipinti dal fratello minore, Piero, come per esempio l’elegante fanciulla bionda della Gemäldegalerie di Berlino ora in mostra a Milano, insieme ai ritratti femminili provenienti dal Metropolitan Museum of Art di New York e dagli Uffizi e realizzati da Antonio e Piero fra il 1465 e il 1460. Come ricostruisce Aldo Galli nel volume Antonio e Piero del Pollaiolo pubblicato da Skira in occasione della mostra, Giorgio Vasari ignorò consapevolmente le fonti più antiche per poter fare di Antonio del Pollaiolo l’exemplum del divino artista (anticipando Raffaello).

Ma perché fosse davvero corrispondente al modello rinascimentale non bastava che Antonio fosse un disegnatore della vena moderna, nervosa, straordinariamente mobile e espressiva; non bastava che sapesse fondere busti come quelli di Sisto IV e Innocenzo VIII che parevan vivi, occorreva che Antonio fosse anche sommo pittore. E fu così che qualcuno lo prese talmente alla lettera da camuffare la “f” di fictor (che in latino significa scultore incisa sulla sua lapide in una “p” di pictor, ovvero pittore. ( Simona Maggiorelli, dal settimanale Left).

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Il gran rifiuto del direttore degli Uffizi

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 16, 2015

Antonio Natali

Antonio Natali

Il direttore degli Uffizi Antonio Natali non concederà in prestito un’opera fragile come L’Annunciazione, richiesta da Milano per la mostra su Leonardo a Palazzo Reale, prevista nell’ambito dell’Expo 2015. Coerente con il suo lavoro di conservazione del quadro di cui è uno dei massimi studiosi.  Anni fa,  Natali scoprì i motivi della strana torsione del braccio della Madonna mettendola in relazione allo spazio in cui era originariamente collocata la tela. 

In questa intervista rilasciata a Left lo scorso ottobre il direttore raccontava le ragioni della sua resistenza ad esposizioni che, senza produrre conoscenza,  riducono le opere d’arte a feticci decontestualizzati.  Una bella occasione per ascoltarlo dal vivo sarà  giovedì 19 ottobre quando sarà a Roma, nei Musei Vaticani, per presentare  il suo nuovo libro Michelangelo agli Uffizi, dentro e fuori  pubblicato da Maschietto editore.

In balìa della crisi economica, già diversi anni fa, la Grecia prese ad affittare i suoi templi come location. Anche per film di serie b e ricchi matrimoni stranieri. Allora gridammo allo scandalo. Mentre l’ex direttore del Musée Picasso, Jean Clair tuonava contro il Louvre che, per fare cassa, progettava di delocalizzare pezzi di collezione ad Abu Dhabi. Oggi però in Italia sembriamo quasi assuefatti all’idea del “noleggio” di antichi spazi architettonici, monumenti, ponti e palazzi pubblici, diventato pratica diffusa.«La cosa in sé non è detestabile», commenta il direttore degli Uffizi Antonio Natali, precisando :« dipende da come lo si fa». «Agli Uffizi – dice -noi non noleggiamo gli spazi del Museo. Ma abbiamo una terrazza, affacciata su Palazzo Vecchio, che ha il più bel panorama di Firenze. Che ospiti alcuni eventi, purché nei limiti del buongusto, mi pare ammissibile. Se c’è uno sponsor che si è reso benemerito facendo bene agli Uffizi, io non mi sento di negargli quello spazio. Mentre, finché ci sono, mi impegnerò con tutte le mie forze perché non avvenga negli spazi della Galleria. Gli Uffizi (con l’Accademia dove si trova il David) è il museo che mette risorse economiche a disposizione di tutti gli altri del Polo fiorentino. E le assicuro che gli altri musei ne hanno ancor più bisogno di noi perché, ahimè, non fanno gli stessi numeri. Dunque non mi sento di fare il moralista. Anche perché tutto sommato non ne vedo la ragione. Friends of Florence, per esempio, ha raccolto un milione di dollari per il restauro della Tribuna. Offrire loro la terrazza è un modo per dimostrare la gratitudine dello Stato.

Leonardo da Vinci, Annunciazione

Leonardo da Vinci, Annunciazione

Occorre un vigile controllo pubblico su queste operazioni, non crede?
Certo, ci vuole un forte controllo. Quando si parla di etica la severità non è un vizio. è una virtù. Le sale del Museo, ribadisco, non devono essere toccate. Altrimenti sarebbe un po’ come dire, poiché arrivano tanti soldi, gli permettiamo di fare colazione, pranzo o cena nel Presbiterio di Firenze. Sarebbe del tutto improprio. Anzi, deprecabile. Oggi in nome del denaro è diventato possibile tutto. Con la scusa che siamo in crisi. Questo non è accettabile. Senza contare che non c’è mai stato un periodo in cui non si parlasse di crisi. Forse solo quando ero adolescente io negli anni Sessanta e allora c’era il boom. Per il resto, a partire da Petrolini che cantava “che cos’è questa crisi,” non ho conosciuto un periodo di floridezza tale che consentisse al patrimonio italiano una attenzione o una tutela attenta, perché i soldi sono sempre mancati. Allora se arrivano degli aiuti l’importante è che dietro ci siamo delle scelte precise, buongusto, intelligenza, un po’ di sapienza e anche un po’ di cultura.
Il marketing culturale, però, tende a incoraggiare più che la conoscenza un turismo “mordi e fuggi”. Che magari si accontenta di un selfie accanto alla Gioconda. In questo modo non si rischia di svuotare di senso l’opera, riducendola a feticcio?

