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Archive for marzo 2010

La mia musa si chiama Rio

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 28, 2010

Tra musica, letteratura e il nuovo Brasile di Lula. Chico Buarque de Hollanda presenta a Libri Come il suo ultimo romanzo, Latte versato edito in Italia da Feltrinelli

di Simona Maggiorelli

Chico Buarque de hollanda

“Non so perché lei non voglia alleviarmi il dolore. Ogni giorno apre le persiane con violenza facendo in modo che il sole colpisca il mio volto. Non so cosa ci trova di bello nelle mie smorfie, ogni volta che respiro è una fitta…” così il centenario Eulálio d’Assumpção, da un letto di ospedale a Rio, racconta la sua vita all’infermiera e alcuni indefiniti personaggi in corsia. In un ininterrotto stream of consciousness cheattraversa duecento anni di storia del Brasile risalendo la corrente del tempo sul filo della vicenda della propriasaga familiare, di generazione in generazione. Un racconto il suo, nella prosa musicale di Chico Buarque de Hollanda, che mescola ricordi coscienti a memorie profonde. Protestando contro la morfina che cancella le ferite ancora aperte. “Quando persi mia moglie, fu atroce. E qualsiasi cosa io ora ricordi, fa male, la memoria è una vasta ferita – confessa il protagonista del romanzo Latte versato-. Ma lei non mi dà le medicine, sembra quasi disumana. Credo che lei non faccia neanche parte del personale, non ho mai visto il suo viso qui intorno…”. E poi in un lampo: Ma è chiaro, sei mia figlia, eri in controluce, dammi un bacio”.

Tra rabbia e malinconia ma anche inaspettati guizzi di autoironia, Eulálio – in questo nuovo libro che Chico Buarque ha presentato a Roma nell’ambito della rassegna Libri Come- si fa cantastorie di un epos che va al di là di confini della propria, pur lunga, esistenza biografica. Anche lui, come il musicista e autore di Latte versato è testimone e cantore di un pezzo importante della storia del Brasile. “Sono figlio di uno storico (Sergio Buarque de Hollanda ndr)” racconta Chico di se stesso, con un sorriso schivo e gentile, mentre le fans reclamano la sua attenzione. “Ho sempre letto molto, ma non ho mai cercato di scrivere da storico. E non ho la pretesa di farlo ora. Ma è vero che tracciando lo sfondo del romanzo mi sono messo a studiare e forse, per la prima volta, ho capito il gusto che provava mio padre nella ricerca documentaria”. Seduto a un tavolino all’aperto del bar dell’Auditorium di Roma, Chico Buarque parla di letteratura, di musica di arte, ma il suo sguardo azzurro si accende in modo particolare quando il discorso piega sulla svolta democratica di Lula e su temi che toccano il cuore della democrazia.

Con Caetano Veloso e Gilberto Gil è stato l’iniziatore della svolta tropicalista, di un modo di fare musica che univa alla ricerca l’impegno civile. Dopo aver combattuto la dittatura e aver trascorso negli anni Settanta diciotto mesi di esilio volontario in Italia, Chico Buarque de Hollanda è diventato in anni più recenti uno dei maîtres à penser del nuovo Brasile di Lula. Per quanto in posizione più defilata rispetto a Gill che ha accettato incarichi da ministro della Cultura.

Chico si sarebbe mai immaginato che gli artisti avrebbero davvero potuto dare un contributo così interno alla svolta politica e culturale del Brasile?

Non avrei mai immaginato un’apertura e una possibilità di cambiamento di questa portata. E noto che la stampa straniera ancora non ci crede. Spesso il sottotesto degli articoli dice: ma non può essere vero, questa è propaganda! Invece il compito dovrebbe essere verificare cosa sta cambiamento realmente, anche se era impensabile.

Le giovani generazioni brasiliane di oggi che rapporto hanno con la memoria storica dei tempi della resistenza alla dittatura?

In Brasile, come in molti paesi latinoamericani, c’è una tendenza a evitare lo scontro su quelli che sono stati i nostri anni di piombo. Si fanno film sulla tortura della dittatura, si fanno processi. Ma è anche vero che i giovani brasiliani si interessano di meno, leggono meno, sono meno informati dei loro coetanei uruguaiani o argentini. Al fondo però non saprei dire se questa loro smemoratezza, se questo saper dimenticare, sia del tutto un disvalore.

In Italia la smemoratezza ha portato a rieleggere più volte Berlusconi al governo.

La situazione italiana oggi, devo dire, mi pare davvero molto preoccupante.

La Chiesa ha avuto un ruolo di primo piano nelle vicende dittatoriali latinoamericane, come valuta l’emersione sulla stampa internazionale della pedofilia coperta dal Vaticano?

Come un fatto positivo. Papa Ratzinger non poteva non sapere. Così come sapevano tutti. Per un periodo, da giovanissimo, ho frequentato scuole cattoliche, tutti sapevamo che c’erano state storie di violenze pedofile su studenti, anche se non ne eravamo stati direttamente vittime.

Tornando al suo nuovo romanzo, in Latte versato lei fa un lavoro sulla memoria storica trasmessa dal protagonista del romanzo con la ricchezza di immagini di una storia orale. L’ispirazione viene anche da maestri come Marquez?

Probabilmente ho attinto a fonti letterarie, inconsapevolmente, ma l’ispirazione più diretta, devo dire, è stata mia madre che oggi ha quasi cento anni e che mi ha sempre raccontato di Rio, delle navi che andavano e venivano da Copacabana, bastimenti con nomi sempre diversi e un carico di lettere e di messaggi dall’Europa e che rappresentavano soprattutto per le elite brasiliane degli anni Venti un’apertura su un mondo lontano e nuovo.

Lei ha scritto un romanzo immaginario su Budapest. Ora torna a raccontare Rio. Joyce sosteneva che l’esilio gli permetteva di vedere meglio il cuore di Dublino. Ma c’è anche chi, come Pamuk, dice che non potrebbe scrivere lontano da Istanbul…

I miei tre romanzi precedenti parlavano di una Rio de Janeiro e di una Budapest, come diceva, immaginarie. Budapest per me è stata una metafora, uno specchio per parlare di aspetti nascosti di Rio. Mi ispirava una Budapest sognata. Poi amici ungheresi mi hanno detto avresti potuto scrivere di quella strada o di quell’altra. Al di là di tutto non sarei mai riuscito a scrivere con una guida della città alla mano. Tanto che quando ne scrivevo non c’ero ancora mai stato. Quanto a Rio, la città dove vivo, è senza dubbio la mia musa. E’ il mio paesaggio naturale. Ed è vero anche che quando viaggio riesco a coglierne da lontano tratti che da lì non vedo chiaramente. Ovviamente parlo di aspetti che non riguardano il mero paesaggio urbano della città.

Lei una volta ha detto di aver imparato a usare parole in senso poetico quando doveva scrivere venti canzoni perché due passassero il vaglio della censura. Quanto la musica, invece, ha aiutato il suo lavoro di scrittore?

Moltissimo. La musicalità della prosa è una ricerca continua. In certo senso mi sentirei di dire che la musica mi ha aiutato a far incontrare poesia e prosa. Temo, dando molto filo da torcere, ai traduttori.

dal quotidiano Terra  domenica 28 marzo 2010

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Una esordiente di classe

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 26, 2010

Passione civile e profondità di scavo. Silvia Avallone racconta in Acciaio la Piombino operaia.

