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Archive for luglio 2012

Nella fucina dell’Umanesimo

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 31, 2012

di Simona Maggiorelli

Paolo Uccello, La battaglia di San Romano, Uffizi

Una selva di lance spezzate e il bagliore delle armature. E poi il sangue, i soldati morti mentre i cavalli scalciano con vigore. Così rappresentava, con una prospettiva inedita e in scorci vertiginosi, la Battaglia di San Romano (1438-1440) il pittore Paolo Uccello.

La tela conservata agli Uffizi, dopo tre anni di restauro, ha recuperato ora una piena leggibilità. Brillano gli inserti d’oro e d’argento ma soprattutto emerge la raffinata pittura tonale che dà profondità alla scena, in cui anche lo spettatore è come risucchiato.

Quella che Paolo Uccello offre è una magnifica visone dello scontro fra senesi e fiorentini, una potente orchestrazione di «caos, clamore, urto, sventolio araldico e sonorità metalliche d’un estremo sogno cavalleresco», come annota la soprintendente al Polo Museale Fiorentino Cristina Acidini in un suo saggio pubblicato nel catalogo Giunti della mostra Bagliori dorati. Il gotico internazionale a Firenze

. Una rassegna aperta fino al 4 novembre nella Galleria degli Uffizi e che alla fine di un percorso di oltre cento opere culmina proprio con la Battaglia di San Romano, l’unica tavola del celebre trittico di Paolo Uccello rimasta in Italia. (Le altre  due tele , come è noto, sono alla National Gallery di Londra e al Louvre di Parigi).

Curata dal direttore degli Uffizi Antonio Natali, con Enrica Neri Lusanna e Angelo Tartuferi, questa mostra è l’ideale proseguimento di quella di un paio di anni fa intitolata L’eredità di Giotto, e che si fermava al 1375. La tesi scientifica di questa importante esposizione – che riunisce capolavori di Gentile di Fabriano come la Pala Strozzi e opere giovanili di Paolo Uccello come L’Annunciazione proveniente da Oxford o la Madonna di Antonio Veneziano conservata ad Hannover – è che il gotico internazionale, nelle sue varie declinazioni fosse già parte dell’Umanesimo, al pari del filone innovativo che va da Masaccio a Donatello e Brunelleschi.

La Battaglia di San Romano, da questo punto di vista, si presenta proprio come una sintesi potente della complessità intellettuale e creativa di quella speciale stagione dell’arte fiorentina che senza soluzione di continuità procede dal Trecento al secolo successivo e in cui, per dirla con Natali, «rigore matematico e sperticate fantasie convissero, intersecandosi talora».

Lorenzo Monaco, particolare

Tutto ciò è raccontato attraverso una scelta di opere realizzate tra 1375 e il 1440, fra cui dipinti di Angelo Gaddi, Beato Angelico, Lorenzo Monaco, ma anche di Masolino da Panicale, Antonio e Domenico Veneziano e altri artisti dai nomi meno noti al grande pubblico ma che testimoniano bene della ricchezza di stili e di sperimentazioni della Firenze protoumanista.

Dove un ruolo preminente aveva anche la scultura che doveva esprimere la magnificenza della città legittimandone il primato culturale e politico. Un aspetto indagato anche dallo storico dell’arte ungherese Miklós Boskovits scomparso un anno fa a Firenze. Fra i massimi studiosi del XIII-XV secolo, ai suoi lavori si deve la rilettura del Quattrocento fiorentino come fucina di innovazione in cui un raffinato gotico internazionale incontrava l’interesse per l’umano e lo studio della classici.

Una koinè che, come argomenta Michele Tomasi nel suo L’arte del Trecento in Europa (Einaudi), risulta incomprensibile se letta in contrapposizione con il Trecento e senza considerare il coevo contesto europeo.

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Ghiberti e Brunelleschi, si riapre la disputa

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 31, 2012

Ci sono volutiventisette anni di restauro perché la Porta del Paradiso tornasse al suo antico splendore. Rivelando aspetti del tutto  inediti

di Simona Maggiorelli

Lorenzo Ghiberti, Porta del paradiso

La geniale intuizione di Filippo Brunelleschi che la grande cupola di Santa Maria del Fiore potesse auto sorreggersi con un meccanismo di costruzione binario e senza l’uso delle céntine, insieme all’idea che il progettista fiorentino avesse “inventato” la prospettiva in pittura, ha indotto a pensare che la sua sonora sconfitta giovanile nella gara d’appalto per la porta del battistero fosse dovuta ai gusti miopi e conservatori della giuria.

