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Beni culturali non petrolio, ma anima dello sviluppo

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 17, 2006

Incontro con Salvatore Settis, nuovo presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali.

Arte, bellezza, ambiente non sono né “giacimento” né Patrimonio Spa, ma inalienabile ricchezza di tutto il paese. La legge Tremonti va cambiata e bisogna tornare alla Costituzione in una visione dinamica dell’interesse nazionale. Le mostre devono valorizzare i musei non sostituirli.

Una foltissima passione civile attraversa tutto il percorso di Salvatore Settis, che non è solo archeologo di rango e fautore di importanti edizioni scientifiche come quella del papiro di Artemidoro che sta lavorando in questi mesi. Fuori dalle aule della Normale di Pisa (di cui è rettore), il professore si è sempre tuffato nella discussione pubblica, in difesa del patrimonio artistico italiano. Con articoli, pamphlet, libri. Ma anche accettando di tenere una certa dialettica con la politica. In posizione critica, da outsider, come consulente di Urbani per il Codice e ora, in modo più diretto, raccogliendo l’invito di Rutelli a ricoprire la carica di presidente del Consiglio superiore dei Beni Culturali del ministero.

Professor Settis nel libro Italia S.p.a, denunciava l’assalto al patrimonio culturale compiuto con la creazione della Patrimonio S.p.a. Che cosa ha prodotto dal 2002 quella società voluta da Tremonti?

Quell’operazione è stata un fallimento. Quello che ha prodotto di introiti per lo Stato è stato infinitamente inferiore a ciò che ci si aspettava. E mi piacerebbe sapere quanto è costato metterla in piedi. Spero che questo governo faccia chiarezza rendendo pubblici dati ufficiali certi. Per fortuna la parte più aggressiva della norma che rendeva vendibile l’intero patrimonio pubblico è stata arginata da un decreto congiunto fra il demanio e il direttore generale dei Beni culturali. Ma è ancora una legge dello Stato e, a mio avviso, andrebbe modificata in modo radicale. In base a un principio per cui il patrimonio pubblico si può vendere solo quando non abbia valore culturale. Ciò che ha valore culturale deve ricadere nell’assoluta inalienabilità, come dice peraltro il codice civile.

Un suo recente articolo sul Sole 24 Ore ha acceso un dibattito sul cosiddetto “benculturalismo”. Che impressione ha avuto dalla reazione dei giornali?

In realtà era un articolo dal tono scherzoso. L’ho scritto per divertirmi e per divertire il lettore. Ma c’è qualcuno a cui, evidentemente, non piacciano le battute di spirito, e che ha preso alla lettera come, non so quale manovra della sinistra. Devo dire che ho trovato tutto ciò assolutamente esilarante. Riguardo alla dizione beni culturali va ricordato che si è scelto questo termine cercando una definizione il più possibile neutra. Ma da un certo punto in poi ha cominciato, invece, ad indicare il valore economico del patrimonio. Quando fu creato il primo ministero dei Beni culturali presieduto da Spadolini, nel 74-75, lo si fece dicendo che il patrimonio culturale meritava più investimento, poi il discorso si è degradato e c’è stato chi, assimilando i beni culturali al petrolio, li ha considerati come oggetti del salvadanaio che quando serve si rompe. Questa concezione troppo economicistica di beni culturali ha prodotto dei danni. Ma non è la parola che non funziona, ma l’uso che se ne fa. Va riempita di contenuti. E in questo abbiamo un compito facilitato, perché i contenuti sono quelli dell’articolo 9 della Costituzione. Non c’è niente da cambiare.

Con questa concezione economicistica si sono spolpate di competenze le soprintendenze territoriali, affollando di manager e posizioni di vertice gli uffici del ministero. Come si cura questo squilibrio?

