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Matisse, l’artista che amava le donne

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 14, 2014

Matisse odalisca- Ferrara

Matisse odalisca- Ferrara

In attesa della mostra che Le Scuderie del Quirinale dedicano a Matisse dall’inizio di marzo 2015, colgo l’occasione per riproporre qui alcune note sulle mostra ferrarese e sulla monografica  alla Tate Gallery di Londra ( dedicata ai découpages di Matisse) pubblicate nel marzo 2014 su left).

di Simona Maggiorelli

Disegnare con le forbici. «Tagliare nel vivo colore mi ricorda lo sbozzare degli scultori», diceva Henri Matisse parlando dei découpages con cui, già avanti negli anni, rinnovò radicalmente la propria arte, dando vita a un versatile vocabolario di forme dai colori smaglianti e dalla forte evidenza plastica che, nelle sale della Tate Gallery, creano un flusso continuo di energia catturando il visitatore della mostra Henri Matisse the cut-outs (aperta fino al 7 settembre) in un caleidoscopico universo di fantasia. Fin dalla prima sala dove s’incontrano due singolari nature morte: una bistrata di nero e dagli abbaglianti toni acidi, l’altra più astratta, liberata da ogni mimesi. Due opere del 1940 raramente esposte che ben introducono all’ultimo, rivoluzionario, periodo dell’artista francese che, dopo aver preso le distanze dal realismo oggettivo e dall’ideologia retinica dell’impressionismo e del pointillisme di Seurat, aveva imboccato una strada divergente anche dal razionalismo geometrico del cubismo.

Matiisse, Tate Gallery

Matiisse, Tate Gallery

«Cosa fanno i realisti? Che cosa fanno gli impressionisti?», si domandava Matisse nello scritto Il mestiere del pittore. «Fanno la copia della natura. Tutta la loro arte consiste nella esattezza della rappresentazione: arte tutta oggettiva, arte di insensibilità. Al più, la loro, è annotazione edonistica». In quelle stesse pagine datate 1930 (pubblicate in Italia nel 2003 da Abscondita in Scritti e pensieri sull’arte) Matisse riconosceva al cubismo una «funzione essenziale nella lotta contro la decadenza dell’impressionismo», ma accusava Picasso e compagni di essere precipitati in un «mero materialismo» con la loro «indagine dei piani fondata sulla realtà».

Fondamentale per il pittore francese era invece l’immaginazione. («Solo l’immaginazione può dare spazio e profondità al quadro», appuntava). Come centrale era il sentire dell’artista: «Bisogna uscire dall’imitazione. Gettare via i vecchi stracci per camminare con i propri mezzi, con i propri sentimenti». Anche per questo l’interesse di Matisse più che alla natura si rivolgeva all’umano.

Con una fiducia che non si appannò neanche negli anni bui della guerra. Così, mentre persino Picasso negli anni Trenta risentiva dell’onda nera del ritorno all’ordine dipingendo pesanti figure matronali e arcaicizzanti, Matisse, «per non lasciarsi distruggere», si dedicava a onirici ritratti e nudi femminili di grande intensità emotiva come ben racconta la mostra ferrarese Matisse, la figura, la linea, la forza del colore che, fino al 15 giugno, presenta in Palazzo dei Diamanti una significativa scelta di tele e sculture fra cui varie versioni di Nudo disteso (dipinte fra il 1908 e il 1931), Grande nudo seduto e il Nudo in piedi (1907) proveniente dalla Tate, che testimonia l’apertura di Matisse all’arte africana e verso nuove forme di bellezza oltre i canoni occidentali.

Affascinato dalla forza delle linee, dalle proporzioni non razionali e dall’essenzialità di alcune piccole sculture africane in legno scovate per caso in una bottega del lungo Senna, il pittore cominciò a interessarsi all’arte cosiddetta “primitiva”, allargando lo sguardo anche alla statuaria mediorientale più antica e a quella cambogiana.

109_640Una passione che non lo abbandonò mai come si evince anche da alcuni cut-outs in mostra alla Tate, come l’elegante Donna con anfora del 1953 che Matisse realizzò in azzurro su fondo panna e poi, giocando sul negativo, in bianco su fondo azzurro. Le due silhouettes, accostate in una sorta di chiasmo, appaiono stilizzate, prive di ogni dettaglio superfluo, decantate in un segno potentissimo. In questo dittico che rievoca la posa di piccole statue babilonesi conservate al Louvre, Matisse riesce a fondere originale avanguardia e richiami all’antico.E il pensiero corre ai nudi scelti da Isabelle Monod-Fontaine per la retrospettiva di Ferrara e che rimandano implicitamente a una lunga tradizione che va da Michelangelo a Ingres. Ma in questi cut-outs realizzati nel dopoguerra Matisse sembra raggiungere una sintesi plastica persino maggiore.

Più ancora del colore nei découpages conta la linea che definisce i contorni, la forza e la vitalità del tratto. Come nel disegno e nelle incisioni in linoleum, in cui determinante è il gesto dell’artista. «Ho sempre pensato che questo mezzo tanto semplice – rifletteva Matisse – richiedesse la sensibilità di un suonatore di violino. Basta stringere un po’ le dita che tengono la sgorbia perché “il suono” muti da dolce a forte». Cambiando così il senso e l’espressione dell’intera opera.

Tanto più se si tratta non di una singola incisione ma di una serie più complessa e articolata di opere in rapporto fra loro, come i pezzi di un puzzle, pensate per trasformare creativamente il contesto architettonico in cui sono inserite.