Botticelli, Venere

Botticelli, Venere

La Gioconda come la Venere di Botticelli conservata agli Uffizi… Ma anche qui vorrei fare chiarezza. Sono partite in questi giorni dagli Uffizi e da altri musei un’ottantina di opere per una mostra che si terrà a Tokyo. L’ho curata personalmente, con il preside della Facoltà di Lettere della capitale giapponese. “Feticci non ne partono di qui”, mi sono permesso di dirgli visto che ci conosciamo bene. Ci saranno molte tele poco note, molte dai depositi, molte di pittori di cui non si conosce il nome, ma si conosce il corpus di opere. Proprio per non alimentare la mitologia del feticcio. E’ la cosa che più mi rattrista. E poi perché si sappia che la storia dell’arte italiana non è fatta solo di Botticelli, Michelangelo e Leonardo e Caravaggio. Queste sono le vette di una catena montuosa e non punte solitarie che si alzano da una piana paludosa. Ci sono tantissime altre opere che devono essere conosciute. Io credo sia molto importante che la divulgazione ci sia, senza fare i sofisti o gli snob, ma essendo consapevoli che ogni volta che si sposta un capolavoro si rischia di alimentarne aridamente il mito. è del tutto evidente che se una mostra copre il Rinascimento bisogna prestare opere che attestino la presenza di maestri fuori dell’ordinario. In questo caso si tratta di quattro o cinque opere contornate da una settantina di tele tutte da conoscere. Perché solo così penso si faccia un’operazione di divulgazione seria con un intento didattico forte. Il punto cioè è far capire che l’arte italiana è cosa assai più complessa di quanto si fa apparire all’estero quando si porta una mostra di Botticelli o di Leonardo. Senza contare che è sempre più difficile per l’estrema delicatezza di queste opere e si è sempre più costretti a proporre mostre che nel titolo annunciano “l’ombra di…”
Cosa pensa della proposta avanzata dal ministro Franceschini che apre alla possibilità di pagare le tasse cedendo opere d’arte allo Stato?
Con ciò che ho detto, la risposta mi pare quasi scontata. Mi è piaciuta molto l’agevolazione che è stata offerta a chi contribuisce al mantenimento del patrimonio. Purché quando si parla di patrimonio e di mecenati non ci si riferisca solo agli Uffizi – e lo dico nel completo disinteresse come lei potrà capire -.ma si pensi a quei musei che non ce la fanno. Si pensi cioè a quelle chiese in cui piove e c’è il rischio che gli affreschi si rovinino. Se io offro soldi agli Uffizi e con ciò mi faccio bello, non è vero mecenatismo. Ci vuol poco a farsi belli con gli Uffizi. Serve oculatezza, attenzione, perché non ci sia il soccorso ai ricchi ma ai poveri. (Dal settimanale Left ottobre 2014)

 

Leonardo, rispetto gli uffizi

Franceschini: «Rispetto gli Uffizi, no all’Annunciazione»
Corriere della Sera, 13/02/2015

Il ministro dei Beni culturali: «Ho chiesto alla Galleria una valutazione e l’ho avuta. Il museo ha già prestato molte opere, la sala leonardesca rimarrebbe vuota»

«L’Annunciazione» di Leonardo non sarà a Milano per Expo. È stato il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, a stroncare le speranze di Palazzo Marino. In visita venerdì alla Bit, la fiera del turismo di Rho, Franceschini è stato chiaro: «Ho ricevuto una lettera dal sindaco Pisapia che mi chiedeva una riflessione. Ho chiesto al direttore degli Uffizi una relazione che mi ha fatto avere. Io sono molto rispettoso dell’autonomia dei direttori dei musei e delle loro scelte, non credo che la politica debba intervenire in un campo che è di loro competenza». Chiamato ad arbitrare la contesa — a chiamarlo in causa era stato proprio il direttore della Galleria fiorentina («Decide il ministro») — Franceschini ha spiegato i motivi del rifiuto: «Il dottor Natali mi ha mandato un elenco delle opere che gli Uffizi hanno prestato alle varie mostre per Expo e sono 28. Alla mostra su Leonardo sono prestati dei capolavori, un’opera del Botticelli che non è mai uscita dagli Uffizi, una importante del Ghirlandaio e altre ancora. Il direttore degli Uffizi ha fatto presente che il suo museo rimarrebbe privo di opere di Leonardo durante i sei mesi di Expo. Sono valutazioni corrette che io rispetterò».
Il Comune ha sperato fino all’ultimo che il capolavoro leonardesco del 1472 potesse far parte della grande mostra su Leonardo a Palazzo Reale. Giovedì sera l’assessore alla Cultura, Filippo Del Corno, accennava a spiragli di schiarita. Fiducioso che il ministro, per la sua sensibilità, avrebbe compreso l’importanza di inserire l’opera nel percorso espositivo. Impossibile — la sintesi del suo ragionamento – che dopo le dichiarazioni del premier Matteo Renzi («A Expo l’Italia ci mette la faccia, non possiamo permetterci brutte figure») il dicastero non seguisse la linea. Previsioni smentite: Franceschini ha preferito non ignorare le valutazioni dei tecnici e non sconfinare dal suo ruolo d’indirizzo politico. Nessuna eccezione o deroga speciale, dunque: l’opera «inamovibile» — più per l’integrità della collezione che per i rischi effettivi legati a un eventuale trasferimento – resterà a Firenze. Si chiude, così, una vicenda che aveva creato tensioni non solo tra Milano e il capoluogo toscano, ma anche nel fronte di Expo. Duro, giovedì, lo scambio di battute tra la presidente di Expo, Diana Bracco, e l’assessore Del Corno. Sul «caso Annunciazione» Bracco era intervenuta sostenendo che, tutto sommato, l’opera non fosse poi così indispensabile. «Non dobbiamo accentrare tutto a Milano — erano state le sue parole — . Capisco che un museo possa dire: “Se ti do un’opera, poi la sala rimane sguarnita”». Esternazioni che non erano piaciute a Del Corno: «Inopportune e sfavorevoli allo sforzo che stiamo facendo». «Quando il gioco in squadra con Expo — la stoccata dell’assessore — il mio referente è Beppe Sala. Forse, Bracco si è espressa in quel modo perché è poco informata sull’alto valore scientifico della mostra».
Expo delle polemiche
Il «caso Annunciazione» non è stato l’unico a creare frizioni durante l’organizzazione dell’evento. Contrastata anche la vicenda dei Bronzi di Riace: a premere perché le statue fossero esposte a Expo, tra gli altri, il critico d’arte Vittorio Sgarbi. Il Museo archeologico di Reggio Calabria, però, si era rifiutato, invocando la fragilità delle opere, imprescindibili per la collezione. Un altro no era arrivato da Cremona: il sindaco del Comune lombardo non aveva voluto concedere «L’Ortolano» di Arcimboldo, dipinto particolarmente in tema con la manifestazione. Accuse e maldipancia anche per l’Albero della vita, l’installazione simbolo del Padiglione Italia, progettata da Guido Balich. Prima il nodo dei costi esorbitanti, poi le rivelazioni dell’architetto inglese Wilkinson che aveva agitato il sospetto di plagio: «È uguale ai nostri Supertrees di Singapore». Una serie infinita di polemiche, nella quale «L’annunciazione» leonardesca è solo l’ultimo «pomo della discordia». Riuscirà il ministro dei Beni culturali a ricompattare i ranghi? Nel frattempo, i tessitori continuano a lavorare dietro le quinte per non tradire la linea dettata dal premier, Matteo Renzi: «Tutto il mondo ci guarda, ad Expo l’Italia ci mette la faccia».