Ripristinando la priorità della competenza. Nessuno si affiderebbe ad un medico che non sia un medico. Così non capisco perché un sociologo, per fare un esempio, debba prendere decisioni vitali per l’archeologia. È completamente insensato: è uno degli elementi molto negativi della riforma Urbani che va assolutamente corretto.

Anche sbloccando le assunzioni?

La media degli addetti oggi è di 55 anni, le nuove assunzioni sono necessarie, ma vanno fatte sulla base di competenze reali, di dati concorsuali di sicurissima qualificazione, eliminando la tentazione demagogica di fare assunzioni ope legis, che non garantiscono qualità.

I giovani storici dell’arte oggi, anche se preparati, fanno fatica a inserirsi nel mondo del lavoro. Che fare?

Negli ultimi quindici anni c’è stata un’assoluta schizofrenia. Gli stessi governi – quelli di centrodestra hanno particolarmente brillato in questo – da un lato hanno incoraggiato la formazione di nuove facoltà di beni culturali invitando le persone a studiare storia dell’arte, l’archeologia eccetera, dall’altro lato hanno completamente bloccato le assunzioni. Così hanno creato delle fabbriche di disoccupati. Certo riaprire le assunzioni risolverebbe il problema, purtroppo però riforme universitarie sempre più infelici, da quella Berlinguer a quella del ministro Moratti, hanno portato a differenziare i curricula universitari in un modo drammatico. Ora bisogna davvero ripristinare la priorità della competenza, chiarire quali sono i profili professionali di cui abbiamo bisogno. Si è creata una straordinaria confusione che danneggia il paese ma anche i migliaia dei giovani, spesso molto preparati, nonostante lo spezzettamento del sapere nelle università da cui provengono.

In questo quadro come dare nuova incisività al Consiglio di cui è diventato presidente?

Occorre riguardare competenze e composizione del Consiglio, che da alcuni anni è stato di fatto esautorato. La decisione politica di ridargli vitalità, fiato, funzionalità è del ministro Rutelli. Spero molto, nelle nuove competenze che il ministro vorrà dare a questo organo, di poter giovare a questa opera di rilancio dei beni culturali. Abbiamo quasi dimenticato che questo può essere uno dei settori trainanti per lo sviluppo del paese. Dobbiamo tornare a questa auto-consapevolezza anche attraverso una fierezza professionale di chi lavora in questo settore. Credo che in questo il Consiglio superiore potrà dare una mano al ministro quando lo avrà resuscitato dal letargo in cui giace.

La proliferazione di mostre ha fetta parlare di un’Italia malata di “mostrite”. Non sarebbe più opportuno investire per riattivare una rete museale di più largo respiro?

Oggi c’è questa strana idea per cui da un lato ci sarebbe il museo come pura e passiva conservazione, dall’altra le mostre come pura attività. Ma non è affatto così. La quantità di cose che si possono e si dovrebbero fare nei musei e nel territorio è gigantesca. Ed è lì che servono le competenze. Faccio un esempio, un archeologo può occuparsi del rapporto fra le città che crescono e le preesistenze archeologiche, pensare a come valorizzarle, in modo che i cittadini siano consapevoli che sotto casa loro una volta c’era una villa romana o una città greca come succede in Sicilia. Io credo che le nuove professionalità debbano forgiarsi anche in una nuova capacità di dialogare con il cittadino. Questo non si fa solo attraverso le mostre. Le mostre ci vogliono ma devono avere una funzione, l’effimero deve servire al permanente, non il contrario. Stiamo arrivando al paradosso per cui i musei sono i serbatoi da cui si traggono le mostre, invece le mostre dovrebbero servire a rivitalizzare i musei.

E cosa fare, invece, per la rete del contemporaneo che in città come Roma o Firenze appare ancora come una tradizione un po’ debole?

