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In viaggio con la lepre. L’opera dello scrittore #ArtoPaasilinna al festival I Boreali

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 22, 2016

Arto-Paasilinna

Arto-Paasilinna

Anticonformisti, timidi, sempre di spigolo con le convenzioni e i riti del vivere “civile”, i personaggi di del finlandese Arto Paasilinna hanno un fascino irresistibile. Che si fa strada a poco a poco. Pagina dopo pagina. Fino a farsi compagni di viaggio irrinunciabili, da cui alla fine della lettura ci si separa a malincuore. Accade così con i due protagonisti del nuovo romanzo tradotto in italiano dello scrittore finlandese Il liberatore dei popoli oppressi (Iperborea), il glottologo Viljo Surunen e la dolce maestra di musica Anneli Immonen  che, con disarmante idealismo,  scrivono lettere ai dittatori sparsi nel mondo per farli desistere dai loro intenti distruttivi. Accadeva così per Rauno Rämekorpi, l’ex boscaiolo e self made man protagonista de Le dieci donne del cavaliere, che per il suo sessantesimo compleanno decide di distribuire fiori, caviale e champagne che ha ricevuto dalle varie autorità, alle donne della sua vita.  Solo per fare due esempi, fra i moltissimi che potremmo fare ricordando Lo smemorato di Tapiola, Piccoli suicidi fra amici, L’allegra apocalisse (con il suo Asser Toropainer, vecchio comunista “bruciachiese”) e altri romanzi, già diventati dei classici della letteratura, firmati da questo originale ex tagliaboschi, ex giornalista, romanziere e poeta finlandese che si è guadagnato l’attenzione del pubblico internazionale nel 1975 con un libro cult, L’anno della lepre, che viene raccontato da Giuseppe Cederna al Teatro Franco Parenti,  il 22 Aprile al Festival I Boreali

Protagonista de L’anno della lepre è il giornalista Vatanen che, a quarant’anni è stanco del suo lavoro diventato sempre più razionale e meccanico, è stanco del cinismo che lo circonda  e dalla stolidità borghese della moglie, è stanco senza esserne consapevole. Finché una sera al tramonto, viaggiando in auto con un collega lungo una strada sterrata, investe accidentalmente una lepre. Sarà proprio quell’ animale ferito ad aprirgli un mondo di avventure, girovagando per boschi, piccoli paesi e riviere, in cui l’uomo ritrova la fantasia e la gioia di vivere. Il piccolo animale che fa ritrovare la tenerezza a Vatanen e  il gusto della libertà nella Lapponia a nord (terra dove Paasilinna è nato) si rivelerà anche un imprevedibile sovvertitore di regole sociali e  di gioghi religiosi, scorrazzando per chiese, brucando fiori sugli altari e disseminandoli allegramente di pallette di sterco. Con sottile, giocosa, ironia sarà proprio la lepre a guidare il protagonista del romanzo, insieme al lettore, alla scoperta di una nuova e imprevista visione della realtà, decisamente contagiosa.

l'anno“L’anno della lepre è stato un libro molto amato, quasi un romanzo simbolo, per la mia generazione”, dice  Giulio Scarpati che per Emons ha registrato un audiolibro de L’anno della lepre.”Mi incuriosiva rileggere il romanzo di Paasilinna oggi – racconta  Scarpati – per capire se ha ancora mantenuto il suo fascino”. E come lo ha trovato? “Ancora straordinario e  di grande attualità perché propone un percorso fuori dagli schemi, che mette a nudo i rapporti consunti, che si sono inariditi. Il viaggio  che si compie in questo romanzo è un viaggio  formativo, di scoperta del nuovo, di apertura alle possibilità, ad incontri imprevisti”.

E’ possibile cambiare vita? Sì sembra dirci Paasilinna, la vita può cambiare in un attimo. Certo ci vuole coraggio e un pizzico di follia.  “Ma anche ironia, per vedere il risvolto comico della burocrazia, dei meccanismi sociali che ci ingabbiano”, aggiunge l’attore. “Quella di Paasilinna è un tipo di ironia molto nordica, che si esprime con un certo understatement, non in modo sottolineato ed  immediatamente evidente come succede nella nostra tradizione”, precisa Scarpati.

“Sull’automobile viaggiavano due uomini depressi – recita l’incipit del romanzo – Il sole al tramonto, battendo sul parabrezza polveroso, infastidiva i loro occhi… Lungo la strada sterrata il paesaggio finlandese scorreva sotto il loro sguardo stanco, ma nessuno dei due prestava la minima attenzione alla bellezza della sera. Erano un giornalista e un fotografo in viaggio di lavoro, due persone ciniche, infelici. Prossimi alla quarantina, erano ormai lontani dalle illusioni e dai sogni della gioventù, che non erano mai riusciti a realizzare”. Il registro ironico di Paasilinna è seducente anche per la malinconia e la bonomia dei suoi personaggi? ” Non c’è cinismo, in loro – conclude Scarpati – anche quando Arto Paasilinna tratteggia personaggi negativi lo fa a tutto tondo, raccontando anche i loro lati nascosti, più umani, così come la sua fantasiae  l’elemento utopico non sono astratti, ma rivelano un legame profondissimo con la realtà”. @simonamaggiorel

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Nel regno della libertà. Le commedie di Shakespeare

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 19, 2015

Molto rumore per nulla Branagh

Molto rumore per nulla Branagh

Le commedie di Shakespeare, regno della libertà e della fantasia. Incontro con Ekkehart Krippendorff
di Simona Maggiorelli

Che un politologo di professione, dopo aver lungamente insegnato in università europee, americane e in Giappone, si occupasse dei drammi shakespeariani non sembrò strano quando nel 2005 uscì il suo Shakespeare politico. Ora il tedesco Ekkehart Krippendorff ha fatto un passo ulteriore pubblicando un brillante saggio intitolato Le commedie di Shakespeare, come il precedente, edito in Italia da Fazi. In cui  racconta l’universo caleidoscopico di questi testi shakespeariani centrati sulla capacità di immaginare, come l’dentità più profonda degli esseri umani. In Sogno di una notte di mezza estate, in Molto rumore per nulla, così come ne La Tempesta e negli altri testi più “leggeri” del corpus shakesperiano, la fantasia gioca un ruolo fondamentale. E per dirla con Giordano Bruno (autore che il Bardo ben conosceva) non è un’ombra maligna, ma possibilità di conoscere “per vestigia” e possibilità di aprirsi al nuovo.

La bisbetica domata Burton-Taylor

La bisbetica domata Burton-Taylor

«Sono sempre stato affascinato da opere come Macbeth e da drammi storici come Giulio Cesare per il modo in cui analizzano i giochi di potere e ne denunciano la distruttività. Ma a un certo del mio percorso – dice Krippendorff – ho cominciato a interrogarmi sulle commedie. Anch’esse fanno parte dell’universo shakespeariano e non sapevo bene come collocarle. Finché un giorno, arrampicandomi ancora su questa immensa montagna che è l’opera del drammaturgo inglese, ho scoperto che sono in un certo senso lo specchio o, per meglio dire, l’alternativa ai testi politici in senso stretto». Protagonista delle commedie non è l’uomo di potere, l’eroe solitario ma, come sottolinea lo studioso, «l’uomo innamorato e libero». Uscendo dalla dimensione tragica, Shakespeare s’interroga su come sarebbe l’essere umano se non fosse prigioniero di un potere oppressivo. «Per questa via – dice Krippendorff – ha aperto il suo teatro alla fantasia, alla bellezza e alla complessità del rapporto fra uomo e donna. Ha scoperto la serietà e la multi dimensionalità della passione amorosa. Al centro delle commedie c’è l’amore, l’eros, il perdersi e il ritrovarsi degli amanti. E i personaggi delle commedie appaiono particolarmente ricchi di sfaccettature. Non sono figure artificiali, ma estremamente vive e vitali. Tra loro intrecciano una complessa trama di relazioni, all’apparenza brillanti. Tanto che sarei tentato di dire che le commedie sono più intricate e serie degli stessi drammi politici.

(l to r) TOM CONTI, HELEN MIRREN, DAVID STRATHAIRN, ALAN CUMMING, CHRIS COOPER

La tempesta Helen Mirrer

Dunque professore come possiamo inquadrare questa parte del percorso Shakespeariano?

Ho tentato di farlo nel sottotitolo, scrivendo che l’essere umano è libero nelle commedie. Esse schiudono una possibile via di uscita da una brutta realtà politica di oppressione. Il che non vuol dire che tutto sia risolto e che non sorgano problemi. Anzi. La libertà è una dimensione molto difficile da raggiungere e da vivere, come si evince dal rutilante gioco dei personaggi che cambiano di continuo, ruoli e situazioni. Per questo siamo affezionati alle commedie, perché ci fanno ridere, gioire, ma soprattutto perché accendono la fantasia!

Che risultò contagiosa anche per Giuseppe Verdi, come lei racconta in un capitolo di questo suo nuovo libro…

Per tutta la vita Verdi aveva cercato di scrivere una commedia, senza successo. Avrebbe voluto raggiungere il regno della libertà, ma era rimasto sempre legato alla banalità della vita matrimoniale. Fin quando, a più di 90 anni, ha scritto Falstaff. Questa è stata la sua grande vittoria intellettuale: riuscire a trovare la libertà creativa che si respira in quest’opera. Crudelmente è accaduto che Verdi ci riuscisse solo negli ultimi anni, mentre Shakespeare fece questa realizzazione già all’inizio della sua carriera di drammaturgo.