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Giuseppe Penone Nuova linfa alla scultura

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 16, 2014

 

Penone. Luce e ombra

Penone. Luce e ombra

A Firenze il maestro dell’Arte Povera Giuseppe Penone ricrea il percorso dal Giardino di Boboli al Forte Belvedere. left lo ha incontrato per parlare della mostra (che è stata inaugurata il 5 luglio) e della sua quarantennale ricerca

di Simona Maggiorelli
La presenza viva di alberi, liberati dalla scorza, dalla corazza, fino a rivelare una forma originale sottostante. Blocchi di marmo scolpiti che mostrano l’intricata trama delle venature, come fossero i solchi della pelle. Materiali nobili e tradizionali della scultura come il marmo, il bronzo e la pietra, insieme a materiali leggeri e insoliti come foglie, resine, elementi organici. “Ingredienti” con cui Giuseppe Penone crea opere fluide, in divenire, che vivono in rapporto allo scorrere eracliteo della vita e che acquistano nuovi significati in relazione all’ambiente in cui sono inserite.

Ritroviamo tutto l’alfabeto poetico di questo elegante e schivo maestro dell’Arte Povera nel progetto Prospettiva vegetale, curato da Arabella Natalini e Sergio Risaliti in due luoghi simbolo per la città di Firenze come il Giardino di Boboli e il Forte Belvedere. Con gli austeri bastioni militari del Forte, in anni recenti, si sono misurati artisti internazionali come Anish Kapoor, Henry Moore e Tony Cragg ma anche, per rimanere nell’ambito dell’Arte Povera, Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini e Mario Merz che nel 2003 addolcì il profilo della fortezza circondandola di sinuosi tavoli di vetro carichi di frutta. Un’installazione che chiedeva di essere continuamente alimentata perché il sole a picco faceva rapidamente maturare mele, pesche e perfino limoni.

Penone, sentiero e muro

Penone, sentiero e muro

Quella sontuosa natura morta che 11 anni fa Merz ideò per la terrazza del Forte affacciata sulla cupola del Brunelleschi ora, idealmente, trova un’eco e una accentuazione drammatica nell’opera di Penone, che qui ha collocato un suo albero abbattuto.

«Il Forte è nato per ragioni belliche e di difesa – ricorda l’artista piemontese -. Ha un carattere aggressivo. Si avverte una certa violenza. Per questo ho collocato qui un albero folgorato, che trasmette questo senso tragico. Altre opere, intorno, misurano la forza di attrazione della luce rispetto alla forza di gravità».

In particolare alcuni alberi scultura che sostengono strenuamente una o più pietre. Richiamando l’opera inedita presentata giù a Boboli. «Anche se in questo contesto del Forte le pietre acquistano un aspetto più drammatico» sottolinea Penone. «La scultura risente sempre dello spirito del luogo». Ma vicino alle radici di un albero capovolto, quasi a voler alludere a una possibile nuova nascita, Penone ha collocato un alberello, vivo, che cresce.

Il divenire dell’opera, come organismo vitale, è sempre stato un aspetto importante nella ricerca di Giuseppe Penone. Ma fondamentale è anche il rapporto della scultura con il paesaggio e con l’architettura. Così in un giardino denso di storia come Boboli, vivacizzato da un continuo gioco di anfratti, grotte, zampilli d’acqua e da immaginifiche epifanie come la fontana del Giambologna, la scultura Sentiero e muro di Penone si arricchisce di risonanze barocche. Qui sembra evocare metamorfosi mitologiche alla Bernini, ma anche presenze femminili botticelliane rivestite di foglie. «In realtà le opere che espongo a Firenze sono state realizzate in tempi e situazioni diverse. Eccezion fatta per un lavoro inedito: un albero con attorno una sfera di foglie. Succede una cosa strana quando si porta un lavoro in un luogo: quell’opera entra in relazione con il contesto. Per Boboli ho scelto sculture che dialogano con la vegetazione, che parlano di compenetrazione fra uomo e natura, scegliendo l’albero come elemento vitale e di crescita».

Penone. Luce e ombra

Penone. Luce e ombra

Il rapporto con lo scorrere del tempo e la continua trasformazione degli elementi naturali è un altro filo rosso che attraversa tutto il percorso di Penone, fin dai suoi esordi, alla fine degli anni Sessanta.

