La scomparsa di due giganti del cinema, Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni. Marco Bellocchio racconta a left il loro cinema , la loro poetica.L-arte di Antonioni fu profondamente laica. Quella di Bergman, pervasa dalla religione.Come Ghuther Grass, da giovanissimo Bergman fu affascinato da Hitler e dal nazismo. Ma se lo scrittore se ne separ; molto presto,Bergman lo fece solo quando seppe dei campi di concentramento.
di Simona Maggiorelli
Ingmar Begman e Michelangelo Antonioni se ne sono andati a poche ore l’uno dall’altro, una casualità che colpisce e che lascia con la sensazione che con la loro scomparsa si sia chiusa una fase storica, comunque importantissima, del l’arte cinematografica. «Il cinema ha una sua storia, anche lunga, ormai, ma certo in questo caso sono scomparsi due giganti», dice il regista Marco Bellocchio. «Con Antonioni ci sono state delle assonanze profonde. Ma negli anni giovanili Bergman, devo dire, mi aveva molto colpito, quando ventenne a Roma studiavo cinema.
Era come se la sua disperazione, la sua angoscia incontrassero un mio modo di pensare di allora, quello dei primi quindici anni di lavoro. Dopo i miei pensieri cominciarono a cambiare, si allontanarono inevitabilmente dal pensiero, dalle ideologie, dalla filosofia di Bergman.
Era il Bergman in bianco e nero quello che più l’aveva colpita?
Sogno di una notte d’estate, Il posto delle fragole, Il settimo sigillo, La fontana della vergine, ma anche Persona film straordinariamente
innovatore.Le mie idee sulla vita non erano troppo distanti da quelle di Bergman, mi colpiva questo suo continuo riferimento alla morte e alla trascendenza come via di fuga alla disperazione. In lui, al fondo, più che con l’infelicità e la follia, c’è sempre un rapporto con la morte. Il settimo
sigillo, in questo senso, è emblematico.
Il cinema di Bergman ha una cifra esistenzialista. Ma anche più strettamente heideggeriana in questo gioco a scacchi con la morte, in questo «esserci per la morte» che pervade la sua poetica?
Era religioso e pensava che in noi ci sia un male connaturato con la nostra stessa nascita. Un male che al massimo può essere controllato.
Con il quale convivere. Un tema che c’è anche in Stanley Kubrick: un male intrinseco che poi è il peccato originale.
In Antonioni, invece, non c’è. Questa distinzione mi pare molto importante. Il suo cinema è stato profondamente laico. Bergman, invece, quando studiava a Weimar disse che Hitler «aveva un fascino tremendo» Quando subiva questa “fascinazione”, va detto, aveva vent’anni. Lo racconta nella sua autobiografia. Non era un ragazzino come Grass quando entrò nell’esercito. E poi Bergman era figlio di un pastore evangelico, anche se non voglio dire che questo debba essere una condanna. Ma ha nessi evidenti con il suo modo di pensare l’infelicità dell’uomo. l’idea dell’intrinseca infelicità dell’essere umano permea anche un film come Il volto. Lì Bergman lo fa dire al ciarlatano, che con la sua fantasia, i suoi trucchi, ha la capacità di portare lo scienziato a una sorta di paura panica. Il positivismo, insomma, è sconfitto, ma non c’è la proposizione
di un pensiero diverso. Centrale lì è il tema del teatro come anche nel Settimo sigillo. Anche lì è una famiglia di saltimbanchi che guarda i flagellanti, il cavaliere e la morte. Come se, per il disperato Bergman, la recita, la rappresentazione, il teatro fossero un antidoto alla disperazione dell’esistenza.
Ma il ricorso al teatro, per Bergman, non è un espediente in fondo rassicurante, che riconduce le tensioni a uno schema verbale e razionale come in Scene da un matrimonio?
Con Scene da un matrimonio siamo già usciti dalla fase migliore del suo lavoro. Rassicurante però non direi, c’è sempre una disperazione
che sta per entrare in casa. Anche nel Posto delle fragole il personaggio capisce della propria aridità, di aver badato sempre e solo ai suoi
studi, con ingenerosità verso gli esseri umani. Lui percepisce tutto questo e c’è il famoso sogno in cui vienetrascinato dentro la bara e poi in varie visioni. Tutto poi si conclude. È con i tre ragazzi che partono per le vacanze e che gli fanno una specie di serenata sotto la finestra. Lui, certo, sì è un pochino rasserenato, ma è sul punto di morire.
Quella celebre sequenza, da spettatrice, oggi mi appare oggi senza invenzioni, quasi preistorica rispetto a una certa ricerca su un certo modo di fare immagini che hanno a che fare con una fantasia profonda e non con meccanici tentativi di trascrizione di sogni.