È uno dei grandi paradossi del nostro paese. Per tutto il Novecento l’Italia è stata ai margini della scena internazionale rispetto alla Francia e agli Usa, quando invece ha avuto momenti importanti come il futurismo, l’arte povera o come lo straordinario laboratorio fiorentino di videoarte in cui si è formato Bill Viola negli anni 70. L’Italia ha sempre avuto grande vitalità nell’arte contemporanea, ma non si è tradotta in una presenza museale sufficiente. Negli ultimi anni si comincia a vedere un cambiamento di segno, basta pensare a esperienze come quella del Castello di Rivoli o al Mart di Rovereto, ma anche a iniziative campane come la certosa di Padula, al MAXXI di Roma, che promette di essere una realtà assai interessante. Una vera inversione di tendenza. Ora non dobbiamo correre dietro agli altri per recuperare il tempo perduto. La sfida è creare qualcosa che sia collegato alla nostra tradizione. E poi dovremmo valorizzare l’esperienza della Biennale di Venezia, che ha straordinari archivi che pochi conoscono.

Accanto ai grandi centri d’arte sta crescendo in provincia una rete di piccoli musei del contemporaneo, molto attivi. Come la Gam di Bergamo, per esempio.

Bergamo, ma anche Sassari, e c’è da registrare un crescente collezionismo di arte contemporanea, di singoli privati, ma anche di banche, di imprese. Sta nascendo una nuova sensibilità per forte contemporanea che fa ben sperare.

Un altro fenomeno che colpisce è l’interesse pubblico che stanno suscitando libri come il suo Battaglie senza eroi o Gli storici dell’arte e la peste con presentazioni affollatissime. Citando l’Italia che impressione ne ha avuto?

Noto che l’interesse è molto alto. Quando si dice che gli italiani non si interessano del loro patrimonio artistico si sbaglia. Semmai è vero che questo è stato un tema molto marginalizzato dalla politica, in parte perché a certi politici non importa nulla, in parte perché c’è sempre qualche tema più importante, dalle pensioni alla guerra in Iraq. Però il cittadino italiano è molto interessato. Alle presentazioni di librino trovato straordinaria passione, presenza e voglia di partecipare, di dire la propria e in modo molto sensato. È molto raro che il cittadino comune tiri fuori delle idee bislacche come vendersi i monumenti o il patrimonio d’arte. Queste sono idee che vengono in mente solo ad alcuni politici perversi.

Simona MaggiorelliEuropa

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Gli storici dell’arte al contrattacco