Ma soprattutto offre un inquieto ritratto dell’adolescenza

di Simona Maggiorelli

Silvia Avallone

Quinto posto nella classifica dei libri più venduti, a poche settimane dall’uscita. Passaggi in tv (nel salotto della Dandini), recensioni e una ridda di interviste, mentre nel mondo editoriale si parla di lei come della prossima, probabile, vincitrice del Premio Strega. Un tam tam che oggi in Italia neanche l’autore più navigato riesce a ottenere. E che ha messo in sospetto una certa critica blasonata, che, a corto di argomenti più ficcanti, ha parlato di «immaturità di stile» nella stesura di Acciaio (Rizzoli). Intanto, sul versante del tutto inaspettato della politica, ecco la levata di scudi del sindaco di Piombino e assessori che, dalle pagine locali de Il Tirreno, lamentano di non aver trovato nel libro il vero volto della città ma solo descrizioni di degrado. Come se si stesse parlando di un reportage dalla città dell’ex Ilva e non di un’opera di narrativa. Intanto lei, l’esordiente Silvia Avallone, alzando il bavero dei suoi venticinque anni («Ma mi ha fatto male sentir dire che Acciaio sarebbe cupo, senza pietas») tira dritta per la sua strada fatta perlopiù, oggi, di presentazioni su e giù per l’Italia (il 26 marzo è a Roma per LibriCome).

«Non vedo l’ora – confessa la giovane scrittrice – di potermi rinchiudere in casa per lavorare a una nuovo romanzo». Viaggiando, comunque, ha trovato modo di «covare» una nuova storia. In testa, accenna, «ho già alcune immagini». E a chi le preconizza il duro banco di prova di un secondo romanzo con molti ad aspettarla al varco, risponde decisa : «Io non ho paura». Sfoderando quell’entusiasmo sfrontato che, specie nella prima parte del romanzo, rende irresistibili le due protagoniste di Acciaio, le tredicenni Francesca e Anna, la bionda e la mora che (unite per farsi coraggio) scalpitano per entrare nella vita adulta. Fra un ballo seminude alla finestra del bagno e sfrenate corse in motorino. Crudelmente consapevoli della propria bellezza. Scoprendo un mondo di emozioni fra i ruderi di una fabbrica abbandonata con due compagni di infanzia, d’un tratto “visti” con occhi nuovi.

Acciaio

Contro uno scenario di arroventato cemento, in una provincia depressa, minacciata dalla delocalizzazione industriale, le due ragazze fioriscono nel rapido passaggio da una stagione all’altra. Come se quella Toscana operaia e, ormai in declino, fosse il posto più bello del mondo. A farle sognare quel punto luminoso all’orizzonte che è l’isola dell’Elba, piuttosto, è la violenza di padri assenti e maneschi, quella normalità familiare fatta di indifferenza che a poco a poco, impercettibilmente, le corrode dentro. Virus invisibili che per alcuni dei giovani protagonisti di Acciaio saranno semi di autodistruzione, fra droga e apatia. è una storia molto dura quella che si squaderna in questa sua “opera prima”. Non c’è «elegia della provincia» nel racconto di questi quartieri popolari intossicati di amianto dove la vita scorre senza cinema, senza libri, senza la passione politica e rossa che animava anche i più nascosti angoli di Toscana fino a una generazione fa.

C’è semmai una certa epica operaia, il gusto di raccontare la dignità e la durezza del lavoro in fonderia, dove ogni giorno, ancora oggi si rischia la vita. E c’è soprattutto una calda umanità nell’affrescare i personaggi che la abitano e la fanno vivere. Anche quelli più negativi sono delineati senza cinismo, senza deformazione grottesca. La scrittura di Avallone è lontana mille miglia da quella giovanilistica e splatter degli scrittori cannibali alla Brizzi. E altrettanto lontana è dai toni edulcorati alla Moccia o alla Muccino, fabbricanti di eterni adolescenti di plastica. Con i propri mezzi Avallone ha tentato di immergersi profondamente in quel vulcanico momento che è l’adolescenza. Fra improvvise aperture e tragiche cadute, quando il sentire, i turbamenti, i desideri e le aspirazioni delle due giovanissime protagoniste si infrangono contro il vuoto affettivo delle rispettive famiglie, contro rapporti violenti, che fanno ammalare. Incapace di una sana ribellione, Francesca precipiterà in un abisso di autodistruzione.

«Ho attinto alla cronaca, alla realtà, a storie che ho ascoltato con le mie orecchie», racconta Silvia a proposito delle sue “fonti”. «Al di là della finzione del Mulino bianco- sottolinea- nella vita ci sono purtroppo anche situazioni come quelle che ho affrontato in Acciaio. Se poi allarghiamo lo sguardo alla storia della famiglia in Italia – aggiunge – possiamo scoprire che un certo tipo di rapporto fra padri e figlie ha improntato tutto il Novecento. Il modello persistente del pater familias ha inciso pesantemente sulla psicologia dei figli, specie se femmine». A nutrire la tridimensionalità dei personaggi del libro, dunque, nessuna esperienza direttamente autobiografica («la letteratura non serve a raccontare se stessi, altrimenti diventa diaristica, ombelicale», stigmatizza Avallone). Semmai, accanto a vicende “rubate” dalla cronaca e ricreate, si avverte l’eco di classici della letteratura del XX secolo. Da Lolita di Nabokov a L’Ernesto di Saba, passando per i ritratti di adolescenti firmati da Elsa Morante. Giovani inquieti «che -dice Silvia-hanno un rapporto affascinante ma anche problematico con il corpo, con la scoperta della sessualità, aspetti che la fiction oggi rende in modo appiattito, inverosimile». Nello scavo psicologico, va detto, Acciaio ha dalla sua una lingua viva, icastica e una freschezza di eloquio che conquista fin dalle prime pagine. Qua e là ci scappa anche qualche accento vernacolare, in livornese schietto, quando a parlare sono personaggi in squarci di realtà quotidiana, in spiaggia, nei bar, nella casa del popolo, in fabbrica. «Ho cercato una lingua cruda, di aderenza totale alla materia – spiega l’autrice -. Talora, mi è stato fatto notare, anche un po’ espressionista. Ma non è stata una scelta programmatica. A guidarmi sono il soggetto e il genere che scelgo». Dunque una Silvia Avallone completamente diversa in prosa e in poesia? «La prosa per me è soprattutto ritmo ma l’essermi misurata con la poesia (ha pubblicato nel 2007 la raccolta di versi Il libro dei vent’anni con Le edizioni della Meridiana, ndr) mi ha lasciato il gusto della parola esatta, di dire le cose all’ennesima potenza. Oggi tento di fondere queste due diverse esigenze».