Prospero's book, Greenaway

Prospero’s book, Greenaway

E Mozart in che modo si lega a Shakespeare?

Mozart ha la leggerezza delle commedie shakespeariane. Questa mattina ascoltavo una nuova registrazione di Così fan tutte, è un’opera che gioca con l’allegria e la sofferenza, con gli imprevisti della dialettica amorosa. Come in Shakespeare, anche in Mozart, la passione è un sentimento che tocca molte corde. E la leggerezza piacevole, a ben vedere, rivela un sottofondo serio.

La passione nelle commedie shakespeariane introduce una carica di potenziale emancipazione e una critica indiretta a istituzioni come la famiglia e la Chiesa?

Sì, senz’altro, c’è questo potenziale rivoluzionario, nel senso di rovesciare i vecchi discorsi, quelli più tradizionali. Sotto questo profilo addirittura Mozart ci sfida. Perciò il contenuto delle sue opere è sempre stato ignorato, perché giudicato frivolo, restando alla superficie, senza leggere la storia in profondità.

I personaggi femminili, in particolare, creano scompiglio sottraendosi alla tradizione e ai riti domestici. Caterina, la Bisbetica domata, addirittura se ne infischia. Anche se il padre la stigmatizza come irascibile, selvaggia, litigiosa. Del resto Shakespeare era un uomo del proprio tempo…

beatrice-emma-thompson-reading-sigh-no-more-ladies-while-eating-grapes-in-tuscanyLa bisbetica è un testo che lascia molto alle scelte drammaturgiche e alla sensibilità del pubblico. Se stiamo alla lettera delle parole di Petruccio, per esempio, il personaggio appare come un pretendente maschilista. Con modi da super macho. Ma se si osserva meglio non è esattamente così. Perché alla fine accetta che sia la donna a prevalere. La questione dunque non così scontata come si potrebbe pensare. Shakespeare avrebbe potuto farla facile con l’atteso trionfo del muscolare Petruccio… sarebbe stato facile.Invece sceglie di far vedere in profondità l’ immagine. Un amico mi ha fatto notare per esempio che alla fine Petruccio non vince ma stabilisce un nuovo rapporto fra uomo e donna. Shakespeare non si accontenta di un happy end da farsa. Forse sarebbe stato ugualmente divertente, ma non è ciò che gli interessa. Lui punta ad aprire nuovi orizzonti. E il machismo è solo la scorza.

Nella trama delle commedie importanti sono anche le relazioni sociali dei personaggi, mai isolati e solipsisti come invece appaiono Amleto o Macbeth.

Un tema importante è anche l’amicizia; è centrale in una commedia che amo molto e che purtroppo viene rappresentata di rado,I due gentiluomini di Verona. L’antica amicizia fra due giovani uomini dovrebbe finire in tragedia, Invece Shakespeare fa vedere che resiste al banale primeggiare di uno di questi due ragazzi., facendoci riflettere. Quasi sempre le commedie fanno pensare..

Un filo rosso che attraversa le commedie è anche la “realtà dell’invisibile”, a cui lei dedica uno dei capitoli più appassionati del libro

Ne Il sogno di una notte di mezza estate, Shakespeare dice che ciò che vediamo non è la verità. Come a dire che ciò che veramente conta è la nostra realtà interiore. Dipana questo tema a vari livelli. Anche sul piano politico. Il luogo dove si svolge il dramma è Atene, la città dove è nata la democrazia. Ma a questo si sovrappongono altre realtà. Oppure, per fare un altro esempio, nel sogno si incontra la principessa che fa l’amore con l’asino. E ciò non è assurdo. Non lo è perché non è un sogno realistico ma reale. Come a dire che la verità non è quella che vediamo , ma quella che sentiamo e che fa parte della nostra realtà più profonda. Spietata autenticità @simonamaggiorel

Dal settimanale Left

 

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Voci d’Oriente. Kyung-Sook Shin e la nuova letteratura coreana

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 16, 2014

Kyung-Sook Shin

Kyung-Sook Shin

Una folla si accalca sul binario. E una coppia di anziani si affretta per paura di perdere il treno, camminando vicini. Ma a un certo punto lei resta indietro e sparisce alla vista del marito. Che non riuscirà più a trovarla. Da questa “sparizione” prende avvio il romanzo Prenditi cura di lei di Kyung-Sook Shin, best seller in Corea del Sud e tradotto in diciannove lingue (in Italia è stato pubblicato da Neri Pozza).

Da questo fatto all’apparenza banale si dipana la trama complessa di rapporti fra i personaggi, che dà spessore al romanzo. Figli, parenti, vicini. Tutti si ritrovano a parlare di lei, quando non c’è più. Pensavano di conoscerla bene ma, d’un tratto, si accorgono di sapere poco e niente di lei al di là del suo noto integerrimo comportamento. Come se il ruolo di madre per anni e anni avesse coperto e cancellato la vera personalità della donna. Così quello che sembrava un banale incidente si fa metafora complessa e sfaccettata: da un lato Kyung-Sook Shin sembra voler denunciare l’annullamento della donna che tradizionalmente in Corea spariva dalla scena pubblica per dedicarsi con totale abnegazione alla vita domestica, dall’altro lato, però, sembra registrare con nostalgia la perdita del sistema di valori della Corea rurale che trovava nei rapporti familiari il suo ancoraggio. Nella corsa verso la modernizzazione capitalista il Paese è cambiato drasticamente e in tempi rapidissimi, racconta lo studioso Maurizio Riotto, docente dell’Orientale di Napoli e curatore, con Antonetta L. Bruno, de La letteratura coreana appena pubblicata da L’Asino d’oro edizioni.

«Nella società coreana gli anziani hanno sempre avuto un posto di riguardo e sono sempre stati trattati con grande rispetto, faceva parte della tradizione», sottolinea lo studioso. «Ma oggi le nuove generazioni non hanno più tempo per stare con i genitori anziani e molti di loro si trovano a vivere soli e, non di rado, in stato di indigenza. La competizione per emergere è feroce nella Corea del Sud, seconda nazione al mondo, dopo la Lituania, per tasso di suicidi». Progresso economico, crescita esorbitante di metropoli come Seul, ma anche feroce darwinismo sociale, un Paese contrassegnato da laceranti contraddizioni. Così appare oggi la Corea del Sud raccontata da una nuova generazione di scrittori, che si sta facendo conoscere anche fuori confine. «Abbiamo molte risorse naturali. Tanti coreani vanno al college e poi riescono a ottenere un buon lavoro, ma la competizione fra i giovani è massima e lo stress raggiunge livelli di guardia», racconta la cinquantenne Kyung-Sook Shin, alla quale abbiamo rivolto alcune domande prima del suo arrivo a Roma per partecipare al festival Libri Come (in programma fino al 16 marzo all’Auditorium) e ad una tavola rotonda in suo onore ( il 17 marzo)  alla Biblioteca di studi orientali .

«Nel romanzo che ho da poco terminato racconto di un uomo che diventa improvvisamente cieco – dice la scrittrice – e in Prenditi cura di lei ho scritto del prezzo che le donne hanno pagato per la crescita economica del Paese. Nel libro la madre che sparisce in qualche modo simboleggia la perdita degli affetti, di relazioni umane calde, attente alla vita dell’altro che registriamo nelle grandi città. Ma bisogna anche riconoscere che la Corea del Sud ha saputo affrontare importanti cambiamenti. Se oggi è uno Stato democratico lo deve all’impegno delle giovani generazioni», sottolinea Kyung-Sook Shin. Poi commentando i dati Ocse che indicano gli studenti coreani fra i più stressati al mondo, approfondisce: «La pressione, la spinta a primeggiare sugli altri, domina la nostra scuola, ma i giovani hanno energia e possono migliorare la nostra società anche sotto questo aspetto». Della voglia di cambiamento dei giovani coreani Kyung-Sook Shin parla nel suo recente romanzo Io ci sarò, uscito in Italia per Sellerio. « In quel libro racconto rapporti di amicizia e amori fra giovanissimi. È ambientato negli anni Ottanta, un periodo molto tumultuoso in cui i ragazzi non esitavano a scendere in piazza lottando per i diritti di tutti. All’epoca molti giovani furono feriti, imprigionati, torturati».

Come il precedente romanzo, anche questo contiene elementi autobiografici? «Avevo vent’anni e come molti della mia generazione ho partecipato alle lotte per la democrazia. Sì – ammette Kyung-Sook Shin – credo che i protagonisti di Io ci sarò rispecchino molto come ero allora». Contrassegnati dal massacro di Kwangju, gli anni Ottanta «furono cruciali per il passaggio della Corea del Sud dalla dittatura militare a un sistema più libero», commenta Maurizio Riotto, autore della storia della Corea (Bompiani) ma anche primo studioso straniero a pubblicare una storia della letteratura coreana nel 1996 (con la casa editrice Novecento). «Quegli anni fanno registrare, accanto a nomi già affermati, l’esordio di molti scrittori della generazione postbellica, protagonisti di lotte per la libertà». E negli anni Novanta poi il forte ingresso delle donne in letteratura. Molte di loro contrappongono l’esplorazione del mondo interiore e dell’universo degli affetti alla velocità consumistica. Riuscendo a farsi largo nel vivace mercato editoriale (in Corea, nonostante il boom tecnologico e di internet, i libri di carta vendono migliaia di copie, talora anche milioni come nel caso di Kyung-Sook Shin.