Matisse  cut up

Matisse cut up

L’esposizione londinese curata da Nicholas Cullinan del MoMa di New York e dal direttore della Tate Nicholas Serota lo rende ben evidente, ricostruendo filologicamente la disposizione originale dei cut-outs e, quando non è stato possibile, offrendo una interessante documentazione fotografica.

Così si scopre che durante la Seconda guerra mondiale, vivendo isolato ma in costante contatto con la moglie e la figlia Marguerite che partecipavano attivamente alla Resistenza, Matisse cercava inconsapevolmente di opporre alla distruzione e alla tragedia circostante la vivacità delle gouaches e dei découpages della serie Jazz, in cui danzano acrobati e personaggi fiabeschi mentre si celebra il funerale di Pierrot e un solitario Icaro sembra spiccare il volo in un cielo costellato di esplosioni.

Ma soprattutto visitando questa importante retrospettiva londinese si scopre che il grande murale realizzato dall’artista nella propria camera (nonostante la malattia lo costringesse a letto) era di fatto una umbratile boscaglia di forme fluttuanti rosse, verdi, blu, gialle, fissate in combinazioni mobili con delle semplici puntine.

Henri Matisse - The Parakeet and the Mermaid 1952 (detail)Una tecnica che, insieme all’uso di un carboncino montato alla sommità di un lungo bastone, permetteva a Matisse di studiare e orchestrare ampie composizioni prima di ritagliare le singole forme e incollarle. Più audace ancora risulta il progetto realizzato negli anni Cinquanta a Nizza, in cui – grazie all’aiuto di Lydia Delectorskaya, musa, modella e preziosa collaboratrice – Matisse riuscì a creare uno spazio in cui ampi murali formavano una sinfonia di forme e di colori di forte impatto emotivo, che dalla parete si estendevano al pavimento, trasformando l’intera stanza in una sorta di pulsante “organismo” di segni astratti.

La pittura in questo modo diventava architettura dilatando lo spazio oltre il reale; dando vita a una creazione tridimensionale in cui, per dirla ancora con Matisse, «tutti i colori cantano insieme». Il quadro non era più confinato in una cornice ma, soprattutto, non bastava più a se stesso come oggetto isolato.
Ciò che conta per Matisse è il movimento, la leggerezza, la Joie de vivre che emerge dalla composizione di ogni opera e dal ritmo musicale, quasi sinestetico, che le varie forme colorate generano se messe in sequenza o squadernate in altre combinazioni. A partire da piccoli esperimenti legati a scenografie teatrali come quella per il Rosso e nero (1937) dei Balletti Russi, passando per libri d’arte come Jazz (1941-47) e progetti editoriali come Verve, (tutti in mostra alla Tate Gallery) il maestro francese si emancipò dagli esordi fauve legati solo all’uso espressivo e antinaturalistico del colore per arrivare a preconizzare le moderne installazioni.

dal settimanale left marzo 2014

Dopo Londra, la mostra Cut-outs è eapprodata al MoMa di New York. Ecco il link del New York Times per una visita virtuale: http://www.nytimes.com/interactive/2015/02/06/arts/a-walk-through-the-gallery-henri-matisse-the-cut-outs-at-the-museum-of-modern-art-in-new-york.html?smid=tw-nytimes

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In Viaggio con Matisse

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 25, 2012

di Simona Maggiorelli

Matisse,La Falesia d’Aval e il cottage di Etretat,1920

Negli ultimi anni si è molto discusso se abbia senso l’attuale corsa alla costruzione di grandi musei, visivamente anche spettacolari come quelli creati da archistar com Frank Ghery, ma che finiscono per essere delle scatole intercambiabili, contenitori di un grande numero di pitture e sculture decontestualizzati dal territorio in cui sono inseriti e dalla storia delle opere stesse.

È stato l’ex direttore del Museo Picasso di Parigi, Jean Clair ad aprire la querelle con un duro J’accuse contro il Louvre intenzionato a prestare parte della propria collezione al nascente museo di Abu Dhabi. Poi a quel suo acuminato pamphlet (edito in Italia da Skira) hanno fatto eco studiosi come Salvatore Settis stigmatizzando la diffusione di un modello americano che concepisce i musei come “cattedrali nel deserto”; un tipo di organizzazione espositiva che, se può avere una sua ragione Oltreoceano dove la storia dell’arte non ha una tradizione millenaria, poco senso ha da noi dove la tutela ha radici antiche. Ma soprattutto l’Italia (come ricorda anche Philippe Daverio nel suo nuovo L’arte di guardare l’arte  appena uscito per Giunti)  si caratterizza per un “museo diffuso” sul territorio, con palazzi storici, chiese, castelli che sono tutto il contrario di contenitori anonimi. Proprio per questo, con l’idea di valorizzare alcuni edifici di pregio, in un ideale Grand Tour  – in questo caso di opere, non di artisti -, il Ministero per i Beni culturali ha organizzato in collaborazione con la Fondazione Bemberg di Tolosa la mostra Viaggio in Italia: un trittico di esposizioni che lungo la costa adriatica, fa tappa nel Castello di Miramare a Trieste, nella Rocca di Gradara e nel Castello Normanno-Svevo di Bari, facendone teatri di capolavori di Lucas Cranach, di maestri fiamminghi, ma anche di pittori delle avanguardie storiche come Matisse.

Ma veniamo alle singole esposizioni aperte fino al 30 ottobre. Nel Castello a picco sul mare triestino la mostra “Sì dolce è il tormento: l’amore in tre capolavori” propone un affascinante assolo di Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553), “rivale” di Dürer e amico di Lutero, nonché autore di nudi femminili misteriosi e sensuali come in Venere e Cupido, qui insieme al caustico Il vecchio innamorato e alla scena mitologica Diana e le ninfe sorprese da Atteone.