Troppo avanti nello stile, troppo vibrante il movimento del suo Sacrificio di Isacco in una Firenze del 1401-1402 che ancora era ferma alla rigidità metafisica del gotico e che per questo gli preferì il lavoro di Lorenzo Ghiberti. Ma chissà che le cose non stessero proprio così.

Ad accendere più di un dubbio sono stati negli ultimi cinquant’anni una serie di importanti studi. Che ora sono corroborati dai risultati del restauro della Porta del Paradiso a cui il Ghiberti lavorò tra il 1426 e il 1452 e che gli fu commissionata dalla potente Arte di Calimala nel 1425.

Un’opera davvero abbagliante che l’artista impiegò 27 anni a realizzare e che ha richiesto altrettanti anni per essere riportata all’antico splendore dai restauratori dell’Opificio delle pietre dure, che sono riusciti a liberarla dai danni provocati dalle secolari esposizioni alle intemperie, ma anche da quelli, alla stessa struttura, provocati dall’alluvione del 1966.

Battistero, Firenze

Un lavoro lungo e delicatissimo, che ha riportato alla luce «una macchina complessa e perfetta, realizzata con una perizia senza precedenti e mai più uguagliata» come fa notare la direttrice del restauro Annamaria Giusti. Per questo basterebbe dire che le due ante furono gettate in bronzo in un unico, enorme, pezzo.

Ma la grande sprezzatura rispetto alle difficoltà di realizzazione dell’opera non è il solo aspetto a catturare la nostra attenzione. Più ancora colpisce lo sguardo la profonda, umanissima, eleganza delle figure rappresentate. Che fa scivolare del tutto in secondo piano il fatto che nelle formelle siano narrati episodi sacri e dell’Antico Testamento. Mutuando stili e modi di rappresentazione, non da un disseccato gotico, ma da un raffinato gotico internazionale che, a fine Trecento, era il linguaggio colto e urbano delle corti europee (e che nella rustica Firenze invece conobbe poche occorrenze), Ghiberti riuscì a distillare in quest’opera di una vita un proprio stile originale e maturo. Che con coraggio metteva al centro l’umano, nonostante il programma iconografico strettamente religioso.

Al contempo facendo piazza pulita di quelle decorazioni convenzionali a quadrifoglio che ancora nelle formelle realizzate da Andrea Pisano per la Porta Sud (1329-1336) occupavano gran parte dello spazio. Il risultato – che si potrà meglio apprezzare dal vivo quando la Porta del Paradiso sarà esposta, dall’8 settembre, nei nuovi spazi del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze – è di ariosa leggerezza, nonostante il massiccio bronzo in cui sono realizzate le varie formelle. Mentre l’oro accende le scene di riflessi di luce dando evidenza plastica alle figure.

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Buren, maestro della luce e del colore

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 26, 2012

Dopo aver trasformato il Grand Palais in un caleidoscopio di riflessi, l’artista francese Daniel Buren , in Calabria,  reinventa il Parco archeologico di Scolacium con specchi e vetrate blu e rosse

di Simona Maggiorelli

Daniel Buren, Pechino 2004

«Per me il colore è pensiero puro», dice Daniel Buren. Forse il maggior artista francese vivente. Che con le sue luminose opere site specific fatte di vetri policromi o rivestite di tessuti a strisce ha cambiato il volto ad alcune delle piazze e dei luoghi pubblici più noti al mondo, da Pechino a Parigi e oltre.

Ma dagli anni Ottanta, dopo aver sostanzialmente abbandonato la pittura a favore di installazioni architettoniche, Buren ha anche contribuito a ricreare con fantasia aree urbane senza identità, anonime: quegli spazi metropolitani che l’antropologo Marc Augé definirebbe «non luoghi».

Aeroporti, snodi per le merci, oppure ponti come quello di cemento che attraversa il fiume di fronte al Museo Guggenheim di Bilbao, un grigio e trafficato punto di passaggio che lo scultore parigino ha trasformato del tutto sormontandolo con un magnetico arco rosso  facendone una specie di simbolo e di icona che identifica la zona del museo.