«Le scrittrici e le poetesse coreane sono eredi di un passato in cui non solo gli uomini scrivevano – chiarisce Riotto -. Pur essendo una società maschilista, quella coreana ha visto sempre le donne cimentarsi, spesso con grande successo, nel campo delle lettere». Accanto alla letteratura, negli ultimi anni è cresciuto il cinema (come racconta il Korea film festival di Firenze dal 21 marzo), ma anche il teatro popolare e la produzione poetica.«La Corea da sempre pensa se stessa come il Paese dei poeti. La poesia è un genere largamente diffuso e in molti si cimentano nello scrivere versi, anche se la qualità – ammette Riotto – non di rado scarseggia». E mentre la Corea del Sud da anni attende un Nobel per la Poesia, a causa delle difficoltà di traduzione, la lirica coreana circola poco all’estero. Non così la narrativa, come dicevamo, e se autori noti anche da noi come Yi Munyol sono rimasti negli ultimi anni più in ombra, anche grazie al lavoro di scouting di case editrici come O barra O e Metropoli d’Asia emergono nel frattempo autori più di tendenza, come il caustico Kim Young-ha, del quale proprio Metropoli d’Asia ha appena pubblicato il provocatorio Ho il diritto di distruggermi. Un libro – ha confessato l’autore al suo editore -che non immaginava potesse uscire in Italia. « Nel Paese del Vaticano – ha detto Kim Young-ha – pensavo che il mio nome fosse off limits». (Simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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Scandalosa Edna

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 8, 2013

 

Edna O'Brien, Country girl

Edna O’Brien, Country girl

I suoi libri furono arsi sul sagrato delle chiese. Perché giudicati immorali. In romanzi come Ragazze di campagna  Edna O’Brien ha saputo raccontare l’universo femminile parlando di desiderio, di passione, ma non solo. Scandagliando la vitale e talora sanguinosa dialettica fra uomo e donna. Nel memoir Country girl la scrittrice irlandese ripercorre la prima avventura umana e creativa

di Simona Maggiorelli

Il suo primo romanzo, Ragazze di campagna (1961), fu bruciato sul sagrato della chiesa nel piccolo paese, Tuamgraney, dove Edna O’Brien è nata nel 1930. Il ministro dell’Economia irlandese e il vescovo si trovarono d’accordo nel giudicare quel folgorante esordio un libro immondo, che non doveva stare in nessuna casa timorata di Dio. Sembra una storia quasi ottocentesca, quella che la scrittrice racconta nella sua autobiografia, Country girl (Elliot), ma accadeva agli inizi degli anni Sessanta nell’Irlanda cattolica e bigotta, dove le ragazze venivano mandate a studiare in convento dalle suore e, a parte le solite «angoscianti preghiere», le uniche pagine che si potevano leggere erano quelle del giornale Irish messenger, impegnato «a scongiurare l’influsso delle peccaminose orchestre da ballo e a contrastare l’avanzata del comunismo».

Anche in casa O’Brien gli unici libri che circolavano erano breviari e storie agiografiche. Per il resto la madre di Edna guardava alla parola scritta con grande sospetto. Ma lei da ragazzina, per caso, scoprì un dozzinale romanzo d’amore e lo leggeva in segreto, tenendolo nascosto dietro la cassa dell’avena per i polli. «La religione era pervasiva, condizionava i pensieri e perfino i sogni», ricorda.

Ma «a me piaceva andare a scrivere nei prati. Le parole correvano insieme a me». E se quasi tutta la letteratura di Edna O’Brien ha qualcosa di autobiografico, questa autobiografia ha qualcosa della scrittura icastica e cinematografica dei suoi romanzi. Come negli amati quadri di Jack Yeats, pieni di grumi di colore azzurro, verde e rosso, le sue pagine risuonano di colori e odori di un’Irlanda profonda: il profumo delle violaciocche, i colori della torbiera, l’ardesia bluastra dei tetti. Senza dimenticare quella strada azzurra del racconto The small town lovers che tanto fece infuriare un intellettuale raffinato e cosmopolita come Ernest Gébler che Edna aveva sposato giovanissima.

Sprezzante, lui rimarcava che non esistono strade azzurre. E non le perdonò mai di avere talento. Ernest l’aveva aiutata ad aprire gli occhi, a emanciparsi da quella famiglia cattolicissima che l’aveva denunciata alla polizia, minacciando di farla rinchiudere in manicomio e che voleva costringerla ad abortire in Inghilterra per espiare il peccato di essersi unita a un uomo divorziato. Eppure lui, dopo i primi successi, le preferì una donna più giovane, «gentile, premurosa, modesta, sana di mente e senza ambizioni letterarie», come Ernest annotò in una pagina del proprio diario. Ma intanto Edna aveva fatto in tempo a conoscere la Dublino di Maud Gonne, la coraggiosa compagna del poeta William Butler Yeats e lo humour sferzante di Flann O’Brien (pseudonimo di Brian O’Nolan) che smascherava un’Irlanda «fatta di scemi e creduloni ossessionati da Dio».

E, ancor più, a Londra aveva spiccato il volo verso un mondo culturale libero e non convenzionale. Nel memoir Country girl rievoca le collaborazioni più stimolanti nel cinema e in teatro e i suoi tanti incontri in Europa e negli Stati Uniti con autorevoli compagni di strada come Harold Pinter, Philip Roth, Norman Mailer, Gore Vidal, Peter Brook e mostri sacri del Novecento come Samuel Beckett.

Edna O'Brien con il marito Ernst

Edna O’Brien con il marito Ernst

«Lo incontrai per la prima volta a Londra e poi, spesso, a Parigi», racconta O’ Brien a left. «Come uomo e, ovviamente come scrittore, era unico: molto alla mano, ma allo stesso tempo introverso. C’era qualcosa di imperscrutabile nel suo carattere e questo attraeva le persone». A legarla a Samuel Beckett e a James Joyce è stato anche il comune destino di irlandesi costretti ad andarsene per poterne scrivere liberamente. «È strano, ma l’Irlanda nutre l’immaginazione dei suoi autori e allo stesso tempo li fa scappare», commenta la scrittrice che l’8 dicembre è al Palazzo dei congressi, a Roma, per incontrare il pubblico della fiera della piccola e media editoria, Più libri più liberi ( ore 18, sala Smeraldo).

«Certamente – aggiunge – tutto questo accadeva in passato, quando l’Irlanda era un Paese religioso, claustrofobico e repressivo. Io sono cresciuta in quel clima e sono stata costretta ad emigrare per potermi esprimere liberamente. Ma devo anche ammettere di aver portato con me molto d’irlandese. Per James Joyce, nel 1904, fu ancor più necessario andarsene: l’Irlanda allora era, se possibile, ancor più rigida. Eppure permea profondamente il suo lavoro e la sua fantasia. Beckett scappò con una ferita altrettanto bruciante, ma i suoi testi, anche se in francese, hanno un ritmo e un modo molto irlandese. Insomma – sintetizza O’Brien – siamo davanti a un autentico paradosso».

Tanto più se pensiamo che fu proprio in quel clima da caccia alle streghe (in un’Irlanda che certamente non considerava la scrittura una faccenda per donne) che lei mosse i primi passi nella letteratura. «In realtà fin da bambina scrivevo e recitavo ad alta voce piccoli brani ispirati all’ambiente e alle persone che mi circondavano. L’impulso di scrivere e “la vocazione” cominciarono lì. Così come la ricerca incessante di parole che suonassero diverse. Finché, verso i 17 o i 18 anni, scoprii la poesia e la narrativa. Al villaggio non c’erano biblioteche o librerie.Il primo autore a cui mi avvicinai veramente fu Joyce, leggendo i Dubliners e un estratto da Ritratto di un artista da giovane in un’antologia curata da T.S. Eliot».

Ma non appena Edna trovò la propria voce originale, con romanzi come Ragazze di campagna (Elliot) e La ragazza dagli occhi verdi (edizioni e/o), subito si trovò a doverla difendere anche da chi le stava a fianco e, apparentemente, l’aveva incoraggiata. «Credo che per un uomo sia più duro accettare le ambizioni letterarie e progressi della propria compagna», commenta. «La gran parte degli scrittori che conosco hanno mogli che li sostengono e che non entrano in competizione. Hemingway, per esempio, sposò Martha Gellhorn ma la loro storia finì presto e poi lui espresse tutto il suo disgusto per le donne letterate e colte. Come scrittore, mio marito Ernest si irrigidì scoprendo che sapevo scrivere. Questo fece precipitare il nostro matrimonio, che era già traballante». «Un abisso si era aperto fra noi. Fatto di gelido risentimento» scrive O’Brien a questo proposito nell’autobiografia, ricordando che libri come August is a wicked month, giudicati una bomba contro l’istituzione famiglia, e addirittura additati come pornografici dalla critica benpensante, poi furono usati da Ernest nella causa di divorzio per toglierle l’affidamento dei figli.