GLI SCRITTORI SI RACCONTANO AL FESTIVAL LIBRI COME

Roma, capitale della letteratura.Almeno da venerdì a domenica con LibriCome che trasforma l’Auditorium in un palcoscenico internazionale di incontri con autori. Alcuni davvero molto attesi. A cominciare da quello con un romanziere cult come Cees Nooteboom, che per Iperborea ha appena pubblicato il libro Le volpi vengono di notte. Ma nel parterre alto ci sono anche Abraham Yehoshua, Boris Pahor e Cathleen Schine, autrice de La lettera d’amore (Adelphi). Quanto agli scrittori nostrani, la scelta diventa più ecumenica: va dal Nobel Fo al magistrato Carofiglio, dal collettivo Wu Ming a Bajani, all’emergente D’Avenia, passando per i soliti Ammanniti, Camilleri e Mazzantini.  Fra i nuovi autori, da non perdere di vista Amedeo Romeo, che per Isbn esce con Non piangere coglione, e Giuseppe Genna (Assalto a un tempo devastato e vile, Minimum fax). Sul versante della poesia, a LibriCome ci sono Valerio Magrelli, Erri De Luca e Joumana Haddad. Per i libri d’inchiesta: Gianluigi Nuzzi, autore del best seller Vaticano Spa (Chiarelettere) ma anche il giornalista Rai Riccardo Iacona. Sul côté del giallo impegnato, ecco De Cataldo ma anche Carlotto in veste di mentore di Donne a perdere (E/0) del collettivo sardo Mama Sabot. E ancora, per la filosofia Antonio Pascale e Armando Massarenti (Il filosofo tascabile, Guanda). Ma interessanti anche le tavole rotonde sulla filiera del libro (con Marcos y Marcos, Donzelli, Minimum fax, Instar libri e Nottetempo) e su come si sceglie un libro da pubblicare con Ferri (E/O), Foglia (Feltrinelli), Franco (Einaudi), Mauri (GeMs) e altri. Mentre l’editore Fazi compare come  autore di Bright star.  La vita autentica  di Jhon Keats.

daleft-avvenimenti del  26 marzo 2010

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Il realismo carnale di Canevari

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 25, 2010

di Simona Maggiorelli

Una catasta di rotoli di panno lenci può fiorire in un inaspettato concerto di rose grigie e azzurre.

Mentre un’altalena fatta con una camera d’aria e due corde, lasciata a penzolare nel vuoto, apre imprevisti squarci di memoria sulla ferocia razzista di una parte non piccola dei bianchi americani.

Frammenti di realtà che riletti da Paolo Canevari regalano improvvise epifanie di senso.

Più in là, in un’altra sala del Pecci di Prato dove fino al primo agosto è aperta un’importante retrospettiva dedicata all’artista romano, una luccicante lampada da discoteca getta un’inquietante doppia ombra, di attraente giocattolo e di micidiale bomba.

Il talento di Canevari è saper scovare lampi di poesia nella quotidianità, anche quella apparentemente più banale. Ma sta anche nel saper cogliere e tradurre in un’immagine spiazzante, forte, polisemica, le discrasie del nostro tempo. Insinuandosi in quelle faglie della realtà che permettono di aprire gli occhi su orizzonti di senso più ampi e più profondi.

Come quando, ritraendo giovani in coda davanti a un locale, Canevari incatena le loro braccia alla maniera dei carrelli da supermarket. O come quando, nella serie Globes, ironicamente, trasforma l’immagine dell’uomo vitruviano in un manager seduto di spalle su un mappamondo fatto con strisce di battistrada. Metropolitana, demistificante, non di rado politicamente corrosiva, l’opera di Canevari, però, non si accontenta di vivere in margine alla cronaca.

Semmai nel corso degli ultimi due decenni (Canevari, classe 1963, ha esordito negli anni Ottanta) si è sviluppata come una personale e acuta riflessione sull’umano e sul senso della storia. Usando come grimaldello i simboli del potere e del dogma che hanno segnato i secoli.

E che l’artista smaschera denunciando la violenza e il vuoto di umanità che nascondono. Così ecco un Gesù in croce, senza braccia e con un pneumatico come aureola assai poco divina. Ed ecco le vestigia del Colosseo trasfigurate in un teschio dalle orbite vuote oppure incendiate da un fuoco rosso come il sangue dei gladiatori. In una continua sperimentazione di generi e discipline, passando dal disegno al video, dalla scultura all’istallazione (e viceversa), sono nate così anche le sue personali mappature del globo che mettono in discussione le granitiche divisioni nazionali in nome di un nomadismo dei popoli e delle culture ma anche le sue armate di “omini” neri e stilizzati, poi disseminati come impronte vitali in quartieri degradati e in tutta una serie di “non luoghi”.
Da One-night installation: Rocce, che nell’89 segnò il debutto internazionale di Canevari, al video Bouncing skull, con cui nel 2007 partecipò alla Biennale di Venezia, fino a Nobody Knows (2010) da cui la mostra pratese trae il titolo, il curatore Germano Celant ha ricostruito il filo della ricerca di questo poliedrico artista che lavora tra Roma e New York. Un lavoro di storicizzazione e di analisi critica del «realismo carnale» di Canevari che Celant ha distillato anche in una monografia Electa.

dal settimanale Left-Avvenimenti

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La bellezza amara delle creazioni di Paolo Canevari

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 24, 2010

Al museo Pecci di Prato si è aperta il 20 marzo una retrospettiva dedicata al lavoro dell’artista romano che è stato allievo di Nam June Paik.  Con il titolo Nobody knows, sculture, installazioni e video

di Simona Maggiorelli

Paolo Canevarai, rose

Una lupa nera spicca nel cubo bianco del Pecci di Prato. Solitaria, immersa nel silenzio, come se si fosse materializzata da un antico passato. è la ricreazione di doppie vestigia: quelle della fondazione mitica di Roma e quelle nere, ducesche, che nel secolo scorso hanno segnato tristemente la storia italiana. Paolo Canevari, classe 1963, ha conosciuto il fascismo sui libri ma anche attraverso i ricordi del padre (noto scenografo). Che quando Paolo era bambino gli raccontava la ferocia e la stupidità dei rituali con cui Mussolini celebrava il proprio potere. Le parate militaresche, l’esibizione di una vitalità solo fisica, di un coraggio fasullo che si misurava saltando attraverso cerchi di fuoco.

Paolo Canevari

Quei simboli roboanti, quella retorica tronfia e il vuoto assoluto che nascondevano sarebbero diventati poi nella fucina dell’artista romano il loro esatto contrario: il segno di un rifiuto radicale di ogni forma di violenza. In forme nuove, nelle mani di Canevari, quegli strumenti di tronfia propaganda si sono trasformati in brucianti segni di bellezza, in immagini elegiache, poetiche.

Così ecco il Colosseo, dove i gladiatori erano mandati a farsi sbranare dalle belve, mutato in una potente scultura di fuoco. Ecco i pneumatici infuocati con cui i razzisti sudafricani e il Ku Klux Klan uccidevano le persone di colore diventare monumento alla memoria che si staglia contro il cielo del Texas. Le opere dell’artista romano – come racconta la mostra Nobody knows che il Pecci gli dedica da oggi – sono immagini semplici, immediate, ma in cui sembrano essersi sedimentate la storia e la memoria.

Con materiali naturali e poveri (corda, legno, lana, carta) oppure di riciclo (plastica, ferro, gomma) ridanno poeticamente voce e presenza a chi non l’ha avuta nella storia ufficiale riscritta ad hoc dai vincitori. «Canevari crede nella concretezza dell’arte – scrive Germano Celant nel catalogo Electa -. Il suo interesse è più legato all’afflusso degli umori e della memoria  che al concetto e alla teoria dell’arte. A contare è la carne delle cose e delle sue manifestazioni vitali». Ma è vero anche che questa concretezza viva che hanno le sue creazioni non è mai naif. La bellezza amara che Canevari ricava, per sottrazione, dagli oggetti non è mai frutto di un’improvvisazione “surrealista” che gioca con la casualità dell’objet trouvé. Le sue sculture e installazioni, così come i suoi video si presentano come opere polisemiche, aperte al contributo di fantasia di chi le guarda. E non è difficile scorgervi segreti omaggi a maestri dell’avanguardia. Come Nam June Paik nelle opere di videoarte. O come Lucio Fontana e nelle sculture che talora incontrano l’architettura ridisegnando gli spazi intorno, Oppure come Alberto Burri nelle sculture che appaiono come organismi in continua crescita e trasformazione. Nei rinnovati spazi del museo toscano (che prossimamente aprirà una sede anche a Milano), fino al prossimo primo agosto, tutti i sentieri della ricerca di Canevari sono esplorati, senza cadere nella museificazione che talora emanano le retrospettive.