Da qualche tempo però, più che gli spazi della contemporaneità, Buren sembra prediligere “angoli” densi di storia. Accade così che su invito di Alberto Fiz direttore del Marca di Catanzaro, l’artista da qualche mese si sia “trasferito” nel parco archeologico di Scolacium per creare nuove opere in dialogo con le vestigia romane che qui sopravvivono fra gli uliveti.

Daniel Buren, Luxenburg 2001

Dal 27 luglio e fino al 14 ottobre l’antica Basilica del Parco, dopo il suo intervento, si presenta in veste rinnovata, carica di riflessi blu e rossi che filtrano dalle vetrate di plexiglas realizzate ad hoc: al variare della luce creano atmosfere cangianti, in un magico movimento di luci e ombre.

Più in là, l’antico teatro. Al centro, Buren ha costruito una gigantesca struttura specchiante che dilata lo spazio scenico, facendone una piattaforma virtuale, un lago di riflessi sotto il sole a picco della Calabria.

L’antico teatro romano appare ora come uno spazio irreale, visionario, orizzonte di miraggi e arena di immaginarie scorribande di demoni meridiani. Accentuando le linee di forza dei ruderi, o raddoppiandone illusionisticamente gli spazi e, ancora, disseminando il parco di elementi semplici ed essenziali come archi e colonne, Buren reinventa la trama visiva del Parco di Scolacium facendone un luogo delle meraviglie.

Un po’ come era già successo lo scorso giugno, quando è stato invitato a intervenire sul Grand Palais di Parigi per la rassegna Monumenta ( che ogni anno chiede a un artista contemporaneo di creare ex novo un’opera per questo importante spazio) . In quel caso l’elegante e austera struttura in ferro illuminata dalla cupola a vetri, nelle mani di Daniel Buren, è diventata un caleidoscopio di rossi, verdi, blu, gialli e arancio.

Daniel Buren,Monumenta 2012

Realizzando delle grandi vetrate a mosaico, Daniel Buren ne ha fatto una splendente macchina rinascimentale. Una sorta di Wunderkammer in cui raggi di luce, colori, riflessi sembrano cambiare di continuo  i volumi delle cose e creano dal nulla forme geometriche che ridisegnano gli spazi; Buren qui come altrove  ha ripreso alcuni topoi dell’arte concettuale di cui è maestro aprendoli a imprevisti di fantasia.

In questo caso poi, creando un ideale ponte fra contemporaneità e storia dell’arte del  Quattrocento l’artista dice  di essersi ispirato anche  al pittore toscano Paolo Uccello (1397-1475), l’autore della spettacolare Battaglia di San Romano degli Uffizi, una grande tela che ha ben due opere pandant e di pari importanza conservate al Louvre e alla National Gallery: «Uno dei pittori più straordinari della storia occidentale – sottolinea Daniel Buren -, perché con tre tele di battaglia seppe creare prospettive vertiginose, che attraggono lo spettatore dentro il quadro», prospettive ad alto impatto emotivo  che  l’artista  realizzò aiutandosi con l’uso dello specchio. Ben prima di Parmigianino, di Caravaggio e di Velàzquez.

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Oltre olo specchio di Venere

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 21, 2012

La ricerca di una vita, la passione per l’arte , gli incontri e gli amori di Diego Velazquez nella prima biografia italiana del grande pittore del Seicento spagnolo, edita da Cavallo di Ferro e firmata da Riccardo De Paolo. Fra storia e romanzo l’avventura di un autore di penetranti ritratti, di opere complesse come Las Meninas e di laici nudi femminili , in un’epoca di roghi feroci

di Simona Maggiorelli

Velazquez, Venere allo specchio (1650)

La narrazione comincia dalla fine: dalla lettera che il pittore Diego Velàzquez, ormai sul letto di morte, invia nel 1660 all’amico Juan de Còrdoba. Lasciando che sulla pagina affiorino memorie di vita, di incontri, di amori ma anche la passione di una intera vita, quella per l’arte («Volevo spingermi nell’arte dove nessuno si era ancora spinto»).

Con quella fierezza di hidalgo che lo caratterizzava fin da giovane, ma soprattutto con la consapevolezza di una esistenza pienamente riuscita, Diego Rodriguez de Silva y Velàzquez, cavaliere dell’Ordine di Santiago, si appresta ad uscire di scena.

