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Stefano Bollani e il genio Dada

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 26, 2014

Stefano Bollani

Stefano Bollani

Il 27 luglio il pianista e compositore Stefano Bollani  debutta al Mittelfest. Nell’inedita veste di attore. Intanto prosegue il tour con Hamilton De Holanda. E, a fine agosto, uscirà il suo nuovo cd con Bill Frisell e Mark Turner

Un fantasma si aggira per il Mittelfest. È quello della Regina Dada, la nuova creatura uscita dalla fantasia del poliedrico pianista e compositore Stefano Bollani, che debutta in insolita veste di attore, al fianco dell’attrice Valentina Cenni. Insieme hanno scritto lo spettacolo che andrà in scena in prima assoluta a Cividale del Friuli il 27 luglio. «In realtà non si tratta di un solo fantasma ma di ben cinque», racconta il musicista durante una pausa delle prove. «E io dovrò darmi da fare per passare dall’uno all’altro, mentre la Regina Dada che dà il titolo allo spettacolo intraprende un percorso emozionale, interiore, alla scoperta di se stessa». Per scoprire cosa alla fine? « Non si può svelare», risponde Bollani con aria divertita. «Diciamo che fa un viaggio nei boschi delle avanguardie, cercando di reinventarsi. In scena c’è anche un’altra presenza interessante, quella del dio Pan, che non ha nulla a che fare con il dio trascendente, ma è una divinità in parte sparita, sopravvissuta dall’antico e che purtroppo non si vede più molto in giro». Che cosa vuole indicare questa figura? «Rappresenta il tutto… volando osare, in base alle nuove acquisizioni della fisica, siamo noi», abbozza il musicista. «Ma non mi spingo oltre».

Valentina Cenni

Valentina Cenni

Sul piano drammaturgico che ruolo gioca il dio Pan? « Lo abbiamo usato come un Arlecchino, come una sorta di maschera, per poter dire altro, per andare oltre il senso letterale». E se il dio Pan era una figura fantastica che Stefano Bollani  ragazzino aveva cominciato ad amare leggendo romanzi come Profumo di Jitterburg di Tom Robbins, anche il Dada di inizi Novecento, con il suo piglio dirompente e con i suoi caustici fotomontaggi che sbeffeggiavano Hitler, è stato una sua passione giovanile. «Del teatro Dada, in particolare, mi è sempre piaciuto il suo andare contro le convenzioni ma anche un certo modo di giocare con i linguaggi, con i movimenti, con la musica, con le aspettative del pubblico per ribaltarle evitando tutto ciò che è scontato. Credo che questa sia la grande lezione storica del Dada, che puoi applicare al teatro, alla musica, ma anche a te stesso e alla tua vita». D’altro canto tutta la ricerca musical-teatrale di Stefano Bollani sembra inseguire il sogno dell’arte totale che fu di Kandinsky e, prima di lui, di Wagner. La Regina Dada, per questa via, mette insieme una quantità di linguaggi diversi. C’è l’elemento panteistico portato dal dio Pan e si cerca l’effetto sinestetico, fondendo suoni, immagini, colori. Sperimentando a 360 gradi. «Mai come ora le musiche e il sound design realizzato da Tempo Reale sono dentro alla trama dello spettacolo, così come le luci. Non essendoci un vero e proprio regista a questo punto direi che siamo un collettivo. Che poi in scena ha reinventato lo spettacolo. Io mi ero chiuso in casa a scrivere e, senza l’intervento di tutti, poteva rischiare di diventare verboso».

Bollani Ecm

Bollani Ecm

Pianista jazz, compositore, show man fuori dalle righe (vedi il suo Sostiene Bollani in tv) ma anche divulgatore con libri come Parliamo di musica (Mondadori) e ascoltatore onnivoro di musica – da Frank Zappa, alla classica e alla bossanova- Bollani non ama compartimentazioni e steccati. Anche nelle prossime settimane, con l’agilità di un Fregoli, improvviserà un concerto di piano solo il 26 luglio al Mittelfest, avendo nel frattempo viaggiato in su e giù per l’Italia con il mandolinista Hamilton de Holanda, musicista di spicco della scena brasiliana. Dopo il debutto a Umbria jazz il duo è approdato il 23 luglio a Carrara per il festival Lunatica e farà altre date a novembre 2014.

Ma lo spunto è solo in parte il disco, O Que Sera (Ecm), che i due musicisti hanno registrato assieme. «In realtà scegliamo di volta in volta cosa suonare», racconta Bollani. «Amo procedere così con quasi tutti i gruppi. Eccezion fatta per le orchestre sinfoniche ovviamente: se sei sul palco con sessanta elementi bisogna sapere cosa di suona. Ma se sono da solo, in due o in trio, scelgo sul momento, andiamo a braccio a seconda dell’umore della serata che è al 95 per cento improvvisata». In tutto questo a fine agosto Bollani troverà anche il tempo per volare a Copenhagen per alcuni concerti in occasione dell’uscita di un nuovo cd pubblicato dall’etichetta Ecm. «Un disco che ho realizzato con due miei amici danesi. In più ci sono Mark Turner al sassofono e Bill Frisell alla chitarra», dice Bollani. «I primi concerti li faremo in Danimarca, ma il disco uscirà in contemporanea anche in Italia». Il titolo del cd suona già come un programma : Joy despite of everything, “gioia nonostante tutto”. «Si tratta di una citazione da Tom Robbins, autore che ho riscoperto oggi. In tutte le interviste ama dire di sé che cerca di vivere e di raccontare la gioia, alla faccia di tutto. Ecco, sì, questo potrebbe essere il vero titolo del disco, più che “gioia nonostante tutto”, direi proprio “gioia alla faccia di tutto”!». (Simona Maggiorelli)

 

dal settimanale left

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Macbeth d’Arabia

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 19, 2012

Andrea Battistoni

Andrea Battistoni

«La musica di Verdi è universale, travalica i confini», dice il Maestro Andrea Battistoni che ha diretto il Rigoletto in Oman. E a gennaio sarà sul podio del Teatro Carlo Felice di Genova per un nuovo allestimento del Macbeth

di Simona Maggiorelli

Dopo “gli anni della galera”, di lavoro  matto e disperatissimo, «Macbeth fu l’opera di svolta per Giuseppe Verdi» racconta il Maestro Andrea Battistoni (classe 1987) che dal 19 gennaio dirigerà al teatro Carlo Felice di Genova proprio questo titolo verdiano: il decimo per il giovane direttore d’orchestra veronese da quando, nel 2010, salì sul podio del  teatrino di Busseto per Attila.