Quella non è solo una trasposizione di un sogno ma anche una rappresentazione. Anche se, però, mi viene subito in mente, per contrasto, la dimensione fantastica, onirica, di Bunuel, nel quale ritrovo tematiche che mi sono più congeniali, il rapporto con la donna, il desiderio. Quello di Bergman, ribadisco, è sempre un discorso cristiano sulla morte. Anche se indubbiamente ne Il posto delle fragole con risultati notevoli. Lì non c’è il sogno tout court ma una trasfigurazione. Usa il sogno proprio per dare una rappresentazione disperata di un destino che lo terrorizza.
Bergman fa un uso della parola, molto abbondante e molto espressivo, però se noi lo confrontiamo alla genialità delle immagini di Dreyer, per esempio, la differenza appare subito.
Cosa distingue, secondo lei, la ricerca di Dreyer?
Le sue sono immagini originali. Lavora molto sui primi piani. È stato magnifico il gruppo di attori che lo ha seguito. Dreyer ne ha
raccolto i risultati superlativi.
A differenza di Dreyer Bergman è più un regista di parola che di immagine?
Non direi. Anche le parole sono immagini. Ma Giovanna d’Arco è un capolavoro, come lo è Dies Irae, fino a Ordet. Ma la forza delle immagini è qualcosa che vedo più potentemente in Dreyer che in Bergman, anche se è un autore che ha influenzato tutti fino agli anni Ottanta. Il suo ultimo film che mi ha impressionato è stato Sussurri e grida. Un film estremamente drammatico incentrato su un rapporto di assistenza e di estrema violenza… È un discorso sull’indifferenza, sulla disperazione, ma c’è anche quel tema religioso del male in questo rapporto fra la donna che sta per morire e la camerierache l’assiste e mente. Più che Ibsen, che in fondo è un personaggio più positivo, si sente l’influenza di Strinberg:
la vita come inferno i rapporti familiari, finti, terribili. E più al fondo c’è Kirkegaard. Bergman ha avuto delle intuizioni poi la sua ricerca sembra essersi indebolita.
È accaduto anche ad Antonioni?
Il suo ultimo film, per me, è stato Identificazione di una donna. Non voglio negare gli altri ma in quel film con Tomas Millian lui si è impegnato
totalmente, c’è la personalità, poi dopo larazione dell’esistenza. Ma il ricorso al teatro non è un espediente in fondo rassicurante,
che riconduce le tensioni a uno schema verbale e razionale come in Scene da un matrimonio?
Lì siamo già usciti dalla fase migliore del suo lavoro. Rassicurante però non direi, c’è sempre una disperazione che sta per entrare in casa. Anche nel Posto delle fragole lui capisce della propria aridità, di aver badato sempre e solo ai suoi studi, con ingenerosità verso gli esseri umani. Lui percepisce tutto questo e c’è il famoso sogno in cui viene trascinato dentro la bara e poi in varie visioni. Tutto poi si conclude. È con i tre ragazzi che partono per le vacanze e che gli fanno una specie di serenata sotto la finestra. Lui, certo, sì è un pochino rasserenato, ma è sul punto di morire.
Quella celebre sequenza, da spettatrice, mi appare oggi un po’meccanica, senza invenzioni, quasi preistorica
rispetto a una ricerca sulle immagini inconscie come la sua. Lei, oggi, cosa ne pensa?
Quella non è solo una trasposizione di un sogno ma anche una rappresentazione. Anche se, però, mi viene subito in mente, per contrasto,
la dimensione fantastica, onirica, di Bunuel, nel quale ritrovo tematiche che mi sono più congeniali, il rapporto con la donna, il desiderio. Quello di Bergman è sempre un discorso cristiano sulla morte. Anche se indubbiamente ne Il posto delle fragole con risultati notevoli. Lì non c’è il
sogno tout court ma una trasfigurazione. Usa il sogno proprio per dare una rappresentazione disperata di un destino che lo terrorizza. Bergman fa un uso della parola, molto abbondante e molto espressivo, però se noi lo confrontiamo alla genialità delle immagini di Dreyer, per esempio, la differenza appare evidente.
Che cosa distingue in questo senso la ricerca di Dreyer?
Le sue sono immagini originali. Lavora molto sui primi piani. È stato magnifico il gruppo di attori che lo ha seguito. Dreyer ne ha raccolto i risultati superlativi.
A differenza di Dreyer Bergman è più un regista di parola che di immagine?