«La nostra vita è solo una goccia nel mare del tempo; e non sono così stolto – o privo d’immaginazione – da poter escludere che questo nostro stato non sia soltanto una temporanea finzione. Ricordatene se un giorno, oppresso dai ricordi, o da qualche bicchiere di troppo, ti verrà voglia di piangere», scrive all’amico in questa lettera immaginata da Riccardo De Palo ad incipit de Il ritratto di Venere, la vita segreta di Diego Velàzquez (Cavallo di Ferro), la prima biografia italiana del grande pittore del Seicento spagnolo.

In forma di romanzo, ma puntuale nella ricostruzione storica e soprattutto generosa di approfondimenti sulla poetica, originalissima, di questo autore di penetranti ritratti (basta pensare al suo celebre nano di corte), di opere complesse come Las Meninas e di morbidi nudi femminili come la Venere allo specchio conservata alla National Gallery di Londra: un’opera luminosamente laica in un’epoca di feroci roghi controriformisti.

In questo romanzo storico De Palo ne rintraccia il vero volto nella bella ventenne Marta di cui il già maturo pittore si innamorò perdutamente durante un soggiorno romano. E più indietro nel tempo l’autore ci porta a rintracciare l’origine della calda tavolozza di ocra, rossi e terre tipica di Velàzquez in quella libera e arabizzante Siviglia in cui  era nato nel 1599 e aveva trascorso la giovinezza, «rimirando i fregi intarsiati di quelle che un tempo erano moschee», fra botteghe che vendevano di ogni tipo di mercanzia e strade piene di gente.

Nella cosmopolita Siviglia Velàzquez entrò giovanissimo a bottega del colto Pacheco (di cui sposerà la figlia Juana) assorbendone la lezione improntata al naturalismo fiammingo e, attraverso stampe e riproduzioni, facendo proprio il drammatico chiaro-scuro dei caravaggisti. Poi la decisione di trasferirsi a Madrid, per tentare la carriera a corte, riuscendo a diventare l’artista preferito del re Filippo IV e amico di Rubens da cui il pittore andaluso apprezzava la libertà dai moralismi religiosi e il coraggio nel portare avanti progetti personali e lungimiranti in barba alle meschinerie e alle trame di corte.

Seguendone le orme, ricostruisce Riccardo De Palo, Velàzquez ebbe incarichi ufficiali per acquistare all’estero opere per la collezione imperiale. Ma divenne anche testimone privilegiato del Siglo de oro, frequentando Francisco de Quevedo, Luis de Gòngora, Calderòn de la Barca, Lope de Vega e altri importanti intellettuali del tempo. Avendo anche la possibilità di un diretto  confronto con i maestri dell’arte italiana, grazie a una serie di viaggi nella penisola dove poté studiare le opere di Michelangelo, di Raffaello, di Tiziano, di Veronese e di Tintoretto.

Il suo fiammeggiante Innocenzo X  resta un debito aperto con quel Tiziano di cui a Venezia ebbe modo di apprezzare la grande libertà creativa e  la rappresentazione dell’umano piena e immanente. A tutto questo, specie nella ritrattistica, Velàzquez seppe aggiungere una straordinaria capacità di cogliere in un guizzo, in un’espressione, in una smorfia imprevista, ciò che più profondamente si agita nell’animo umano, raccontandone i tormenti interiori, riuscendo a fermare la realtà vibrante sotto il suo pennello.

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Il salto culturale dei sapiens

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 20, 2012

Nessun gene dell’egoismo o della creatività. Alle origini del linguaggio, un processo evolutivo, in cui contano le relazioni umane. Parla Telmo Pievani, ospite del Festival della mente di Sarzana

di Simona Maggiorelli

Pitture rupestri, Chauvet, 32mila anni fa

Come nasce il linguaggio umano? Su questo annoso e affascinante tema il filosofo della scienza Telmo Pievani ( con Emanuele Banfi e Federico Albano Leoni)ha promosso un confronto fra linguisti e neuroscienziati all’università Bicocca di Milano. Left gli ha chiesto di fare il punto sui risultati del dibattito che ha coinvolto un parterre internazionale di scienziati. A settembre su questi temi lo studioso terrà una lectio magistrali al Festival della mente di Sarzana

Professor Pievani sui media, di recente, si fantastica di un gene dell’egoismo o dell’altruismo. Non si può pensare, piuttosto, che la maturazione cerebrale avvenga in relazione a stimoli ambientali, sociali, di rapporto? 