«Con l’exploit di Nabucco, Verdi aveva innervato la tradizione del belcanto della sua energia di grande compositore pur restando nell’alveo della tradizione», rileva Battistoni. «Ma nel 1847 con Macbeth comincia davvero una grande ricerca nel linguaggio operistico». I personaggi, derivati da Shakespeare, nell’opera «non sono più delle marionette, un pretesto per ascoltare i virtuosismi del cantante, ma cominciano a essere indagati nella loro psicologia. E questo – spiega Battistoni – si traduce in una tinta orchestrale che non è più semplice accompagnamento ma è atmosfera scura e drammatica. Non c’è più il nobile coro del popolo del Nabucco ma il coro delle streghe. Che Verdi caratterizza in maniera grottesca, spaventosa, coinvolgente. I protagonisti shakespeariani vengono vestiti di una musica del tutto nuova e profonda».

In linea con le intuizioni di Shakespeare, Verdi voleva una Lady Macbeth «brutta e cattiva». Con «una voce aspra, soffocante, acuta…» .

Lady Macbeth è un personaggio sfaccettato, ha un’anima doppia, fredda, calcolatrice, malvagia. Non è più un’eroina come Abigail, tutta di un pezzo, ma ha un colore veramente tragico. Perciò necessita di una vocalità potente, drammatica, chiamata a effetti di grande difficoltà. Dall’altro lato, però, Lady Macbeth entra in scena leggendo una lettera. Non con voce da cantante, ma d’attrice. È il segno che Verdi vuole dare al personaggio per legarlo da subito, a quello shakespeariano.

Ha diretto Verdi anche in Oman. Come ha reagito il pubblico di Muscat?

La musica di Verdi, come quella di Puccini e di Rossini, può essere un viatico importante per entrare in questo linguaggio internazionale che è la lirica. Le opere più popolari possono parlare sul piano dell’emozione, coinvolgere, trasportarci in un mondo altro che poi è la bellezza del mondo musicale. A Muscat ho potuto constatarne la forza: l’unione perfetta della voce con la scena, con l’azione, se la regia è fedele non tanto all’ambientazione e all’epoca storica quanto al movimento della musica, genera un’opera d’arte che può toccare qualsiasi pubblico, di ogni estrazione musicale e provenienza. L’Oman ha una tradizione musicale diversissima dalla nostra. La risposta è stata molto bella. Anche se un po’ sorpresa.

In che senso sorpresa?

L’Oman è un Paese dove le donne vanno al mare coperte e separate dagli uomini, vedere il duca di Mantova in Rigoletto che seduce ragazzine illibate a destra e a manca ha suscitato qualche mormorio. Però poi è la potenza della musica, l’universalità delle emozioni che suscita, ad andare oltre anche alle convenzioni sociali. Verdi, coraggiosamente portò uno storpio in scena con Rigoletto, una prostituta con Traviata, andando a scardinare i pregiudizi. E ci colpisce profondamente. Ha un linguaggio internazionale che travalica i confini.

Dalle lettere di Giuseppe Verdi, di cui Einaudi ora pubblica un’ampia scelta, che immagine emerge?

Sono la testimonianza di un uomo, a mio avviso, straordinario. Verdi veniva dalla provincia più provinciale e contadina. Ma aveva il senso del lavoro, era disposto a sporcarsi le mani, a misurarsi. Fu uno dei compositori più longevi. Ed ebbe una evoluzione che conosce pochi paragoni. Quasi stentiamo a riconoscere la sua mano fra la prima opera e l’ultima, Falstaff. Vedo un grande segno di vitalità in quel suo non pensare mai di aver trovato il proprio linguaggio definitivo ma continuare a lavorare per togliere il superfluo e aggiungere più possibile sostanza. Con la sua continua ricerca e il suo non accontentarsi ha fatto un grandissimo regalo a tutti noi.

dal settimanle left-avvenimenti

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Una Rumba per l’Unesco

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 21, 2012

Lo scrittore cubano Miguel Barnet in difesa della Rumba: “E’ patrimonio dell’umanità l’Unesco dovrebbe riconoscere questa musica che è stato per secoli canto di libertà. Agli schiavi era stato tolto tutto, la loro unica rma era la creatività”

di Simona Maggiorelli

Nella storia cubana la Rumba e la sua tradizione orale sono state un elemento aggregante e di identità della comunità nera di origini africane, fin dai primi schiavi portati a Cuba, con violenza, dagli spagnoli. Anche per questo il ritmo sensuale e vitale della Rumba fu spesso censurato.

«Il sistema colonialista che è stato responsabile di quello che l’Unesco ha giudicato un crimine contro l’umanità, ossia la schiavitù, censurò tutte le espressioni culturali che gli uomini e le donne resi schiavi apportarono ai Paesi colonizzati», racconta lo scrittore Miguel Barnet, figura storica della scena culturale dell’Avana. «Le persone che poi furono schiavizzate furono rapite e messe in catene, molti morivano in alto mare a causa del tifo e della malaria. Tutte le espressioni che crearono furono censurate ma gli schiavi riuscirono comunque a sopravvivere grazie alla creatività», denuncia lo scrittore.