E qui a Firenze sembra più che mai di potervi leggere un’assonanza leonardesca. «Ci sono delle fasi nella storia in cui si rimettono in discussione le convenzioni – risponde Penone -. C’è stato un momento enormemente fecondo nel Trecento e poi nel Quattrocento, in cui si è provato a rivedere il modo di stare nel mondo degli esseri umani. In certo modo, questo è avvenuto anche nel dopoguerra quando è nato un nuovo sistema economico e geopolitico.Anche l’arte è ripartita riconsiderando la realtà, facendo saltare vecchie convenzioni (ma forse poi creandone di nuove). Per questo, con la giusta dose di umiltà, direi che ci possa essere stata un’affinità. Anche tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta si avvertiva che un vecchio modo di pensare non era più aderente al reale».

Il movimento dell’Arte Povera, nel 1967 tenuto a battesimo da Germano Celant, nacque anche come esigenza di allargare l’orizzonte della ricerca, uscendo dai confini nazionali. perciò fu importante anche il confronto con alcuni artisti americani che a Torino facevano capo alla Galleria Sperone. Soprattutto quelli che, lontani dalla Pop Art, sperimentavano con forme primarie ed essenziali. Parliamo di artisti minimalisti, ambientali (Land art) e concettuali, alcuni dei quali connotati da un razionalismo freddo e astratto che gli artisti italiani dell’Arte Povera, va detto, hanno sempre rifiutato. «Si partiva dal principio che l’arte americana aveva portato grandi novità. In questo caso penso di poter parlare al plurale – precisa Penone- . Ma avvertivamo anche l’esigenza di non uniformarci. Ci interessava la critica al consumismo, cercavamo un confronto internazionale, in questo quadro ci interessammo al lavoro di artisti che, a differenza della generazione di Pollock, non avevano una continuità diretta con la cultura europea. Diversamente da noi non avevano alle spalle una storia millenaria. Qui a Firenze- approfondisce Penone- ogni pietra ha un rapporto straordinario con la storia. Ha una memoria. Questo non c’è negli Usa. Può essere un limite ma anche un grande valore se si riesce a stabilire un confronto aperto, senza tradire se stessi. Fra noi era una visione abbastanza condivisa. Tanto che nessuno abbandonò l’Italia per far la carriera negli Usa. Nasceva in quegli anni un altro modo di pensare e di guardare all’arte, come ricerca, non come un mestiere».

 

Giuseppe Penone a Firenze, 2014

Giuseppe Penone a Boboli

E da allora la ricerca di Giuseppe Penone non si è mai fermata, sviluppandosi in modo coerente, con una forza espressiva e un’identità via via sempre più forte e definita. Che respinge ogni facile etichetta. Perché se è vero che l’arte di Penone vive perlopiù all’aperto, nei boschi, in rapporto con la natura, non ha nulla a che fare con un’ecologia astratta, non è bucolica, né ingenuamente performativa. Piuttosto il suo modo di fare scultura ci parla del rapporto inscindibile fra cultura e natura, di cui l’essere umano è parte integrante; ci parla di valori umani universali come la fantasia, la capacità di immaginare e di fare arte. Che ci accompagna fin dagli albori della nostra storia, come testimoniano le pitture rupestri del paleolitico di cui Penone, in passato, ha parlato spesso.

«L’arte visiva riesce a “comunicare” nel tempo in modo straordinario e profondo, al di là delle barriere linguistiche e culturali. Cosa che non può fare invece la scrittura», racconta. «L’interesse per la pittura paleolitica negli anni Settanta nasceva dal desiderio di dialogare con popoli lontani, recuperando valori culturali che ci appartengono, mettendoli a confronto con valori analoghi che si ritrovano in moltissimi altri Paesi. Graffiti e pitture rupestri si ritrovano in ogni parte del mondo, in Europa ma anche in Africa, in Sudamerica e così via. Era un filone di riflessione che attraversava in modo fortissimo quegli anni di esordio dell’Arte Povera. Molti di noi hanno lavorato poi su quei temi consciamente e inconsciamente. Al fondo, come accennavo, c’era la ricerca di modi per comunicare che andassero al di là dei confini di una cultura troppo specifica e chiusa in se stessa che, in quanto tale, diventava una cultura di imposizione, in certo modo colonialista».

In questo ambito nascono anche i suoi scritti? «La scrittura – spiega Penone – mi permette di creare delle associazioni, di verificare le possibilità di un lavoro, oppure di capire che cosa ho fatto. A volte si fa una cosa con delle intenzioni ma poi l’opera, per così dire… ha la sua indipendenza. La scrittura è un modo per relazionarmi con il lavoro che ho fatto o che devo fare. Non ho mai scritto con la pretesa di scrivere o pensando che la mia scrittura avesse un valore completamente autonomo. è più legata alla riflessione sull’opera e sulla scultura». Ma non per questo, ai nostri occhi, è meno poetica e densa di contenuti.

dal settimanale left

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L’inquieta bellezza di Pontormo e Rosso

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 21, 2014

Diversi per tempra e per poetica, i due artisti toscani innervarono la pittura del Cinquecento di nuova

Pontormo, Due amici

Pontormo, Due amici

sensibilità. Fino al 20 luglio una mostra li mette a contronto. In Palazzo Strozzi, a Firenze

Capriccio, stravaganza ribellismo, ricerca della bizzarria a tutti i costi. Il pesante giudizio vasariano che definiva Pontormo pittore «di nuova maniera ghiribizzosa» ha pesato per secoli nella letteratura critica, aduggiando questo straordinario pittore che, insieme al coetaneo Rosso Fiorentino, fu iniziatore della maniera moderna: di un modo di fare pittura che ricreava la lezione di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, innervandola di una nuova sensibilità e inquietudine. Rischiando l’eterodossia nel prendere di spigolo la committenza ecclesiastica e di regime.