Suggerisco di diffidare sempre delle notizie del tipo “Scoperto il gene di”. Non ha più alcun senso ritenere che comportamenti sociali complessi abbiano una determinazione genetica lineare di questo tipo. Persino per il colore della pelle occorre un intero network di geni interconnessi, figuriamoci per l’egoismo o l’altruismo. Il genoma è la filigrana della vita, non un oracolo interno, né un surrogato dell’anima; è una componente di un sistema, non un’essenza senza tempo né contesto. La maturazione cerebrale, che avviene per una parte dopo la nascita (i nostri cuccioli nascono fragili e immaturi) è soggetta sia a un’impronta genetica ereditaria sia a influenze ambientali, sociali, familiari. In un intreccio inestricabile di innato e acquisito.

Nello sviluppo del linguaggio è importante il rapporto con la madre, lei scrive. Non a caso Kaspar Hauser e i “bambini lupo” cresciuti fuori dal rapporto umano non parlano. Tuttavia il bambino non è una tavoletta di cera…
Il linguaggio umano deve essersi evoluto nel genere Homo con un processo continuativo, se non vogliamo ricorrere a tesi miracolistiche o rassegnarci al mistero. Ma non abbiamo ancora modelli evoluzionistici adeguati per ricostruire questa dinamica. Anche se indizi ora vengono da ricerche di etologia cognitiva e paleoantropologia. E qui occorre distinguere tra filogenesi e ontogenesi: tra evoluzione delle specie e sviluppo individuale. Il rapporto con la madre è certo decisivo per lo sviluppo del linguaggio verbale. Ma la novità è un’altra. Anche negli studi che riguardano la filogenesi, noi sappiamo adesso che forse l’ambiente ideale per le sperimentazioni necessarie all’evoluzione del linguaggio non è stato solo il coordinamento per la caccia ma anche l’interazione tra madri e piccoli, come sostenne già anni fa Ian Tattersall e come ha scritto Dean Falk in Lingua madre. Dunque anche il linguaggio potrebbe essere legato all’allungamento dell’infanzia e dell’ adolescenza nei sapiens, che è maggiore rispetto a ciò che accade in scimpanzé e gorilla ma anche rispetto alle altre specie del genere Homo.

La fantasia, la capacità di immaginare, è specifica e originaria dell’essere umano?
Direi di sì, almeno da quanto vediamo dalla nascita del comportamento umano “cognitivamente moderno”, intorno a 40-50mila anni fa. Dopo le prime avvisaglie in Africa, l’innovazione sembra diffondersi con grande rapidità, facendo esplodere nei cacciatori raccoglitori sapiens (dall’Europa all’Australia) comportamenti del tutto inediti, cioè pitture rupestri, sepolture rituali, ornamenti, strumenti musicali, sculture, nuove tecnologie litiche. Le caratteristiche di questo cambiamento, forse portato da una popolazione di sapiens uscita dall’Africa circa 60mila anni fa (di cui conosciamo alcuni marcatori genetici), lasciano supporre che sia stata un’evoluzione culturale, più che biologica. E l’innesco di questa intelligenza simbolica potrebbe essere stato proprio il completamento del tratto vocale umano e lo sviluppo del linguaggio articolato tipicamente sapiens, con le sue proprietà ricorsive e astrattive che hanno aperto alla nostra mente nuove possibilità. Lì abbiamo imparato a inventare mondi alternativi nella nostra testa, e a condividerli con i compagni del gruppo. Ancora oggi nello sviluppo individuale, anche se spesso si fa di tutto per mortificarla, credo che la capacità di immaginare altri mondi possibili, scenari alternativi, sia il modo migliore per onorare la nostra evoluzione sapiens.
Negli studi sull’origine del linguaggio umano si parla perlopiù di linguaggio verbale e di pensiero cosciente. Ma il Big bang della nostra specie non è stata la capacità di creare immagini espressive, dalla risonanza profonda e di valore universale?
Sono d’accordo. Se verrà confermata l’ipotesi evolutiva che delineavo, il linguaggio verbale va associato a una più vasta competenza simbolica. Anch’io penso che la comparsa di segni e poi di rappresentazioni (sia realistiche che stilizzate) sia un indizio cruciale. La raffinatezza delle prime pitture rupestri e il loro contesto espositivo vanno oltre un significato sociale di valenza rituale. Sono la prova che lì è all’opera una mente umana inedita, con un rapporto nuovo con l’ambiente, capace di mescolare il ricordo vivido delle scene di caccia con una trama di messaggi simbolici condivisi dalla comunità. Senza nascondere che questa immaginazione è anche ciò che ci ha reso più espansivi e invasivi di qualsiasi altra forma umana.