«Quanto alla Rumba in senso stretto è uno dei generi creati da uomini e donne neri non esattamente nell’ambito della schiavitù. Ma anche questo genere fu naturalmente censurato. Oggi la Rumba è una parte indissolubile della nostra identità culturale». Tanto che per lo stesso Barnet diventa il respiro profondo e il ritmo della scrittura, in libri come Autobiografia di uno schiavo (Einaudi) che ha rivelato Miguel Barnet al pubblico internazionale anni fa ma anche, e più esplicitamente, ne Le regine dell’Avana (Einaudi), in cui Barnet ci regala ritratti di donne cubane come “quadri musicali”. Lo scrittore cubano  è in questo giorni in Italia per sostenere  la compagna per il riconoscimento della “Rumba patrimonio dell’umanità”. «Io penso che la Rumba, di per se stessa, faccia già parte del patrimonio dell’umanità»,sottolinea. «Questo perché è nata a Cuba ma successivamente si è diffusa in tutto il mondo, internazionalizzandosi e divenendo globale, prima della cosiddetta globalizzazione. La Rumba è suonata in tutto il mondo, con moltissime varianti. Spero che l’Unesco voglia riconoscere tutto questo».

da left-avvenimenti

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Ada, voce di donna

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 15, 2012

Il 16 aprile all’Auditorium di Roma, Ada Montellanico presenta il suo nuovo disco Suono di donna. Un’originale viaggio nell’intrigante mondo della composizione al femminile. In dialogo vivo con Giovanni Falzone

di Simona Maggiorelli

Afa Montellanico

Le conoscevamo tutte, ma non le avevamo mai viste in questa luce. Da Joni Mitchell ad Abbey Lincoln, da Ani Di Franco a Carol King. La cantante e compositrice Ada Montellanico nel nuovo album ce le fa incontrare di nuovo, ricreandone i brani più famosi, regalando loro un diverso spessore con la sua straordinaria voce. In Suono di donna, il nuovo cd Egea che la cantante romana presenta il 16 aprile all’Auditorium di Roma, c’è spazio per la cantante Carmen Consoli, come per Bjork. Mondi musicali diversissimi. A far da filo rosso la ricerca che Ada Montellanico sta sviluppando in modo originale da anni intorno alla composizione al femminile. « Non ascolto solo jazz – racconta lei stessa – e quando ho pensato a questo progetto sono andata a cercarmi quelle personalità che per me rappresentavano qualcosa, per l’originalità della loro proposta musicale, ma anche per il modo con cui l’hanno sviluppata. Oltre che grandi interpreti e compositrici queste sono donne che hanno portato avanti un certo impegno culturale, che in qualche caso sono diventate anche produttrici per poter fare musica in autonomia, in modo integro, coerente. Sono donne che hanno deciso di ribellarsi a ogni conformismo». In tempi in cui non doveva essere certo facile, se pensiamo per esempio a decane come Abbey Lincoln scomparsa lo scorso anno a 80 anni. «Lei si è spesa molto anche in importanti battaglie per i diritti civili. Ma potremmo parlare anche di Carla Bley compositrice e direttrice conduttrice di orchestra per eccellenza nel jazz, classe 1938. Oppure di Maria Schneider che, sento molto vicina, anche per il suo modo particolarmente femminile. Ciascuna di queste donne ha creato uno stile alternativo, modernissimo».

Nel disco tu passi dal canto allo scat, con grande naturalezza e sprezzatura. Sperimentando a tutto raggio la tua espressività vocale. In un intenso dialogo fra voce e tromba con Giovanni Falzone. Come è nata questa collaborazione?

Ci siamo incontrati anni fa e per quanto lui viva a Milano e io a Roma, nel tempo abbiamo mantenuto un contatto stretto, scambiandoci dischi, scrivendoci, appassionandoci ai progetti dell’altro. Apparentemente siamo su due mondi opposti. Lui ha una formazione classica e si muove sul versante della musica contemporanea e d’avanguardia. Io sono più legata alla narrazione e alla melodia. Eppure quando mi è nata l’idea di questo disco ho pensato che lui fosse la persona giusta, non solo come ospite, ma anche come arrangiatore.

Una dialettica fra il timbro molto “maschile” della sua tromba e la tua voce così femminile, innerva e caratterizza tutto l’album, in cui compare anche un brano composto da voi due insieme.

Mi fa piacere che si percepisca questa dialettica. Devo dire che in alcuni punti la sua presenza mi ha spinta a cercare strade nuove “costringendomi” a tirare fuori una mia parte che forse era un po’ nascosta. Per me è sempre stata importante la ricerca sul canto come narrazione. Mi interessa un certo modo di mettere insieme suono e parola. Mi piace esplorare i toni bassi della mia voce, come se andassi a pescarli nel profondo. Giovanni ha creato questa possibilità che mi ha permesso di viaggiare dalla canzone in italiano per arrivare allo scat di cui necessitavano brani di Carla  e di Maria Schneider che non avevano parole.

Molto vitale è anche la presenza dell’ensemble in questo tuo nuovo lavoro. In tempi di crisi in pochi osano formazioni ampie.

Lo so, in tempi di crisi, vanno soprattutto i duetti, le formazioni ridotte. Per ragioni economiche. Ma io ho voluto osare. Sono tutti musicisti giovanissimi e di grande talento. Nell’album ci sono molti special orchestrali, mi piace modulare l’improvvisazione. Creare delle microstrutture dove o si lavora all’unisono o in contrappunto. La mia voce così diventa uno degli strumenti.

Nel disco due brani portano la tua firma. Sono molto rare le donne che si cimentano con la composizione. Come sono nati?

In realtà ho iniziato a comporre quando ho cominciato a sentire che le composizioni di altri mi andavano strette e volevo provare a dire certe cose a modo mio. Ma al tempo stesso non la ritengo questa una scelta obbligata, prioritaria. Interprete o compositrice per me va bene ugualmente, vorrei sentirmi libera di scegliere l’una strada o l’altra a seconda dell’esigenza espressiva. Certo è che la composizione e l’orchestrazione comportano uno studio della musica a un livello diverso. Ma è anche vero che in questo ambito noi donne facciamo fatica a trovare la nostra strada, una nostra dimensione femminile. Nel passare alla scrittura c’è sempre il rischio di un raffreddamento, di cadere nell’astrazione.

Trovare una “propria voce” non è sempre facile per una artista?