Furono anni convulsi quelli in cui i due artisti realizzarono le loro opere più importanti; anni di lotte fra repubblica e signoria medicea, e poi, dal 1527, di razzie imperiali e papali, culminate nel drammatico assedio di Firenze del 1530. Entrambi allievi di Andrea Del Sarto, già a 17 anni erano artisti maturi, di forte personalità e diversissime fra loro. Come balza agli occhi dal confronto fra gli affreschi staccati provenienti dal chiostro della SS Annunziata con cui si apre la mostra Pontormo e Rosso. Divergenti vie della “maniera”, aperta fino al 20 luglio (catalogo Mandragora) in Palazzo Strozzi, a Firenze.
Nelle stesse sale dove nel 1956 fu allestita la storica Mostra del Pontormo e del primo manierismo fiorentino, e a quasi vent’anni da L’officina della maniera, Carlo Falciani e Antonio Natali, dopo lunghi studi, hanno realizzato questo nuovo, appassionante, confronto fra i due amici e rivali. L’uno, Jacopo Carrucci detto il Pontormo, introverso, solitario, umbratile (come testimoniano le scarne e ossessive note del suo diario, Il libro mio). L’altro, Giovan Battista di Jacopo, detto il Rosso Fiorentino, raffinato, colto, curioso di cabala ed esoterismo e amante della musica come il suo dolce e malinconico angelo degli Uffizi.
Rosso Fiorentino, angelo che suona

Rosso Fiorentino, angelo che suona

Due artisti profondamente distanti, dunque, non solo per indole e poetica, ma anche per frequentazioni e ambiti di attività, dato che Pontormo, pur riottoso verso il potere, lavorò sempre per la corte medicea, mentre Rosso- forse vicino alla vecchia oligarchia repubblicana e savonaroliana- fu costretto a cercare committenti in provincia, a Piombino, Arezzo e Volterra, prima di fare fortuna in Francia, diventando capo della scuola di Fontainebleau. (Dove morì improvvisamente a 46 anni).

Ma bisogna anche rilevare che i due furono uniti dallo studio assiduo dell’opera di Michelangelo, da una radicale insofferenza verso il classicismo, inteso come norma assoluta e razionale, nonché da una ricerca creativa che metteva l’umano al centro della pittura. Come dimostra la qualità dei ritratti che entrambi realizzarono nel corso della loro vita. Grande merito di Falciani e del direttore degli Uffizi Antonio Natali è proprio essere riusciti a ricomporre, per questa occasione, quasi la totalità del disperso catalogo rossesco, disseminato fra musei e collezioni private.
E davvero potente è il dialogo che in Palazzo Strozzi i suoi ritratti di giovani, intellettuali, soldati e anziani aristocratici ingaggiano con quelli di Pontormo, in una sfida di scavo psicologico per far emergere sulla tela presenze umane, anonime, ma quanto mai vive e vibranti
Pontormo, autoritratto

Pontormo, autoritratto

Così alla sottile malinconia e allo sguardo lievemente attonito del giovane che Rosso ritrae con in mano una lettera datata 1518, idealmente risponde lo sguardo sorpreso e bruciante del Gentiluomo con libro (1542) di Pontormo, opera appartenente a un privato e raramente esposta in pubblico.

E ancora: al fiero e quasi arcigno profilo virile (1521-22) di Rosso – di grande forza espressiva nonostante il quadro sia quasi monocromo – risponde, sul versante di un colorismo acceso e brillante, quello altrettanto altero e scavato di Cosimo il vecchio ritratto da Pontormo, nel 1518, anni dopo la scomparsa del padre di Lorenzo il Magnifico. E oltre. Passando dalla pacata fierezza del ritratto virile (1522) di Rosso conservato alla National Gallery, all’espressione fresca e sfrontata del giovanetto di Pontormo.

Un’immediatezza che ritroviamo anche negli schizzi del pittore empolese, fra sorprendenti e quasi giocosi nudi in mutande (in cui qualcuno ha voluto vedere una sorta di “selfie”) e che si perde invece in opere di tema sacro come la celebrata Visitazione di Carmignano, da poco restaurata, dove la ridda di colori acidi e il tentativo di rendere in simultanea momenti diversi dell’incontro fra Maria ed Elisabetta, rende artificiosa l’intera scena.
Analogamente, se i riflessi lunari e violacei che inondano la Pietà (1537-1540) del Louvre rendono la tela di Rosso toccante e drammatica, il gusto per un certo corrosivo grottesco finisce per appiattire e svuotare di senso la Pala dello spedalingo (1518), in un parossimo di “santi diavoli”, pieghe uncinate e figure scarnificate e spigolose. Che fanno immediatamente avvertire la mancanza della Deposizione (1521) di Volterra, spigolosa sì, ma potente e terribile per quella dimensione metafisica e astratta che riesce ad additare, evocando una dimensione di vuoto.
Varcata l’uscita della mostra non resta quindi che prosguire il percorso, approfittando di quello straordinario museo diffuso che è la Toscana.
Facendo tappa a Volterra per Rosso, ma anche alla Certosa e nella villa di Poggio a Caiano dove si trovano affreschi di Pontormo. E, prima ancora, nella vicinissima chiesa di Santa Felicita dove si trova la Deposizione (1526-1528) che Pontormo tramutò in una danza allucinata con i personaggi che sembrano chiusi in una dimensione solipsistica, avendo drammaticamente perso ogni rapporto umano.
(Simona Maggiorelli) dal settimanale left

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Le avanguardie russe sulle vie d’Oriente

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 27, 2013

Goncharova, il vuoto, 1913

Goncharova, il vuoto, 1913

 

Una grande mostra in Palazzo Strozzi, a Firenze,  indaga le radici euroasiatiche dell’arte di Kandinsky, Malevich, Larionov e di altri protagonisti del cubo-futurismo , del raggismo e del suprematismo. Come  riscoperta di tradizioni siberiane. E scoperta di quelle cinesi, thai e indiane. Cercando una strada diversa   dal razionalismo occidentale.

di Simona Maggiorelli

Sulla via dell’Est, lungo la traccia segnata dalla ferrovia transiberiana e oltre. Seguendo una mappa di viaggio che, al di là dalle smanie di conquista dello zar Nikolaj, esercitò una forte fascino sugli artisti dell’avanguardia russa fra fine Ottocento e la rivoluzione di ottobre. Aprendo la loro ricerca alle culture autoctone della Siberia e della Mongolia, ma anche a tradizioni più lontane provenienti dal Tibet, dalla Cina, dal Giappone, dal Siam, dall’India e dalla Persia.

