Tra musica, letteratura e il nuovo Brasile di Lula. Chico Buarque de Hollanda presenta a Libri Come il suo ultimo romanzo, Latte versato edito in Italia da Feltrinelli
di Simona Maggiorelli
“Non so perché lei non voglia alleviarmi il dolore. Ogni giorno apre le persiane con violenza facendo in modo che il sole colpisca il mio volto. Non so cosa ci trova di bello nelle mie smorfie, ogni volta che respiro è una fitta…” così il centenario Eulálio d’Assumpção, da un letto di ospedale a Rio, racconta la sua vita all’infermiera e alcuni indefiniti personaggi in corsia. In un ininterrotto stream of consciousness cheattraversa duecento anni di storia del Brasile risalendo la corrente del tempo sul filo della vicenda della propriasaga familiare, di generazione in generazione. Un racconto il suo, nella prosa musicale di Chico Buarque de Hollanda, che mescola ricordi coscienti a memorie profonde. Protestando contro la morfina che cancella le ferite ancora aperte. “Quando persi mia moglie, fu atroce. E qualsiasi cosa io ora ricordi, fa male, la memoria è una vasta ferita – confessa il protagonista del romanzo Latte versato-. Ma lei non mi dà le medicine, sembra quasi disumana. Credo che lei non faccia neanche parte del personale, non ho mai visto il suo viso qui intorno…”. E poi in un lampo: Ma è chiaro, sei mia figlia, eri in controluce, dammi un bacio”.
Tra rabbia e malinconia ma anche inaspettati guizzi di autoironia, Eulálio – in questo nuovo libro che Chico Buarque ha presentato a Roma nell’ambito della rassegna Libri Come- si fa cantastorie di un epos che va al di là di confini della propria, pur lunga, esistenza biografica. Anche lui, come il musicista e autore di Latte versato è testimone e cantore di un pezzo importante della storia del Brasile. “Sono figlio di uno storico (Sergio Buarque de Hollanda ndr)” racconta Chico di se stesso, con un sorriso schivo e gentile, mentre le fans reclamano la sua attenzione. “Ho sempre letto molto, ma non ho mai cercato di scrivere da storico. E non ho la pretesa di farlo ora. Ma è vero che tracciando lo sfondo del romanzo mi sono messo a studiare e forse, per la prima volta, ho capito il gusto che provava mio padre nella ricerca documentaria”. Seduto a un tavolino all’aperto del bar dell’Auditorium di Roma, Chico Buarque parla di letteratura, di musica di arte, ma il suo sguardo azzurro si accende in modo particolare quando il discorso piega sulla svolta democratica di Lula e su temi che toccano il cuore della democrazia.
Con Caetano Veloso e Gilberto Gil è stato l’iniziatore della svolta tropicalista, di un modo di fare musica che univa alla ricerca l’impegno civile. Dopo aver combattuto la dittatura e aver trascorso negli anni Settanta diciotto mesi di esilio volontario in Italia, Chico Buarque de Hollanda è diventato in anni più recenti uno dei maîtres à penser del nuovo Brasile di Lula. Per quanto in posizione più defilata rispetto a Gill che ha accettato incarichi da ministro della Cultura.
Chico si sarebbe mai immaginato che gli artisti avrebbero davvero potuto dare un contributo così interno alla svolta politica e culturale del Brasile?
Non avrei mai immaginato un’apertura e una possibilità di cambiamento di questa portata. E noto che la stampa straniera ancora non ci crede. Spesso il sottotesto degli articoli dice: ma non può essere vero, questa è propaganda! Invece il compito dovrebbe essere verificare cosa sta cambiamento realmente, anche se era impensabile.
Le giovani generazioni brasiliane di oggi che rapporto hanno con la memoria storica dei tempi della resistenza alla dittatura?
In Brasile, come in molti paesi latinoamericani, c’è una tendenza a evitare lo scontro su quelli che sono stati i nostri anni di piombo. Si fanno film sulla tortura della dittatura, si fanno processi. Ma è anche vero che i giovani brasiliani si interessano di meno, leggono meno, sono meno informati dei loro coetanei uruguaiani o argentini. Al fondo però non saprei dire se questa loro smemoratezza, se questo saper dimenticare, sia del tutto un disvalore.
In Italia la smemoratezza ha portato a rieleggere più volte Berlusconi al governo.
La situazione italiana oggi, devo dire, mi pare davvero molto preoccupante.
La Chiesa ha avuto un ruolo di primo piano nelle vicende dittatoriali latinoamericane, come valuta l’emersione sulla stampa internazionale della pedofilia coperta dal Vaticano?
Come un fatto positivo. Papa Ratzinger non poteva non sapere. Così come sapevano tutti. Per un periodo, da giovanissimo, ho frequentato scuole cattoliche, tutti sapevamo che c’erano state storie di violenze pedofile su studenti, anche se non ne eravamo stati direttamente vittime.
Tornando al suo nuovo romanzo, in Latte versato lei fa un lavoro sulla memoria storica trasmessa dal protagonista del romanzo con la ricchezza di immagini di una storia orale. L’ispirazione viene anche da maestri come Marquez?
Probabilmente ho attinto a fonti letterarie, inconsapevolmente, ma l’ispirazione più diretta, devo dire, è stata mia madre che oggi ha quasi cento anni e che mi ha sempre raccontato di Rio, delle navi che andavano e venivano da Copacabana, bastimenti con nomi sempre diversi e un carico di lettere e di messaggi dall’Europa e che rappresentavano soprattutto per le elite brasiliane degli anni Venti un’apertura su un mondo lontano e nuovo.
Lei ha scritto un romanzo immaginario su Budapest. Ora torna a raccontare Rio. Joyce sosteneva che l’esilio gli permetteva di vedere meglio il cuore di Dublino. Ma c’è anche chi, come Pamuk, dice che non potrebbe scrivere lontano da Istanbul…
I miei tre romanzi precedenti parlavano di una Rio de Janeiro e di una Budapest, come diceva, immaginarie. Budapest per me è stata una metafora, uno specchio per parlare di aspetti nascosti di Rio. Mi ispirava una Budapest sognata. Poi amici ungheresi mi hanno detto avresti potuto scrivere di quella strada o di quell’altra. Al di là di tutto non sarei mai riuscito a scrivere con una guida della città alla mano. Tanto che quando ne scrivevo non c’ero ancora mai stato. Quanto a Rio, la città dove vivo, è senza dubbio la mia musa. E’ il mio paesaggio naturale. Ed è vero anche che quando viaggio riesco a coglierne da lontano tratti che da lì non vedo chiaramente. Ovviamente parlo di aspetti che non riguardano il mero paesaggio urbano della città.
Lei una volta ha detto di aver imparato a usare parole in senso poetico quando doveva scrivere venti canzoni perché due passassero il vaglio della censura. Quanto la musica, invece, ha aiutato il suo lavoro di scrittore?
Moltissimo. La musicalità della prosa è una ricerca continua. In certo senso mi sentirei di dire che la musica mi ha aiutato a far incontrare poesia e prosa. Temo, dando molto filo da torcere, ai traduttori.
dal quotidiano Terra domenica 28 marzo 2010