Terra, 20 marzo 2010

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Chi dice donna dice malanno

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 20, 2010

Dalla preistoria ai nostri giorni, la studiosa ripercorre il cammino di una secolare misoginia

di Simona Maggiorelli

Frammenti di fregio da una casa sull’Esquilino in III stile romano, Musei Vaticani

Quando uscì L’ambiguo malanno, condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana era il 1981 e, sul piano del diritto, le donne avevano fatto molte conquiste: nel ’69 era stato abrogato l’articolo 559 del codice penale che puniva l’adulterio come reato, nel ’70 era stata varata la legge sul divorzio, nel ’75 il nuovo codice di famiglia e nel ’78 si legalizzava l’aborto. E anche se si sarebbe dovuto aspettare il 1996 perché la violenza sessuale non fosse più considerato solo «un delitto contro la morale pubblica e il buon costume» il momento storico sembrava fertile per ulteriori passi avanti di emancipazione. «Fu questo il motivo che mi spinse allora a pubblicare un libro dedicato alla storia della condizione femminile non solo per gli addetti ai lavori.

Ripercorrere la storia delle discriminazioni pensavo potesse aiutare un pubblico più vasto a capire» annota Eva Cantarella a incipit della nuova edizione del libro che Feltrinelli manda in libreria il 23 marzo. Ma era difficile immaginare allora che questo libro si sarebbe rivelato ancor più attuale negli anni duemila quando le donne italiane si sono viste proibire l’accesso alle più avanzate tecniche di fecondazione assistita e sono tornate a sentirsi dare delle assassine quando decidono di abortire.

Prof. Cantarella ne L’ambiguo malanno scriveva che il cammino verso l’emancipazione «è tutt’altro che irreversibile». Oggi ne abbiamo tristemente prova?

Ciò che è accaduto alle donne in Italia negli ultimi anni fa riflettere. Perciò ho accettato volentieri di ripubblicare questo libro. Negli anni ’70 sembrava che si fosse imboccata la via, anche sul piano legislativo, per rimuovere gli ostacoli che impediscono alle donne di realizzarsi. Al di là del solito ruolo familiare (che oggi peraltro continuano ad avere). Abbiamo raggiunto la parità sul piano formale, ma non quella sostanziale. È avvilente che in un paese in cui le donne sono presenti in tanti ambiti sociali l’immagine di donna che emerge sia quella proposta dai fatti di cronaca e dalla tv.

Eva Cantarella

Che escort e massaggiatrici, insieme a mogli devote, siano l’immaginario femminile di questo governo la dice lunga?

è questo che fa paura. Dispiace vedere questa subalternità delle donne. Perché tante ancora l’ accettano? Qui torna fuori la storia. Ne L’ambiguo malanno e in Passato e presente ho cercato di mettere in luce la differenza che c’era fra la condizione delle donne greche e quella delle romane. In Grecia erano del tutto subalterne. A Roma apparentemente no, ma la loro condizione era molto più pericolosa. Qui sono le radici di molti nostri mali. Se non uscivano dal ruolo di mogli e madri, le donne romane venivano ricompensate con il rispetto personale e sociale. La matrona era celebrata.

Le romane erano cooptate in un sistema sociale maschile, perdendo la propria identità, il proprio “sentire”?

Accade quando le donne accettano di perdere la propria autonomia per entrare, con un gioco di do ut des, in situazioni di potere, per avere visibilità. Accettando di perdere la dignità che viene dal guadagnarsi le cose .

Dare “voce” alle generazioni di donne sconosciute, «annullate come individui, a causa della loro identità sessuale». Così annunciava il progetto del libro. Partendo dalla preistoria analizzava l’ipotesi di Bachofen di una fase antichissima di matriarcato. Oggi che cosa ne pensa?

Negli anni ’70 era molto di moda la teoria matriarcale sostenuta dalle femministe. L’equivoco, a dire il vero, è antico. Nella prefazione alla quarta edizione dell’Origine della famiglia, Engels interpretava un passo dell’Orestea di Eschilo come vittoria del matriarcato. Come la prova, insomma, che ci fosse stato veramente un matriarcato, poi però sopraffatto dal patriarcato. Ne ricavava in chiave progressista che la famiglia borghese non è eterna e immutabile. Era il sogno e l’utopia che qualcosa potesse cambiare con un matriarcato di ritorno. Ma il matriarcato non è mai esistito. E in ogni caso, penso, non sarebbe un sistema migliore, ma l’equivalente del patriarcato.

Quando si passò dalla caccia all’agricoltura «il rapporto uomo donna che sino ad allora aveva registrato il predominio maschile», lei scrive, cominciò a cambiare. In che modo?

L’agricoltura è stata un’invenzione delle donne. Questo sembra accertato. Per quanto si possano verificare le cose accadute nella preistoria. Mentre gli uomini andavano a caccia le donne cominciarono a coltivare piante. A poco a poco la carne non fu più l’unico alimento base. Ma, ancora una volta, questo non significa che le donne così presero potere.

affresco, Creta

Alla società minoica e a Creta lei dedica pagine densissime. L’arte ci racconta in questo caso di donne femminili, libere…

Ci sono stati nella storia momenti in cui le donne hanno avuto libertà e ruoli diversi. A Creta, ma anche nell’antico Egitto, per esempio. Oppure nel mondo etrusco. Nell’antichità ci sono state civiltà in cui le donne, per esempio, erano istruite. Non accadeva in Grecia.

Già in Omero, come lei ci ha ricordato in altre occasioni, si possono leggere le radici di una secolare misoginia.

Anche se curiosamente il mondo omerico è stato talora interpretato come un mondo dove le donne erano molto influenti. (Si è detto perfino che l’Odissea fosse stata scritta da una donna). In realtà il mondo omerico è androcentrico. Le donne non potevano uscire né parlare: quando la povera Penelope si azzarda a parlare, il figlio, che è un ragazzino, le dice: «stai zitta e torna in camera tua». In Omero le donne venivano già divise in due categorie: perbene e non. Ulisse ha una moglie che ha tutte le virtù e poi, secondo una doppia morale, incontra altre donne. Come sono queste altre? Pericolose come Circe oppure gentili e seducenti come Calipso. Ulisse, però, era convinto che stando con lei avrebbe perso se stesso. Le sirene, poi, sono il simbolo della sessualità femminile non perfettamente umana, perché non legata alla procreazione.

E arriviamo al titolo del libro che riprende il durissimo anatema dell’Ippolito euripideo contro le donne.

Ippolito è un personaggio di una tragedia, la Fedra ma le sue parole contengono uno stigma che la gente condivideva, anche se non in forma così estrema. è la forte misoginia che caratterizzò tutta la cultura greca.

Nel concedere alle donne le stesse possibilità degli uomini Platone, secondo studi femministi, fu meno misogino. è davvero così?

Per carità! Basta dire che per Platone se gli esseri umani si comportano male si reincarnano in donne o animali.

Fu anche il filosofo che aprì la strada a una lettura della parola psiche come anima?

Sì è proprio così. Prima di lui la parola psiche in greco significava qualcosa di completamente diverso da anima. La nostra traduzione è sbagliatissima. Pensi a Ulisse quando scende nell’Ade, diciamo che incontra delle anime. Ma non lo sono, sono degli uccelli che stridono, sono fumo, sono ombre.