È difficile perché bisogna scavare in profondità, trovare una voce interna, profonda. La particolarità della voce poi è che è legata al corpo. È come se nella vocalità si realizzasse una fusione fra corpo e psiche. Esplorare nuove strade mi piace e questo riguarda anche la composizione, ma senza perdere il proprio essere donna. Alcune donne, compositrici e direttrici di orchestra tendono a imitare un modello maschile e allora l’operazione non riesce.

da left-avvenimenti

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La musica classica? Una passione contagiosa

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 15, 2012

A ventiquattro anni è salito sul podio della Scala di Milano. E ha già diretto opere nei maggiori teatri del mondo. “Il repertorio dei grandi compositori è fatto per i giovani”. Parola di un Maestro che ama il rock
di Simona Maggiorelli

Andrea Battistoni

E’ il più giovane direttore d’orchestra mai salito sul podio della Scala. Ha appena pubblicato il libro Non è musica per vecchi edito  da Rizzoli. E ha alle spalle già molte prime importanti al San Carlo, a La Fenice, all’Arena di Verona, la città dove è nato nel 1987. Ma il Maestro Andrea Battistoni non disdegna di suonare rock e ascoltare jazz. Anzi. «Sono un amante della musica a 360 gradi», racconta di sé confessando che nel suo personale Parnaso siedono Mozart e Beethoven  ma anche Frank Zappa, gli AC/DC e i Deep Purple. Intanto, mentre fino al 17 aprile proseguono le repliche delle “sue” Nozze di Figaro alla Scala («un’opera di grande freschezza» dice Battistoni «in cui la vitalità della musica di Mozart riesce a trasformare le maschere di Da Ponte in esseri umani mossi da passioni»), al Teatro Regio di Parma sono iniziate le prove di Stiffelio di Verdi che debutta il 15 aprile. «Un’opera poco rappresentata e che vale la pena di riscoprire perché  apre le porte agli sviluppi futuri di Verdi. Basta dire», sottolinea Battistoni, «che l’opera immediatamente successiva sarà Rigoletto. Poi verranno Trovatore e Traviata. Stiffelio ha già in nuce tutti gli elementi dei grandi capolavori. Ed è interessante vederlo come un cartone preparatorio dei successivi sviluppi dell’arte verdiana». Questa opera lirica in tre atti conobbe una riscoperta alla fine degli anni Sessanta proprio al Teatro Regio di Parma ed è qui che abbiamo raggiunto il Maestro telefonicamente. In attesa di incontrarlo poi al Maggio musicale Fiorentino dove,  il prossimo giugno, dirigerà Traviata.

Maestro Battistoni, il suo libro s’intitola Non è musica per vecchi. Una piccola provocazione per incuriosire il pubblico più giovane?
Senza voler offendere il pubblico più maturo che  già frequenta i teatri, ho cercato di parlare ai giovani che, di fatto, li disertano.
Colpa anche del fatto che l’Italia, diversamente dalla Germania e da altri Paesi europei, offre pochissima educazione musicale nelle scuole?
Conosciamo tutti qual è la situazione italiana nella scuola di base. Non mi riferisco ai conservatori ma proprio alle scuole dell’obbligo che dovrebbero fare di più per diffondere un amore, una conoscenza, per consentire un primo contatto, con la musica. Ma la responsabilità è anche nostra come interpreti e musicisti: troppo spesso ci rivolgiamo a chi già conosce questi repertori. Invece dovremmo toglierci i panni del musicista tradizionale che pensa a fare il proprio concerto per rivolgerci a persone che non masticano questo linguaggio e che potrebbero certamente appassionarsi a questo genere. Tocca a noi fare il primo passo.
Il Maestro Zubin Metha è solito dire che i bambini che crescono in una casa dove si  fa e si ascolta musica classica sviluppano una familiarità e un orecchio particolari. E’ accaduto anche a lei?
Sì ho avuto questa fortuna. In famiglia la musica è sempre stata molto importante, sia io che mio fratello abbiamo cominciato a studiarla da bambini, anche grazie a mia madre che è musicista. Siamo cresciuti in un ambiente in cui si ascoltava musica quotidianamente. E questo ci ha stimolati.
Lei ha già una carriera importante. Come si riesce a sviluppare quella autorevolezza necessaria a dirigere un’orchestra essendo così giovane?
Finora nel mio rapporto con le orchestre non ho incontrato particolari problemi. Metto in conto che la prima reazione nel momento in cui salgo sul podio possa essere di diffidenza da parte di musicisti molto più vecchi di me e con maggiore esperienza. Ma il direttore deve avere molto studio alle spalle e l’entusiasmo per coinvolgerli nel processo di interpretazione.
L’orchestra, lei dice, è il suo strumento. Come è arrivato a sentirlo?
Ho cominciato come violoncellista ma non ho mai avuto un rapporto particolarmente simbiotico con il mio strumento. Tutti i grandi strumentisti sentono che lo strumento che hanno scelto è una parte del loro corpo, è la loro voce artistica. Per me il colpo di fulmine non è mai avvenuto con il violoncello. Già dalle prime volte in cui mi sono trovato a dirigere un ensemble ho capito che attraverso un’orchestra – che non è composta da tanti strumenti separati ma parla con un’unica voce- potevo esprimermi pienamente.
Il Maestro Daniel Barenboim dirige un’orchestra composta da israeliani e palestinesi. La musica classica può trasmettere anche un messaggio politico?
Pur avendo diretto alla Scala non ho mai avuto il piacere di incontrare il maestro Barenboim, ma posso dire che la sua Orchestra Divan è la prova che il valore della musica può andare al di là del piacere dell’ ascolto e può portare davvero un messaggio di pace e di fratellanza. Suonare in orchestra appiana i conflitti perché, appunto, bisogna concorrere tutti insieme alla interpretazione di un grande capolavoro.
IL LIBRO. Non è musica per vecchi
Con un esergo “rubato” al gruppo hard rock Ac/Dc, il colto e giovane direttore d’orchestra Andrea Battistoni invita il lettore del suo libro Non è musica per vecchi (Rizzoli) a intraprendere un viaggio attraverso secoli di musica classica.
Con linguaggio fresco, ma8i paludato, il Maestro racconta come funziona una buona orchestra e l’enorme lavoro che c’è dietro l’interpretazione. Poi il fascino del podio e l’impegno totale che richiede. E ancora, la lezione dei grandi maestri, “l’ardua sfida” della composizione e molto altro.
Rifiutando modi e termini consunti. E perfino  la dizione “musica classica”:”Il termine è quanto mai improprio – annota Battistoni- odora di museo. “I giofvani bramano la novità. Ma sopra ogni cosa vogliono l’emozione… Può una musica ascoltata perlopiù da un pubblico di pensionati e da quattro studenti “nerd” dei Conservatori parlare alle nuove generazioni, ai figli di internet? La risposta è: sì!”.
da left-avvenimenti
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Una Marinella praticamente porno