Signac, Alberi in fiore, fine del XIX secolo

La Rocca di Gradara, intanto, ospita una piccola summa di arte dalle Fiandre. Con la Madonna in tessuti arabesque di Van der Weyden che influenzò la pittura italiana nel secondoQuattrocento. La lezione leonardesca, invece, si nota nello sfumato di Isenbrandt, rappresentato nelle Marche da una Madonna col bambino della prima metà del Cinquecento. E ancora, la penetrazione psicologica del ritratto fiammingo è raccontata da una tela di Benson, maestro di Bruges, mentre il realismo nordico e grottesco dalla corrosiva Scena di locanda di Pieter Brueghel. Infine ecco anche il San Girolamo di Patinir, innovatore delle vedute paesaggistiche, tra descrizione naturalistica e visionarietà.

Il Castello di Bari, invece, si apre all’avanguardia maturata tra Ottocento  e primo Novecento, con il pointilliste Signac e il suo Alberi in fiore, un olio in cui la ricerca scientifica sul contrasto simultaneo del colore diventa il fulcro di un’arte a dire il vero assai razionale. E se Pierre Bonnard già cercava di prendere le distanze dall’impressionismo con il suo onirico scorcio parigino Il ponte dei Santi Padri, fu Matisse a fare un vero salto di qualità verso una pittura che cercava l’essenziale e la sintesi di una forma latente e più profonda dietro la percezione oggettiva.

da left Avvenimenti

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Kandinsky e la svolta dell’arte astratta

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 2, 2012

Al Mar di Aosta una grande mostra indaga il percorso del pittore russo nell’astrattismo. In un modo di dipingere che, dice Gillo Dorfles fu un movimento di liberazione

di Simona Maggiorelli

kandinsky, composizione

In quella svolta fondamentale per l’arte moderna che si realizzò fra Ottocento e Novecento Wassily Kandinsky (1866-1944) ebbe un ruolo di primo piano nell’aprire il canone occidentale alla pittura astratta. Lui che si era formato nella Russia zarista, religiosa e più arcaica e che aveva iniziato a dipingere dopo i trent’anni, fu tra i primi artisti ad avere il coraggio di abbandonare l’esteriorità illustrativa dell’impressionismo; fra i primi a liberarsi dell’ingombrante necessità di riprodurre oggetti riconoscibili, per dedicarsi alla creazione di forme originali, dinamiche, dense di senso, perché nate da un proprio vissuto interiore ( «E’ bello ciò che nasce da una necessità interiore. E’ bello ciò che è interiormente bello» annotava in pagine autobiografiche).

Così, mentre Matisse e Picasso rompevano con il dettato dell’accademia e della pittura da cavalletto per lasciarsi andare a figurazioni deformate e stranamente “scomposte”, Kandinsky – in un inedito confronto fra musica e pittura – prese a sperimentare giochi di forme-colori che nulla avevano a che fare con la mimesi della realtà.

Kandinsky, cupo-chiaro 1928

E’ del 1910 il suo primo acquerello astratto. Ed è del 1912 l’avvio di quella indagine sullo “spirituale dell’arte” che in Russia, dopo una prima vicinanza al suprematismo, lo aveva portato ad allontanarsi da Malevic e dalla sua ricerca della forma assoluta depurata da ogni sentimento, ma anche a prendere le distanze dalla celebrazione della macchina di Tatlin vicino alla Rivoluzione di ottobre e concentrato sulla funzione progettuale ed operativa dell’arte. Un costruttivismo, il suo, che Kandinsky giudicava ottusamente materialistico. Come racconta, dallo scorso 26 maggi e fino al 21 ottobre, la mostra Wassili Kandinsky e l’arte astratta fra Italia e Francia curata da Alberto Fiz nel Museo archeologico di Aosta ciò che interessava al fondatore del Blaue Reiter era poter utilizzare il proprio sentire come strumento di indagine della realtà. La rappresentazione non era lo scopo della sua pittura. Ma la creazione di forme-colore, vibranti, dotate «di un suono interno».

La sfida era, per lui, la ricerca di un effetto sinestetico. Nascono così le sue prime improvvisazioni e più complesse  composizioni. Ma anche tutta quella serie di Kleine Welten (1922) che compongono il vivace portfolio di litografie a colori, di xilografie e puntesecche ora in mostra ad Aosta. Accanto a dipinti a olio come Appuntito tondo (1925), Rosso a forma appuntita (1925), Bastoncini neri (1928) e altri opere coeve provenienti da collezioni private e raramente mostrate in pubblico.

Con lo stilizzato e orientaleggiante Cupo-chiaro sono il cuore di questa esposizione che dedica ampio spazio all’astrattismo geometrico che Kandinsky andò maturando intorno al 1926, anno della pubblicazione di Punto linea e superficie (Adelphi): il testo teorico in cui Kandinsky, dopo essersi occupato a lungo della “psicologia” del colore, comincia a interessarsi alla “psicologia” delle forme, recuperando il valore del disegno e sperimentando un’astrazione fatta di curve, cerchi, triangoli, linee. Forme che si incontrano e talora si compenetrano, sospese, fra contrasti e bilanciamenti, in uno spazio bianco senza profondità.

W.Kandinsky, Balancement,1942

«Usando solo quelle forme che un interno impulso faceva nascere in me, spontaneamente», scriveva il pittore. Se agli inizi l’obiettivo per lui era attingere all’«inaudita forza espressiva del colore», poter esprimere il proprio mondo interiore realizzando «quella promessa inconscia ma piena di sole che vibrava nel cuore», ora poteva creare forme colorate e astratte. Infischiandosene delle convenzioni figurative.