Ma che cosa dei racconti di Edna O’Brien davvero spaventava e faceva scandalo? «La Chiesa, la mia famiglia d’origine, i vicini, i preti e i politici irlandesi, fin dal mio esordio, si scagliarono contro di me perché negli anni Sessanta i miei libri sembravano loro troppo audaci, irriverenti e addirittura scioccanti. Proprio perché scritti da una donna. Una critica che mi sono sentita ripetere per anni è che i miei romanzi erano uno sfregio e un affronto al modello femminile irlandese. A ben vedere, la stessa accusa che era stata rivolta a J. M. Synge per il suo Playboy or the western world: così quell’anatema passava da una generazione all’altra». Ma se l’establishment più conservatore non le perdonava l’indagine profonda sulla psicologia femminile, sulla passione, sul desiderio, ma anche sul senso di perdita e l’anaffettività, dall’altra parte le femministe non le hanno mai perdonato di raccontare la dialettica fra uomo e donna come vitale e ineludibile, nonostante talvolta possa essere sanguinosa. «L’uomo è diverso dalla donna. Trovo limitante e stridente l’idea avanzata da alcune femministe che l’identità di genere sia una prigione – commenta Edna O’Brien -. Non è una prigione. È un fatto evidente. Banalmente gli uomini non hanno le mestruazioni, non fanno figli. Ma su questo ci sarebbe molto altro da dire». E poi aggiunge: «L’unica cosa che riconosco alle femministe è l’aver ottenuto più libertà e più diritti per le donne nella sfera pubblica e sociale. Comunque la battaglia è ancora lunga. Come scrittrice impegnata in questo ambito da più di cinquant’anni posso dire che una donna deve faticare molto di più per essere riconosciuta per ciò che è e che vale». Una battaglia a cui né la psicoanalisi né certa antipsichiatria in voga nell’ambiente londinese anni Settanta hanno contribuito positivamente, sembra dire O’Brien. In cerca di aiuto, ad un certo punto, lei decise di rivolgersi a Roland D. Laing, che era molto presente nel mondo dello spettacolo e intellettuale che lei frequentava. In risposta lui le propose di assumere l’Lsd, presentandole poi un conto esorbitante per fantomatiche sedute. «Credo che fosse un cavallo pazzo», dice oggi Edna O’Brien. «Forse lui stesso amerebbe essere ricordato più come poeta, o per meglio dire come poeta allo stato embrionale, piuttosto che come analista e psichiatra».

 In finale la nostra conversazione torna a vertere quasi inevitabilmente sull’Irlanda. Di cui O’Brien si è occupata anche sul piano del recupero delle tradizioni pagane e popolari con libri come Elfi e draghi, racconti irlandesi (Einaudi) e, sul piano politico, con reportage sull’Irlanda del Nord e con un libro come Uno splendido isolamento (Feltrinelli), ancora una volta la storia di una donna, ma stavolta sullo sfondo del conflitto. Una ferita ancora aperta, dice Edna O’Brien, mentre l’Irlanda del sud, a poco a poco, sembra avanzare verso un cambiamento positivo anche sul piano della laicità e dei diritti. «Trovo che il premier Enda Kenny abbia mostrato grande coraggio – sottolinea – nel denunciare finalmente lo scandalo della pedofilia del clero che il Vaticano e le gerarchie irlandesi hanno nascosto per anni. Più di recente ho apprezzato come ha sfidato le ire di frange conservatrici introducendo dei miglioramenti nella legge sull’aborto. Ma ovviamente c’è ancora molta strada da fare».

 

 

dal settimanale left-avvenimenti

Ecco l’intervista Live di Marino Sinibaldi ad Edna O’Brien su Radiotre. Durante la conversazione il direttore di Radiotre ha citato questa intervista pubblicata da left. Qui il podcast per riaascoltare la  trasmissione dell’8 dicembre 2013 Fahreneit

Lunedì 9 dicembre Nicola Lagioia ha aperto la trasmissione di Radiotre  tre Paginatre leggendo e commentando questa intervista ecco il  podcast della trasmissione

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Büchner, bellezza amara

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 25, 2013

Wayzeck diretto da Bob Wilson

Wayzeck diretto da Bob Wilson

Rivoluzionario e a lungo incompreso, l’autore di Woyzeck è al centro di  convegni e incontri per il bicentenario dalla nascita. Non solo in Germania. In Italia si segnalano in particolare un ciclo di incontri alla Casa di Goethe a Roma e di due nuove monografie

di Simona Maggiorelli

Strano destino quello di Georg Büchner (1813 – 1837), medico, drammaturgo e scrittore dalla vita brevissima, autore di opere frammentarie quanto folgoranti, come il racconto Lenz (Adelphi), e di drammi visionari come Woyzeck (Marsilio) che solo dopo molti anni dalla prematura scomparsa dell’autore ha avuto un degno riconoscimento, entrando stabilmente nei repertori teatrali. In questo autunno in cui si ricordano i duecento anni dalla nascita di questo rivoluzionario scrittore tantissimi sono gli incontri e le occasioni di studio della sua opera. Non solo in Germania. Alla Casa di Goethe a Roma, diretta da Maria Gazzetti, un convegno e un ciclo di lezioni (che proseguono fino a gennaio) permettono di approfondire i testi di Büchner, sotto una molteplicità di aspetti. A cominciare dal rapporto fra le sue opere e la musica, affrontato dal musicologo Claudio Rostagno analizzando il lavoro di Alban Berg nel mettere in musica il Woyzeck. Per arrivare poi al rapporto fra Büchner e le arti visive, con una conferenza dello storico dell’arte Claudio Zambianchi il 29 gennaio che prenderà in esame alcune incisioni di Chagall e lo spettacolo dell’artista sudafricano William Kentridge Woyzeck on the Highveld (2008).

Appassionato di pittura fiamminga e delle sue scene di vita quotidiana (che appaiono ricreate in alcune pagine del racconto Lenz) Georg Büchner scriveva nelle lettere di amarne il gusto per la nuda verità e anche le asprezze, mentre l’armonia delle forme classiche e l’opulenza del rinascimento italiano lo lasciavano piuttosto indifferente. E una appassionata e a tratti quasi disperata ricerca della verità storica e umana è il filo rosso che lega tutta la sua breve ma intensa produzione letteraria, dal pamphlet politico Il messaggero dell’Assia, in cui incitava alla rivolta i contadini tedeschi, sfruttati e ridotti in miseria, fino a Woyzeck, la sua ultima opera ispirata a un fatto di cronaca nera: la condanna a morte del soldato Franz Woyzeck, colpevole di aver ucciso “per gelosia” la propria compagna.

Come già in Lenz, che con prosa onirica e potente racconta lo sprofondare nella pazzia del poeta Jacob M.R. Lenz (1751 – 1792), nel testo teatrale Woyzeck, il giovane medico Büchner cerca di afferrare che cosa si agita nel profondo di questo fragile soldato vessato dai superiori che alla fine diventa un assassino, tentando una comprensione poetica, “intuitiva”, del suo delirio. Per arrivare poi a fare di Woyzeck il simbolo di un’intera generazione disadattata nella oppressiva Germania della restaurazione. Come ricostruisce Barnaba Maj nella monografia Georg Büchner da poco uscita per Ediesse, Büchner, che aveva studiato a fondo la rivoluzione francese, era un giacobino che faceva attività politica clandestina convinto che una maggiore giustizia sociale potesse venire solo dalla sollevazione delle masse e non da una rivoluzione borghese. E se il linguaggio del suo Messaggero dell’Assia, come nota la germanista Vanda Perretta curatrice della buchneriana alla Casa di Goethe, «era ancora rigido e retorico, rispetto invece alla ricchezza icastica che nel 1848 sfoderò Marx, fin dall’incipit, nel Manifesto del partito comunista», in opere come La morte di Danton l’analisi politica e il linguaggio di Büchner si affinano fino a fare del teatro un penetrante strumento di indagine della storia e delle radici della violenza, facendo splendere le ragioni rivoluzionarie ma al tempo stesso scandagliandone il tragico naufragio nel terrore. Il linguaggio onirico ed evocativo, lo stile anti classico, il pathos che trasmettono le opere di Büchner furono la cifra della sua inattualità nel suo tempo, nota Simone Furlani nel saggio Arte e realtà. L’estetica di Georg Büchner (Forum editrice, 2013), ma furono anche la chiave della sua fortuna postuma.

Agli inizi del Novecento furono gli espressionisti per primi a riconoscerne il valore e ad apprezzare il “realismo visionario” della sua prosa, comprendendo che le sue deformazioni della realtà permettevano di vedere al di là delle apparenze, la realtà più profonda dei rapporti umani. E non si trattò per lui solo di una inconscia e geniale scelta artistica. Consapevolmente Büchner aveva preso le distanze dall’idealismo di Schiller e di Goethe, come appare evidente dalle sue lettere. D’altro canto, diversamente dai romantici, Büchner non inseguiva la purezza delle origini e non cercava consolazione nello spiritualismo e nella religione. («La Chiesa di pietra» e suoi dogmi saranno spesso oggetto dei suoi strali). E forse è stata questa sua originale complessità, che sfugge ad ogni facile etichetta, a regalare lunga vita alle sue opere che da Max Reinhardt a Werner Herzog a Bob Wilson continuano a trovare sempre nuovi allestimenti e trasposizioni.

dal settimanale Left-Avvenimenti

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Nuove lettere persiane. Kader Abdolah a Bookcity

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 22, 2013

Afzal Al-Husayni, Lady with the dog (1640)

Afzal Al-Husayni, Lady with the dog (1640)

In fuga dall’Iran degli ayatollah, Kader Abdolah trovò approdo nei Paesi Bassi diventando il più grande scrittore in lingua olandese. Oggi rievoca la sua esperienza nel romanzo Il corvo ( Iperborea)  che sarà presentato a Bookcity

Invitato a parlare di letteratura come resistenza all’Università di Berkeley (ma anche in altre occasioni pubbliche), Kader Abdolah ha ripercorso la propria esperienza di rifugiato che nel 1988 trovò approdo e una nuova lingua “da abitare” in Olanda: da secoli il paese delle pubblicazioni eretiche e clandestine e dove ancora oggi, dice a left lo scrittore iraniano, «nonostante molte cose siano cambiate e si sia insinuata la paura, gli immigrati possono ancora trovare vera accoglienza».