 

Telmo Pievani

Uno studio apparso su Science ora spinge a retrodatare ai Neanderthal la prima arte rupestre. E c’è chi suppone una ibridazione fra Neanderthal e Sapiens. Può aver portato più varietà e capacità di risposta all’ambiente? E quale è stato il contributo della donna?
Lo studio non riguarda la scoperta diretta di arte rupestre neandertaliana, ma ipotizza una possibile associazione con popolazioni neandertaliane, quindi lo valuterei con cautela. I dati suggeriscono che il Neanderthal si stava avviando verso l’intelligenza simbolica: lo mostrano le possibili sepolture di Shanidar nel Kurdistan, l’uso di piume ornamentali nel sito di Fumane, il possibile flauto neandertaliano scoperto in Slovenia. Tuttavia, un conto è assumere questi comportamenti in modo globale e sistematico come fanno i sapiens, altro è farlo in modo occasionale. Forse era un inizio e non hanno fatto in tempo. Anche l’ibridazione tra le due specie è un modello in discussione, non tutti i genetisti ne sono convinti. Certo, scoprire che in certe fasi della nostra storia e in alcuni territori (si pensa al Medio Oriente) ci siamo accoppiati dando alla luce ibridi Sapiens/Neanderthal, capaci di procreare, è impressionante. Vorrebbe dire che nemmeno il nostro genoma è “puro”, tutto nostro, e che anche geneticamente siamo un mantello di Arlecchino con contributi diversi, che certamente ci hanno rafforzato in termini di variabilità e di difese immunitarie. Per tutte le specie, la diversità interna è una assicurazione per la vita, il combustibile di ogni cambiamento. Vale anche per le diversità di genere, che in campo evoluzionistico per fortuna sono andate ben al di là dello stereotipo dell’uomo cacciatore e della donna raccoglitrice. Dalla neotenia alle interazioni madre/figlio nello sviluppo del linguaggio, oggi l’evoluzione umana è vista senz’altro molto più “al femminile” di quanto non fosse in passato.

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L’invenzione egizia

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 16, 2012

Due mostre,a New York e a Parigi, ma anche nuovi studi contribuiscono a mettere in crisi una visione stereotipata dell’antica civiltà che nacque sulle sponde del Nilo

 

di Simona Maggiorelli

 

Immagini femminili, stilizzate, ed eleganti. Oppure più realistiche ma sempre rappresentate con pochi tratti essenziali. Insieme a statuette votive di animali campeggiano nella galleria virtuale del Metropolitan Museum (www.metmuseum.org) di New York come invito a visitare la mostra L’alba dell’arte egizia, aperta fino al 5 agosto.

Una esposizione che, attraverso centottanta reperti datati dal 4400 al 2649 a.C. scompiglia l’idea stereotipata che abbiamo dell’arte egizia basata su figurine seriali e geroglifici. Ma anche la bella mostra in corso al Musée Jacquemart di Parigi – e che all’opposto indaga il crepuscolo dei faraoni, dal 1075 a.C. al 30 a.C. – ci propone esempi di arte egizia che mettono a soqquadro le nostre poche certezze in questo campo.

Fortunatamente, in nostro soccorso, arriva  l’egittologo e affasciante divulgatore Toby Wilkinson con il suo nuovo, denso, lavoro sulle molte trasformazioni a cui andò incontro la longeva civiltà del Nilo: dalle sue origini preistoriche e dalle prime incisioni del Wadi Umm Salam fino alla conquista romana.

murale, antico egitto, metropolitan

«Lo studio dell’antico Egitto richiede un immenso sforzo di immaginazione e una buona conoscenza di due secoli di ricerche. Ma ad indicarci la via è pur sempre l’essere umano che abbiamo in comune con gli antichi egizi», ci rassicura l’archeologo inglese. Che ne L’antico Egitto (Einaudi) ripercorre il lungo e variegato sviluppo dell’arte egizia ricordandoci che già i primi faraoni avevano compreso il potere straordinario dell’iconografia nell’imporre un’ideologia: fondamentale collante in una società tribale politeista e molto divisa al suo interno.

Con interessata lungimiranza, insomma, i faraoni si affidarono al potere e alla forza di immagini, talora anche crudeli con rappresentazioni dello strazio dei popoli sottomessi, più spesso di abbagliante bellezza, come testimoniano cronache di fastose cerimonie pubbliche e possenti piramidi costruite come espressione di un governo dispotico che rivendicava origini divine.