Ma in una direzione del tutto diversa rispetto a Mondrian ossessivamente intento nella ricerca delle strutture logiche e impersonali del reale. L’aver sottolineato con chiarezza questo punto non è l’unico elemento di merito di questa retrospettiva che rilegge l’intera opera di Kandinsky in parallelo con quella di artisti che a lui si ispirarono. In particolare facendo dialogare tele di Dorazio, di Magnelli, del gruppo Forma1 e di Dorfles con l’ultima produzione dell’artista russo, popolata di creature biomorfe che paiono danzare sulla tela. Dal ‘33, avvicinandosi ad Arp e a Mirò, Kandinsky cominciò a dipingere immaginifici organismi e, strani, magnetici geroglifici. E’ questo il  suo periodo meno studiato.  Il più sottovalutato. Fin da quando, fuggito dalla Germania dopo la chiusura del Bauhaus da parte dei nazisti, l’artista russo si trovò del tutto isolato a Parigi, non compreso, giudicato inattuale dai tardo cubisti e dai surrealisti. «Sebbene fosse stimato in tutto il mondo, in Francia era conosciuto da pochi», ricorda la moglie Nina in Kandinsky ed io (Abscondita). «All’epoca il cubismo, dopo un inizio difficile, godeva di una grandissima considerazione. E si cercava in tutti i modi di impedire la concorrenza dell’arte astratta. Oggi so – scriveva Nina nel ‘76 – che Parigi era allora in ritardo di vent’anni rispetto agli sviluppi dell’arte internazionale». Dopo la sua morte Kandinsky sarebbe diventato un punto di riferimento per l’informale in Europa e per l’action painting di Pollock in America, ma il suo ultimo decennio di vita fu di assoluta solitudine, non potendo tornare in Germania dove nel 1935 il nazismo condannava l’avanguardia come arte degenerata. E neanche trovar riparo nella Russia del realismo socialista. «E’ davvero curioso» Kandinsky notava amareggiato «che i nazisti e i comunisti abbiano dimostrato la stessa cecità riguardo all’arte astratta». Una cecità inaccettabile, specie per una cultura che si voleva progressista, sottolinea oggi Gillo Dorfles intervistato nel catalogo della mostra edito da Mazzotta. «La grande novità», ricorda, «fu uscire dalla rappresentazione e dall’oleografia di immagini fotografiche. Finalmente gli spazi della creatività si allargavano a territori fin lì sconosciuti, rompendo con il realismo. L’astrattismo fu un movimento di liberazione».

da left-avvenimenti

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La sinfonia della natura nelle tele impressioniste

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 6, 2010

Al Vittoriano di Roma, fino al 29 giugno opere di Sisley, Pissarro, Monet e di altri maestri della scuola di Barbizon raccontano come la percezione del paesaggio cambiò in senso moderno

di Simona Maggiorelli

Sisley

L’interesse degli impressionisti per il paesaggio non fu solo legato alla sperimentazione sulla luce e sul colore e a un’idea della natura poeticamente intesa come “specchio” dell’animo umano. Ma nelle marine di Sisley, nelle mosse campagne di Pissarro così come nei giardini segreti di Monet, in senso culturale più lato, si possono cogliere anche i segni di una moderna attenzione alla natura, avvertita non più come una nemica (come lo era stata per secoli, fin dal medioevo), ma come patrimonio universale da valorizzare e da tutelare.

La rivoluzione industriale, con la diffusione delle ferrovie che in Francia e in Inghilterra, portò collegamenti più veloci fra città e campagna, determinando la nascita del turismo e cambiando radicalmente il modo di percepire la natura. Un cambiamento che non riguardò solo ristrette élite ma larghi strati sociali. Nel frattempo uno scienziato come Charles Darwin aveva contribuito con la teoria evoluzionista a validare un’idea di mondo come sistema naturale integrato di cui l’essere umano fa parte al pari degli altri esseri viventi avendo anch’esso una nascita biologica. «E come è noto gli impressionisti erano artisti molto attenti allo sviluppo delle scienze e a ciò che di nuovo e di valido portava l’epoca moderna» ricorda Stephen F. Eisenman curatore della mostra Da Corot a Monet. La sinfonia della natura (al Vittoriano di Roma fino al 29 giugno, catalogo Skira).

Pissarro

Insieme a John House e a una equipe internazionale di studiosi è l’ideatore di questa rassegna che squaderna centosettanta opere provenienti dai maggiori musei d’Europa e d’Oltreoceano e che porta per la prima volta a Roma una serie di capolavori mai prima esposti in Italia. Il progetto scientifico sotteso a questa rassegna è documentare la svolta nella percezione della natura che avvenne nel XIX secolo, leggendolo in parallelo alla nascita di un’idea di moderna ecologia. Mentre la rivoluzione industriale, di fatto, cominciava a cambiare il volto del paesaggio e non in senso positivo, gli artisti si diedero ad indagare la natura dal punto di vista scientifico, esaltandone la sintonia con l’umano, celebrandone la bellezza.

Rousseau paesaggio

Una svolta che si percepisce chiaramente mettendo a confronto  le  solitarie e antimoderne rappresentazioni della foresta di Fontainbleau dipinte da un pittore come Rousseau  (che fa di tutto per espungere dalla sue incantate visioni la presenza di visitatori) con le vitali scene cittadinee e agresti di impressionisti come Pissarro: nei suoi quadri visioni rutilanti di carrozze, strade piene di gente, il dinamismo urbano e la modernità sono rappresentati come aspetti affascinanti e positivi. Intanto – come raccontano proprio alcune tele di Pissarro in mostra – immagini di una campagna antropizzata, coltivata o selvaggia, diventano protagoniste di una pittura di paesaggio realizzata en plein air e che rappresenta terra, cielo e personaggi come un’unità, come un unico organismo in crescita, senza soluzione di continuità fra gli elementi.