Platone dice anche che gli omosessuali sono i veri uomini e i più adatti al governo della cosa pubblica.

Lo dice nel Simposio. è un discorso che ha ricadute pesanti sul modo di considerare la donna. Anche se sotto questo riguardo l’influenza negativa di Aristotele è stata più duratura nei secoli.

Lei riporta un dibattito greco “sul mistero della nascita”, da Ippone a Ippocrate. In questo quadro Aristotele formulò la sua feroce visione della donna?

Per lui la donna è materia. Non ha il logos. Ha ruolo nella riproduzione e, per giunta, è solo passivo…

Con il Cristianesimo l’identità e l’immagine della donna subirono un colpo mortale. Lei ricostruisce che la predicazione dei padri della Chiesa vi contribuì fortemente, fin dalla crisi dell’impero. Ce ne sono ancora tracce?

Da laica (ho fatto le scuole dalle suore e mi è bastato) mi sembra di poter dire che la concezione della donna che ha la Chiesa non sia delle più elevate. Il fatto stesso che non possano essere sacerdoti rivela un enorme pregiudizio. Il fatto poi che per dedicarsi meglio alla Chiesa i preti debbano evitare rapporti denota un’idea di superiorità del celibato rispetto allo stato matrimoniale.

La società greca era fondata sulla pederastia, lei ha scritto. Il cittadino per diventare tale doveva passare per questo “imprinting”. E nei seminari cattolici?

Quello che posso dire è che la pedofilia riguarda i bambini, mentre la pederastia greca riguarda adolescenti dai 13 anni ai 17 anni. I maschi greci, va detto, si sposavano a 14 anni le femmine a 12. Oggi si sente dire da alcuni che i bambini siano consensuali. Non è possibile: i bambini non sono in grado di consentire, non hanno la maturità sessuale. Dunque è sempre violenza.

Di fronte allo scandalo uscito sui media fonti ecclesiastiche sostengono che il fenomeno della pedofilia nella Chiesa sarebbe molto più circoscritto di quanto dicano i media perché in parte si tratterebbe di rapporti etero (con minori) in parte di efebofilia.

Ho letto un articolo di recente in cui un esponente del clero diceva: non siamo mica solo noi che lo facciamo nei seminari, lo fanno anche in altri luoghi. E con questo? Vuol dire che è meno grave? Dire efebofilia significa che se ha, mettiamo, 13 anni si può fare? Sono allibita. Non ho parole.

IL LIBRO. SULLE ORME DI CIRCE

mero potrebbe non avercela raccontata giusta su Circe e sui suoi poteri magici. La dea terribile che l’Odissea ci presenta , «la strega pronta a umiliare i viandanti e a sottrarli al mondo umano», forse non era davvero tale, nella materia orale e polisemica del mito alle sue origini. A sostenerlo sono  Maurizio Bettini e Cristina Franco  ne Il mito di Circe, immagini e racconti dalla Grecia a oggi appena uscito per Einaudi. Lo stesso Plutarco ci racconta una diversa storia della maga che incantò Ulisse e tramutò i suoi compagni in porci. è una Circe, la sua, «molto amabile e comprensiva con il rude e arrogante condottiero», annota il filologo classico dell’Università di Siena, che per la casa editrice torinese sta preparando una collana di volumi per conoscere più da vicino i miti che la Grecia antica. Miti che sono stati riletti e rielaborati da pittori e scrittori nel corso di molti secoli successivi. Il caso di Circe è, in questo senso, paradigmatico. Seguirne le avventure nell’iconografia lungo i secoli permette anche di riscontrare quanto sia lunga l’ombra di quella nera  ambivalenza che Omero le attribuì.

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Modì, da Fattori a Picasso

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 19, 2010

La sua ricerca, fra tradizione e avanguardia, è ripercorsa in una mostra al meonato museo Maga di Gallarate

di Simona Maggiorelli

Nodigliani, Nudo disteso, 1918

Fu un anno denso di eventi quel 1906 in cui Amedeo Modigliani arrivò a Parigi con l’idea di dedicarsi totalmente all’arte. Un anno di separazione e di svolta. Non solo per la vita del provinciale Modì che nella capitale francese poté fondere il suo amore per le linee pure dei maestri del Trecento italiano con una nuova passione per l’Arte Negre conosciuta al Musée de l’Homme. Maschere evocative anche quando appena sbozzate. Fino al punto da sembrare opere astratte. Scultoree figure di donna e idola dal fascino magnetico da cui Modì trasse nuova linfa per le sue flessuose donne dal collo lungo e per i ritratti di amici, artisti, intellettuali e compagni di bevute. Via da una Livorno asfittica e macchiaiola, Modì trovò un suo nuovo respiro scoprendo la forza dei colori inventati di Matisse e le aspre scomposizioni di Picasso che nel 1907, a un anno dalla scomparsa di Cézanne , dipinse un’opera dirompente come Les demoiselles d’Avignon, entrata nella storia come l’inizio del cubismo. A Parigi, come ricostruisce Beatrice Buscaroli nella biografia Ricordi via Roma. Vita e arte di Amedeo Modigliani appena uscita per Il Saggiatore, Modigliani trovò la sua strada sul crinale impervio fra tradizione e avanguardia.

Ma non smise mai di cercare. Spinto dall’urgenza di un “sogno” di bellezza che lo accompagnava fin da ragazzino. Dalla potenza di un’immagine interiore da realizzare in forme e colori. («Io sono ricco e fecondo di germi ormai e ho bisogno dell’opera» scriveva all’amico Oscar Ghiglia). Sostenuto da un’idea tirannica che l’arte fosse al di sopra di ogni cosa e che lo rese “spietato “con chi aveva accanto. (« Noi – scriveva ancora a Ghiglia – abbiamo dei diritti diversi dagli altri, perché abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al di sopra della loro morale»). Un percorso breve e folgorante quello di Modì. Che si interruppe precocemente nel 1920. Nel gennaio di quell’anno l’artista morì di leucemia e la sua giovane compagna, incinta, si gettò dalla finestra. E proprio sul filo di questo drammatico intreccio di tensioni fra biografia e arte si snoda la mostra Il mistico profano, omaggio a Modigliani. Una rassegna che, fino al 19 giugno, raduna nel neonato museo Maga di Gallarate una messe considerevole di documenti, fotografie e lettere autografe a partire da quel fatidico 1906 che segnò l’inizio dell’avventura parigina di Modì. Documenti provenienti da Casa Modigliani e che fanno da tessuto connettivo ai venti dipinti di Modì prestati da musei e collezioni italiane e a una cinquantina di disegni, fra i quali «le fantasie disegnate» ispirate all’amata Commedia dantesca di cui l’artista recitava a memoria interi canti. Proprio alcuni schizzi preparatori ritrovati sono la maggiore novità di questo omaggio a Modì curato da un team guidato da Claudio Strinati. L’importanza di questa scoperta è ricostruita in alcuni saggi contenuti nel catalogo edito da Electa.

daleft-avvenimenti del 19 marzo 2010

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I migranti che salvano l’Italia

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 19, 2010

Un grosso grazie campeggia sulla copertina del viaggio di Staglianò nel Belpaese immigrati. Mentre una messe di nuovi titoli documentano quanto abbiamo bisogno di loro.

