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Velàzquez, maestro di libertà

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 29, 2015

Venere allo specchi  di Velazquez

Venere allo specchio di Velazquez

Nonostante il re e la Chiesa, il pittore spagnolo mise a nudo il potere. Rappresentando la condizione umana e il teatro della vita. Una grande mostra al Grand Palais ne ripercorre l’opera

Ci voleva la garanzia scientifica del Louvre per poter mettere insieme così tanti capolavori di Diego Velàzquez (1599-1660), il pittore del Siglo de oro, a cui il musei spagnoli, e non solo, devono ampie fette del proprio pubblico. Ma questa è decisamente un’occasione speciale. Si tratta della prima grande antologica dopo quella del Prado e del Metropolitan Museum di New York negli anni Novanta; la prima in assoluto che la Francia dedica a questo maestro del Seicento, pittore del re eppure mai allineato, che entrò a corte mentre fioriva la stagione del romanzo picaresco, quando uscivano i capolavori di Cervantes, di Luis de Góngora e di Calderón de la Barca, l’autore de La vida es sueño (1635) con il quale Valàzquez ha in comune l’interesse per il teatro della vita e una raffinata riflessione sul rapporto fra realtà e fantasia, fra verità e finzione e, per l’autore di Las Meninas (1656), fra rappresentazione e creazione di immagine.

Proprio seguendo il filo rosso che in questo caso lega pittura, poesia e teatro, il curatore della mostra parigina Velàzquez, Guillaume Kientz, è riuscito a costruire uno scenografico percorso che al Grand Palais, fino al 13 luglio 2015, raduna centoventi opere, di cui 57 attribuite all’artista spagnolo, prestate dai maggiori musei d’Europa, e poi dai musei di Boston, di Dallas, di Chicago (come la splendida Mulatta del 1617 che esce dal buio di una cucina) e Forth Worth in Texas (dove è conservato l’elegante ritratto di Don Pedro de Barberana), ma anche da collezioni private fuori dalla portata del grande pubblico.

 Autoritratto di Velzquez , Uffizi

Autoritratto di Velzquez , Uffizi

E, malgrado l’assenza di Las Meninas, fin dalle prime sale, dove sono ripercorsi gli anni della formazione di Velàzquez a Siviglia, le sorprese non mancano. Figlio della piccola nobiltà locale l’artista entrò giovanissimo nella bottega di Francisco Pacheco, pittore colto anche se interamente inscritto nella corrente del naturalismo iberico e religioso. Fin dagli esordi con bodegones di tipo tradizionale, incentrati su scene sacre in ambienti apparentemente quotidiani, il giovane Velàzquez si stacca completamente dalla produzione a lui contemporanea. La sua Scena in taverna e La cena ad Emmaus (1617) spiccano per l’atmosfera intima e umanissima e per i chiaroscuri caravaggeschi in questo confronto diretto con le virtuosistiche nature morte di Zurbarán, con crudo realismo di Ribera e con il patetismo dei bamboccianti.

Anche quando sotto il giogo controriformista ha il compito di ritrarre i potenti esponenti del clero, come madre Jeronima de la Fuente che andò a evangelizzare le Filippine, non cela nulla della loro realtà. Tutt’altro che idealizzata la suora appare come una arcigna e torva presenza che impugna una croce come fosse una lancia da guerra. Già in questa tela del 1620, scura e improntata a uno smagato realismo, si scorge la straordinaria libertà creativa che Velàzquez seppe darsi. Nonostante l’inquisizione e i rigidi protocolli di corte. Come testimoniano qui i ritratti di Filippo IV, il malinconico imperatore al quale l’artista fu legato da un sodalizio durato 37 anni: un rapporto anche di amicizia, oltreché di stima professionale, tanto che il sovrano scelse proprio lui per un importante incarico diplomatico in Italia volto all’acquisto di opere d’arte per la collezione reale accettando il ritardo di mesi con cui il pittore rientrò a Madrid volendo aspettare la nascita del figlio avuto dalla giovane pittrice romana Flaminia Triva.

In quel periodo Velàzquez ebbe modo di approfondire lo studio di Tiziano, Tintoretto e dei maestri del Rinascimento, veneto e toscano, come non aveva potuto fare durante il suo primo viaggio nella penisola (1629 -31) che gli era stato consigliato da Rubens. Nella capitale realizzò uno dei suoi ritratti più celebri, quello di papa Innocenzo X (1650). Arrivato dalla romana Galleria Doria Pamphilj questo quadro apre una spettacolare teoria di ritratti di vescovi, di inquisitori, dell’infanta Marie-Therese del principe Baltassar e dell’infanta Marguerite ma anche di persone comuni di cui non si conosce il nome e poi di vividi ritratti di teatranti e nani di corte, che esprimono un’umanità schietta e distante dall’espressione del potere. Come Il buffone Calabazas proveniente dal museo di Cleveland e quello dell’attore Pablo de Valladolid (1635) giunto dal Prado.

 Velazquez, Papa Innocenzo X

Velazquez, Papa Innocenzo X

Opere in cui Velàzquez mostra una straordinaria capacità di intuire la psicologia del soggetto, cogliendo l’individualità di ognuno con fresca immediatezza. Al punto che al gretto e rancoroso Innocenzo X il proprio ritratto parve troppo crudelmente vero per essere mostrato in pubblico. Ma grande capacità di scavo psicologico mostra anche nel nobile e austero ritratto proveniente da Boston del poeta Luis de Góngora (1622), amareggiato – si dice – per l’invidia e le trame di corte; quadro potentissimo come, per altri versi, lo è quello di un giovane uomo che si ipotizza possa essere un autoritratto, al pari da quello incluso in Las Meninas che James Hall nel L’autoritratto. Una storia culturale (Einaudi) legge come rappresentazione della libertà del pittore capace di relegare sullo sfondo il potere per dedicarsi alla propria arte.