«Il tentativo degli impressionisti – spiega ancora Eisenman – era di restituire allo spettatore una visione armonica, unitaria, non parcellizzata di uomo e natura».Una visione che però alla fine dell’Ottocento sembra andare in crisi. La pittura di Monet in primis segnala questo delicato passaggio. «Lo vediamo bene alla fine di questa mostra romana – racconta  Eisenmann – dove sono esposte una serie di tele in cui la pittura del maestro francese si fa via via sempre più sfocata». Le visioni chiare del primo impressionismo sono diventate nebbiose, introverse. Al Vittoriano lo raccontano gli ultimi quadri che Monet realizzò nella casa e nei suoi appartati giardini di Giverny: «Esempio perfetto della tendenza antiurbana e introspettiva dell’arte moderna fin de siècle» commenta lo studioso. Voltando le spalle al mondo, Monet con il ciclo delle ninfee dell’Orangerie  di fatto cercava la fuga dalla realtà chiudendosi nello stagno di una natura separata dall’umano. Dominata da un silenzio assoluto e da un tempo immobile. Ogni vitalità pare perduta.

dal quotidiano Terra del 6 marzo 2010

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Giorgione, tra realtà e mito

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 10, 2009

di Simona Maggiorelli

giorgione, tempesta

Di lui non esiste firma riconosciuta come autografa e i documenti ufficiali che lo riguardano sono pochissimi. Tanto che se non fossero stati ritrovati quelli relativi a un’opera (andata perduta) che gli fu commissionata nel 1507 per Palazzo Ducale o i contratti che riguardano gli affreschi del Fondaco dei Tedeschi di cui La nuda è uno dei pochi lacerti superstiti, «Giorgione potrebbe tranquillamente non esser mai esistito».

Ad affermarlo, non troppo provocatoriamente, è il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci nel catalogo Skira che accompagna la mostra Giorgione. Dipinti e misteri di un genio (dal 12 dicembre all’11 aprile nel Museo Casa di Giorgione a Castelfranco Veneto). Ricordandoci che anche la morte prematura del pittore, a poco più di trent’anni a causa della peste che colpì Venezia nel 1510, è riportata solo da una lettera di Isabella d’Este a un suo faccendiere attraverso il quale aveva sperato di ottenere una a noi sconosciuta «pictura de una nocte» del geniale artista.

Ma per amore verso la straordinaria arte di Giorgione e volendo dare un po’ di fiducia ai cronisti del Cinquecento (Vasari compreso), ripercorriamo qui anche la tradizione che vuole Giorgio Zorzi da Castelfranco nato nel 1477 (o al più un anno dopo) da una famiglia povera e presto andato a farsi le ossa nella bottega di un pittore affermato come Giovanni Bellini. Tra le fonti che riportano questi scarni dati biografici, il Ridolfi, in particolare, sostiene che dopo un breve apprendistato Giorgione scelse di non legarsi a una bottega precisa ma di darsi le possibilità che apre l’essere “mobile” e indipendente.

Giovane, di bell’aspetto, abile nella musica, il pittore che avrebbe rivoluzionato il modo di dipingere  aprendo la strada alla pittura tonale, non ebbe difficoltà a inserirsi nella vivace vita culturale delle élite veneziane. Lungo questa via, Lionello Puppi che – assieme a Paolucci e a Enrico Maria Dal Pozzolo – ha curato la grande mostra di Castelfranco Veneto, ricostruisce nel catalogo Skira lo “spregiudicato” milieu culturale in cui Giorgione operò, stimolato da committenti provenienti dalla ricca e laica borghesia mercantile di Venezia e dalla comunità tedesca che viveva nella città lagunare (da qui il fertile contatto che l’artista ebbe con la grafica nordica e l’inquieta pittura di Dürer).

Giorgione, autoritratto

Senza dimenticare, fra i committenti che si rivelarono importanti per il lavoro di Giorgione, anche figure come il cardinal Domenico Grimani che con ogni probabilità gli fece conoscere alcune opere di Leonardo. E che la geniale ricerca leonardiana sullo sfumato avesse profondamente colpito il giovane pittore, tanto da spingerlo lungo quella strada a trovare una propria originale cifra stilistica, ne è prova evidente un capolavoro come La tempesta. Dipinto criptico quanto affascinante, eccezionalmente prestato (vista la sua fragilità) dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia per questa rassegna che, in occasione dei cinquecento  anni dalla morte del maestro di Castelfranco, raduna gran parte dell’esiguo corpus delle sue opere giunto fino a noi.

In questo quadro, come del resto nel cosiddetto Tramonto proveniente dalla National Gallery di Londra, si coglie tutta la portata della rivoluzione coloristica che il pittore veneto realizzò adottando un atteggiamento sperimentale verso la natura analogo a quello di Leonardo: il movimento continuo degli elementi, la fusione atmosferica delle forme e la potenza espressiva del colore ne La tempesta fanno sì che la natura stessa diventi protagonista, restituendo il vissuto emotivo dei personaggi e indirettamente quello dell’autore. Tanto da spingere lo spettatore a “tuffarsi “in questo paesaggio inquieto e vibrante distogliendolo dalla decifrazione razionale dell’episodio qui rappresentato.