Malevich , testa

Malevich , testa

Il percorso che ci propone la mostra L’avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente, allestita in Palazzo Strozzi (fino al 19 gennaio 2014 catalogo Skira) è largamente inedito per il pubblico italiano, abituato dai manuali di scuola a connettere le maggiori novità dell’arte astratta, del suprematismo, del raggismo e del cubo-futurismo russo con quanto accadeva nei primi decenni del Novecento a Parigi e addirittura con il più provinciale futurismo italiano.

Ma se il cubismo era una realtà lontana per artisti come il pittore e poeta Filonov o come Lev Bruni profondamente legati alla propria terra, il futurismo italiano nemmeno esisteva nell’orizzonte mentale di personalità forti come Malevich e come lo stesso Kandinsky che arrivò alla pittura in un’età già matura transitando da studi di legge.

Prova ne è anche l’assoluto flop del tour che Marinetti fece in Russia nel 1914 . Di cui giustamente non c’è traccia in questa mostra nata dalla collaborazione con importanti musei e biblioteche di Mosca e San Pietroburgo e che invita a scoprire l’importanza delle fonti orientali ed eurasiatiche nel modernismo russo.

 A catturare lo sguardo dello spettatore fin dalle prime sale è la corrente continua di rimandi fra avanguardia e tradizione folclorica degli estremi lembi orientali della Russia. Suggestioni orientali innervano chiaramente Ovale bianco (1919) e una delle più singolari opere astratte di Kandinsky: Uccelli esotici (1915) in cui il viaggio verso l’Estremo Oriente si traduce in una vitale composizione di colori e di forme astratte.

mascheraFuori da ogni esotismo, l’Asia diventa fonte di libera ispirazione creativa per il futuro insegnante del Bauhaus e per altri artisti che guardavano fuori dai confini europei per allontanarsi dal freddo razionalismo occidentale.

Questa seducente mostra fiorentina, curata da un team internazionale di studiosi, lo racconta attraverso un percorso di 130 opere firmate da Kandinsky, Malevich, Filonov, Goncharova e da altri protagonisti delle avanguardie russe meno noti in Italia, intercalandole con sculture e reperti etnografici provenienti dalle steppe, statue indiane e stampe cinesi, thai e giapponesi.

Ogni sezione permette di cogliere nessi sotterranei o talora più espliciti fra capolavori delle avanguardie storiche e tradizioni popolari della Russia più profonda o asiatiche. Esempio eclatante è la famosa testa (1928) di Malevich che rimanda direttamente alla ieratica e essenziale foggia delle maschere rituali della taiga. La tradizione sciamanica, invece, affiora negli schizzi di Larionov.  Mentre la Cina fu la primaria fonte di ispirazione per Lev Bruni.

Kandinsky, macchia nera, 1912

Kandinsky, macchia nera, 1912

La combinazione cinese fra segno calligrafico e immagine, infatti, esercitò un’attrazione fortissima sui cubo-futuristi. Burljuk, Goncharova e Larionov, in particolare, studiarono le stampe popolari di cui l’Istituto di cultura artistica di Pietrogrado conservava una importante collezione.

Nel 1913, a Mosca, Vinogradov organizzò la prima mostra di stampe cinesi tradizionali e Larionov poco dopo cominciò ad accostare modelli di icone russe e asiatiche.

men-shen, Sichuan, Cina

men-shen, Sichuan, Cina

L’impatto che queste stampe ebbero sulla fantasia della Goncharova è testimoniato in mostra da quadri come Natura morta con stampa cinese e da Ritratto di famiglia con stampa cinese in cui le figure sono volutamente alterate nelle proporzioni e lo spazio appare senza profondità. Traduzioni russe dell’iconografia imperiale cinese campeggiano nelle sale di Palazzo Strozzi accanto a splendide xilografie cinesi originali che raffigurano maschere e animali immaginifici.

Più autentico e spontaneo appare, però, il rapporto di Goncharova e di Rerich con i miti e le leggende delle steppe.

Goncharova, in particolare, era attratta dall’antica immagine delle cosiddette “femmine di pietra”, testimonianza pietrificata di antichi culti sincretici, che veneravano dee della fertilità. Una tradizione che ispirò le sue misteriose e un po’ inquietanti Statue di sale dipinte nel 1910 ma anche il suo saggio dal titolo Cubismo dove citava queste statue primitive fra le fonti primarie dei “nuovi barbari” della sua generazione, artisti che a suo avviso si sarebbero dovuti ribellare al cubismo analitico per creare nuove forma plastiche.

 dal settimanale  left -avvenimenti

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Miracolo a Firenze

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 25, 2013

 

Donatello, Madonna dei Pazzi, 1420-30

Donatello, Madonna dei Pazzi, 1420-30

Firenze e il Rinascimento. Un binomio da cartolina, un luogo comune dell’industria del turismo difficile da rianimare. E la mente corre alla figura di David riprodotta su borse e magliette, ai modellini della cupola del Brunelleschi che fanno da ferma carte. Dei pericoli che corre l’arte nell’era della riproducibilità tecnica, del resto, ci aveva già avvertiti Walter Benjamin nel secolo scorso, quando lo sfruttamento dell’arte ridotta a brand era ancora di là da venire. Anche per questo l’operazione compiuta da Beatrice Paolozzi Strozzi, direttore del Museo del Bargello e da Marc Bormand, conservateur en chef del dipartimento di scultura del Louvre ci appare decisamente fuori dell’ordinario.