Il terzo autoritratto, quello degli Uffizi, in cui appare in età matura intorno agli anni 1640-50, con un colpo di teatro, sigla la conclusione del percorso, in una buia sala ovale, da cui spunta l’immagine di un cavallo bianco, che fa pensare alla vitalità creativa di questo straordinario artista, che è ancora in grado di toccarci profondamente dopo molti secoli.

Prova ne è la sensuale ed enigmatica Venere allo specchio (1651) della National Gallery che, prima di arrivare all’evocativo epilogo della mostra, ci aveva sorpresi alla fine del primo piano. Con stridente e aperto contrasto la tela, che ritrae forse la giovane pittrice che Velàzquez conobbe a Roma, è qui accostata all’Ermafrodito, la statua di età romana appartenuta alla collezione privata del cardinal Scipione. Tanto le morbide forme della misteriosa Venere appaiono affidate a una pittura dalla pennellata sfrangiata ed evocativa, tanto quelle della statua romana appaiono fredde e di una bellezza solo materiale.

Il soggiorno italiano certamente addolcì la tavolozza di Velàzquez, la rese più sfumata. Ma in questa tela c’è qualcosa di più. C’è il gioco di sguardi che, attraverso lo specchio, Venere ingaggia con chi vede il quadro, azzerando ogni distanza temporale e aprendo lo spazio pittorico a quello reale dello spettatore, qui e ora. Ma soprattutto c’è l’ interesse per lo spazio, per lo studio del nudo femminile (quasi assente nell’arte spagnola seicentesca dominata dall’Opus dei), inteso come rappresentazione di affetti e passione. ( Simona Maggiorelli, settimanale Left)

Left

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Il fascino della vita zingara

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 13, 2013

Van Gogh, la carovana degli zingari vicinoad Arles (1988)

Van Gogh, La carovana degli zingari vicino ad Arles (1888)

di Simona Maggiorelli

Ultimi giorni per vedere una mostra  affascinante come Bohèmes al Grand Palais di Parigi. Di fatto due esposizioni in una: la prima dedicata alla cultura zingara e l’altra alla vita ribelle di quegli artisti che nell’Ottocento sceglievano di vivere come nomadi, per una esigenza di libertà interiore, di ricerca, per un netto rifiuto di una società borghese sempre più positivista e basata solo sul calcolo e sul guadagno.

Merito del curatore Sylvain Amic è aver voluto esplicitare questo nesso che percorre come un fiume carsico la pittura più viva e fertile del XIX secolo.

Ma anche, e ben più tragicamente, il Novecento quando zingari e artisti d’avanguardia, bollati come degenerati, furono perseguitati dal nazismo.

Attraverso un centinaio di opere e inanellando capolavori di artisti dai linguaggi espressivi assai diversi – da Corot a  Courbet da Van Gogh a Turner e oltre – la mostra Bohèmes ( aperta fino al 14 gennaio) mette a fuoco un modo di intendere la pittura che si ribellava agli accademismi, all’establishment cristallizzato, recuperando una struggente e viva sensibilità, vissuta a fior di pelle. Raccontando come gli emarginati, i vagabondi, gli anarchici e gli artisti che sfidavano la società ricca e inerte si trovarono idealmente ad incontrarsi.

Sotto la cupola trasparente del Grand Palais, il percorso espositivo inizia, non a caso, con immagini di zingari visti attraverso lo sguardo dei grandi maestri, da quelli immaginifici disegnati da Leonardo da Vinci in un disegno conservato a Londra, alle scene di vita in carovana raffigurate analiticamente nelle incisioni di Callot, fino ai nomadi ritratti come soggetti “esotici” da Delacroix.

Courbet, Lhomme à la pipe (1846)

Courbet, Lhomme à la pipe (1846)

Fin dal Medioevo gli zingari venivano chiamati “egiziani”, erano trattati con diffidenza per i loro furti e al tempo stesso ammirati per la loro libertà. Il fascino romantico dell’Oriente rafforzò questa visione. Così ecco pittori come Dehodencq, ma anche come innovatori radicali come Manet che si lasciarono ispirare dagli zingari di Spagna. Mentre Diaz de la Peña, Bellet e Poisat si fecero quasi etnografi per raccontarne la vita.

Il vento del socialismo  influì sulle menti più aperte della Bohème. Portando Van Gogh sulla strada di Corot e dell’epica degli umili, per quanto intrisa di religiosità spartana e protestante. Sul versante più tipicamente romantico spicca, invece, Gustave Courbet, l’autore dello “scandaloso” L’origine del mondo e del Manifesto del bohèmien, superbamente rappresentato in mostra dal celebre autoritratto con la pipa del 1846, non solo dal più teatrale ritratto in cui appare con lo sguardo sgranato, come colto di sorpresa da una realtà nuova e sconvolgente.

Un modo di intendere la Bohème,  quello di Courbet, che trovò assonanze nei versi di Baudelaire e fu reso estremo e maudit da Rimbaud e Verlaine. Transitando poi nella prima avanguardia delle folli notti parigine, di arte, amori e assenzio, raccontate da Degas e vissute fino a rimetterci la pelle da  Modigliani e Toulouse-Lautrec.  A percorrere l’intera mostra sono giochi di assonanze, “corrispondenze di amorosi sensi”, ma anche scivoloni nel melodramma. Basta pensare alla Bohème di Murger a cui si ispirò Puccini.