E sul quale, tuttavia, sono stati versati fiumi d’inchiostro. Senza che la critica d’arte e gli studi di iconologia siano mai arrivati di fatto a una lettura certa e definitiva. Nei secoli si è parlato di allegoria alchemica, di idillio bucolico, di ermetico gioco mitologico. E più in dettaglio di raffigurazione di episodi delle Metamorfosi di Ovidio oppure della Tebaide di Stazio. E se Marcantonio Michiel nel Cinqeucento aveva parlato de «la zingara e il soldato», secondo Schrey agli inizi del Novecento i due protagonisti del quadro erano i progenitori dell’umanità scampati dal diluvio universale. Per arrivare poi a Salvatore Settis che nel celebre saggio La tempesta interpretata (Einaudi) legge le due figure come Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden.

Ma forse, con Antonio Paolucci oggi potremmo finalmente dire che è il temporale il vero protagonista della tela e non inteso come mera descrizione di un banale evento atmosferico. Quello che vediamo, scrive il curatore della mostra castellana «è un temporale d’estate nella campagna intorno a Castelfranco, con le nuvole nero-grigio-viola che ruotano nel cielo fattosi improvvisamente buio, con il vento che squassa le chiome degli alberi e il fulmine che tocca di una luce livida e spettrale le mura del borgo» Una natura che è sì «vero visibile» ma che nelle sue epifanie e metamorfosi qui sembra evocare piuttosto “una tempesta emotiva”, o meglio l’inquieto vissuto emotivo che l’autore regala ai due enigmatici protagonisti. «Un temporale d’estate protagonista del quadro, come molti secoli dopo lo sarà la montagna Sainte Victoire per Cézanne o  come saranno le Ninfee per Monet. Con questo – precisa Paolucci – non si vuol dire che Giorgione è precursore dell’impressionismo. Si vuol dire semplicemente che la modernità nelle arti visuali incomincia anche con La tempesta». Certo è che in questa opera, come nel Tramonto o come accadeva già nella Pala di Castelfranco, Giorgione supera completamente la prospettiva rinascimentale che costruiva il paesaggio in modo architettonico. E in quell’impasto sfocato e nella tessitura continua della pittura senza disegno come è quella di Giorgione (diversamente da quella di Leonardo) si legge un’immagine latente mutevole e viva, diversissima dalla durezza smaltata della pittura quattrocentesca che prima di lui era ancora dominante nell’area veneta. La pittura tonale di Tiziano, Veronese e Tintoretto sarebbe venuta dopo.

da left-Avvenimenti 11 dicembre 2009

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La rivoluzione della forma

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 9, 2009

Nella mostra Picasso – Cézanne il dialogo a distanza di due artisti, protagonisti della svolta culturale che avvenne nel passaggio dall’Ottocento al Novecento

di Simona Maggiorelli

Cézanne Bagnanti

Cézanne Bagnanti

«Il rapporto di Picasso con Cézanne è un dialogo infinito, cominciato molto presto e proseguito fino alla morte dell’artista spagnolo», racconta Bruno Ely, direttore del musée Granet di Aix-en Provence dove, fino al 27 settembre, è aperta una rassegna dedicata ai due maestri. «Un dialogo che Picasso, di 42 anni più giovane, aveva  cominciato in gioventù durante il primo periodo espressionista e poi aveva continuato in quello rosa. Per arrivare poi alla svolta cubista e alle Demoiselles d’Avignon, un’opera che non sarebbe mai esistita senza le Grandi bagnanti di Cézanne». Per non dire, prosegue Ely, del Picasso collezionista (a cui la mostra dedica una sezione). «Picasso aveva acquistato tre opere importanti come Vista dall’Estaque, Le bagnanti e Château noir, fra le più belle a mio avviso del maestro di Aix.  Alla fine degli anni Cinquanta, poi, con la sua compagna Jacqueline  decise di trasferirsi nel castello di Vauvenargues. Scherzando diceva di essersi comprato la montagna Sainte Victoire in originale».

Strano personaggio Picasso. Lui che rivendicava di non avere padri in arte, diceva che Cézanne era stato «il suo unico e solo maestro», ammettendo di aver passato anni a studiare i suoi quadri, diventandone uno dei massimi conoscitori (così nei dialoghi con Brassaï). Temperamento e carattere diversissimo dal suo, Picasso riconosceva al pittore di Aix una ricerca che nessuno aveva mai fatto, una rivoluzione delle forme, che inaugurava una nuova strada nell’arte, fuori dalla mimesi della natura, aprendo la rigida gabbia razionale della prospettiva rinascimentale a una diversa profondità e a una pluralità di punti di vista.
Nel suo appartato studio di Aix-en Provence, Cézanne aveva dedicato tutto se stesso a questa ricerca di un diverso modo di rappresentare la realtà,  per come appariva all’artista. «Lavorava solo, senza allievi, senza ammirazione da parte della sua famiglia, senza l’incoraggiamento di giurie», annotava il filosofo Maurice Merleau-Ponty ne Il dubbio di Cézanne (in Senso e non senso, Il Saggiatore). E non mancarono gli attacchi feroci: pittura da «bottinaio ubriaco» scriveva nel 1905 un critico francese, mentre l’“amico” Zola  parlava di lui come di «un genio abortito». Invecchiando, lo stesso Cézanne cominciò a  pensare che la novità della sua pittura potesse essere dovuta solo a un «disordine della vista».

Nella lunga e variata sequenza di quadri che Cézanne dedicò alla Saint Victoire che svetta su Aix en Provence, invece, andò ben oltre il lavoro degli impressionisti che cercavano il vedere istantaneo, il flash, la piattezza dell’istante. Ma ancor più chiaramente si mosse nella direzione opposta a quella intrapresa da Monet che arriverà a dissolvere ogni forma nel colore. Inconsapevolmente (come ha notato per primo Merleau-Ponty) Cézanne arrivò a rappresentare sulla  tela il primo formarsi della visione come immagine indefinita che emerge dal progressivo aggregarsi di macchie di colore. è lo stesso processo della visione quello che Cézanne cerca di rappresentare. In questo modo introducendo nel quadro la durata, un tempo interiore specificamente umano.