La sua storia è quella di tanti giovani di sinistra che furono protagonisti della rivoluzione contro lo scià e che poi furono torturati e imprigionati anche dal regime di Khomeyni. Alla violenza, quel giovane rivoluzionario decise di non rispondere con la violenza ma con l’arma della scrittura.

Kader Abdolah

Kader Abdolah

«Scrivere in clandestinità è scrivere sul crinale fra la vita e la morte. Scrivi per far vedere che non hai paura del dittatore, che usa la violenza contro di te, che tortura i tuoi amici e distrugge la tue parole. Combatti usando la penna invece che le armi». Scrivere allora è una sfida, una lotta, ma anche una passione e una ragione di vita.

Nel suo romanzo autobiografico, Il corvo (Iperborea) Kader Adollah lo racconta in pagine quasi cinematografiche, folgoranti e poetiche, che evocano sequenze di un film come Il pane e le rose di Makhmalbaf; pagine da cui emerge lo splendore della cultura persiana antica, ma anche il sapore aspro della lotta contro la dittatura.

Sotto le mentite spoglie di un sensale di caffè e scrittore di notte, Kader Abdolah in questo suo nuovo libro ricrea memorie di quando era studente universitario in fisica e collaborava con giornali clandestini di sinistra, rievocando poi  quando si recò in Kurdistan per raccontare la lotta di liberazione curda traendone un libro che nessuno volle pubblicare, perché era troppo pericoloso.

Reza Abbasi, Gli amanti (1625)

Reza Abbasi, Gli amanti (1625)

Ma dopo l’ennesimo no «il portiere di una importante casa editrice mi rincorse per strada e mi disse: “Pubblicheremo il tuo libro ma non riceverai un compenso e non lo potrai firmare. Ce l’hai uno pseudonimo? E io risposi: Scrivi che l’autore si chiama Kader Abdolah”». Nasceva così dalla combinazione dei nomi di due amici torturati e uccisi dal regime il nome de plume di uno dei più importanti scrittori olandesi di oggi, autore di capolavori come La scrittura cuneiforme (2003), come Il viaggio delle bottiglie vuote (2001) ma anche come Il messaggero (2010) in cui, da scrittore dichiaratemente ateo, invita a leggere il Corano, non come testo sacro ma come opera poetica.«In Iran sognavo di diventare uno scrittore», ricorda Kader Abdolah. «Non conoscevo i Paesi Bassi e non avevo mai sentito il suono della lingua olandese. Non avrei mai immaginato di scrivere in questa lingua. Ma è accaduto». E poi aggiunge sorridendo: «È la magia della vita».
«Forse dipende tutto dal fatto che sono fuggito dalla madrepatria. Chi non può più tornare a casa finisce per vivere in uno stato di immaginazione», lei fa dire a Refid Foaq ne Il corvo. È una sua dimensione?
Come straniero e rifugiato vivi per lo più nell’immaginazione. Pensare al Paese da cui sono partito è per me è vivere nel passato. Stare in Olanda o in Italia (lo scrittore sarà a Milano per Bookcity il 23 novembre, ndr) è vivere nel presente e allo stesso tempo nel futuro. Come immigrato e scrittore vivo allo stesso tempo in tre tempi diverse. Un immigrato vive due volte o tre volte allo stesso tempo. È l’aspetto più bello.
La Persia ha una grande tradizione artistica e poetica. Quanto è per lei, ancora oggi,  fonte d’ispirazione?
C’è molto di persiano nei miei romanzi. Nel mio passato c’è tutta la mia cultura persiana, il modo di vivere persiano e io, scrivendo, volevo farlo conoscere. Ma anche far vedere che gli immigrati hanno un passato.

Kader Abdolah, Il corvo, Iperborea

Kader Abdolah, Il corvo, Iperborea

Ne Il corvo Refid scrive il suo primo romanzo come una lunga lettera d’amore che poi consegna alla ragazza. In tutto il romanzo le donne hanno un ruolo chiave. C’è qualcosa di autobiografico?
Sto scrivendo un nuovo romanzo e le donne, ancora una volta, hanno un ruolo importante. Se guardiamo alle donne migranti vediamo che sono capaci di cambiamenti radicali, ovunque si trovino, sono più reattive. Gli uomini emigrati cercano di mettere insieme più tradizioni, le donne invece mettono via tutte le tradizioni cercando di trovare un nuovo modo di vivere. Anche per questo io penso che le donne siano più forti e più intelligenti.
«Quando i sacerdoti conquistarono il potere noi militanti di sinistra restammo a mani vuote», lei scrive. Come è potuto accadere che una rivoluzione laica sia sfociata in uno stato teocratico?
Quando eravamo ragazzi pensavamo di poter cambiare il mondo e la storia. Ma è impossibile: non puoi cambiare la storia. Una storia di centinaia di anni è molto più forte di te. Noi avevamo 20, 23, 25 anni, ma la storia del mio Paese ha 8mila anni alle spalle. E quella storia ha cambiato il Paese. Quella storia in Iran ha portato gli ayatollah. Purtroppo è un fatto. E oggi se mi guardo indietro mi viene da sorridere pensando a me stesso che un po’ stupidamente pensavo di poter cambiare la storia.
Pensa che oggi i ragazzi delle rivolte iraniane facciano lo stesso errore?
Penso che siano più saggi, sono più bravi di noi, hanno una comprensione più profonda. E le donne in particolare hanno un ruolo importante  in Iran nel creare le condizioni per un vero cambiamento. Noi pensavamo di cambiare il Paese con una rivoluzione, invece loro non credono in un mezzo di rottura violenta. Hanno ragione. La rivoluzione non fa che peggiorare le cose. È meglio procedere passo dopo passo. La nuova generazione l’ha capito e questa è la grande spinta verso il futuro.

dal settimanale left-avvenimenti

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L’incanto che viene dal Nord

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 10, 2013

Iceland

Iceland

Non solo giallo. La letteratura dei Paesi scandinavi e del nord Europa ci sta regalando narratori dalla vena originale, polifonica, potente: all’insegna della poesia (Stefánsson), dello humour (Niemi), dell’avventura (Larsoon, L’ultima avventura del pirata Long Jhon Silver) della riflessione filosofica (Noteboom, Lettere a Poseidon), solo per citare alcune fra le voci più interessanti ora in libreria. E accanto ad un impareggiabile narratore di storie finlandesi tragicomiche e fiabesche come Arto Paasillinna ( Sangue caldo, nervi d’acciaio è il suo ultimo titolo) crescono nuovi autori come Audur Ava Olafsdottir, critica d’arte e direttrice dell’University of Iceland’s Art Museum, che si è fatta notare con il delicato e disarmante Rosa Candida, e che ora, sempre con Einaudi, pubblica La donna è un’isola, affresco di vita di due amiche – una traduttrice poliglotta e una pianista incinta di due gemelli – dai temperamenti opposti anche nel rapporto con l’unverso maschile. Con apparente semplicità Olafsdottir tratteggia storie quotidiane nell’Islanda di oggi. Riuscendo però a far risplendere nel dettaglio, ciò che è l’universale. Raccontando l’invisibile dei rapporti umani, senza mai metterli del tutto a nudo.

Una capacità che ritroviamo, mutatis mutandis, anche in Jón Kalman Stefánsson, poeta e romanziere immaginifico e della suggestiva prosa lirica che gli permette di scavare con sensibilità nell’animo umano, nella trama cangiante dei desideri di personggi all’apparenza un po’ folli come il direttore del maglificio in Luce d’estate ed è subito notte (Iperborea) che sogna in latino e s’immerge negli studi di astronomia o come il suo deuteragonista, un avvocato convinto che tutto il mondo si regga sul calcolo, fino a quando scopre che non può contare i pesci del mare, né le sue lacrime.

cover_media Entrambi vivono in un piccolo villaggio, lontano da ogni cosa, dalla città e dal mondo occidentale. «E’ nella gente comune che si nasconde ciò che comune non è: i sogni più grandi e i dolori più profondi. Mi piace raccontare di uomini e donne semplici ma epici», dice Stefánsson a left. «A fine Ottocento in cui è ambientata la trilogia di Paradiso e inferno non c’erano delle vere e proprie classi da noi, c’era chi stava un po’ meglio di altri ma in genere erano tutti molto poveri. Ma amavano leggere. Non era affatto raro che un pescatore leggesse Milton o Shakespeare». Anche in Luce d’estate accade la stessa cosa anche se è ambientato ai giorni nostri. «In questo romanzo le persone lottano per sopravvivere, amano, soffrono, ma al tempo stesso vorrebbero, come l’astronomo, guardare il cielo e occuparsi dei grandi temi dell’universo. Quello che amo raccontare – confessa- è un mondo forse perduto ma, poetico, magnifico, pieno di grandezza umana». E’ questo, in fondo, sembra essere il filo rosso che lega la trilogia di Paradiso e inferno e Luce d’estate. «Non so cosa colleghi questi due mondi, a parte il fatto che sono stati entrambi creati da me- commenta Stefánsson -. Sembra però che in tutti e due ci siano  molte persone che hanno difficoltà a vivere la loro vita, a scoprire ciò che vogliono e verso quale direzione vorranno o dovranno andare. E si potrebbe trovare un nesso tra i personaggi femminili: Elisabet in Luce d’estate e Geirthrudur nella Trilogia sono due caratteri forti, due donne che cercano di ritagliarsi uno spazio in un mondo di uomini. Forse quando l’ho scritto nel 2001, dopo essermi occupato per molto tempo di tematiche più astratte e filosofiche, volevo scoprire cosa fosse la vita, la passione, la morte; e scrivere di quanto fosse difficile, a volte, vivere per un essere umano».