 

dal settimanale left-avvenimenti 12 gennaio 2013

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Buren, maestro della luce e del colore

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 26, 2012

Dopo aver trasformato il Grand Palais in un caleidoscopio di riflessi, l’artista francese Daniel Buren , in Calabria,  reinventa il Parco archeologico di Scolacium con specchi e vetrate blu e rosse

di Simona Maggiorelli

Daniel Buren, Pechino 2004

«Per me il colore è pensiero puro», dice Daniel Buren. Forse il maggior artista francese vivente. Che con le sue luminose opere site specific fatte di vetri policromi o rivestite di tessuti a strisce ha cambiato il volto ad alcune delle piazze e dei luoghi pubblici più noti al mondo, da Pechino a Parigi e oltre.

Ma dagli anni Ottanta, dopo aver sostanzialmente abbandonato la pittura a favore di installazioni architettoniche, Buren ha anche contribuito a ricreare con fantasia aree urbane senza identità, anonime: quegli spazi metropolitani che l’antropologo Marc Augé definirebbe «non luoghi».

Aeroporti, snodi per le merci, oppure ponti come quello di cemento che attraversa il fiume di fronte al Museo Guggenheim di Bilbao, un grigio e trafficato punto di passaggio che lo scultore parigino ha trasformato del tutto sormontandolo con un magnetico arco rosso  facendone una specie di simbolo e di icona che identifica la zona del museo.

Da qualche tempo però, più che gli spazi della contemporaneità, Buren sembra prediligere “angoli” densi di storia. Accade così che su invito di Alberto Fiz direttore del Marca di Catanzaro, l’artista da qualche mese si sia “trasferito” nel parco archeologico di Scolacium per creare nuove opere in dialogo con le vestigia romane che qui sopravvivono fra gli uliveti.

Daniel Buren, Luxenburg 2001

Dal 27 luglio e fino al 14 ottobre l’antica Basilica del Parco, dopo il suo intervento, si presenta in veste rinnovata, carica di riflessi blu e rossi che filtrano dalle vetrate di plexiglas realizzate ad hoc: al variare della luce creano atmosfere cangianti, in un magico movimento di luci e ombre.

Più in là, l’antico teatro. Al centro, Buren ha costruito una gigantesca struttura specchiante che dilata lo spazio scenico, facendone una piattaforma virtuale, un lago di riflessi sotto il sole a picco della Calabria.

L’antico teatro romano appare ora come uno spazio irreale, visionario, orizzonte di miraggi e arena di immaginarie scorribande di demoni meridiani. Accentuando le linee di forza dei ruderi, o raddoppiandone illusionisticamente gli spazi e, ancora, disseminando il parco di elementi semplici ed essenziali come archi e colonne, Buren reinventa la trama visiva del Parco di Scolacium facendone un luogo delle meraviglie.

Un po’ come era già successo lo scorso giugno, quando è stato invitato a intervenire sul Grand Palais di Parigi per la rassegna Monumenta ( che ogni anno chiede a un artista contemporaneo di creare ex novo un’opera per questo importante spazio) . In quel caso l’elegante e austera struttura in ferro illuminata dalla cupola a vetri, nelle mani di Daniel Buren, è diventata un caleidoscopio di rossi, verdi, blu, gialli e arancio.

Daniel Buren,Monumenta 2012

Realizzando delle grandi vetrate a mosaico, Daniel Buren ne ha fatto una splendente macchina rinascimentale. Una sorta di Wunderkammer in cui raggi di luce, colori, riflessi sembrano cambiare di continuo  i volumi delle cose e creano dal nulla forme geometriche che ridisegnano gli spazi; Buren qui come altrove  ha ripreso alcuni topoi dell’arte concettuale di cui è maestro aprendoli a imprevisti di fantasia.

In questo caso poi, creando un ideale ponte fra contemporaneità e storia dell’arte del  Quattrocento l’artista dice  di essersi ispirato anche  al pittore toscano Paolo Uccello (1397-1475), l’autore della spettacolare Battaglia di San Romano degli Uffizi, una grande tela che ha ben due opere pandant e di pari importanza conservate al Louvre e alla National Gallery: «Uno dei pittori più straordinari della storia occidentale – sottolinea Daniel Buren -, perché con tre tele di battaglia seppe creare prospettive vertiginose, che attraggono lo spettatore dentro il quadro», prospettive ad alto impatto emotivo  che  l’artista  realizzò aiutandosi con l’uso dello specchio. Ben prima di Parmigianino, di Caravaggio e di Velàzquez.

da left-avvenimenti

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Dare forma all’invisibile

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 3, 2011

di Simona Maggiorelli

Anish Kapoor Rotonda della Besana, foto Melzi

Dopo l’omaggio ad Ai Wei Wei al Grand Palais di Parigi con un’opera politica che vuole accendere l’attenzione sulla sorte dell’artista cinese arrestato nei mesi scorsi e di cui non si hanno più notizie, Anish Kapoor è in Italia con due nuove installazioni e una retrospettiva. Per il suo ritorno alla Biennale di Venezia, che lo lanciò nel 1990,l’artista anglo-indiano ha pensato di riproporre una delle sue prime opere realizzate per Artecontinua di San Gimignano, stabilendo così un filo di continuità con la sua storia di scultore e architetto raccontata fino al 9 ottobre alla Rotonda della Besana di Milano da una bella mostra curata da Gianni Mercurio e Demetrio Paparoni.

Nella milanese Fabbrica del vapore, invece, Kapoor propone fino all’8 gennaio, una nuova installazione site specific, dal titolo Dirty corner, Un’opera monumentale, di forte impatto emotivo, che attraversa il grande spazio da archeologia industriale della fabbrica. E che ricorda gli spazi specchianti, opere in luminoso acciaio e dalle superfici ricurve, che Kapoor, negli anni, ha realizzato per città come Londra e Chicago dove si trova il suo celebre “fagiolo”, una scultura in acciaio che sembra un’enorme goccia di mercurio vivo nel cuore del Millennium Park.