Dopo di lui la pittura non avrebbe più potuto essere mera, accademica, registrazione del dato oggettivo o trascrizione di un ricordo cosciente. L’arte, per essere davvero tale, doveva essere creazione di immagine, a partire da una propria, personalissima, elaborazione dei rapporti con gli altri, a partire da un vissuto interiore. Picasso, forse più di ogni altro artista delle avanguardie storiche, intuì l’importanza di questa svolta. «Ciò che lo avvicinava particolarmente a Cézanne – nota ancora Bruno Ely – è che entrambi avevano trovato una propria visione in maniera antidogmatica, senza dipingere opere a tesi». E se su questa strada di “apertura all’irrazionale” anche Van Gogh e Matisse (seppur su piani diversi) avevano fatto un proprio originale percorso, a mettere in particolare sintonia Picasso con Cézanne fu il fatto che il maestro di Aix aveva realizzato la sua rivoluzionaria svolta attraverso una ricerca sulle forme più che sul colore.Detto altrimenti, anche se sommariamente, ad attrarre l’attenzione di Picasso sulle potenti nature morte di Cézanne fu il modo in cui lui trattava la forma-colore. Nei suoi quadri pesche e oggetti acquistano una straordinaria solidità e forza volumetrica, mentre la prospettiva ortogonale lascia il posto a un complesso intersecarsi di piani che si aprono e si chiudono in profondità.

Ma ancor più Picasso amava certi suoi ritratti in cui la figura di madame Cézanne, quella del figlio, oppure l’immagine apparentemente comune di due giocatori a carte appaiono sottilmente deformate, sfuggenti a una logica di proporzioni e misure, acquistando così un’espressività e un significato più allusivo e complesso. Picasso ne era rimasto colpito quando vide la retrospettiva che il Salon d’Automne dedicò a Cézanne nel 1907, a un anno dalla sua morte. Ma già nei primissimi del Novecento, appena arrivato a Parigi dalla Spagna, Picasso aveva cominciato a riflettere e a lavorare su quanto Cézanne aveva dipinto, ma anche annotato a latere nei quaderni: affermazioni come «la natura è all’interno» trovavano una particolare risonanza in Picasso che tentava di passare dalla deformazione onirica tipica delle inquiete figure del periodo blu alla violenta scomposizione cubista. Una scomposizione della figura che lasciava intravedere un’immagine fin lì invisibile. Linee spezzate e vertiginose che in opere come Les demoiselles del 1907 fanno emergere il contenuto e il movimento vitale di una forma latente.

In primo piano potenti immagini di donna costruite con triangoli e losanghe e che richiamano alla mente il celebre passo di una lettera di Cézanne in cui scriveva che, per trovare una nuova volumetria in pittura, bisogna «trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono». Passo di cui Braque e compagni fecero una sorta di manifesto cubista. Anche per questo sarebbe stato interessante poter vedere al musée Granet – nel dialogo che si squaderna in una cinquantina di opere dei due maestri – anche un confronto fra questo capolavoro di Picasso conservato a New York e le Les grandes baigneuses di Cézanne di Londra e di Philadelphia. Ma le complicate politiche dei prestiti internazionali non l’hanno consentito. In compenso in questa mostra di Aix si può confrontare dal vivo un primo piano di madame Cézanne e un possente ritratto cubista di Fernande Olivier. Si “toccano con mano” i debiti cézanniani del cubismo analitico nel Ritratto di Ambroise Vollard di Picasso appeso accanto a quello che gli fece il pittore francese. Ma soprattutto si può capire qualcosa di più di un quadro enigmatico  come Il ragazzo che conduce un cavallo (1905-6), opera dalla lunga gestazione ed evoluzione. All’epoca, con il nudo, una tavolozza quasi monocroma e il richiamo all’essenzialità dell’antico, Picasso cercava una via di uscita dalla teatralità e  dall’aneddotica del periodo rosa. Qui si realizza pienamente che la trovò non solo nel  rapporto con l’arte fenicia esposta al Louvre, ma anche e soprattutto nel rapporto con il Grande bagnante (1885)  di Cézanne.

da left-Avvenimenti 26 giugno 2009

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Il fascino indiscreto di Alma

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 30, 2009

Anteprima. Andrea Camilleri sulle tracce di Renoir e della sua bionda modella. Nel suo nuovo romanzo Il cielo rubato  lo scrittore siciliano si prende una licenza da Montalbano e dalla scrittura di genere . Dal 6 maggio in libreria