Come alcuni suoi personaggi Stefánsson ha fatto molti lavori diversi- il postino, il bibliotecario, il pescatore e perfino il macellaio- prima di trovare la sua strada. «Tutte queste esperienze sono entrate poi nei miei libri. E’ inevitabile – dice -. Specie quelle fatte durante la mia formazione». Ma fondamentale per la qualità della sua scrittura sembra essere stata soprattutto la sua esperienza di poeta. «Ho pubblicato tre raccolte di poesia anni fa e ancora penso come un poeta ma, – ammette Stefánsson – oggi non riuscirei più a scrivere in versi, non credo che fosse il genere a me più congeniale. Ma amo la poesia, è forse la forma più profonda d’espressione: porta una nuova e diversa complessità di senso, commuove e destabilizza il lettore, lo colpisce nel profondo forse più di ogni altra forma artistica, insieme alla musica. La letteratura è sempre stata importante in Islanda, e alla base della nostra stessa idea di nazione . Il nostro è un paese così piccolo e isolato che ha sempre fondato la propria identità sulla nostra lingua. In Islanda la letteratura può e deve fare quel che ha sempre fatto: farti capire che non sei solo e spingerti a farti domandar per capire chi veramente siamo».

a-piena Non senza però quell’ingrediente che si trova in molta letteratura nordica, ovvero l’umorismo. Che in Stefánsson vira al grottesco. «Luce d’estate in certo senso rappresenta la mia lotta contro il materialismo estremo che soffoca le nostre menti. Se il diavolo esiste – dice ridendo – è un maestro di marketing. E uno dei modi per combattere l’avidità dell’uomo è certamente l’umorismo».

E uno humour verace e imprevisto alimenta la prosa di Mikael Niemi, autore di Musica rock da Vittula, dicui Iperborea ha da poco pubblicato anche il suo nuovo La piena. Un romanzo pieno di tensione, cinematografico, che fa emergere la vera natura umana dei personaggi, catapultandoli crudelmente in una situazione di catastrofe naturale. Per molti di loro un orizzonte tragico di «death by water» come nella migliore tradizione shakespeariana, mentre l’acqua assurge ad elemento simbolico dominante insieme a un paesaggio selvaggio potente che sovrasta l’uomo. «Nel nord della Svezia dove sono nato e vivo, il clima è estremamente rigido e la vita è molto dura. Da noi l’umorismo è uno strumento essenziale di sopravvivenza», racconta Niemi a left. «Senza sarebbe impossibile vivere. Ma è un’umorismo a volte nasconto, sotterraneo che, per esempio, gli svedesi del Sud giudicano ruvido o incomprensibile». Al nostro sguardo quello di Niemi è un umorismo tagliante, è la lama con cui disegna magistralmente alcuni suoi personaggi. Che paiono vivere e parlare a ritmo di musica. «La musica e il ritmo per me sono fondamentali – sottolinea Niemi – non solo nella costruzione delle frasi, che qui hanno beat quasi da musica rap, ma anche la strutturazione dei capitoli pensati come una partitura». Ma  per quanto i personaggi si diano da fare, accelerando sul ritmo, sullo sfondo resta protagonista assoluta una natura possente e ingovernabile. Una natura bellissima anche nei suoi aspetti più pericolosi e in cui panteisticamente i personaggi di Neimi, talora, sembrano specchiarsi. «Bisognava navigare nell’odio, nella fenditura del ghiccio», dirà a se stesso uno dei protagonisti di fronte alla moglie presente fisicamente ma che sembra non avere alcun rapporto con lui.  (Simona Maggiorelli e Cristina Rendina)

dal settimanale left-Avvenimenti

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Javier Cercas: sono fanaticamente europeista

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2013

Javier Cercas con Bruno Arpaia

Javier Cercas con Bruno Arpaia

In Spagna è da poco uscito il suo nuovo libro Le leggi della frontiera dedicato alla gioventù bruciata del dopo Franco. E con romanzi immaginifici ma anche di forte impatto politico, è diventato negli ultimi vent’anni uno degli autori, non ancora cinquantenni, più letti ed amati in Europa. Tanto che il festival Dedica,  lo scorso marzo, lo ha eletto assoluto protagonista di due settimane di incontri, letture, mostre, convegni a Pordenone. Mentre la rassegna romana Libri Come lo ha invitato a parlare di Europa degli scrittori. «Sono un fiero europeista» racconta di sé lo scrittore e docente di letteratura spagnola all’Università di Girona. «Capisco che la gente sia infuriata oggi, che dica: “Basta, facciamo un referendum sull’Europa!”. Ma penso sia un errore. Beninteso – precisa Cercas ( in arrivo al Salone del libro di Torino) – io non sono d’accordo sulla fisionomia che ha assunto l’Europa come unione di mercati… Io sono per l’austerità, ma non sono per la morte delle persone. Ma l’ Europa è l’unica utopia ragionevole che abbiamo inventato. Io non so quanti anni ha lei, ma io sono nato nel 1964 e la mia è la prima generazione europea senza guerra. Abbiamo la possibilità di preservare la democrazia, di preservare il welfare e possiamo farlo solo se siamo uniti a livello europeo mentre avanzano colossi come la Cina, l’India, il Brasile. È troppo facile dire che è tutta colpa di Bruxelles. Non cerchiamo un nemico esterno. La Spagna da sola non può fare niente, non lo può fare l’Italia, neanche la Germania da sola può fare nulla. Per questo sono fanaticamente europeista.

Nel frattempo i populismi crescono in Europa. Che cosa ne pensa?

Il populismo ha preso piede in Francia. In Spagna è latente, c’è in Grecia e in Italia. Non sono così esperto da poter entrare nello specifico, ma mi interessa molto l’Italia e leggo quel che dicono i giornali… Non so come si possa votare Berlusconi dopo gli ultimi vent’anni. Proprio non lo capisco. Posso capire la furia, il malessere di tante persone che hanno votato Cinque stelle. Però se uno è ammalato non credo che vada a cercare uno sciamano, cerca un medico. Assisto a tutto questo con grande inquietudine, vediamo cosa succede. Dopo Soldati di Salamina (Guanda, 2004), che ha avuto una quarantina di edizioni, sono usciti in Spagna molti romanzi sulla guerra civile.

Questo flusso di narrazioni ha aiutato l’elaborazione della memoria collettiva, specie da parte dei più giovani?

E’ difficile per me dirlo. Ma i “saggi” dicono di sì. Prima di Soldati di Salamina era stato scritto molto sulla guerra civile. Ma è vero che in quel romanzo è stato visto l’inizio di un modo diverso di affrontare la vicenda del conflitto. Ha coinciso con l’inizio di un lavoro di elaborazione da parte della nostra generazione che è nata dopo la guerra, che non ne aveva mai parlato. E credo sia vero che da lì è cominciato un movimento di recupero della memoria storica. Che poi ha portato anche ad una legge. Ma il problema è che non è stata fatta bene. Zapatero è partito con belle intenzioni ma non ha portato a compimento il suo lavoro. Alla fine della dittatura franchista in Spagna ci fu un patto dell’oblìo.

Vede delle analogie con quanto è accaduto in Italia dopo Mussolini?

Si possono rintracciare delle analogie. Ma resta il fatto che la dittatura di Franco è durata ben quarant’anni, fino al 1975: un periodo assai più lungo. E poi il fascismo non ha avuto una dimensione davvero internazionale, anche se è stato molto importante, una vera tragedia, per l’Italia. Quanto avete pagato l’amnesia che ha caratterizzato il dopo Franco? Devo ammettere che non ho una cattiva idea della transizione dalla dittatura alla democrazia. Soprattutto dopo aver scritto Anatomia di un istante (Mondadori e poi Guanda) il libro successivo rispetto a Soldati di Salamina.

Il libro in cui raccontava gli istanti drammatici del tentativo di colpo di Stato del 23 febbraio 1981 in Spagna?

Sì quando il colonnello Tejero entrò armato in parlamento a Madrid. Ho cercato di raccontare quel momento cruciale, quando fischiavano le pallottole e tutti cercavano riparo mentre solo il primo ministro Adolfo Suàrez, il tenente generale Gutiérrez Mellado e il segretario del partito comunista Santiago Carillo, rimanevano seduti ai loro posti a sfidare il golpe. Non è stato facile per me scrivere quel libro. Raccontare i “nudi fatti” è sempre darne un’interpretazione. Fino a quel momento sopravviveva un patto politico fra la sinistra e la destra. Il partito comunista guidato da Santiago Carrillo (che era il nostro Berlinguer, come sapete erano amici) decise che era molto più importante costruire la libertà e la democrazia che fare giustizia. Io non giudico quella decisione. Ma ovviamente c’è stato un prezzo da pagare per tutto questo.E che avremmo dovuto pagare, non dico immediatamente dopo il franchismo, ma almeno qualche anno dopo. Ma così non è stato: un Paese civilizzato non può permettersi di avere centomila morti non identificati. Questo non è accettabile. Quando Zapatero è andato al potere doveva cercare una soluzione, rapidamente. Invece disse che non c’erano i soldi. La questione rimase irrisolta per una questione di denaro! Poteva essere l’ultima ferita della guerra da curare. Zapatero non l’ha fatto. E ha voluto utilizzare tutto questo politicamente. Non è corretto. Vicende così tragiche non si usano; si risolvono e basta.