Anish Japoor Dirty Corner

Ma nell’accogliente bocca di Dirty corner che attira il visitatore ad entrare dentro un tunnel c’è anche un chiaro rimando a tutta l’elaborazione che Kapoor ha compiuto negli ultimi vent’anni su forme primarie e primordiali, che rimandano alla differenza fra maschile e femminile, alla sessualità, al continuo cambiamento  nel rapporto profondo fra uomo e donna, così come nel continuo divenire della vita biologica. Un tema che l’artista ha cercato di rappresentare nella scultura When I’m Pregnant e che non rimanda semplicemente alla gravidanza in senso stretto.

Con l’uso del colore, (all’inizio, soprattutto, il giallo e il rosso di puro pigmento) con l’uso di materiali malleabili come la cera (vedi My Red Homeland del 2003 ora riproposta a Milano), ma anche cavando forme dinamiche da granito, marmo e ardesia, Anish Kapoor è riuscito a fare “un uso allargato” del mezzo scultoreo, aprendo la scultura a una molteplicità di nuove forme, ma anche facendo diventare «la scultura tutt’uno con lo spazio» come giustamente rilevano Mercurio e Paparoni nel saggio contenuto nel catalogo Skira. La filosofia buddista, i miti e le forme dell’arte indiana più antica, così come il lavoro di artisti delle avanguardie storiche come Brancusi sono spesso tirati in causa per raccontare la complessità e la densità di significati dell’opera di Kapoor. Ma certamente non bastano per spiegare il fascino e l’intensità delle sue sculture, come abbiamo provato ad argomentare, in altre occasioni, anche su queste pagine.

da left-avvenimenti

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Il mondo dell’arte nel 2010: ritorno alla ricerca

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 15, 2010

Mentre Parigi e Londra puntano sulla cultura per battere la crisi, il Belpaese resta al palo. Nonostante l’apertura del MaXXI e alcune mostre di pregio. Ecco lo scenario che si prospetta per il nuovo anno

di Simona Maggiorelli

Kandinsky

Lasciati alle spalle gli anni zero dell’euforia dei mercati internazionali dell’arte e, specie per quanto riguarda l’Italia, gli anni di “mostrite” acuta (che nell’ultimo decennio ha prodotto una ridda di mostre già finite nel dimenticatoio) l’anno nuovo si apre all’insegna di esposizioni che tornano ad esplorare le avanguardie storiche e l’opera dei maestri che hanno segnato importanti svolte nei due secoli passati: da Goya a Van Gogh, da Gauguin a Kandinsky a Picasso. Ma il 2010 dell’arte, in molta parte d’Europa, si annuncia anche all’insegna di un concetto chiave come la valorizzazione dei beni culturali. Solo per fare un esempio basta dire che il presidente francese Sarkozy, anche per reagire alla crisi economica, nell’anno che si è appena aperto ha in programma di realizzare un grosso processo di riforma e di rilancio del Grand Palais e della Rmn (Réunion des musée nationaux) con l’obiettivo di “fare di Parigi una delle prime sedi di mostre a livello internazionale”. E mentre Londra, con un forte rilancio delle due sedi della Tate e con il ricco programma di esposizioni dedicate alle civiltà antiche della National gallery e del British punta a scippare a Berlino il primato di capitale dell’arte contemporanea e dell’archeologia, Barcellona e Amsterdam, investono su mostre scientifiche di studio e di approfondimento dell’opera di Picasso e Van Gogh.

E nel Belpaese?

Quanto a valorizzazione del patrimonio tutto procede, purtroppo, in ben altra direzione. Dopo un anno di fortissimi tagli al Fus alla tutela e alle soprintentendenze il responsabile della neonata direzione generale della valorizzazione dei beni culturali, il super manager ex Mc Donald’s Mario Resca ha appena varato una campagna pubblicitaria in cui il Colosseo appare smontato pezzo dopo pezzo mentre il David di Michelangelo, imbracato, si invola in cielo. Sotto scorre una minacciosa scritta: “se non lo visitate lo portiamo via”. Chi ha avuto modo di viaggiare durante queste festività ha visto senz’altro modo di notare questa geniale sortita del nostro ministero dei Beni culturali che circola on line nel circuito tv dei più importanti aeroporti nostrani. Ma tant’è. Continuando a sperare che gli italiani prima o poi si decidano a dare il ben servito a questa classe politica di centrodestra che, fra le altre pensate, ha concepito anche una Spa per la cartolarizzazione e la vendita di importanti pezzi del patrimonio nazionale, nell’anno che si apre gli amanti dell’arte antica e contemporanea avranno alcuni appuntamenti per rinfrancarsi, almeno un po’. Appuntamenti dovuti- è quasi pleonastico dirlo- alla tenacia di singoli studiosi non certo alle “ politiche” di questo governo.

Man Ray nudo di Meter Hoppenheim

Fra i vari eventi pensiamo in modo particolare dalla mostra ideata da Claudio Strinati per i quattrocento anni dalla morte di Caravaggio alle Scuderie del Quirinale a Roma, ma anche della duplice rassegna dedicata a Giotto e Assisi (marzo-settembre 2010) e al cantiere della Basilica e all’arte umbra tra il Duecento e il Trecento. Ma parliamo anche e soprattutto, della definitiva apertura del MaXXI, il museo del XXI secolo disegnato da Zaha Hadid, che dopo 11 anni di gestazione e 6 di costruzione aprirà a maggio con cinque mostre: da Spazio! dedicata alle collezioni permanenti di arte e architettura alla antologica dedicata a Gino De Dominicis curata da Bonito Oliva. Per il resto in Italia si produce poco e si importa molto. Seppur non di rado con profitto, come nel caso della grande mostra dedicata ai maestri dell’arte astratta che approderà al Guggenheim di Vercelli dal 20 febbraio sotto l’egida del curatore (nonché direttore del Macro di Roma) Luca Massimo Barbero. O anche come nel caso della mostra Utopia matters, che dal primo maggio, a cura di Vivien Greene, inaugura la nuova ala museale del museo Peggy Guggenheim di Venezia.Ma pensiamo anche alla mostra Goya e al mondo moderno che si aprirà il 5 marzo al palazzo Reale di Milano con la collaborazione di Skira. In questo quadro di collaborazione fra l’editore di origini svizzere e Palazzo Reale preceduta dalla rassegna Schiele e il suo tempo che si aprirà il 25 febbraio.