di Simona Maggiorelli

Renoir

Renoir

«Gentile signora, mi permetta di dirle che considero la sua lettera pervenutami ieri come il più bel regalo…Non solo per il contenuto, ma direi soprattutto per il suo giungermi inaspettata…». Parole quasi affettate, dal sapore vagamente d’antan. Con cui quel grande “contraffattore” di stili che è Andrea Camilleri nel suo nuovo romanzo Il cielo rubato (edito da Skira, in libreria dal 6 maggio) si cala nei panni dell’agrigentino, Mario Riotta: un maturo e colto notaio, che l’incipit del romanzo ci presenta sorpreso e forse già un po’ segretamente sedotto dalla lettera di una sconosciuta di nome Alma Corradi che gli ricorda un suo scritto giovanile, un libello su alcuni aspetti poco noti del viaggio in Italia del pittore Pierre Auguste Renoir.  Da giovane appassionato di arte, Riotta aveva scoperto molti anni prima che nella Chiesa di Capistrano, un paesino sui monti di Vibo Valentia, una serie di affreschi rivelava la mano del pittore francese, padre dell’impressionismo. In questo insolito romanzo epistolare – del tutto fuori registro rispetto alla letteratura di genere che ha reso popolare Camilleri – il protagonista racconta così la sua scoperta alla signora Alma: «La mia nonna materna era nata proprio a Capistrano nel 1874, figlia di un muratore. Quindi aveva sette anni quando vi arrivò il Maestro. Nella sua memoria di bambina era rimasta impressa la figura di un pittore francese, che lei chiamava il signor Renuà il quale, visto che gli affreschi della chiesa locale si stavano distruggendo a causa dell’umidità, decise in qualche modo d’arrestarne la rovina definitiva operando una sorta non di restauro ma di rifacimento».
Finzione narrativa o ricostruzione storica? Camilleri nel libro coltiva sapientemente questa ambiguità. E se, fra gli altri, Mario Guarna, attento studioso di storia locale, in un saggio del 2008 edito da Ibiskos ha offerto molte prove a dimostrazione che il rifacimento fu veramente di mano di Renoir, Camilleri, forse intuendo una risultanza dell’opera non proprio alla altezza del maestro, si schermisce: «No, non sono andato a vedere gli affreschi in Calabria, del resto nel romanzo sono un fatto abbastanza marginale. Lo spunto narrativo piuttosto mi è venuto da un racconto del figlio di Pierre-Auguste Renoir: Il regista Jean Renoir scrisse di un viaggio di suo padre ad Agrigento e di un furto che avrebbe subito documentato da una lettera di suo pugno, lettera che per quanto ho studiato non ha riscontri storici. Già tutto questo era di per sé  un enigma assai intrigante». Ma al gusto della sciarada che connota la produzione più squisitamente giallistica di Camilleri qui si aggiunge una costruzione letteraria  colta, fin dalla forma scelta, quella del romanzo epistolare. «Mi ero un po’ annoiato a correre sempre lungo le due autostrade del romanzo poliziesco e del romanzo storico» accenna, sornione, Andrea Camilleri. E tocca scomodare più di un modello letterario, a partire da Lolita di Nabokov, per riferire qui adeguatamente di questa divertita rilettura da parte di Camilleri del topos della passione – vera o fantasticata – da parte da un uomo  di una certa età per una giovane donna.  In questo caso la bionda Alma – come scopriremo nel corso della lettura  che- ha la bellezza luminosa e carnale della celebre Baigneuse blonde (1881) di Reinor e, fin dal nome, intriga il lettore in un gioco di specchi con Aline Chavirot la modella, amante e compagna di Renoir che il pittore ritrasse quasi ossessivamente. Nelle sue lettere Alma farà di tutto per evocare l’immagine di Aline nella mente del maturo notaio.  E il climax del rapporto fra i due, in una ridda di riferimenti iconografici veri e falsi (compreso un finto ritratto di Guttuso che Alma spedisce in foto al già arreso Riotta) presenterà non poche sorprese. Come del resto spiazzante è lo stile e il linguaggio che qui Camilleri squaderna, senza il ricorso all’icastico siciliano dei suoi lavori più noti. Lo scrittore che in passato si è divertito a imitare lo stile barocco spagnolesco alla Manzoni e perfino la prosa di Boccaccio qui opta per una lingua apparentemente normalizzata, ridotta al grado zero, lasciando che la luminosità gioiosa, la pennellata morbida e la sensualità delle figure femminili di Renoir diventino l’impasto stesso dell’intera narrazione. «Le immagini pittoriche sono state un elemento fondante della mia formazione e sono sempre state per me una fonte importante di ispirazione» ci ricorda lo stesso Camilleri, in una pausa del suo  lavoro di scrittura, che lo vede impegnato nel suo studio romano ogni giorno, invariabilmente, allo scoccare delle sette e mezzo del mattino. Così tornano in mente certe suggestioni caravaggesche de La storia del colore, ma anche tanti suoi romanzi storici ricchi di riferimenti alla pittura coeva. Ma ne Il cielo rubato Camilleri arriva a fare della pittura la protagonista stessa del romanzo. Puntando per giunta su un pittore più odiato che amato dalla critica moderna. «Mi intriga indagare il lavoro di scrittori e pittori che suscitano passioni forti – confessa Camilleri – ,cerco di scoprire le ragioni dell’amore ma anche quelle dell’odio. E questo in pittura avviene molto di più  che non in letteratura. Basta pensare a quanta gente dice di odiare Raffaello».
E riguardo a Renoir, alla fine, a quali conclusioni è giunto? «Che indubbiamente è stato un grandissimo maestro. E non per un quadro in sé. Per capire la pittura occorre fare il possibile per cercare di vedere la mano che sta dietro al quadro. E’ il tipo di pennellata a fare la personalità di un artista. Così come è la scrittura a fare lo scrittore».  Ma da questo nuovo romanzo di Camilleri non filtra soltanto il suo intenso rapporto con la storia dell’arte, ma anche quello con il cinema, qui chiamato in causa attraverso Jean Renoir, figlio d’arte e cineasta amatissimo da François Truffaut. «Un film come La grande illusione è un vero manifesto contro la guerra. Molto più di altri film venuti dopo – chiosa Camilleri-. Se fosse proiettato oggi risulterebbe di una modernità strepitosa».  Truffaut scriveva che Jean Renoir non filma situazioni, non filma idee ma uomini e donne che hanno idee. «Come regista è stato una figura di artista enorme Camilleri.  Nel suo cinema c’è l’impressionismo ma c’è anche e soprattutto il dono del vedere. E lo sguardo – conclude Camilleri – è la cosa più importante per un regista».

dal quotidiano Terra

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