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 2, 2009

Tutto Faber on the road concerto per concerto. In un nuovo libro curato da Elena Valdini per Chiarelettere

di Simona Maggiorelli

Tourbook Chiarelettere

«Da sei anni svuoto scatole, sacchetti e sacchettini e mentre svuoto, leggo fogli e foglietti con appunti di canzoni, pensieri sparsi, numeri di telefono…autografi dal tratto lindo della trascrizione in stampatello o nati dal cortocircuito delle idee, sicché ormai distinguo la grafia dell’elaborazione da quella dell’urgenza…E’ Dori a portarli direttamente qui in Fondazione da quando la famiglia ha accettato di creare all’Università di Siena il fondo De André. Così il mio lavoro è anche quello di preparare ogni foglio per il suo viaggio in Toscana… leggo e mi perdo; staziono, riemergo e riordino. Poi metto tutto in una bella busta e saluto…».

Comincia così il lungo percorso a tappe di Tourbook, Fabrizio De André 1975-1998 (Chiarelettere,470 pagine,59 euro), il volume in cui Elena Valdini ricostruisce punto per punto i concerti dal vivo del cantautore genovese lungo un arco di più di vent’anni, raccogliendo una messe incredibile di scritti autografi, biglietti,locandine,articoli di giornale. Un pazzesco lavoro d’archivio,il suo: meticoloso, attento, come può esserlo quello di una giovane laureata in storia contemporanea e innamorata della ricerca. Un lavoro dipanato in centinaia di pagine, scritte con piglio leggero, da cui riemergono dimenticati flash di storia ma anche fotogrammi di un De André intimo. In cui si racconta, per esempio, la facilità e il piacere che il cantautore aveva nell’improvvisare dal vivo, ma anche della sua inveterata paura del palco. Così se tante volte, anche all’ultimo, annullava i concerti lamentando fantomatici mal di gola, di fronte al pubblico borghese e modaiolo de La Bussola versiliese De André fu capace di improvvisare una cruda e durissima versione de “La canzone di Marinella”, tanto che un giornale titolò scandalizzato: “Una Marinella praticamente porno”. Aspetti privati, ma anche di storia italiana del costume che Elena Valdini ha usato come pezzi di un puzzle per costruire questo suo originale Tourbook, fatto di parole e immagini. La Fondazione Fabrizio De André onlus le ha aperto gli archivi e personalmente Dori Ghezzi le ha messo a disposizione i suoi ricordi perché,lei dice, «Fabrizio è di tutti». E’ nato così questo insolito viaggio in Italia in cui, capitolo dopo capitolo, Elena Valdini non solo rintraccia e racconta le performance del cantautore genovese collazionando le cronache del tempo ma soprattutto raccoglie dal vivo le testimonianze di musicisti e amici che con lui condivisero la vita on the road.

«La sera del 23 luglio 1998 una tonda luna avrebbe illuminato il palco dell’anfiteatro comunale di Nuoro su cui Fabrizio De André si stava esibendo – scrive Elena Valdini in Tourbook – al punto di catalizzare ancora oggi il racconto di quella serata…a parte questo non c’era modo di capirne altro. Una sintesi insolita perché chi me ne ha parlato non solo è uno spettatore attento, ma anche un abile narratore, di quelli che non si accontentano di usare la retorica del cielo e rifuggono dai facili sentimentalismi». L’anomala combinazione del racconto ha incuriosito Elena al punto da decidere di volare in Sardegna «per provare a capire il significato di quella luna tonda». Scopriremo poi che quei narratori speciali si chiamavano Pierangelo Bertoli e Tazenda, storico gruppo etnopop della Sardegna. Altrove nel libro troviamo la voce degli scrittori Stefano Benni e Diego De Silva, di Cesare B. Romana che per Sperling & Kupfer ha scritto la biografia Fabrizio De André l’amico fragile, ma anche quelle di Giorgio Gori, di Mario Ricci e di Bepi Morgia, che come l’autore de “La buona novella” veniva dalla Genova “bene” e poi, attraverso l’esperienza dell’anarchia, era approdato alla musica e allo spettacolo del vivo, a fianco prima di Baglioni e poi, con un bel salto culturale, di Fabrizio. E non solo. Uno spicchio di storia inedita viene anche da Eugenio Finardi che nel suo contributo al libro ricorda i lunghi viaggi silenziosi di un tour in cui lui faceva musicalmente da spalla. «In macchina perlopiù parlavamo dei nostri figli, quasi mai di musica. Eravamo entrambi molto timidi» ricorda l’autore di Musica ribelle. Un episodio apparentemente marginale ma che ci dà la misura di quale fosse il “modo” di De André che «non voleva essere ingabbiato nel personaggio né nella professione di cantante», ma ci dice anche di quanto fosse differente, vent’anni fa, il mondo della musica. «Allora i cantautori e i musicisti erano persone reali, raggiungibili» commenta Elena Valdini che Terra ha raggiunto telefonicamente in Fondazione De André.Ed è curioso sentire lei parlare di quella stagione culturale con tanta passione, lei che è nata nel 1981 e che le canzoni di De André le ha conosciute con le ninne nanne che le cantava sua madre. «In realtà – confessa – dopo aver dichiarato il mio amore in alcuni scritti che erano piaciuti a Dori Ghezzi come Volammo davvero uscito per Rizzoli e Il suono e l’inchiostro (Chiarelettere) è stata lei a spingermi a impegnarmi in questo lavoro: “proprio tu che non mai visto Fabrizio dal vivo, mi ha detto, prova a vederlo». Il punto era fare una ricostruzione di quei lunghi anni di concerti in una chiave nuova, fresca, che potesse parlare al pubblico giovane di oggi. «In tutte le sue iniziative del resto- nota Elena Valdini- la Fondazione De André non è mai andata nella direzione della costruzione di un monumento». E se Elena dice di aver sempre pensato Fabrizio De André come «uno dei più importanti intellettuali del Novecento»,dall’altra parte ammette che per lei, fin dall’adolescenza, è stato «un semplice compagno di viaggio per comprendere le cose del mondo, grazie a quella maniera che aveva di proporle senza saccenza, aiutandoti a sviluppare un tuo sguardo critico».