Su e giù per lo stivale

Mentre a Villa Manin a Passariano di Codroipo (Udine) prosegue con successo di pubblico fino al 7 marzo la mostra L’età di Courbet e Monet. La diffusione del realismo e dell’impressionismo nell’Europa centrale e orientale il prolifico e, comunque sia, bravissimo Marco Goldin con Linea d’ombra annuncia già la mostra Munch e lo spirito del Nord, in programma sempre a Villa Manin: 40 dipinti del pittore norvegese intercalati ad altri 80 dipinti che raccontano della pittura in Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca nel secondo Ottocento.

dalla mostra aristocratic

E ancora a Parma, dal 16 gennaio Novecento arte fotografia moda design, una grande mostra che indaga il secolo passato inseguendone tutti i rivoli, grazie alle molte donazioni che gli artisti stessi hanno fatto al centro di documentazione creato da Arturo Carlo Quintavalle e Gloria Bianchino. In mostra opere di Schifano, Burri, Boetti, Fabro, Ceroli, Guttuso, Fontana, Sironi e molti altri.

Hong Kong tradional trandy

E ancora celebrando il Novecento, a Venaria reale e al museo del cinema di Torino la mostra 400 anni di Cinema: dal film paint alle lanterne magiche, in co-produzione con la Cinémathèque frainçaise di Parigi. Per quanto riguarda la fotografia, dal 29 gennaio al 5 febbraio 2010, in veste di evento off di ArteFiera 2010 di Bologna segnaliamo la proposta della rassegna Aristocratic The new experience. Una mostra che racconta un’esperienza caratterizzata da un forte desiderio di interagire con la realtà e che tuttavia porta a una trasformazione delle immagini in chiave assolutamente personale, anche attraverso la sperimentazione di nuove tecniche, strumenti e materiali.

Spagna. Dal genio di Picasso in poi

Al museo Picasso di Barcellona si indaga l’influenza cruciale che l’artista catalano Santiago Rusiñol esercitò sul giovane Picasso comparando l’opera dei due artisti dal punto di vista biografico e iconografico. Dal 15 ottobre al 16 gennaio 2011 poi il museo Picasso di Barcellona organizzerà una mostra che esplora i rapporti fra Picasso e Degas affidandola alla cura di una delle maggiori studiose dell’artista spagnolo Elizabeth Cowling dell’ University of Edinburgh. Un confronto basato sul fascino che Degas esercitò su Picasso e sul diverso uso che i due artisti fecero di pastelli pittura, scultura stampe e fotografia. Una mostra che punta a esplorare le risposte esplicite di Picasso a Degas ma anche i nessi concettuali più nascosti fra i due artisti. Al Prado,invece, nel 2010 approderà la mostra dedicata all’esplorazione della luce del romantico Turner,già passata per il Grand Palais e che mette a confronto i suggestivi paesaggi del pittore inglese con opere del XVI e XVII firmate da Brill, Carracci, Lorraine e Poussin. Intanto si lavora già a una importante mostra dedicata all’ultimo Raffaello e che sarà esposta al Prado e al Louvre nel 2012. Nell’anno che si apre ricchissimo è anche il programma del museo Guggenheim di Bilbao dove per dicembre è attesa una retrospettiva del pittore americano Robert Rauschenberg scomparso nel 2008.Ma anche e soprattutto una importante antologica dell’artista indiano Anish Kapoor,una delle personalità più sensibili e interessanti della scultura contemporanea. La mostra ricalca in parte quella organizzata dalla Royal Academy of Arts di Londra lo scorso anno e che ha avuto un notevolissimo successo di pubblico e di critica.

La grande Francia

L’anno francese si apre all’insegna di una grande rassegna dedicata alle icone sacre dei territori della Russia cristiana (dal 3 maggio al Louvre) con una mostra che scandaglia la tradizione che va dal IX al XVIII secolo.Al Centre Pompidou, da aprile a luglio Attraversando nazioni e generazioni Crossing nations and generations, Promises from the past con cinquanta artisti dall’Europa centrale e dell’Est , a più di vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino cercando di individuare continuità e punti di rottura nel lavoro delle generazioni di artisti più giovani.

E ancora, per quanto riguarda l’archeologia, in primavera al Louvre, Meroë, impero sul Nilo. Di fatto si tratta della prima mostra dedicata esclusivamente alla capitale egizia, con più di duecento reperti che raccontano dell’influenza africana egizia e greco romana che si intrecciò in questa area di 200 chilomentri a nord dell’attuale Khartoum. La capitale reale Meroë è diventata famosa nei secoli per le piramidi dei re e delel regine che dominarono la regione tra il 270 a.C e 350 d.C. Un tema quello dell’esplorazione delle civiltà antiche che ritroviamo al centro anche della mostra Strade verso l’Arabia. Tesori archeologi dall’Arabia saudita. Una mostra che permette di conoscere più da vicino la storia artistica di questo paese che a causa del regime fondamentalista che lo governa rende difficile l’accesso agli occidentali.