Non direi. Anche le parole sono immagini. Ma Giovanna d’Arco è un capolavoro, come lo è Dies Irae, fino a Ordet. Ma la forza delle immagini è qualcosa che vedo più potentemente in Dreyer che in Bergman, anche se è un autore che ha influenzato tutti fino agli anni 80. Il suo ultimo film che mi ha impressionato è stato Sussurri e grida. Un film estremamente drammatico incentrato su un rapporto di assistenza e di estrema violenza… È un discorso sull’indifferenza, sulla disperazione, ma c’è anche quel tema religioso del male in questo rapporto fra la donna che sta per morire e la cameriera che l’assiste e mente. Più che Ibsen, che in fondo è un personaggio più positivo, si sente l’influenza di Strinberg: la vita come inferno i rapporti familiari, finti, terribili. E più al fondo c’è Kirkegaard.
Bergman ha avuto delle intuizioni poi la sua ricerca sembra essersi indebolita. È accaduto anche ad Antonioni?
Il suo ultimo film, per me, è stato Identificazione di una donna. Non voglio negare gli altri ma in quel film con Tomas Millian lui si è impegnato
totalmente, c’è la personalità, poi dopo larazione dell’esistenza.
Ma il ricorso al teatro non è un espediente in fondo rassicurante, che riconduce le tensioni a uno schema verbale e razionale come in Scene da un matrimonio?
Lì siamo già usciti dalla fase migliore del suo lavoro. Rassicurante però non direi, c’è sempre una disperazione che sta per entrare in casa. Anche nel Posto delle fragole lui capisce della propria aridità, di aver badato sempre e solo ai suoi studi, con ingenerosità verso gli esseri umani. Lui percepisce tutto questo e c’è il famoso sogno in cui viene trascinato dentro la bara e poi in varie visioni. Tutto poi si conclude. È con i tre
ragazzi che partono per le vacanze e che gli fanno una specie di serenata sotto la finestra. Lui, certo, sì è un pochino rasserenato, ma è
sul punto di morire.
Quella celebre sequenza, da spettatrice, mi appare oggi un po’meccanica, senza invenzioni, quasi preistorica
rispetto a una ricerca sulle immagini inconscie come la sua. Lei come la giudica?
Quella non è solo una trasposizione di un sogno ma anche una rappresentazione. Anche se, però, mi viene subito in mente, per contrasto, la dimensione fantastica, onirica, di Bunuel, nel quale ritrovo tematiche che mi sono più congeniali, il rapporto con la donna,
il desiderio. Quello di Bergman è sempre un discorso cristiano sulla morte. Anche se indubbiamente ne Il posto delle fragole con risultati
notevoli. Lì non c’è il sogno tout court ma una trasfigurazione. Usa il sogno proprio per dare una rappresentazione disperata di un destino che lo terrorizza. Bergman fa un uso della parola, molto abbondante e molto espressivo, però se noi lo confrontiamo alla genialità delle immagini
di Dreyer, per esempio, la differenza appare subito evidente.
Che cosa distingue in questo senso la ricerca di Dreyer?
Le sue sono immagini originali. Lavora molto sui primi piani. È stato magnifico il gruppo di attori che lo ha seguito. Dreyer ne ha raccolto i risultati superlativi.
A differenza di Dreyer Bergman è più un regista di parola che di immagine?
Non direi. Anche le parole sono immagini. Ma Giovanna d’arco è un capolavoro, come lo è Dies Irae, fino a Ordet. Ma la forza delle
immagini è qualcosa che vedo più potentemente in Dreyer che in Bergman, anche se è un autore che ha influenzato tutti fino agli anni 80. Il suo ultimo film che mi ha impressionato è stato Sussurri e grida. Un film estremamente drammatico incentrato su un rapporto di assistenza e di estrema violenza…
È un discorso sull’indifferenza, sulla disperazione, ma c’è anche quel tema religioso del male in questo rapporto fra la donna che sta per morire e la cameriera che l’assiste e mente. Più che Ibsen, che in fondo è un personaggio più positivo, si sente l’influenza di Strinberg:la vita come inferno i
rapporti familiari, finti, terribili. E più al fondo c’è Kirkegaard.
Bergman ha avuto delle intuizioni poi la sua ricerca sembra essersi indebolita. È accaduto anche ad Antonioni?
Il suo ultimo film, per me, è stato Identificazione di una donna. Non voglio negare gli altri ma in quel film con
Tomas Millian lui si è impegnato totalmente, c’è la personalità, poi dopo larazione dell’esistenza.
Ma il ricorso al teatro non è un espediente in fondo rassicurante, che riconduce le tensioni a uno schema verbale e razionale come in Scene da un matrimonio?
Lì siamo già usciti dalla fase migliore del suo lavoro. Rassicurante però non direi, c’è sempre una disperazione
che sta per entrare in casa. Anche nel Posto delle fragole lui capisce della propria aridità, di aver badato sempre e solo ai suoi studi, con ingenerosità verso gli esseri umani. Lui percepisce tutto questo e c’è il famoso sogno in cui viene trascinato dentro la bara e
poi in varie visioni. Tutto poi si conclude. È con i tre ragazzi che partono per le vacanze e che gli fanno una specie di serenata sotto la finestra. Lui, certo, sì è un pochino rasserenato, ma è sul punto di morire.
