di Simona Maggiorelli
Una selva di lance spezzate e il bagliore delle armature. E poi il sangue, i soldati morti mentre i cavalli scalciano con vigore. Così rappresentava, con una prospettiva inedita e in scorci vertiginosi, la Battaglia di San Romano (1438-1440) il pittore Paolo Uccello.
La tela conservata agli Uffizi, dopo tre anni di restauro, ha recuperato ora una piena leggibilità. Brillano gli inserti d’oro e d’argento ma soprattutto emerge la raffinata pittura tonale che dà profondità alla scena, in cui anche lo spettatore è come risucchiato.
Quella che Paolo Uccello offre è una magnifica visone dello scontro fra senesi e fiorentini, una potente orchestrazione di «caos, clamore, urto, sventolio araldico e sonorità metalliche d’un estremo sogno cavalleresco», come annota la soprintendente al Polo Museale Fiorentino Cristina Acidini in un suo saggio pubblicato nel catalogo Giunti della mostra Bagliori dorati. Il gotico internazionale a Firenze
. Una rassegna aperta fino al 4 novembre nella Galleria degli Uffizi e che alla fine di un percorso di oltre cento opere culmina proprio con la Battaglia di San Romano, l’unica tavola del celebre trittico di Paolo Uccello rimasta in Italia. (Le altre due tele , come è noto, sono alla National Gallery di Londra e al Louvre di Parigi).
Curata dal direttore degli Uffizi Antonio Natali, con Enrica Neri Lusanna e Angelo Tartuferi, questa mostra è l’ideale proseguimento di quella di un paio di anni fa intitolata L’eredità di Giotto, e che si fermava al 1375. La tesi scientifica di questa importante esposizione – che riunisce capolavori di Gentile di Fabriano come la Pala Strozzi e opere giovanili di Paolo Uccello come L’Annunciazione proveniente da Oxford o la Madonna di Antonio Veneziano conservata ad Hannover – è che il gotico internazionale, nelle sue varie declinazioni fosse già parte dell’Umanesimo, al pari del filone innovativo che va da Masaccio a Donatello e Brunelleschi.
La Battaglia di San Romano, da questo punto di vista, si presenta proprio come una sintesi potente della complessità intellettuale e creativa di quella speciale stagione dell’arte fiorentina che senza soluzione di continuità procede dal Trecento al secolo successivo e in cui, per dirla con Natali, «rigore matematico e sperticate fantasie convissero, intersecandosi talora».
Tutto ciò è raccontato attraverso una scelta di opere realizzate tra 1375 e il 1440, fra cui dipinti di Angelo Gaddi, Beato Angelico, Lorenzo Monaco, ma anche di Masolino da Panicale, Antonio e Domenico Veneziano e altri artisti dai nomi meno noti al grande pubblico ma che testimoniano bene della ricchezza di stili e di sperimentazioni della Firenze protoumanista.
Dove un ruolo preminente aveva anche la scultura che doveva esprimere la magnificenza della città legittimandone il primato culturale e politico. Un aspetto indagato anche dallo storico dell’arte ungherese Miklós Boskovits scomparso un anno fa a Firenze. Fra i massimi studiosi del XIII-XV secolo, ai suoi lavori si deve la rilettura del Quattrocento fiorentino come fucina di innovazione in cui un raffinato gotico internazionale incontrava l’interesse per l’umano e lo studio della classici.
Una koinè che, come argomenta Michele Tomasi nel suo L’arte del Trecento in Europa (Einaudi), risulta incomprensibile se letta in contrapposizione con il Trecento e senza considerare il coevo contesto europeo.
da left-avvenimenti