Sua maestà la ricerca scientifica

Senza perdere troppo tempo con gli eventi da cassetta la National Gallery punta sulla ricerca scientifica ed il restauro. Così tra le mostre più interessanti proposte dai musei inglesi per il 2010 c’è a partire da fine giugno la rassegna dedicata alle recenti scoperte riguardo ad attribuzioni e nuovi studi su opere di grandi maestri conservate alla National Gallery. Un esempio abbastanza emblematico: nel 1845, il quadro dal titolo Uomo con teschio fu attribuito a Hans Holbein. Una recente analisi dell’opera con mezzi aggiornati e scientifici ha dimostrato che l’opera risale e a un periodo successivo alla morte dell’artista.

Esplorando un altro ambito poco sotto i riflettori come quello del disegnoo antico, dal 22 aprile, sempre alla National Gallery si apre una grande mostra dedicata al disegno rinascimentale italiano, da Verrocchio a Leonardo a Michelangelo e Raffaello. Per quanto riguarda le civiltà antiche e l’arte di altri continenti, dal 4 marzo, la National ospita una grande retrospettiva dedicata alla scultura africana nigeriana che conobbe una particolare fioritura tra il XII e il XV secolo. E poi con un salto di molti secoli ancora dando uno sguardo alla fitta programmazione della Tate si segnalano nel 2010 la mostra dedicata all’avanguardia europea di Theo van Doesburg (1883-1931) protagonista del movimento olandese di artisti, architetti e designers De Stijl. Ma anche e soprattutto la retrospettiva di Arshile Gorky (1904-1948) dal 10 febbraio, in un confronto serrato con la diversa ricerca di Rothko, Pollock e de Kooning. E ancora dal 30 settembre l’antologica dedicata a Gauguin con un centinaio di opere da collezioni pubbliche e private del mondo per uno sguardo nuovo su questo maestro della modernità.

dal quotidiano Terra del 2 gennaio 2010

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Un archivio di memorie vive. Firmato Boltanski

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 24, 2010

All’Hangar Bicocca Boltanski ricrea Personnes, la montagna di “stracci” del Grand Palais

di Simona Maggiorelli

Boltanski, Personnes

La nascita e la morte, le due cesure forti della nostra vita. Il trascorrere inesorabile dei giorni e il nostro sentire, pensare, amare e continuo cambiare. Ma anche gli intrecci fra storia personale e collettiva. E le storie individuali che non trovano posto in quella ufficiale.
E ancora: la memoria viva che si crea nello iato fra fotografie ingiallite e il nostro vissuto più intimo. è una riflessione profonda sul tempo umano quella che il cosmopolita Christian Boltanski ha sviluppato nell’arco di cinquant’anni, fin da quando era ragazzino e artista autodidatta nella Parigi del dopoguerra. Una riflessione realizzata perlopiù attraverso grandi cicli di opere che usano materiali poveri e installazioni multimediali. L’ultimo ciclo si chiama Monumenta e ha avuto una suggestiva tappa invernale al Grand palais di Parigi prima di approdare, dal prossimo 23 giugno, nell’Hangar Bicocca di Milano appena restaurato. Sotto la copertura di vetro del Grand Palais, come dentro la scabra e austera archeologia industriale dello spazio d’arte milanese diretto da Chiara Bertola, l’artista francese ha creato un paesaggio umano fatto di abiti smessi e abbandonati.

Un’enorme montagna colorata che cambia continuamente sagoma per mano di una gigantesca gru di ferro. Ogni vestito, ogni pezzo di stoffa, ogni bottone si fa traccia di un vissuto. Quasi una pagina strappata dal diario di una persona a noi sconosciuta ma qui potentemente evocata. Frammenti di un discorso personale che, come le maniche di queste giacche e maglioni, si intreccia a quello di altri, tessendo la trama cangiante e complessa della storia. Giocando sul doppio senso di Personnes in francese, Boltanski ha ricreato per Milano una delle sue elegie più potenti. Adattandosi  agli spazi fisici dell’Hangar, senza temere che nuovi contesti possano snaturare la sua opera. Perché è il processo creativo, è l’idea, ciò che conta per Boltanski (in questo sodale di Yves Klein) non i dettagli della sua concretizzazione finale. Tanto che, si narra, quando la Tate gallery di Londra una volta gli chiese di accorciare e modificare una sua installazione, lui non ebbe obiezioni di sorta. E se a Milano, come è accaduto a Parigi, dei bambini si metteranno a giocare con quella montagna di abiti, lui ne sarà contento, lo scopo sarebbe pienamente raggiunto.

Perché, come ha raccontato lo stesso Boltanski, Personnes non vuole essere uno statico archivio storico, né tanto meno una riflessione sulla morte come una vanitas di arte sacra, ma al contrario «un archivio vivo» di racconti del passato, da “riusare”. Ma intorno a questa idea Boltanski, da cinque anni, sta realizzando anche un altro utopico e provocatorio progetto: Gli archivi del cuore che presenterà in anteprima all’Hangar. Si tratta di un’immensa collezione di registrazioni dei battiti del cuore del pubblico raccolte in ogni parte del mondo, con cui l’artista crea stranianti partiture sonore per le sue installazioni.
Anche a Milano Boltanski inviterà i visitatori della mostra a registrare le pulsazioni del proprio cuore in una cabina. Chi vorrà potrà portarsene a casa una copia, registrata su un cd.
Dal luglio 2010, poi, gli archivi del cuore saranno conservati nell’isola giapponese di Teshima, nel mare interno di Seto, per la bizzarra volontà di un mecenate locale.

da left-Avvenimenti 11 giugno 2010

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A Parigi i paesaggi fantastici di Turner