Concepire a Firenze, nell’anno domini 2013, una mostra dal titolo La primavera del Rinascimento era impresa da far tremare le vene e i polsi. Ma il puntuale lavoro scientifico che c’è dietro questa esposizione ha fatto la differenza. E il risultato è davvero sorprendente. Non solo dal punto dal punto di vista della quantità delle centoquaranta opere che questa mostra squaderna in un percorso di dieci sale (tematiche) di Palazzo Strozzi. Non solo per il meticoloso lavoro di ricontestualizzazione storica di capolavori di Donatello, di Ghiberti, di Brunelleschi, di Masaccio, di Paolo Uccello e di altri artisti coevi fuori da ogni astratta mitizzazione del Rinascimento fiorentino. Ma proprio per l’impatto emotivo che questa rassegna riesce ad avere sullo spettatore. Senza aver bisogno di ricorrere ad alcuna spettacolarizzazione. Solo grazie alla compattezza e alla coerenza della proposta creativa. “Solo” per la forza espressiva, l’eleganza di forme e la particolare capacità che queste opere hanno di trasmettere i valori di una civiltà rinascimentale fiorentina che – almeno nell’arte – si voleva laica, umanista, fieramente repubblicana.

Così mettendo per un attimo fra parantesi la vexata quaestio del Rinascimento e dei molti Rinascimenti, su cui si sono variamente confrontati Wölfflin,Warburg e Panosfky la rassegna La primavera del Rinascimento, la scultura e le arti a Firenze 1400-1460 ( catalogo Mandragora aperta fino al 18 agosto . Poi dal Louvre dal 24 settembre al 6 gennaio 2014) invita il visitatore a compiere un viaggio a ritroso nel tempo facendo rivivere davanti ai suoi occhi, simultaneamente, con sapiente regia, la ricchezza di forme e di contenuti della stagione artistica che nella prima metà del Quattrocento ebbe Firenze come principale epicentro.

donatello-david-a

Donatello, David

Una stagione contrassegnata dal primato della scultura, di grande forza inventiva, e che seppe dare vita a un nuovo lessico nell’arte. Grazie al quale gli artisti rinascimentali, anche quando si trattava di declinare temi religiosi, riuscivano a far risaltare soprattutto la bellezza dell’umano. Come ci ricorda a Firenze la raffinatissima Madonna dei Pazzi. Donatello qui  riesce a portare in primo piano la dinamica degli affetti fra madre e bambino, anche grazie a una sua innovativa visione prospettica dello stiacciato che sorprendentemente gli regala profondità. Oppure basta osservare la fluidità del panneggio del suo San Giorgio, che fa emergere la concretezza della fisicità dell’uomo più che l’idea astratta del santo. Ma se si parla di Rinascimento fiorentino non si può tacere dalla geniale progettazione della cupola di Santa Maria Novella da parte del Brunelleschi. Un’opera visionaria che all’architetto fiorentino che era uscito sconfitto dalla storica competizione con il Giberti per la realizzazione delle formelle della porta nuova del Battistero, costò anni di lavoro e giudizi sprezzanti da parte dei concittadini che lo credevano pazzo per quel suo ostinato voler mettere in discussione le norme e le convenzioni in uso fino a quel momento nella progettazione di coperture a cupola. Il risultato, – come riportano le cronache -, lasciò i fiorentini a bocca aperta quando, tirate giù le paratie del cantiere, d’un tratto comparve all’orizzonte il cupolone rosso del Duomo ritmato da listoni bianchi. Una macchina delle meraviglie richiamata in questa mostra da un modellino in legno, dacché basta allontanarsi pochi metri da Palazzo Strozzi per vederla comparire dal vero, ancora oggi, con la forza di un’epifania.

All’interno delle sale, invece, ecco le due famigerate formelle della contesa del 1401, quella raffinata del vincitore Ghiberti, ancora all’ insegna del gotico internazionale e quella più inquieta e mossa dello sconfitto Brunelleschi che, come accennavamo, si sarebbe preso una sonora rivincita nel corso del tempo. Ma ecco soprattutto i capolavori di Donatello, dal prezioso David adolescente, nudo ma adorno di capello e stivali, la figura ha un’elegante torsione che comunica coraggio e spavalderia, nel gesto di affrontare  senza paura il gigante Golia. E la statua diventerà l’emblema della lotta fra la piccola e coraggiosa Firenze e la tirannica signoria di Milano. (Simona Maggiorelli)

 Dal settimanale left-avvenimenti

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Il Sindaco che cercava la Battaglia di Anghiari

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 6, 2013

Matteo Renzi alla ricerca della Battaglia di Anghiari

Matteo Renzi alla ricerca della Battaglia di Anghiari

Una legislatura vissuta pericolosamente. Dalla scuola, dall’università ma anche e soprattutto dal patrimonio d’arte.

Così Tomaso Montanari racconta, con lingua viva e tagliente, ciò che è accaduto in Italia sotto l’egida del ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi «l’unico ministro incompetente di un governo tecnico», che, per giunta «ha moltiplicato intorno a sé l’incompetenza come fossero pani e pesci» scrive lo storico dell’arte dell’università di Napoli nel suo nuovo libro Le pietre e il popolo, restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane (Minimum Fax).

Un volume che stigmatizza il vuoto culturale e la mancanza di strategie che ha connotato il governo Monti. Che ha finito per proseguire sulla strada dello smantellamento del bene comune perpetrata dal governo Berlusconi e dalla “finanza creativa” di Tremonti con famigerate cartolarizzazioni (per far cassa), scandalosi condoni e svendite di interi pezzi di patrimonio pubblico.

Ne Le pietre e il popolo Montanari ci mostra come questo tipo di scellerata politica che attacca l’articolo 9 della Costituzione e il Codice dei beni culturali sia stata praticata anche dal governo tecnico, in doppio petto e nascosto sotto il credito internazionale.