Il suo nuovo romanzo Le leggi della frontiera che uscirà ad aprile in Italia per Guanda affronta un altro momento importante della storia spagnola: il dopo Franco, il periodo della sua generazione. Quanto c’è di autobiografico? E quanta invenzione?

Tutti i romanzi, a mio avviso, sono autobiografici. Ma non in senso stretto. Questo nuovo libro, per esempio, racconta la storia di un giovanotto di estrazione borghese che si unisce ad una banda criminale come ce n’erano tante in quegli anni. Ma io non ho mai fatto parte di una gang di quel tipo. Mi piacerebbe poter dire di aver avuto un passato così “avventuroso”, ma non mi è capitato. Ciò che voglio dire con questo è che non racconti mai direttamente la tua vicenda in un romanzo. Ma scrivi ogni romanzo con la tua esperienza, con le tue ossessioni, con tutto quello che hai letto e vissuto. In questo senso scrivere un romanzo è tradurre la tua esperienza particolare in qualcosa di universale. Scrivere narrativa è fare del particolare l’universale. Questa è la letteratura.

La prima parte del suo nuovo romanzo si sviluppa nel 1978, c’è un nesso con Anatomia di un istante?

Comincia nel 1978 e, nella seconda parte, arriva fino ai nostri giorni . Ed è vero che la prima parte si può leggere come “l’altra faccia”di Anatomia di un istante che raccontava la transizione dalla dittatura alla democrazia dal punto di vista della politica alta. Ne Le leggi della frontiera racconto quello stesso passaggio ma dal punto di vista personale e sentimentale. Alla fine potrei dire che questo nuovo romanzo è una lunga e complessa storia d’amore. E potrebbe sembrare autobiografico. Il protagonista del libro è un ragazzotto che assomiglia a me da tutti punti di vista. Lui vive dove vivevo io, nella stessa città, frequenta la stessa scuola dove andavo io. La sua esperienza, almeno nella prime pagine, è simile alla mia, ma come dice Milan Kundera ogni personaggio di un libro è un io ipotetico, una possibilità di me stesso non realizzata. Come Cervantes che un giorno si alzò dal letto e si chiese cosa succederebbe se io invece di trovarmi in mezzo alla battaglia di Lepanto fossi un uomo che non si è mai spostato dal suo paesino e ha passato tutta la vita a leggere libri di cavalleria? Così cominciò ad immaginare Don Chisciotte. Ma Cervantes non è solo Don Chisciotte. Lui è tutti i personaggi del libro. Perché l’autore si dissolve nel romanzo. In questo senso Le leggi della frontiera è un libro autobiografico e tutti i libri sono autobiografici.

Scrivere un romanzo è un po’ come fare uno strip tease al contrario, lei ha scritto in uno dei saggi contenuti nel volume La verità di Agamennone (Guanda, 2012)…

Esattamente. Lo scrittore comincia nudo, ha dalla sua solo la sua esperienza. Pagina dopo pagina poi si veste di immaginazione. Come ha detto, per primo, Mario Vargas Llosa. Nei suoi primi romanzi giocava molto con l’ironia, con la metaletteratura, un aspetto che l’avvicinava a uno scrittore come Roberto Bolaño. Quella fase è terminata? Non avverto una cesura. Quando ero giovane mi ha molto influenzato Italo Calvino. Ancora oggi penso che sia stato un grandissimo scrittore. Ma il mio percorso è opposto. Lui ha cominciato come scrittore realista, attento alla storia e alla fine aveva una narrazione postmoderna, fantastica, giocosa. A me è accaduto l’inverso. Ho cominciato con la metaletteratura, con l’ironia, e poi mi sono interessato alla storia e alla politica. Ma non ci sono in me due scrittori diversi. Sono sempre lo stesso autore. Forse il fatto che io abbia una visione diversa della storia e della politica ha una relazione diretta con quei miei inizi più formalisti, più ludici. Ho sempre pensato che l’ironia sia essenziale al romanzo. Quando non è puro intrattenimento è una forma di conoscenza. Per tornare a Cervantes, Don Chisciotte è in parte comico, ridicolo e in parte tragico. L’ironia può comprendere due cose allo stesso tempo. È straordinaria da questo punto di vista. Tutti i miei romanzi hanno un’ironia che porta a una visione complessa della realtà. Ad una visione antidogmatica.

Per tratteggiare meglio questa realtà polisemica le è necessario il castigliano?

È la mia lingua, non ho potuto scegliere. Ci sono degli autori che scelgono una propria lingua, come fecero Nabokov, Conrad, Beckett ma sono casi speciali. Io posso scrivere in catalano. La tradizione catalana è magnifica, è bellissima, ma al fondo non è la mia lingua. Ma c’è anche altro: quando ho iniziato a scrivere c’era una grande fioritura di autori latinoamericani. La lingua spagnola nella seconda metà del Novecento ha recuperato la centralità nella narrativa internazionale. I miei “padri” sono stati Borges, Garcia Marquez, Vargas Llosa, Rulfo, grandissimi scrittori. Io non sono uno scrittore spagnolo, sono uno scrittore in spagnolo. E poi la lingua è sì importante, ma più importante è il linguaggio. Uno scrittore ha sempre due tradizioni: una è la lingua in cui scrive, il suo strumento, e l’altra è la tradizione universale. Queste sono le due ruote del carro, altrimenti non cammina. Per me ci sono autori italiani importanti, ma anche nordamericani e sudamericani più di tutti. Posso essere più vicino a un autore di qualcuna di queste tradizioni e fare una scelta d’elezione, sentendomi più vicino a un autore svizzero, per dire, che a uno spagnolo. Perché no?

( intervista di Simona Maggiorelli, dal settimanale left)

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Educazione siberiana. Urka che bufale

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 16, 2013

Nicolai Lilin

Nicolai Lilin

Nelle lontane terre degli Urka, antico popolo siberiano, selvaggio e ribelle, di cui narra Nicolai Lilin nei suoi romanzi. Il regista Gabriele Salvatores si è innamorato del suo Educazione siberiana (Einaudi), tanto da trarne un film in uscita nelle sale il 28 febbraio e di cui si parla già molto.

Un kolossal, girato a parecchi gradi sotto zero, con John Malkovich nel ruolo del carismatico e crudele nonno Kuzja, figura chiave del romanzo di esordio di questo giovane scrittore russo che vive a Milano dopo essere stato guastatore in Cecenia e poi investigatore privato, infiltrato e tatuatore secondo una tradizione che in Transnistria si trasmetteva di generazione in generazione.
A trentadue anni, con un tris di bestseller all’attivo e un libro fresco di stampa, Storie sulla pelle (Einaudi) in cui racconta l’abilità di fare tatuaggi come una sorta di arte maieutica, Lilin è un personaggio piuttosto curioso nel panorama letterario, attento a costruire la propria immagine di “uomo duro delle steppe” pezzo dopo pezzo, dosando interviste e apparizioni in programmi come Le regole del gioco  (in onda su Dmax) in cui racconta il mondo dei  gladiatori sul ring e dei tiratori scelti.

Una cifra di cruda violenza, codificata secondo ancestrali codici di onore, del resto, caratterizza tutta la narrativa di Lilin e in modo particolare l’infanzia di Kolima il piccolo eroe di Educazione siberiana. Tanto che incontrando Gabriele Salvatores  dopo l’anteprima dell’omonimo film non possiamo non chiedergli, incuriositi, che cosa lo abbia convinto a tradurre il romanzo di Lilin sul grande schermo.

John Malkovic, in Educazione siberiana

John Malkovich, in Educazione siberiana

«La violenza è quanto di più lontano da me ci possa essere – dice  il regista -, ma quando i produttori di Cattleya mi hanno chiesto di leggere questo romanzo mi ha incuriosito il popolo Urka di cui racconta. Mi ricorda i pellerossa d’America che difendevano il loro mondo mentre tutto intorno a loro stava cambiando inesorabilmente. Nonno Kuzja è un po’ come l’ultimo dei Mohicani, lo dicevo sempre   a Malkovich sul set. Ma più di tutto – racconta Salvatores – mi interessano le domande che sollevano  le storie estreme di questi personaggi: quali regole rispettare? Cosa è giusto e cosa non lo è? Domande che chiamano in causa la nostra visione del mondo».