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 2, 2010

Dalla Tate al Grand Palais. Una mostra invita alla riscoperta del maestro del Romanticismo

di Simona Maggiorelli

Wiliam Turner, Snow storm

Fuori dalle regole rigide e asfittiche della pittura di accademia. In fuga dai manierismi leziosi del Rococò. Ma anche dalla chiarezza geometrica, fredda e astratta dell’Illuminismo. La pittura di William Turner (1775-1851) ha rappresentato un importante punto di svolta per una moderna cultura dell’immagine, una volta e per tutte, emancipata dalla mimesis e dal calco neoclassico. Più della pittura visionaria e potente di Friedrich, segnata da uno spiritualismo intriso di umori protestanti. Più delle tumultuose scene Sturm und Drang e degli incubi religiosi di Füssli. Ma anche più della pittura eroica di Géricault, l’arte di Turner con le sue visioni dai contorni indefiniti, con le sue atmosfere cangianti e sempre in movimento, seppe dare forma e colore a quella sensibilità e quella ricerca sul profondo che nell’Ottocento si espresse soprattutto in poesia ma anche in certa filosofia.

E se in Germania il pensiero di Schelling, assieme alla poesia di Novalis, fu paradigmatico nella formazione di un’estetica romantica, in Inghilterra la pubblicazione nel 1798 delle Lyrical ballads di Coleridge e di Wordsworth aprì una nuova stagione artistica, al di là della compartimentazione dei generi.

William Turner Sun setting

Di estrazione sociale modesta (era figlio di un barbiere) ma avendo avuto la possibilità di frequentare la Royal Academy da quando aveva 15 anni, Turner entrò a poco a poco in questo nuovo milieu d’avanguardia che lo incoraggiava a mettere il proprio sentire al centro del lavoro pittorico. Sovvertendo quella tradizione illuministica portata al successo da Hogarth che era schiava del ritratto “fotografico”, dell’aneddotica e del vedutismo: una pittura di genere (di paesaggio e o di interni) di impianto razionale e minuziosamente descrittivo che oltremanica si era sviluppata grazie a una diffusa committenza alto borghese e aristocratica. Ma come racconta la mostra Turner e i suoi pittori, che abbiamo visto anni fa alla Tate di Londra e che ora, fino al 24 maggio, è al Grand Palais di Parigi, Turner non tagliò d’un tratto i ponti con il passato come avevano fatto i suoi colleghi tedeschi e francesi. Maturando una cifra personale originalissima, fra nuovi stimoli romantici e studio della pittura dei maestri del passato a cominciare da Lorrain e Poussin. Così da Didione costruisce Cartagine, che dissolve la struttura classica del paesaggio in una vampata di colori, fino all’ultimo Turner “pre-impressionista” (e quasi astratto), attraverso un centinaio di dipinti e disegni, la mostra parigina permette di seguire le infinite sperimentazioni che gli consentirono di arrivare sulla tela a un’immagine via via sempre più profonda ed emotivamente potente. Anche grazie a una tecnica a olio straordinaria e in continua evoluzione che, come scriveva Hugh Honour in Romanticismo (Einaudi), non era banalmente una tecnica «ma una espressione del suo pensiero d’artista».

da left-avvenimenti del 2 aprile 2010

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Quel sovversivo di Picasso

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 16, 2009

yo-picassoDetestava chi copia, ma citava, alludeva e, soprattutto, ricreava le opere dei maestri.Un trittico di mostre a Parigi ci racconta un genio in dialettica continua col presente e con la storia di Simona Maggiorelli da Parigi

Ora che il trittico di mostre parigine Picasso et les maîtres (al Grand Palais, al Louvre e all’Orsay fino al 2 febbraio 2009) si offre a visite più vivibili, si può dare il giusto tempo e respiro all’emozione dei tanti capolavori qui squadernati… e senza il rischio di svenire addosso al vicino. Il fatto è che vedere la Maja di Goya accanto alla Venere di Tiziano, all’Olympia di Manet e alle libere e pagane reinvenzioni che ne fece Picasso è un’esperienza non comune. Se poi si aggiungono i percorsi dedicati al ritratto e all’autoritratto in cui quadri giovanili di Picasso (e già sorprendentemente maturi) dialogano con opere di El Greco, Rembrandt, Van Gogh e Cézanne, c’è di che rimanere senza fiato.

Per non dire poi del fascino enigmatico di un’opera cardine del Siecento come Las Meninas di Velàzquez qui a contatto con le scomposizioni e ricreazioni che Picasso seppe farne in un “corpo a corpo” durato fino alla fine della sua vita. E tutto questo mentre il Musée d’Orsay ospita le metamorfosi che la fantasia picassiana impose a quella Colazione sull’erba con cui Manet scosse i benpensanti di metà Ottocento. E, sempre in contemporanea, il museo del Louvre dà spazio alle vivaci riletture di un capolavoro di luci e ombre come le Donne di Algeri di Delacroix a cui Picasso negli anni Cinquanta dedicò una suite di quindici variazioni ispirata dalla nuova amante, Jaqueline, e in omaggio a Matisse.

Insomma, quella ideata da Anne Baldassari e da Marie-Laure Bernadac più che una mostra si presenta come una ridda di esposizioni, che si richiamano fra loro portando alla luce una fitta e vitale trama di rapporti fra opere del Novecento e dei secoli precedenti, ma anche suggerendo accostamenti inediti fra opere coeve. Un gioco labirintico di rimandi sostenuto da un pensiero che le due curatrici, benché la loro non sia una mostra a tesi, affermano con chiarezza attraverso la scelta delle tele e degli accostamenti: l’inventore del cubismo fu un artista iconoclasta, certamente il più innovativo del secolo scorso, ma non un genio chiuso in un proprio solipsismo e indifferente alla tradizione.