di Simona Maggiorelli

Let's get married

Si intitola Grazie il nuovo libro inchiesta di Riccardo Staglianò sugli immigrati in Italia. Un “grazie” scritto a lettere cubitali sulla copertina del volume, fresco di stampa, pubblicato da Chiarelettere. Perché, come recita il sotto titolo «senza gli immigrati saremmo perduti». Così, dopo il dirompente viaggio nei sogni, nelle aspirazioni e nella vita quotidiana dei cinesi in Italia affidato alle pagine di Miss Little China (Chiarelettere), il giornalista di Repubblica ci guida qui alla scoperta di quell’economia sommersa su cui si fonda il “sistema Italia” che ha un assoluto bisogno di immigrati che lavorino a nero, che si vedano costretti ad accettare stipendi da fame pur di non perdere quel permesso di soggiorno che viene loro «concesso» solo se hanno un contratto. Il rischio è precipitare in una condizione di clandestini senza diritti; una condizione che questo governo di centrodestra ha scandalosamente tramutato in reato. «In Italia – chiosa Staglianò – si respira una brutta aria e non si vedono segni di miglioramento». Difficile intravederne in un Paese in cui le ordinanze di “civilissimi” comuni del Nord arrivano a prevedere 500 euro in più nella busta paga dei poliziotti che scovano un clandestino. E che prevedono sanzioni amministrative per gli immigrati che si azzardino a fare i lavavetri ai semafori. è lo stesso Staglianò a ricordarci utilmente che l’ultimo Ambrogino d’oro (la medaglia milanese al civismo) è stato assegnato al Nucleo di tutela trasporto pubblico dell’Atm di Milano «quelle squadre di super-controllori con licenza di sequestro che hanno rastrellato e rinchiuso in una specie di bus prigione presunti clandestini beccati senza biglietto». è l’Italia degli immigrati indispensabili e maltrattati, delle badanti e colf al lavoro 24 ore su 24, delle prostitute hard discount e via di questo passo lungo la strada discendente di questo nostro “Belpaese”. Un libro da tenere sul comodino, da leggere e da regalare per riflettere seriamente, almeno in occasione delle due giornate del migrante indette per questi 20 e 21 marzo dalla Cgil in concomitanza con la Giornata internazionale contro il razzismo promossa dall’Onu. Ma utilmente si potrà aggiungere anche qualche altro titolo per approfondire altri tratti di questa Italia razzista: per esempio Il paese delle badanti, il saggio di Francesco Vietti uscito di recente per Meltemi e il libro Gli africani salveranno l’Italia (Bur) in cui Antonello Mangano ripercorre la rivolta alle ’ndrine dei lavoratori immigrati di Rosarno, che hanno osato quello che gli italiani “autoctoni” non hanno ancora trovato il coraggio di fare. E ancora, per capire la disperante situazione di solitudine in cui i migranti si trovano a vivere qui da noi, Famiglie in movimento, separazioni, legami, ritrovamenti nelle famiglie migranti di Ambrosini e Abbatecola per il Nuovo Melangolo e sulle contraddizioni della legge sui respingimenti, Contro il reato di immigrazione clandestina di Giancarlo Ferrero che fa vedere come la legge italiana che introduce il reato di clandestinità sia affetta «da gravi imprecisioni tecniche, da numerose violazioni costituzionali e da un elevato costo a carico dello Stato». Affrontando anche il cosiddetto «respingimento collettivo» che, di fatto, fa venire meno il diritto d’asilo. Parliamo di studi usciti tutti nel 2010. Segno che c’è anche chi non vuole più chiudere gli occhi.

da left-avvenimenti  del 19 marzo 2010

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Le immagini della libertà

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2010

A Palazzo Grassi a Venezia la mostra La joie de vivre 1945-48. Alla fine della guerra, sulle tele di Picasso un’esplosione di colori

di Simona Maggiorelli

Un’immagine femminile che danza, alzandosi leggera sopra l’orizzonte del mare. In mezzo a fauni e a creature fantastiche che suonano il liuto. Una musica segreta che possiamo solo immaginare, dà il ritmo alla scena insieme ai timbri d’azzurro. I giochi di luce, il movimento della donna, le sue curve morbide, l’esplosione dei colori del Mediterraneo; tutto concorre ad evocare uno scenario primitivo, mitologico, percorso da una sorta di gioia panica.
Per Picasso questo Baccanale azzurro è l’immagine della voglia di vivere, della liberazione,dopo gli anni bui della guerra. E’ l’estate del 1946, il pittore spagnolo si è ritirato ad Antibes, ospite del castello Grimaldi. Ha una nuova e giovane compagna, la pittrice Francoise Gilot. E questo grande dipinto su fibrocemento ( che alla sua partenza nel novembre del 1946 Picasso lascerà nel salone della fortezza) sarà per lui l’opera simbolo del ritorno alla vita dopo la distruzione e l’insensata violenza del conflitto mondiale. Più ancora della colomba di pace, realizzata per il congresso del Partito comunista. Anche per questo intorno al murales de La joie de vivre Jean-Louis Andral, direttore del museo di Antibes e curatore della monografica che si apre l’11 novembre in Palazzo Grassi a Venezia ha raccolto un percorso di oltre duecento opere di Picasso, fra pitture, disegni, incisioni, sculture, ceramiche, molte delle quali realizzate fra il 1945 e il 1948 (e che escono per la prima volta dal museo di Antibes e daa collezioni private). Una stagione creativa prolifica per l’artista spagnolo che si diverte a giocare con un immaginario inventato di Eden mediterraneo, fra la riscoperta di antiche mitologie pagane, richiami all’arte primitiva e rielaborazioni di temi cari a Matisse che, nella vicina Nizza, Picasso con Francoise, andava a trovare. Ma quella fine estate del ’46 trascorsa ad Antibesportò con sé anche la scoperta della terracotta e della ceramica, complice la vicina Vallauris e la sua antica tradizione di laboratori di vasai. Nasceva così la copiosa serie di vasi, ciotole, piatti dipinti, mentre in parallelo Picasso portava avanti la sua ricerca pittorica utilizzando i supporti più insoliti. Al fiorire delle immagini nella mente dell’artista non faceva di certo argine la scarsità di materiali e di mezzi dell’immediato dopoguerra. Così ecco la serie dei murales, i quadri su tele riciclate, le pitture su legno con ripolin, carboncino e grafite. Ed ecco le sue nature morte di animali marini, immersi in un’accecante luce bianca e segnate dalle forti linee nere di persiane a graticcio che ricordano certe tele di Matisse. E un fiorire di nudi di Francoise scomposti in un gioco di rotondità e di spigoli, e poi i suoi molti ritratti,di fronte, ieratici come quelli dei mosaici bizantini o che sembrano evocare l’immagine di fantasia di una donna-fiore dal collo straordinariamente allungato. Un’immagine femminile che cambia di continuo, di continuo ricreata, eppure, forse per quella massa generosa di capelli o per qualche altro segno che ritorna di quadro in quadro, che sembra raccontare qualcosa di preciso, di intimo, di profondo del movimento, della personalità, indipendente e solare, di Francoise. Sotto l’impietosa scomposizione della figura fisica, tratti così essenziali ed individuati da scatenare- così raccontra Andral – tempestose crisi in Dona Maar. Che si vide preannunciare la prossima e definitiva separazione da Picasso dal comparire sulla tela di una nuova immagine femminile.