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 3, 2006

Lei è una studiosa di rango, per un decennio la direttrice della Galleria d’arte moderna di Roma, e ex soprintendeote dei beni artistici del Piemonte. Lui è un giovane curatore della collezione ottocentesca della Gnam, che si è fatto le ossa nella piccola soprintendenza modello di Matera. Insieme, Sandra Pinto e Matteo Lanfranconi hanno scritto un libro affascinante che ha creato un piccolo terremoto nel mondo culturale, facendo uscire allo scoperto storici dell’arte e accendendo sui giornali un dibattito intorno ai temi della tutela e della valorizzazione del patrlinonio d’arte. A poco più da un mese dall’uscita, Gli storici dell’arte e la peste (Electa, 269 pagine, 19 euro) è un caso editoriale. Contro la cultura da blockbuster e dell’effimero. Riportando alla ribalta una principessa all’apparenza decaduta come la storia dell’arte. «Con questo libro abbiamo voluto chiamare alla riscossa i colleghi, tentando un’operazione di recupero, rispetto alla situazione disgraziata in cui versano l’università e le soprintendenze», racconta Sandra Pinto. «Come storici dell’arte vorremmo essere un po’ meno innocui» rilancia Lanfranconi. Nonostante la distanza generazionale Pinto e Lanfranconi, insieme a molti altri studiosi d’arte, si sono trovati di fronte a uno stesso bivio: «Vogliamo chiamarci fuori rispetto alla crisi del “beniculturalismo”? Chiuderci in una torre d’avorio? Arrenderci dicendo che chi ne ha voglia continua, chi non ne ha più cambia lavoro? Oppure riconosciamo che dobbiamo fare qualcosa per cambiare questo stato di cose? Anche come autori — racconta Pinto — ci siamo accorti che per prima cosa dovevamo superare la lunga desuetudine a lavorare nel corpo vivo della società, superare il rischio di essere diventati un po’ autoreferenziali». Così siete partiti per questo vostro viaggio alla riscoperta delle eccellenza italiane. Scegliendo una forma accattivante quella della narrazione, strutturata in dieci giornate. Una brigata di storici dell’arte che cercano di sfuggire alla peste del degrado culturale? Lanfranconi: Ci piaceva l’idea di svolgere il nostro discorso in una forma dialogica. Pinto: Dopo una quarantina di interviste abbiamo deciso di fermarci. E dando una partizione alla materia ci siamo accorti che ne venivano fuori dieci capitoli, da qui l’idea delle dieci giornate. – Ma anche la scelta di raccontare storie e situazioni positive, resistenti non solo mali culturali… Non volevamo fare la solita lamentazione. Rendere all’onor del mondo una realtà di livello europeo come la biblioteca di Palazzo Venezia, per esempio, ci è sembrato contribuire alla rimonta di una gloriosa istituzione culturale. Questa è stata un po’ la scella di metodo. Questo tentativo di riportare alla luce i gioielli dell’arte e della nostra cultura quanto si scontra con la concezione dei beni culturali» emersa nella politica italiana, dalla famigerata frase di De Michelis, «l’arte il petrolio d’Italia», fino alle cartolarizzazioni della Patrimonio spa? Lanfranconi: Personalmente sono cresciuto negli anni 70 e ho assistito al formarsi di una artificiosa spaccatura: “beni culturali’ versus “opere d’arte, cultura, patrimonio”. Oggi in molti stanno riconoscendo, finalmente, che questa strada di scorporare dalla cultura in senso vasto il tema dei beni culturali, in virtù di una ipotetica tripartizione fra conservazione, conoscenza e valorizzazione, non regge. Perché la valorizzazione rischia di scivolare pericolosamente verso la redditività. E questo parametro è indipendente dal crescere o meno della conoscenza. Pinto: Quando ero giovane si parlava di Antichità e belle arti. Si disse: non funziona. Peccato, dico oggi. E lo dico come si può rimpiangere un bell’abito dell’Ottocento. Proprio parlando della disciplina, giovani storici dell’arte che fine hanno fatto? Sembrano diventati stranamente invisibili, mentre è salita alla ribalta una nuova figura, quella del curatore, con molti giovani talenti. È in corso una trasformazione? Lanfranconi: L’emergenza della figura del curatore è avvenuta soprattutto nell’arte contemporanea. Oggi il curatore sostituisce anche, in parte, le funzionalità dello storico dell’arte antica legata alla creazione di mostre. Dunque la sua figura sembra al pubblico qualcosa di più sostanzioso e di più visibile, rispetto a quella dello storico dell’arte che non fa mostre. E anche questo mi pare negativo, perché sembra che chi è fuori dal giro delle mostre non abbia una funzione culturale e sociale. Mentre invece i giovani storici dell’arte oggi hanno una preparazione forte e rigorosa, costruita nel lungo periodo di formazione a cui costringono i tempi geologici che occorrono per avere un posto. Ma questa difficoltà di inserimento, però, deprime anche ogni ambizione.