Ed è stata questa la molla che alla fine ha spinto Elena, armata di taccuino, a mettersi davvero in viaggio, percorrendo in lungo e in largo la penisola. Uno spirito e un fiuto da cronista che l’ha portata anche a cercare un personaggio del tutto estraneo al mondo della canzone come il leader Radicale Marco Pannella. «L’ho incontrato chiedendogli di aiutarmi a ricostruire la data precisa di un concerto che Fabrizio De André tenne in piazza Navona a Roma – ammette Elena -. E mai mi sarei mai aspettata che venisse fuori quello straordinario racconto che Pannella mi ha regalato di quel 3 giugno 1975 e che ho ripreso nel libro». Furono una giornata e una serata per molti versi davvero speciali quelle in cui Dori Ghezzi e Fabrizio De André si trovarono a parlare con Marco Pannella, Adele Faccio e «la neoarruolata» Emma Bonino. Il concerto era stato organizzato dal Partito Radicale e, come racconta lo stesso Pannella in Tourbook «Fabrizio cantò un bel po’in quella nostra serata di diritti civili». E poi rivolgendosi alla giovane intervistatrice aggiunge:«Vedi,la cosa meravigliosa è che lui cantava quello che noi cercavamo di far vivere…».

E se per il leader radicale le parole in comune con De André erano quelle della non violenza gandhiana, Elena che ha quasi cinquant’anni di meno aggiunge:«le parole che mi hanno sempre colpito di quegli anni sono partecipazione e autenticità. E poterle riscoprire attraverso questo viaggio mi ha molto emozionato. Non vorrei apparire nostalgica, ma andare a rivedere quei giorni tentandone un’analisi per noi che siamo nati negli anni Ottanta quando il clima culturale era tutt’altro significa anche poter realizzare che c’è stato un tempo in cui quelle parole, partecipazione e autenticità, significavano una cosa concreta e finalmente poterci dire oggi: allora si può fare».

Dal quotidianto Terra del 6 dicembre 2009

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Enrico Pieranunzi, eclettismo sulla pelle