Un esempio per tutti. Il ministro Ornaghi nel 2012 nomina direttore della Girolamini di Napoli tal Marino Massimo De Caro, con alle spalle molteplici lavori fra cui anche l’aver gestito una libreria antiquaria a Verona e intimo amico di Marcello Dell’Utri. Nel capitolo “La danza macabra di Napoli”, Montanari tratteggia il suo incontro con l’improbabile direttore preposto alla tutela della biblioteca dove andava a studiare Vico: fra cani che si aggiravano con ossi in bocca fra rari incunaboli e bionde presenze sgattaiolate al suo arrivo.

Biblioteca Girolamini

Biblioteca Girolamini

Ma soprattutto racconta come a poco a poco il suo lavoro di storico dell’arte sia diventato quello di un giornalista d’inchiesta che riesce abilmente a mettere insieme tutti i pezzi del puzzle della clamorosa truffa che, poche settimane fa, ha portato alla condanna di De Caro a sette anni di carcere per aver sottratto duemila libri alla Girolamini.

L’appassionato lavoro di difesa del patrimonio d’arte e del suo valore civico che Montanari svolge da diversi anni parallelamente alla sua attività accademica e di studioso del Seicento si concretizza, in questo  libro, anche in ficcanti pagine di denuncia delle privatizzazioni mascherate che passano, per esempio, attraverso la creazioni di Fondazioni (vedi il caso del  museo Egizio di Torino e il rischio che corre Brera).

524788_491969040852542_1202966870_nE da questo punto di vista va detto che la vena più caustica e corrosiva di Montanari si appunta sull’amministrazione della sua Firenze. In pagine che non esiteremmo a definire esilaranti, se non fosse tragico il senso che ci trasmettono.

Alla sbarra c’è l’improvvida politica di valorizzazione dei beni culturali ridotta a mero marketing da parte del sindaco Matteo Renzi, che oltre ad aver bucherellato gli affreschi di Vasari alla ricerca di lacerti Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci e ad aver pensato di sostituirsi a Michelangelo nel completare la facciata di San Lorenzo, ha affidato il suo pensum, sui beni culturali «petrolio d’Italia» a un imbarazzante libro come il suo Stil Novo, soprattutto ha eletto a suo Ganimede il vicesindaco Dario Nardella che, come ci ricorda Montanari, «dal 2003 caldeggia la cessione degli Uffizi a una fondazione». (Simona Maggiorelli)

da left-avvenimenti

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Klee, il mago della figura

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 24, 2012

Dal 1902 Paul Klee fu spesso in Italia. Che divenne la sua musa per un deciso cambio di poetica. Lo racconta un’ampia mostra alla Gnam di Roma

di Simona Maggiorelli

La scoperta del colore, della luce radiante e la magia delle sue infinite rifrazioni. È la fascinazione del Sud, di un calore sconosciuto che fa scrivere a Paul Klee in una lettera da Firenze datata 1902: «Mi sto innamorando di tutto in questo Paese».

Classicamente ha con sé Il viaggio in Italia di Goethe, Der Cicerone di Burckhardt e la testa piena di esotismi da Grand Tour, quando il rapporto spiazzante e  dapprima «disturbante» con le chiassose piazze italiane, d’un tratto, si fa iniezione vitale per una decisiva svolta poetica: via i tenebrismi e i paesaggi inquieti di impronta nordica; via un pesante realismo di marca ancora ottocentesca, per lasciare spazio a una nuova visione, che cerca di «rendere visibile, l’invisibile».

Così, catturato dalla verticalità di Genova, l’artista svizzero la evoca in tele in cui l’addensato centro urbano diventa un fitto reticolo di linee, che misteriosamente riescono a richiamare la sagoma dell’abitato. A Pompei è sopraffatto dal rosso dilagante e si dice conquistato dalle linee nette con cui si stagliano le silhouettes di solide figure umane negli affreschi. E per il pittore saranno fiammeggianti e terragni ritratti di signore e signorine dai volti sghembi come maschere vagamente stranianti.

A Milano scopre Balla, Boccioni e il dinamismo futurista, ma anche, attraverso Carrà, il linearismo quattrocentesco e dei sarcofagi paleocristiani; suggestioni che poi saranno alla base di libere ricreazioni che tendono verso l’arte astratta. Anche se – di fatto – Klee non abbandonerà quasi mai del tutto la figurazione. Di se stesso, del resto, diceva: «Io sono un astratto con qualche ricordo», paragonando la propria arte al frutto di un albero che ha radici profonde nella realtà. Sia che fosse la “realtà naturale”, morbida e seducente, delle colline fiesolane che ritroviamo poi in stilizzati paesaggi. Sia che fosse la “realtà culturale” di abbaglianti mosaici ravennati che Klee seppe reinventare in caleidoscopiche e colorate “scacchiere”.

Alcune, come la celebre Composizione urbana con finestre gialle del 1919 insieme alla meno schematica Con la lampada a gas (1919) sono comprese nella selezione di opere di Klee in mostra alla Galleria di arte moderna (Gnam) di Roma nell’ambito della bella mostra Paul Klee e l’Italia (fino al 27 gennaio, catalogo Electa). Insieme a opere curiose come Ville fiorentine (1926) che traduce la visione urbana  in una preziosa trama di tasselli finemente e quasi ossessivamente decorati. Più in là, il preciso ed elegante lavoro di china di Americano-giapponese (1919) che, nel contrasto fra un giallo pastello e la linea nera,  mette insieme suggestioni orientaleggianti e limpida visione occidentale. Una schematicità, più rigida e ripetitiva, si ritrova invece  in opere in cui Klee sembra voler rileggere la lezione ottica del Pointillisme francese, come per esempio nell’acquerello Croci e colonne (1931) in cui il pittore alterna colori caldi e colori freddi, cercando di dare alla composizione una sorta di vibrazione e di movimento. Ma non mancano in mostra anche esempi di opere degli anni Trenta  in cui si accentua in Klee la propensione per fantasmagorie che lasciano intravedere un fondo drammatico ma anche angosciato.

dal settimanale left-avvenimenti

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