È accaduto anche ad Antonioni?
Il suo ultimo film, per me, è stato Identificazione di una donna. Non voglio negare gli altri ma in quel film con Tomas Millian lui si è impegnato
totalmente, c’è la personalità, poi dopo lamalattia è stato in qualche modo aiutato,sorretto. Per me il suo periodo più fecondo comprende Le amiche, Il grido, La notte, L’eclissi, fino a Blow up. Ma forse il film più misteriosamente geniale resta L’Avventura.
Perché più misteriosamente geniale?
Per quella sua curiosità, interesse profondo, per le donne: per il modo in cui le sa rappresentare. E poi ne L’Avventura sa dire della sparizione, dell’assenza, rappresentandola in modo assolutamente artistico, inconsapevole.
C’è una donna che sparisce e quest’uomo futile, superficiale che si coinvolge con la migliore amica di lei, ma la tradisce, così per nulla. Ma è anche vero che un autore non va preso solo per un film, ma per l’intera sua opera.
Diverso, il suo dal modo di rappresentare le donne di Bergman?
L’interesse di Bergman per le donne, indubbiamente, si pone su una dimensione del trascendente, creduta o non creduta. Antonioni invece
è su un versante laico, di rapporto umano. Vede e anticipa. Non dimentichiamo che il film L’avventura da tutta una certa critica di sinistra non fu immediatamente riconosciuto proprio perché era anticipatore, metteva in discussione i principi che erano del comunismo, cioè andava già in un’altra direzione: quella della ricerca sulla realtà interna del rapporto uomo donna che tutta la sinistra sottovalutava largamente. Personalmente credo di aver capito la sua grandezza con Le amiche e Il grido. Due film che si concludevano con due suicidi… Nel L’avventura c’è qualcosa che diventa più complesso, un’idea più originale.
C’è un filo di esistenzialismo anche in Antonioni e che differenza c’è con quello di Bergman
Anche lì c’è una differenza, pur essendo Antonioni un introverso, un uomo molto discreto era uno che amava la vita, e poi si prendeva grandi rischi. Questo devo dire anche Bergman. Ma per le cose che mi interessano particolarmente, è più Antonioni il regista a cui posso far più riferimento, specie rispetto ad alcuni film, Blow up è un film perfetto altri che mi interessassero di meno. Ma anche in grandi artisti ci sono delle opere, se pensiamo anche ai grandissimi, per esempio Picasso, che ti toccano più di altre. Il deserto rosso è una di
queste? Deserto rosso è un film molto innovatore. i rimproveravano a Antonioni i dialoghi non realistici,si facevano anche battute su certe frasi, perché il cinema italiano era abituato a un certo realismo. Invece Antonioni rischiava perché nei dialoghi voleva concentrare dei contenuti, che andassero oltre il mero realismo. In deserto rosso, il suo primo film a colori, fa come il pittore, cambia la tavolozza. Adesso si fa tutto in elettronica successivamente lui ebbe l’ardire di modificare gli scenari. Era l’epoca in cui gli attori ancora si doppiavano.
La sua grande originalità non stava tanto nella descrizione fenomenologica di una schizofrenica ma nel rappresentare il mondo molto deteriorato, inquinato, incomprensibile, incomunicabile in cui si muove questa donna che ormai ha perso tutti i punti di riferimento. Anche a
causa dell’indifferenza di un marito freddo che poi si coinvolge con un ingegnere e scompare. In questo senso però è un film molto originale,
ma se parliamo di capolavori, preferirei usare questa definizione più per L’Avventura e per Blow up. Poi non dimentichiamo i primi film, Cronaca di un amore, I vinti, La signora senza camelie.
Ma oggi, guardandosi indietro accanto a Bergman e Antonioni chi metterebbe fra i registi che per lei hanno contato?
Mi viene in mente immediatamente anche Bunuel la sua complessità, la sua genialità. È raro percepirlo, capirlo, sentirlo immediatamente,
perché la genialità è qualcosa di talmente nuovo che il comune spettatore ci mette un po’di tempo, magari anche il cineasta. Veramente
se si pensa all’opera di Bunuel è gigantesca e comunque mi è più affine. Ha una sua espressività potente, ma anche una delicatezza e una grazia particolari. Ma anche alcuni Fellini, certamente vi troviamo Chaplin, Dreyer. Ma ribadisco, anche Bergman e Antonioni in mododiverso. Che poi ciò che io penso, che desidero e che la mia ricerca vada in un’altra direzione, non c’è dubbio.
da left-avvenimenti 31 luglio 2007