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 15, 2009

di Simona Maggiorelli

Klimt, Il bacio 1907

Klimt, Il bacio 1907

Tra originali “incursioni” nella musica classica, progetti di ricerca e di scrittura e un suo trio stabile, praticamente in ogni capitale del jazz, Enrico Pieranunzi ha trovato anche modo di tornare sulle strade del Nord Europa, per registrare Oslo un disco nato dalla collaborazione con il bassista norvegese Terje Gewelt. Un cd registrato nell’agosto 2008 negli studi dell’etichetta norvegese Resonant music che lo produce e che, con l’aggiunta della batteria di Anders Kjellberg, rinnova l’esperienza del primo incontro fra il maestro romano e l’allora trentenne Gewelt. «Tutto è cominciato nel 1990 quando andai per la prima volta in Norvegia- ricorda Pieranunzi -. Dopo alcuni passaggi in radio andai a suonare in un club per conoscere un po’ i musicisti locali. Gewelt racconta ancora di essere rimasto «scioccato» dal mio modo di suonare, così diverso dal loro. Quando ci siamo rivisti di recente è nato questo cd che è anche un curioso incontro fra Nord e Sud.
La sensazione, ascoltando il cd, è di una particolarissima sintonia fra voi.
Gewelt ha un bel suono ed è un basso da Trio con molta capacità di interagire con gli altri. Ma anche il  batterista è molto bravo.
I pezzi sono in parte suoi, in parte di Gewelt?
Lui ha scritto dei brani e ha chiesto anche a me di contribuire.  “Suspension Points” e “World of wonders” portano la mia firma.
Ma c’è anche una intensa suite, totalmente libera e improvvisata.
Amo l’improvvisazione integrale. E’ come creare in tre una breve pièce teatrale. Uno butta là una frase, un accordo, un motivo. Un altro lo riprende e lo sviluppa.  È liberatorio. Se suoni dei pezzi devi passare attraverso la mediazione dello spartito, che può essere frenante in situazioni così.  Nell’improvvisazione c’è un rapporto diretto fra il corpo e il sentire interno. Ti relazioni con la figurazione che l’altro lancia, la riprendi liberamente. Ti lasci andare all’altro,  con fantasia.
Dalla Norvegia ci aspetteremmo una musica un po’ cerebrale, molto fredda. Jazzisti come Jan Garbarek, invece, ce ne hanno fatto conoscere anche un lato  poetico.
Il jazz è una musica universale, ma all’interno ha molte differenze di colore e di calore. Vado spesso al festival di Copenhagen e i musicisti di là, ho notato, trovano me e altri musicisti italiani calorosissimi. Ma anche all’interno dei paesi scandinavi non tutto è  uguale. I norvegesi, per esempio, hanno una cifra più estatica. Hanno un rapporto speciale con la natura, con i boschi, con il mare, che è molto più duro del nostro. Il loro è una sorta di misticismo pagano.
Una cifra che si ritrova anche nella letteratura norvegese…
Sì, c’è una sensibilità forte, ma talora anche una certa deriva misticheggiante. Penso per esempio a un disco di Garbarek come Officium (Ecm). Anche se probabilmente fu il produttore Manfred Eicher a spingere in quella direzione. Lo ha fatto anche Keith Jarrett.
Come se il musicista dovesse avere un’ aura?
Come se, oltre che a un tono meditativo, il musicista in questi Paesi dovesse avere un ruolo da officiante. Una cosa che piace ai borghesi. Capita poi che qualche musicista ci creda davvero a questo ruolo. Allora per lui può essere anche un bel problema. Altri, invece, cercano di suonare attingendo al proprio sentire. Alla fine, però, per fortuna si suona. E quando si suona  si tace e l’unica cosa che conta è interagire con sensibilità.
L’importanza dell’«improvissar componendo» e del «comporre improvvisando» ci riporta al suo Pieranunzi plays Scarlatti (CAM jazz). Il 12 giugno lo ripropone in una cornice straordinaria: nella basilica dei Frari a Venezia, fra opere di Tiziano e di Bellini…
A Venezia porto nelle dita e nella mente quindici brani di Scarlatti, in scena poi decido su quali improvvisare.
Con questo progetto, che ha avuto grande successo, ha anche incontrato un pubblico nuovo?
Per fortuna ormai le divisioni nel pubblico sono molto sfumate, gli ascoltatori si sono fatti più recettivi verso generi diversi. Le stagioni classiche non includono più solo Brahms  o Beethoven, ma anche proposte più aperte al crossover. Che è sempre una bella sfida, anche se comporta qualche rischio. Quanto alle improvvisazioni su Scarlatti sono andate molto al di là delle mie aspettative. Forse perché per una parte del pubblico è stata una scoperta, essendo un autore purtroppo poco frequentato.
Il suo percorso nella classica continuerà?
Mi piace sperimentare filoni diversi, offrire sfaccettature nuove. Così con mio fratello Gabriele (primo violino del San Carlo di Napoli  e vincitore del premio Paganini ndr) e con un virtuoso di clarinetto come Alessandro Carbonari di S. Cecilia abbiamo formato un trio classico che suona musica dei maestri del ‘900, con alcuni elementi jazz e blues.
Dunque, ricapitolando, lei ha un trio classico e un trio jazz a Roma. Un trio in Francia e un altro, molto prestigioso negli Usa…
Eclettismo sulla pelle o se vogliamo assoluta poligamia. Mi piace cambiare, ogni musicista offre un colore, un tempo, un’intensità diversa. Ogni musicista si mette in rapporto diversamente con la mia musica.
Con un musicista come Paul Motian lei ha una lunga storia. Uscirà  un vostro nuovo lavoro?
L’anno prossimo uscirà un album che ho registrato lo scorso ottobre al Birdland.  Con Paul suoniamo insieme dal  1992 e volevo che nella registrazione dal vivo lui ci fosse, ha una forte identità  ma mi piace anche perché è un musicista scomodo: non fa mai quello che ti aspetti. Così, a tua volta,  sei costretto  a cercare il nuovo.
Il suo libro su Bill Evans ha avuto molte edizioni. Tornerà a sperimentare con la parola scritta?
A dire il vero ho un paio di progetti che mi piacerebbe sviluppare. Il primo riguarda ciò che accadde nel mondo dell’arte e della musica fra il 1890 e il 1910. Curiosamente sono accadute autentiche rivoluzioni in entrambi gli ambiti. Una piccola notazione: Debussy e Klimt sono nati e sono morti nello stesso anno. Una casualità. Ma è vero che fra loro ci sono molte assonanze. Sono due artisti che hanno cambiato il modo di fare musica e di dipingere.
Quella di Klimt in certo modo fu anche una rivoluzione antimoderna. Basta pensare che nel 1907 Picasso dipinge le Damoiselles e Klimt un quadro come il Bacio.
Indubbiamente la rivoluzione di Klimt fu meno drastica, meno rumorosa, di quella di Picasso, ma la sua ricerca segnò comunque un nuovo modo in pittura. Lo stesso si può dire di Debussy che non fu un’impressionista come si dice di solito. Semmai fu un simbolista. Ma soprattutto  cambiò la grammatica del comporre. Dopo di lui il discorso musicale non avrebbe più avuto quella certa prevedibilità razionale che aveva in Brahms. Debussy faceva una ricerca  in certo modo aperta all’irrazionale.
E il suo secondo progetto?
Mi piacerebbe saper raccontare in un libro le emozioni e il senso più profondo che hanno avuto per me certi incontri artistici, che poi non sono stati mai solo rapporti fra colleghi, ma anche umani in senso pieno.Solo per fare un esempio ricordo ancora fortemente quello con Chet Baker, la sua fantasia potente, spiazzante. Fin da giovanissimo avuto la fortuna di suonare accanto a dei giganti, – io  nato a Roma, che apparentemente nulla avevo a che vedere con il mondo afroamericano -, così vorrei poter restituire qualcosa di quelle esperienze, che mi hanno offerto spunti nuovi.
Incontri che qualche volta le hanno cambiato la vita?
Be’ sì, basta dire che io non sono nato compositore. Ero un musicista, la possibilità di comporre l’ho scoperta molto più avanti, dopo aver fatto incontri, scoperte.  Un’altra svolta c’è  stata  durante la lavorazione del film Il cielo della luna, nel rapporto creativo  con il regista mi sono aperto a un tipo di ricerca e a possibilità per me del tutto nuove.

da left Avvenimenti del 12 giugno 2009

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Parlami d’amore Marlene

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 29, 2008

Cristiano Godano, il leader dei Marlene Kuntz presenta il nuovo lavoro della band piemontese e il suo esordio da narratore

di Simona Maggiorelli

Marlene kunz

Marlene kunz

Un’orchestrazione allargata e arricchita dal violino. E la voce di Cristiano Godano in primo piano, più morbida, profonda, presente. Lontana dalle volute distorsioni di un tempo. Dopo sette album l’inquietudine dei Marlene Kuntz non si è placata. Ma in Uno (Emi) che la band di Cuneo presenta nei teatri (Il 1 marzo a Cesena, il 4 a Torino. E poi Firenze, Bologna, Roma) mostra una maturità nuova: sonorità più raffinate, una precisa ricerca poetica nei testi, commentati sul libretto del cd da Paolo Conte, Erri De Luca e altri scrittori. Una passione quella per la poesia e la letteratura che i Marlene hanno sempre cantato. Ma che ora il loro leader ha deciso di sperimentare in prima persona. «Per sette o otto anni – racconta Godano – mi sono imposto di non fare questo tentativo, consapevole delle difficoltà, poi è stato l’editore Rizzoli a sedurmi, a spingermi a provare. Ed è nato questo libro di racconti.