Pinto: A questo posso aggiungere che i funzionari sono anziani e anche piuttosto gelosi e preoccupati di un eventuale ingresso di nuove linfe. Questo sistema dovrebbe essere corretto. E se è vero che i giovani storici dell arte oggi sono preparati anche per il fatto che dopo la laurea, come diceva Matteo, prendono la specializzazione, il dottorato, il master, eccetera, è anche vero che qualcosa sta mutando proprio sotto i nostri occhi. il pericolo è per quelli che stanno studiando adesso con la riforma dei crediti. Finiranno per perdere solo gli ultimi sprazzi della disciplina. Si dà la laurea a persone che non hanno la minima base urnanistica che è rinviata, non si sa perché, alla specializzazione, quando dovrebbe essere il contrario. Dire che i tre anni intanto preparano delle figure intermedie che servono come figure ausiliarie ai livelli scientifici più alti è una menzogna, anche perché nelle nostre università non c’è chi insegna queste nuove materie come, per esempio, l’informatizzazione dei dati. Con questo sistema vedo l’analfabetismo culturale salire gradino dopo gradino, a partire dal liceo. E se i giovani incontrano difficoltà, dall’altra parte, negli ultimi anni non si è neanche valorizzata l’esperienza del “veterani”. Soprintendenti di rango come Jadranka Bentini e direttrici di museo come Anna Maria Petrioli Tofani sono stati prepensionati senza troppi complimenti. Pinto: Per mia esperienza posso dire che quelle sono state scelte politiche. Senza contare come sono stati reclutati coloro che poi sono entrati al loro posto. Con il ministro Urbani sono emerse figure dal mondo esterno e la cui competenza non è stata in alcun modo valutata. Lafranconi: Si fa sempre più chiara la scomodità di alcune figure che difendono la disciplina nella sua interezza, nella sua complessità. Con il rischio che si formi una schiera pronta all’assalto, disposta a sposare le esigenze più snelle, ma anche più manageriali. Con il neologismo “mostite” avete anche denunciato la deriva di mostre effimere e da Blockbuster. Cosa sta accadendo? Lafranconi: La proliferazione di mostre di scarso rilievo è un fenomeno collegato alla globalizzazione, al turismo di massa ma, mentre in altri paesi già questo boom si sta affievolendo perché non produttivo, in Italia si continua sull’onda della parcellizzazione massima. E questa polverizzazione d’iniziative non aiuta a trasmettere un messaggio culturale. Va tutta a detrimento della formazione del pubblico che è disorientato da questo proliferare di piccole mostre, di mostre che hanno la pretesa di essere grosse ma che non producono nulla.
Pinto: Appare male attuata una giusta intenzione di fare didattica da parte delle istituzioni, piccole e grandi E questo discorso vale anche per certa pubblicistica da edicola, dall’aspetto molto appagante, ma che però dà pochissimo, salvo familiarizzare il pubblico con dei feticci Lanfranconi: Il problema più grave riguarda la liquidazione della didattica. Pinto: E se questo è il punto chiave, gli storici saranno sempre considerati sussiegosi se non si mettono a fare comunicazione, per dirlo con una brutta parola. Altrimenti il museo viene visto come un luogo difficile. A meno che non sia un museo di tutti capolavori, per cui prevale la logica: più ne ingoio più sto bene e quando non ne posso più me ne vado. In questa congiuntura come dove intervenire lo storico dell’arte? Pinto: Aiutando a realizzare le mostre che servono o per introdurre nuovi problemi o per rileggere in chiave diversa fatti storici già studiati. Evitando spettacolanirzazioni fini a se stesse come quella a cui abbiamo assistito al museo Egizio. E ancora facendo un lavoro di critica serrata. Altrimenti passa il messaggio che una mostra come Gli impressionisti e la neve che si potrebbe citare come esempio massimo di negatività, viene considerata un iniziativa di successo solo perché ha venduto molti biglietti, mentre una mostra bellissima, scientificamente importante, come Le corti e la città, alla Promotrice delle Belle Arti di Torino, resta nell’ombra, perché non ha avuto un adeguato lancio pubblicitario. Lafranconi: Ripartire dalle mostre di valore, anche dalle soprintendenze come uffici, come sportello pubblico, che in Italia inun arco sensibile di tempo hanno costituito unprirnato rispetto a altri paesi europei. Un patrimonio che è un vero peccato sperperare così.

Simona MaggiorelliEuropa

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