Da left-avvenimenti del 10 novembre 2006

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La nuda verità secondo Goya

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2010

In Palazzo Reale a Milano fino al 27 giugno una grande mostra dedicata al maestro spagnolo

di Simona Maggiorelli

Goya, autoritratto, 1815

Liberare Goya dai vecchi e logori schemi interpretativi che ne fanno un maestro ermeticamente chiuso in suo mondo silenzioso, abitato da cupe visioni notturne. Cercando di restituire la trama complessa delle tensioni e delle inquietudini che percorrono la sua pittura e che la rendono ancora oggi viva, capace di toccare profondamente lo spettatore. Nasce con questa intenzione critica alta la mostra Goya e il mondo moderno che si apre il 17 marzo in Palazzo Reale a Milano (fino al 27 giugno, catalogo Skira). Un’iniziativa nutrita di prestiti importanti dal Prado e dal museo di Saragozza (in tutto si contano una cinquantina di opere del maestro spagnolo fra le quali L’autoritratto del 1815 e numerose stampe dai Disastri della guerra).

Di fatto una mostra “kolossal” che in cinque sezioni a tema si propone di ripercorrere le principali invenzioni artistiche di Goya, quelle  destinate a una lunga durata nella fantasia e nelle rielaborazioni di pittori e scultori dei secoli successivi. A cominciare dal modo di dipingere il nudo di donna. Basta ricordare qui che la Maya desnuda di Goya sedusse perfino Picasso a tentarne una ricreazione in forme nuove. Ma, restando ai quadri esposti a Milano, una lunga e fertile influenza sull’arte del XX secolo ebbero anche i corrosivi ritratti di nobili e re che Goya dipinse in pose convenzionali e in abiti sfarzosi, lasciando però affiorare sui volti e nelle espressioni la loro assoluta vacuità interiore.

Goya, La lattaia di Bordeaux (1826)

Tele, come quella in cui campeggia uno spettrale Carlo II, formalmente rispettose dei canoni tradizionali della ritrattistica settecentesca ma, a uno sguardo attento, crudelmente rivelatrici per l’immagine latente che portano in primo piano. Così opere come il Ritratto del duca de San Carlos o come il Ritratto di don Juan Martin Goicoechea di Goya in Palazzo Reale sono esposte accanto a dipinti coevi dell’illuminista David in un confronto schiacciante: da un lato penetranti ritratti che fanno aprire gli occhi sulla natura parassitaria della corte borbonica e sull’inconsistenza umana dei suoi rappresentanti che chiedono a Goya di essere “eternati” con l’arte. Dall’altra ritratti monumentali, idealizzati, retorici, con cui il rivoluzionario David celebra il tiranno Napoleone. E sarà proprio questo speciale talento di “scavo psicologico” a fare di Goya un pittore amatissimo da quegli artisti che fra fine Ottocento e primi del Novecento rivoluzioneranno la ritrattistica affrancandola definitivamente dalla piattezza fotografica. Ma non solo.

La mostra Goya e il mondo moderno suggerisce anche nessi più arditi, ipotizzando che certi sferzanti ritratti di Grosz abbiano tratto linfa proprio da quella fedeltà alla verità più profonda delle cose che Goya anteponeva a tutto, da quella sua capacità di «guardare ciò che tutti hanno davanti agli occhi e fingono di non vedere» per dirla con le parole di Claudio Strinati. Un coraggio di vedere e di rappresentare ciò che si è visto o intuito che in Goya come in Grosz diventa gesto politico di denuncia. Anche se il pittore espressionista tedesco scelse la strada di una secca semplificazione caricaturale. Proprio quella scorciatoia che Goya aveva sempre rifiutato anche quando si era dedicato all’incisione e alla stampa di scenette grottesche di gusto popolare. E ancora alla dura verità dei quadri di Goya, secondo i curatori della mostra Valeriano Bozal e Concepción Lomba, si sarebbe rivolto poi anche Francis Bacon nell’ideazione dei suoi scomposti e angosciati ritratti. Un accostamento che può far storcere il naso a qualcuno ma che, di fatto, mostrando dal vivo ritratti di Goya e di Bacon fianco a fianco fa immediatamente risaltare quel carattere di profonda umanità e di fiducia nei propri simili che, al fondo, Goya non perse mai, anche nei momenti più cupi della restaurazione imposta da Ferdinando VII, della guerra, del ripristino dell’inquisizione. Anche quando immagina i Disastri della guerra, la sua visione non è mai nihilista. Perfino quando, ormai sordo, concepì le pitture nere, i suoi mostri e incubi notturni restano un monito contro una violenza e una distruttività che Goya non avvertiva come un destino ineluttabile per gli uomini. Nella sua pittura ritroviamo un interesse verso l’umano che, per esempio, il visionario Bacon non ebbe mai, attratto com’era dalla raffigurazione di corpi in disfacimento, e che non rimandano ad altro oltre se stessi, se non a un’astratta idea di un’angoscia esistenziale che secondo il pittore irlandese sarebbe universale. Qui come nelle aree della mostra milanese dedicate all’irrazionale, al sogno, o in quelle dedicate alla “violenza”, al grido”, per differenza con opere di simbolisti e romantici (Klinger, Daumier, Rops, Hugo), di espressionisti (Kirchner, Kubin, Dix, Grosz), fino all’informale De Kooning, appare declinata una rilettura di Goya in chiave “progressista” e che trova il suo climax in un quadro che il pittore spagnolo dipinse quando aveva più di 80 anni e con uno stile completamente nuovo. Talmente originale da far ipotizzare ad alcuni studiosi che non fosse suo ma opera di sua figlia, Rosario (che però nel 1826 aveva 12 anni). Certo è che l’improvviso schiarirsi della tavolozza, l’aria trasparente e mattutina, il movimento del corpo e quell’espressione vagamente velata di tristezza della donna rappresentano un cambiamento totale rispetto alla Quinta del sordo di poco precedente. Goya nel frattempo si era trasferito in Francia. «Sordo, vecchio, malato e senza sapere una parola di francese» ma, raccontava il suo amico Maratin, ancora «contento e ansioso di conoscere il mondo».

IL LIBRO. IN CERCA DEL TESCHIO DI GOYA

«Dovendo qui fare la storia di un teschio, storia già definita orripilante, mi sembra giusto e coerente presentarvelo fin dall’inizio, quando era ricoperto di pelle e conteneva uno dei più ricchi cervelli di cui mai abbia potuto godere un uomo». Comincia così L’orripilante storia del teschio di Goya , l’omaggio spassoso e coltissimo che lo storico Juan Antonio Gaya Nuño ha dedicato al geniale pittore spagnolo, partendo da un fatto di cronaca dal sapore necrofilo: ovvero la scomparsa del teschio di Goya dalla sua tomba nella chiesa di San Antonio della Florida a Madrid.  Un teschio rubato, forse smarrito, forse sottratto per antiche superstizioni (impossessarsi del teschio di un defunto significava assorbirne lo “spirito vitale”) alla resa dei fatti poco importa. Il fatto curioso  nel libro di Gaya Nuño (che dal 25 marzo Skira manda in libreria ) diventa un eccellente espediente narrativo per un affresco storico di cui Goya è protagonista. Mettendo così a segno una insolita e divertente biografia d’artista,  che ora esce corredata da un ricco apparato di  acquerelli e incisioni.

da left-avvenimenti, 12 marzo

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Sulla pelle di Ipazia

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 15, 2010

di Simona Maggiorelli

 

Ipazia di Raffaello nell’affresco La scuola di Atene

La Chiesa copta in Egitto ritiene che i secoli che precedettero il 640 d.C e la nascita dell’Islam siano solo di propria ed esclusiva competenza. Un fatto inaccettabile e insensato. Non vedo perché un musulmano  non possa dedicarsi alla storia del proprio Paese, compresa quella preislamica». Con queste parole lo scrittore egiziano Youssef Ziedan rispondeva  un paio di anni fa agli strali che la Chiesa egiziana lanciava contro il suo  Azazel, il romanzo storico, vincitore del Premio internazionale della letteratura araba (in Italia  è pubblicato da Neri Pozza) in cui lo studioso, direttore del fondo manoscritti arabi della biblioteca di Alessandria, racconta il vivace intreccio di culture che animava la città nel V secolo, ma anche la ferocia con cui i cristiani imposero il proprio credo come religione ufficiale, distruggendo il patrimonio culturale preesistente e uccidendo barbaramente intellettuali come Ipazia.