L’etica in cui Kollima cresce è certamente un’etica criminale. Mentre il suo alter ego Gagarin, non ha nemmeno quella. Ed entrambi si trovano del tutto impreparati a vivere un momento epocale come la fine dell’Urss. «La loro storia mi ha riportato alla mente alcuni racconti di Conrad e di London – dice Salvatores – ma anche certa letteratura russa da Dostoevskij a Tolstoj. In particolare Delitto e castigo». E in effetti il film ha un tono da narrativa ottocentesca: immagini pittoriche si alternano a scene cruente, dando alla narrazione un respiro che vorrebbe essere epico. Il piglio è quello del romanzo di formazione avventuroso e a tratti perfino picaresco. Aspetti che non troviamo nel libro di Lilin. «Mi sono permesso di prendere dal libro quello che più mi piaceva – ammette il regista – Trascurando una certa mitizzazione delle armi che non mi corrispondeva. E forse ho aggiunto qualcosa di mio alla storia dei due personaggi. Kollima e Gagarin, che sono l’uno l’opposto dell’altro. Ma mi ha fatto piacere che Lilin si sia sentito comunque rappresentato dal film. Si è addirittura commosso vedendolo».

il regista Salvatores con Malkovich sul set

il regista Salvatores con Malkovich sul set

Un elemento che è molto forte tanto nel romanzo quanto nel film è, invece, la presenza viva della natura, fortissima e ostile. «I personaggi hanno un rapporto quasi panteistico con la natura- commenta Salvatores-. Ma la natura è crudele, non ha pensiero, non ha regole se non quella della continuazione della specie. Per questo tipo di comunità, invece, ogni cosa è derivata dall’ambiente e ho cercato di raccontarlo. Anche se personalmente rifiuto la giustizia sommaria che mutuano dalle leggi naturali. Se un mio amico avesse violentato una ragazza come fa Gagarin io non vorrei più vederlo, non lo frequenterei più, ma non credo arriverei ad ammazzarlo. Detto questo, il film non è un documentario sugli Urka, non vuole essere un’indagine sociologica o antropologica. Né mi interessa, al fondo, sapere se le cose che Lilin racconta come vissute in prima persona gli siano state solo riferite. Credo che il suo romanzo nasca da un misto di invenzione e autobiografia. Per quel che mi riguarda  volevo girare una storia di formazione in un mondo lontano dal nostro, reso più affascinante proprio dalla lontananza».

E a questo patto “letterario” si lega il pubblico che per godersi il film non ha bisogno di passare la storia al vaglio della verità. «Per essere esistiti, gli Urka sono esistiti davvero- precisa Salvatores – erano tribù di guerrieri e cacciatori liberi, un po’ come i cosacchi che furono usati come truppe speciali. Gli Urka si rifiutarono sempre di essere assoldati; non accettavano il potere, né quello zarista né quello comunista. Parliamo di una cultura che probabilmente si è estinta, anche questo mi piaceva l’idea di riscoprirla». Spietati con i trafficanti di droga e i traditori, orgogliosi di essere diversi e lontani dalla mafia russia, fin dalla prima scena del film gli Urka vengono presentati con un ossimoro, come «onesti criminali».

Da parte sua, a scanso di equivoci, rivendicandoli come propri avi, nelle interviste Lilin non perde occasione per dire che gli Urka non erano una mafia. «Certo non una mafia come quella russa o italiana di oggi – commenta Salvatores – ma simile alla mafia dell’Ottocento, con un codice d’onore, un’appartenenza a una setta a una famiglia, a un clan, non a caso tornano sempre questi termini». E a chi, come lo scrittore russo Zachar Prilepin, accusa Lilin di essersi inventato tutto di sana pianta, creando un immaginario ad uso e consumo dell’Occidente e dei “brividi delle signore”, Salvatores commenta sorridendo «Probabilmente la realtà delle cose in Transnistria, dove è ambientato il romanzo e dove Lilin dice di aver vissuto fino all’età di 18 anni, è diversa. Ma la forza dell’arte russa è sempre stata quella di basarsi su cose reali, procedendo per metafore. Perciò il realismo magico di Chagall ci incanta». (Simona Maggiorelli)

dal settimanale lft-avvenimenti

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Pamuk e i fantasmi del Bosforo

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 9, 2013

Orhan Pamuk nel Museo dell'Innocenza

Orhan Pamuk nel Museo dell’Innocenza

di Simona Maggiorelli da Istanbul

Una strada in salita che si inerpica su per una zona popolare di Istanbul affacciata sul Bosforo dalla parte occidentale.

Fin dalla caduta di Costantinopoli (la presa di Costantinopoli dal punto di vista ottomano) nel 1453 questa era la parte della città abitata da minoranze non musulmane a cui il governo guardava con sospetto, ma anche la zona «delle migliori bettole dell’epoca ottomana» come scrive il premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk. Parliamo del quartiere di çukurcuma.

Qui, prima dei progrom ordinati dal governo turco (l’ultimo avvenne ne 1955), greci, armeni ed ebrei gestivano panetterie, negozi di rigattieri, drogherie, botteghe artigiane e altri piccoli commerci.

Di quell’epoca sopravvivono ancora alcune belle palazzine, fra scheletri di più antiche abitazioni ottomane in legno, andate a fuoco. Oggi svettano cieche e abbandonate fra gallerie d’arte, negozi vintage e nuovi bistrot frequentati da studenti e scrittori. L’università intitolata a Sinan, il grande architetto del Rinascimento ottomano, non è lontana.

Mentre procediamo alla ricerca del Museo dell’Innocenza aperto in questo quartiere dallo scrittore Pamuk, nei vicoli bambini giocano a pallone, fra gatti al sole e donne velate che camminano piano con la spesa. Proprio come nelle pagine del memoir Istanbul (Einaudi, 2006) in cui il Nobel turco rievoca la sua infanzia e la sua formazione negli anni Cinquanta e Sessanta.

Rtpq0GPJLO come in certi poetici scatti in bianco e nero del fotografo turco Ara Güler, il cantore di Istanbul in fotografie di struggente bellezza. Più dei confinanti quartieri di cihangir e beyoglu, çukurcuma, del resto, è il quartiere dei contrasti, della modernità più trendy e cosmopolita che vive accanto ai resti del passato, evocando i fantasmi di uno splendore ottomano irrimediabilmente perduto.

Insieme le due anime della città – moderna e antica, occidentale ed asiatica – contribuiscono a creare quella atmosfera che rende speciale Istanbul. Un sentimento poetico «per molti versi simile a quello che gli artisti occidentali hanno sempre chiamato malinconia», nota Pamuk, «che qui si chiama hüzün ed è una forma di tristezza, non individuale e privata, ma collettiva e condivisa. Per uno splendore passato che è svanito e che ha lasciato un vuoto incolmabile».

Segretamente questa vaga malinconia appare come il genius loci, la malta invisibile che tiene insieme questa immensa città di 11 milioni di abitanti, che si stende lungo le due ali del Corno d’oro.

L’hüzün pervade la letteratura e la musica turca, ma è anche un modo di affrontare la vita. E mentre riflettiamo su come le strade di çukurcuma paiano addirittura plasmate da questo sentimento, d’un tratto,  mimetizzato tra altre palazzine, ecco comparire il Museo dell’Innocenza, a cui Pamuk ha lavorato per più di quindici anni e che già mentre era in fieri era meta di “pellegrinaggi sentimentali” da parte di lettori.

Immagineil museo dell'innocenzaIl colore rosso amaranto e l’insegna dal gusto retrò lo segnalano al passante come un museo piuttosto insolito, all’interno di una affascinate casa torre a più piani. Il portone è chiuso, nessuno all’ingresso. Ma poi dal seminterrato spunta il sorriso dell’addetto alla biglietteria e un gigante in divisa ci fa entrare raccomandandosi di non fare rumore: l’effetto, straniante, è quello di entrare in casa di qualcuno mentre lui non c’è.

Davanti a noi una scala a chiocciola, e una lunga teoria di bacheche piene zeppe di cimeli, di oggetti, di ricordi, di ritagli di giornale, di giochi, di reclame. Un pullulare di «buone cose di pessimo gusto» per dirla con Guido Gozzano. Che a guardare meglio si rivelano essere i tristi souvenir di un amore a cui il giovane Kemal, per ossequio alle regole di una alta borghesia turca, occidentalizzata e fortemente classista, ha voluto-dovuto rinunciare. Lei, bellissima, si chiamava Füsun e faceva la commessa. Lui era il rampollo di una famiglia bene nella Istanbul degli anni Settanta, già destinato a una fanciulla del suo rango.

Kemal e Füsun sono i protagonisti del romanzo Il Museo dell’innocenza (Einaudi, 2009) che Pamuk ha scritto e pubblicato nel 2008 prima di realizzare questo museo: uno dei più insoliti e bizzarri fra quanti possa capitare di vedere. Sbirciando attraverso i vetri delle teche d’antan ai lettori più attenti di Pamuk, nel frattempo non sarà certo sfuggito l’orecchino che Füsun perse quella volta facendo l’amore con Kemal e i tanti mozziconi, con le tracce del rossetto della ragazza, che punteggiano quella passione che a Kemal è fuggita fra le dita. Il romanzo di Pamuk danza intorno alle memorie di questo amore. Precipitate fisicamente in oggetti. Che Pamuk ha recuperato dai robivecchi, nei bric a brac, in casa di amici e parenti oppure si è fatto costruire ad hoc dagli artigiani del quartiere.

«Vedi, in questi silenzi in cui le cose s’abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto», recitano i versi di Eugenio Montale che Pamuk a scelto come esergo de L’innocenza degli oggetti, il libro catalogo da poco uscito in Italia per Einaudi e che racconta la lunga gestazione di questo museo che espone oggetti reali di una storia immaginata, ma «non vuole essere in nessun modo un’illustrazione  grafica del romanzo».

Semmai un proseguimento del romanzo su un altro piano creativo, stabilendo nessi inediti fra letteratura e arti visivi, ma anche sollecitando il pubblico ad interrogarsi sulle tragiche amnesie che attraversano la storia turca. L’apertura del Museo dell’innocenza era già annunciata per il 2009, l’anno di Istanbul città europea della cultura. Ma fu Pamuk stesso a voler rimandare l’inaugurazione per non portare acqua a quel governo turco, che nel 2005 lo aveva incriminato per insulto all’identità nazionale a seguito di alcune dichiarazioni che lo scrittore aveva fatto ad una rivista svizzera sul massacro da parte dei turchi di un milione di armeni e 30mila curdi in Anatolia durante la prima guerra mondiale.

dal settimanale left

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