(«Il potere regale era assoluto nell’Antico Egitto», scrive Wilkinson, «e la vita umana valeva ben poco»). Così se in libri come La genesi dei faraoni (Newton Compton, 2003), lo studioso di Cambridge aveva indagato le origini della storia egizia a cominciare dalla sue origini preistoriche fatte risalire ad almeno duemila anni prima delle piramidi dell’Antico Regno, in questo volume offre un avvincente quadro diacronico della civiltà egizia che, abbandonate modalità semi-nomadi, si strutturò ben presto attorno all’idea di stato nazione: «un’idea che ancora predomina nel nostro mondo a distanza di cinquemila anni», sostiene Wilkinson. Ciò che è certo è che quell’invenzione permise alla civiltà egizia una durata di tre millenni (quella romana durò “appena” un millennio). Un’idea che differenziava radicalmente l’Egitto dalla Mesopotamia basata su città -stato di grande ricchezza multiculturale.

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Sindbad e i tesori omaniti

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 15, 2012

Dall’antico porto di Sumhuram partivano incenso, reaffinate ceramiche e sculture. Campagne di scavo dell’Università di Pisa portano nuove conoscenze sulla storia di questa cosmopolita area dell’Arabia Felix

 

di Simona Maggiorelli

 

Oman, cammelli attraversano una laguna in Salalah-Dhofar

Sulle orme di Sindbad il marinaio, l’anti Ulisse per eccellenza, che diversamente dal fedele marito di Penelope, cedeva alla bellezza femminile in ogni porto. (Salvo poi darsela a gambe se le usanze locali prevedevano che gli sposi fossero sepolti insieme qualora uno dei due morisse)

Di Sindbad, come è noto, narrano le Mille e una notte, immaginando che, partito da Bassora, come tanti marinai delle epoche più antiche, il  leggendario marinaio  fosse arrivato alla costa più meridionale della penisola araba e da lì salpato alla conquista dei sette mari, lungo le rotte che secoli dopo sarebbero state di Marco Polo.

Da sempre legato alla tradizione alla navigazione e alla vita portuale l’Oman, che nei testi mesopotamici era indicato come Magan, è la punta estrema di quella che fu l’Arabia Felix come la chiamavano i romani che da queste terre, soprattutto in età augustea, importavano incenso pregiato per profumare case e cerimonie pubbliche. Ma l’eudàimon Arabia (come la chiamò Alessandro per non averla conquistata) era anche il punto di partenza delle carovane di mirra, spezie e altri prodotti che da queste terre raggiungevano Roma, la Grecia e oltre.

Dal fiorente e cosmopolita porto di Sumhuram, nell’area di Khor Rori, oggi patrimonio Unesco, ne partivano quantità ingenti anche verso l’India e la lontana Cina, insieme a ceramiche decorate, incensieri scolpiti, spade e amuleti in forma di serpentelli e atri oggetti in metallo  dal momento che la regione omanita è ricca di miniere sfruttate fin dal III millennio a.C.

Raffigurazione di serpente, Salut

Qui per quindici anni, dal 1997 a oggi, un team di archeologi italiani guidati dall’orientalista Alessandra Avanzini dell’Università di Pisa ha condotto un’ampia campagna di scavo allargandosi fino fortezza di Salut. Gli importanti reperti portati alla luce sono stati esposti, fino a lo scorso 7 luglio, nel Museo nazionale di San Matteo nella mostra Oman, il paese di Sindbad il marinaio.

Nel 1996 quando Avanzini vide per la prima volta il sito di Khor Rori, nel Dhofar, intuì che lo studio di questo sito avrebbe potuto portare nuove conoscenze alla storia dei commerci nell’antichità. E con coraggio, quando ancora, il sultanato omanita era trascurato dalle campagne archeologiche che si fermavano nel sud dello Yemen, avviò i primi scavi sistematici.

Le scoperte sono state sorprendenti come siè potuto  vedere anche nella esposizione pisana dove erano esposti raffinati oggetti in pietra e in bronzo come il bacile, trovato nel tempio più importante di Sumhuram: di datazione incerta, fra il II e il I secolo a.C., come molti altri reperti scavati in questa zona sfoggia un’iscrizione a rilievo in elegante alfabeto sudarabico, mentre dei chiodini sul fondo documentano anche antiche operazioni di restauro.