Professor Ziedan in Azazel il padre del monaco Ipa viene ucciso dai cristiani. Nonostante questo lui assisterà impassibile all’assassinio della donna amata. Quali sono le radici di tanta ferocia cristiana?
Gli uomini, purtroppo, possono essere capaci di distruzione e violenza. La storia lo insegna. Ma quando qualcuno arriva a dire che la violenza è giustificata da dio, allora è illimitata. Può accadere qualsiasi cosa. Si arriva a  torturare e uccidere altri esseri umani nascondendosi dietro il fatto che sia per volontà divina. Il romanzo parte dalla prima metà del V secolo d.C e percorre un lungo periodo  punteggiato di efferate violenze. E tutto perché un giorno un uomo è venuto e ha detto io parlo in nome di dio.

 

Un capitolo è dedicato ad Ipazia. Al fondo cosa scatenò la sua uccisione?
La scuola pitagorica di Samo faceva studiare anche le donne. E questo fu il suo “crimine” . Perciò fu costretta a trasferirsi ad Alessandria che, con la sua enorme biblioteca era un vivo centro culturale. Di generazione in generazione la scuola alessandrina dette un contributo importante allo sviluppo dell’astronomia, della geografia, della matematica. E non solo. Qui fu completato il lavoro di Pitagora. Ed in questo contesto si formò questa straordinaria figura di scienziata e di filosofa, che  i suoi contemporanei dicono essere stata anche una bella donna. Ma nel V secolo il cristianesimo aveva intrapreso  la strada del potere.  E personaggi come il vescovo Cirillo furono campioni di violenza. Non solo distruggendo il Museo di Alessandria e le statue di Apollo, ma anche con campagne di pulizia etnica a danno di chi non era cristiano.  Così gli uomini di fede condannarono Ipazia sbranandola pezzo a pezzo. Nel romanzo ho cercato di raccontare questa enorme tragedia.

In Italia il film che Amenabar ha dedicato a Ipazia non è ancora arrivato:  ha incontrato molte “difficoltà di distribuzione”. Che cosa ne pensa?
è accaduto qualcosa di analogo in Egitto: il film ha avuto una circolazione molto limitata. La Chiesa ha cercato di screditarlo dicendo che contiene molte bugie. Io l’ho visto  in uno di quei piccoli circoli culturali che ancora lottano perché il film possa essere distribuito nelle sale. Quello che posso dire è che  c’è un solo errore.

Ovvero?
Il regista mostra Ipazia mentre viene uccisa da un suo servo di nome Davus. Un’invenzione che diviene un grave errore storico. Molti documenti dicono che le cose non andarono così. Che motivo c’era per cambiare la verità del suo assassinio per mano di un gruppo di monaci? Nonostante questo finale il  film è stato attaccato pesantemente dalla Chiesa.

Hanno fatto lo stesso con il suo libro?
Sì, ma non sono riusciti a bloccarlo vista la grande attenzione che ha ricevuto da letterati e media  in Egitto. Un vescovo copto ha scritto ben quattro volumi contro Azazel. Per giunta dei libroni! Un altro ha detto che questo libro distruggerà la Chiesa cristiana. In che modo? Ho chiesto. Se un romanzo può distruggere la religione cristiana allora basta davvero poco. Comunque sia non sono riusciti a fermare la curiosità dei lettori. Siamo già alla diciassettesima edizione.

Nel libro ci sono immagini femminili particolarmente belle. Per esempio Ottavia che tenta di aprire gli occhi di Ipa sulla misoginia di Aristotele e sulla crudeltà cristiana. L’imposizione della Madonna come modello di vergine e madre uccide donne così?
La religione cristiana indubbiamente non favoriva la libertà delle donne che erano sottoposte  agli uomini e a dio. Prima dell’Antico testamento, in tutta l’area del medioriente, dall’Egitto alla Mesopotamia,  il culto più diffuso era quello delle dee. Ishtar, Hinanna, Atena, in ogni regione c’erano dee. Ma con la Bibbia cominciò la storia che le donne dovevano consacrarsi alla famiglia, altrimenti diventavano il “male”. Una spaccatura tipica del pensiero cristiano. Nel mio primo romanzo The shadow and the serpent ho cercato di raccontare come, a poco a poco,  la donna sia “diventata  il diavolo” anche nella nostra cultura. La religione occupa un posto di rilievo in Egitto . Anche da noi c’è “una questione della donna”. Ma si pone in modo diverso da come si articola nella cristianità. Oserei dire che, sotto certi aspetti, l’islam tiene in maggiore considerazione il femminile.

La riflessione sull’amore e sul rapporto fra uomo e donna sono al centro dei poemi e del misticismo sufi?
La tradizione sufi dice che il divino si esprime nella bellezza della donna e che il sesso  femminile è la porta per la bellezza divina. Fu in particolare una poetessa a fare dell’amore il fulcro del sufismo islamico. Ma, come ben sappiamo il pensiero sufi rappresenta solo una piccola parte della galassia islamica.

da left-avvenimenti 12 marzo 2010

LUn ritratto di Ipazia firmato da Eva Cantarella:

Corriere 19.10.13
Ipazia filosofa, matematica e astronoma martire civile del fanatismo cristiano
di Eva Cantarella

Accadde ad Alessandria d’Egitto, nel mese di marzo del 415 a.C.: una donna venne crudelmente assassinata, le sue carni fatte a brandelli, gli occhi cavati dalle orbite, i resti dati alle fiamme. L’assassino non era un marito o un amante tradito, un maniaco o un serial killer… A ucciderla fu una folla inferocita. Perché? La donna si chiamava Ipazia, ed era un’esponente di spicco dell’aristocrazia ellenica. Iniziata allo studio dal matematico Teone, suo padre, Ipazia insegnava matematica, astronomia e filosofia nella scuola platonica, di cui si dice fosse il capo. C’era chi diceva che la sua sapienza superava quella dei filosofi della sua cerchia. Una posizione eccezionale per una donna, ai tempi (e non solo). Ma non fu la misoginia la causa della sua morte. Si colloca invece all’interno dalla lotta che per secoli oppose paganesimo e cristianesimo. A distanza di un secolo dall’Editto di Costantino che aveva concesso ai cristiani libertà di culto, il potere imperiale aveva dichiarato guerra ai culti pagani. Dal 319 il cristianesimo era religione di Stato, e le costituzioni imperiali arrivavano a stabilire la pena di morte per i pagani. Ad Alessandria, poi, il vescovo Cirillo si distingueva per un atteggiamento particolatamente violento e persecutorio. E al suo servizio agiva un gruppo di fanatici estremisti, i «parabalani», monaci del deserto egizio provenienti dalle file degli zeloti. Furono loro gli assassini di Ipazia. L’orrore e la bestiale crudeltà del massacro sconvolse il mondo della cultura dell’impero romano d’Oriente. E sconvolge ancora, dopo 1.500 anni.

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