Scrivere canzoni è arte del levare. Com’è stato passare al racconto?

«Ho faticato un po’. Ma il divertimento è stato superiore alla fatica. Si trattava di rendere accattivanti, piacevoli, le cose che uno scrive per più persone. L’arte di scrivere riguarda anche il modo di organizzare le parole. Non solo cosa scrivere. Per me, un’arte nuova».

Le canzoni dei Marlene sono spesso un racconto per immagini, quasi una sceneggiatura. Una struttura che si ritrova anche nel libro.

«Temo sia la mia indole. È il mio modo di narrare, forse un po’ sui generis. Non so se avrò mai un vero romanzo da narrare in un arco di tempo più lungo che non quello dei racconti. Ne “I vivi” si sviluppano nell’arco di una giornata al massimo. Vedremo.

Li unisce questo precipitare nel mondo emotivo del personaggio: lo strumento è spesso quello del monologo interiore. Fino all’epifania finale. Un omaggio a Joyce?

«Con tutto il senso della distanza che c’è fra uno scrittore geniale come lui e un cantante della provincia di Cuneo, come me, direi ch queste epifanie, rivelazioni finali, non sono joyciane. Le sento più vicine a quello che Baudelaire chiamava “scioglimento”: che svela e dà quel brivido finale. Io credo di avere inseguito un po’ quest’idea. Ma è vero che un richiamo a Joyce c’è. Nell’ultimo racconto con quest’uomo e questa donna nella loro stanza di albergo mentre fuori nevica. E lei ha in testa una canzone in certo senso cruciale. Tutta una serie di simpatiche microcoincidenze mi hanno spinto a riprendere in mano The Dead. Mi sono accorto anche che io non volevo raccontare un mondo di morti, i miei personaggi erano vitali».

cristiano godano

cristiano godano

Da qui il titolo della raccolta I vivi?

«Sì, a quel punto ho preso il coraggio di fare questo esplicito omaggio».

Un filo rosso del tuo narrare è il rapporto con la donna, ogni volta diversa, sconosciuta.

«È sempre sostanzialmente un confronto a due. Mi rendo conto che per me è basilare. Mi riguarda molto come uomo. Tengo a stare lontano dai pericoli del solipsismo».

L’ultimo album, però, si chiama Uno?

«Però in quell’uno, che ho derivato da Nabokov, sono racchiuse due personalità e il rapporto fra un uomo e una donna».

Nabokov autore amatissimo?

«Sì, l’ho ropreso da poco. È un autore che devo leggere quando mi sento in forma. Sennò mi tende tranelli e trappole, mi fermo alla costruzione magnifica della frase e mi perdo i sottotesti più profondi. Sono un lettore lento. E durante i tour è difficile. Di recente però ho riscoperto La vera storia di Sebastian Knight. Avevo una vecchia traduzione anni 50 che mi aveva lasciato un retrogusto strano. Quando ne è uscita l’edizione Adelphi mi sono goduto appieno i gioci di parole, la trama di allusioni».

Il coraggio di cambiare è importante per un artista?

«Sì, se non vuole diventare ricco. A chi bada alla concretezza pop, invece, il cambiamento non conviene. Bisogna sempre fare in modo che i fan si ritrovino in quel che fai. Ma noi non ce la facciamo proprio. Mi rendo conto che disorientiamo il pubblico, ma la nostra non è una scelta provocatoria, è una necessità. Quando sento che ci stiamo ripetendo, sono dispiaciuto, un po’ infastidito».

Cercare la bellezza ovunque, senza utilità come recita una vostra canzone, è necessario?

«Io credo sia lo specifico dell’arte sia dal punto di vista di chi la fa, sia da chi la fruisce. Come ha suggerito un direttore d’orchestra, se tutti nel mondo ascoltassero la musica nel modo giusto, in modo creativo, ci sarebbero meno guerre… Se non altro ci sarebbe meno tempo per incazzarsi».

IL LIBRO

cop-godano-viviUna serie di piani sequenza sul mondo interiore dei personaggi. Un uomo e una donna, sconosciuti, in una stanza di albergo. Il muoversi leggero di una ragazza fra i quadri di una galleria e un uomo che cerca di scoprire il suo mondo interiore dal modo in cui lei si appassiona e racconta l’arte.È il sogno di un poeta che vorrebbe spiccare il volo nella potenza del verso. O forse di un incontro imprevisto. Sei storie diverse che si illuminano nelle pagine di Cristiano Godano come improvvise folgorazioni. La tensione del racconto che sale, poi la svolta di una soluzione imprevista, l’emergere di una realtà più profonda dei rapporti, dei vissuti dei protagonisti che ne sconvolge la trama. Al suo esordio letterario con la raccolta di racconti “I vivi”, il cantante dei Marlene Kuntz sceglie una forma narrativa che si avvicina a quella del frammento poetico, che affonda le sue radici nella forma canzone, allargandone il cerchio, assorbendone la musicalità, e l’impegno nella ricerca della parola più precisa e preziosa per descrivere il mutare delle passioni, dei sentimenti, del sentire in un rapporto.Fra la inquieta sensualità di Nabokov e la disperata bellezza di Updike, scrittore anch’esso amatissimo da Godano, citato spesso nei suoi testi e che il musicista di Cuneo ha fatto conoscere al collega Nick Cave.

da Left-Avvenimenti (29 febbraio 08)

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