Incisioni rupestri, Oman

Insieme al bacile altri oggetti e frammenti confermano che la pratica delle iscrizioni in geometrico e stilizzato alfabeto sudarabico era diffusa in Yemen come in Oman, dove le prime iscrizioni sono attestate dall’inizio del primo millennio a. C. In un arco di tempo che arriva al VI secolo d.C.  se ne contano più di quindicimila, incise sulle pareti delle montagne, sulle mura della città, su stele e statue.

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Sculture come magneti di storia

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 8, 2012

Muri di valigie di chi non tornò mai dal lager. Monocromi e  scabre opere grafiche. A Milano una retrospettiva dedicata a Fabio Mauri

di Simona Maggiorelli

Fabio Mauri, Muro occidentale o del pianto 1993

La ferita aperta dal fascismo non si rimarginò mai in lui. E, con spietato coraggio, per tutta la vita continuò a interrogarsi su come fosse potuta accadere quell’immane tragedia. Lo fece con opere grafiche scabre, graffiate e, a loro modo, poetiche.

Con quadri laceri e arsi come le tele di Alberto Burri. E ancora con opere monumentali come una parete di valigie appartenute a chi non tornò mai a casa. Quel Muro occidentale o del Pianto  presentato alla Biennale di Venezia del  1993 ora svetta in Palazzo Reale a Milano al centro della mostra Fabio Mauri The End (dal 18 giugno al 23 settembre, catalogo Skira) richiamando alla mente la memoria dei deportati nei campi di concentramento ma anche l’immagine dei migranti di oggi, venuti dal Sud del mondo per morire di lavoro in un cantiere o ancor prima di arrivare, naufraghi in mare.

Un tema quello della denuncia del razzismo che percorre carsicamente tutta l’opera di Fabio Mauri, fin dalla performance L’Ebrea del 1971, con una donna, sola e nuda, al centro di una scena asettica. «In Ebrea il razzismo ebraico (anti) sta per quello negro, come per ogni altra specie o sottospecie di razzismo» annotava in quello stesso anno, in un frammento ora raccolto nel libro Fabio Mauri, Ideologia e memoria appena uscito per Bollati Boringhieri. E ancora, tornando a scavare le radici marce del regime e la falsa coscienza dell’ideologia: «Mi rendevo conto che il fascismo e il nazismo non erano eventi obbligatori, non erano un fatto geografico e quasi naturale come si voleva credere allora. Ma che erano attraversamenti arbitrari, terrificanti, falsi e mortali, privi di pensiero». Così rifletteva Fabio Mauri  in una delle sue ultime conversazioni con Achille Bonito Oliva. E poi aggiungeva con lucidità: «La stupidità genera morte, l’ho visto con i miei occhi».

Da questa bruciante consapevolezza nasceva una delle sue opere più note Che cosa è il fascismo, un lavoro performativo che distillava in scrittura drammaturgica l’esperienza giovanile di trovarsi d’un tratto,  suo malgrado,  fra giovani Balilla «stolidamente militarizzati».

Un teatro straniante quello di Fabio Mauri, tragico, ma che non conosceva catarsi. Alimentato com’era da un corrosivo esistenzialismo che a tratti sembrava precipitare nel  nihilismo. Come quando, per liberarsi da una cultura uccisa dagli stili o per protestare contro le piatte immagini della televisione, ostentava schermi bianchi e cercava «il grado zero dell’immagine», come si diceva allora con linguaggio aridamente strutturalista.

Fabio Mauri

E se i suoi “oggetti trovati”, microfoni, vecchi corni, orologi, zaini, come reperti di epoche passate, sono ancora oggi magneti che ci restituiscono il senso della storia, questa produzione più freddamente avanguardistica fatta di monocromi e di schermi nudi è quella che risulta più datata dell’opera di Mauri che questa mostra milanese curata da Francesca Alfano Miglietti ha comunque il merito di riproporre per intero in questa prima, vera, retrospettiva dalla morte dell’artista avvenuta nel 2009. Approfondire la personalità di Fabio Mauri, non solo come artista ma anche come editore, del resto, permette di comprendere più a fondo la temperie di gruppi intellettuali pre e post sessantottini (come quelli che si riunivano intorno alla rivista Quindici) che con il loro esistenzialimo intriso di cattolicesimo hanno segnato – e non sempre in positivo – la cultura italiana.

da left-avvenimenti

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