La sua ricerca, suggeriscono Baldassari e Barnadac, non si nutriva solo di una vita pienamente vissuta fra appassionati e tumultuosi rapporti con le donne ma anche di una continua dialettica con quelli che Picasso considerava, per ragioni le più diverse, dei masterpieces. Opere che l’artista spagnolo non solo studiava e frequentava assiduamente nei musei ma che amava collezionare in fotografie. picassE se la serie di varianti dai grandi maestri, sviluppate in modo processuale (come in una sequenza cinematografica aperta) caratterizzò soprattutto gli ultimi vent’anni di attività, «fin da giovanissimo Picasso – ricorda Anne Baldassari – si confrontò con i maestri spagnoli ma anche con classici come Michelangelo e Raffaello. Pur continuando a nutrire un insopprimibile desiderio di libertà e quel piglio sovversivo che lo porterà a realizzare le più radicali innovazioni».

Picasso non copia, ma fa suo ciò che ama e cita con piglio decisamente antiaccademico. E qualche volta parodizza come si evince qui dal confronto fra il seicentesco Ritratto di un artista dell’amatissimo El Greco e la divertita “copia” picassiana che ne accentua il manierismo fin quasi alla caricatura. Più spesso l’artista di Malaga si lancia in sottili e ironiche parafrasi. Come quando nel 1901 dipinge il funerale dell’amico suicida, il pittore e poeta Casagemas esemplandolo sul potente e visionario Funerale del Conte d’Orgaz di El Greco. Ma ai santi in cielo, sostituisce un gruppo di discinte prostitute. algerianCon uno sberleffo anticattolico. E le traduzioni iconoclaste non risparmiano neanche colui che più di ogni altro, Picasso considerava padre della modernità: Cézanne. Nel riprendere alcuni lavori del maestro di Aix, Picasso ne coglie l’essenza e al tempo stesso ne fa una attualizzazione. Come dimostra il confronto organizzato al Grand Palais fra rispettivi studi sul nudo, ma ancor più il confronto fra due opere che ci sarebbe piaciuto vedere in mostra: Madame Cézanne con ventaglio e la rielaborazione che ne fece il pittore spagnolo, rendendo “tangibile” e vibrante la tensione interna al ritratto originale. E forse è proprio questo modo di ricreazione di un’immagine densa di significati uno degli aspetti più interessanti dell’uso che Picasso fa della lezione dei maestri. Ricreazione che va di pari passo all’uso sapiente dell’allusione. E qui il pensiero va a un’altra opera (purtroppo non in mostra) che dedicò all’amico suicida, La morte di Casagemas, realizzata con i colori prismatici di Vincent Van Gogh e le sue pennellate vorticose e materiche. Accanto alla sua testa del giovane che si sparò nel 1901 Picasso fa comparire una candela uguale a quella che arde sulla sedia vuota di Gauguin dipinta da Van Gogh. Quasi a voler regalare all’amico la sensibilità tormentata del genio olandese, assegnando al contempo a se stesso il ruolo del rude e “selvaggio” Paul Gauguin colpevole di un’assenza (un’indifferenza?) verso l’amico. Ma non solo.

Molte intuizioni creative di Picasso, ci racconta la mostra parigina, nascevano in margine a opere di artisti che lui stesso aveva eletto in un proprio ideale Parnaso. Opere che l’artista malagueño studia e assimila. E che, come accennavamo, non di rado decostruisce e ricombina senza alcun timore reverenziale. Ed è attraverso il confronto con gli altri, la conoscenza e il rifiuto che talvolta Picasso approda a un’idea nuova, una sua visione del tutto originale. superstock_1330-1142Emblematico da questo punto di vista il rapporto con l’amico e “rivale” Matisse di cui emula lo splendido notturno Vaso di pesci rossi oggi al Pompidou trasformandolo in uno studio di artista essenziale e astratto, dominato dal rosso. Mentre altrove ne critica l’impostazione realizzando opere che ne ribaltano la visione estetica e figurativa.

Tanto che l’aspra avversione di Matisse per una delle opere più rivoluzionarie di Picasso, Les demoiselles d’Avignon, si ipotizza nascesse proprio dal fatto che vi leggeva una dissacrazione della sua La gioia di vivere del 1905-1906. E se è pur vero che Picasso con queste sue vitali immagini femminili dallo sguardo ipnotico, dai contorni tagliati con il coltello, in un contrasto di colori che attiva drammaticamente la superficie del quadro, faceva apparire d’un tratto scialba la visione matissiana di uomini e donne nudi che amoreggiano in un’idilliaca natura, è altrettanto vero che Les demoiselles del 1907 appaiono come una potente opera sincretistica in cui sono sussunti e rielaborati un’infinità di riferimenti: da Matisse a Ingres, da Cézanne all’arte negra e al primitivismo iberico. E molto ancora. Contributi che, tuttavia, sono completamente fusi nell’invenzione picassiana di un’immagine che prima non esisteva. Un’immagine nuova che, per la sua irrazionale e creativa rottura di tutte le convenzioni artistiche occidentali (di bellezza, armonia, completezza, chiarezza, coerenza) rappresenta uno spartiacque nella storia dell’arte occidentale, influenzando poi generazioni e generazioni di artisti e pittori.
Left 2/09

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Il flop di Marinetti

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 16, 2009

boccioni-01-composizione-spiralica15cmNel 1914 il teorico della «guerra igiene del mondo» andò in Russia. E Majakovsky gli organizzò un’accoglienza ostile. Al Mart un “illuminante” confronto fra avanguardia nostrana ed europea di Simona Maggiorelli

Dopo il clamore che tre anni fa suscitò la sua Italia nova. Une aventure de l’art italien 1900-1950 al Grand Palais, mostra parigina che fu accusata dalla stampa d’oltralpe di revisionismo storico e di occultare i rapporti fra futurismo e fascismo, la direttrice del Mart di Rovereto Gabriella Belli torna a esplorare il primo ’900 italiano ma, questa volta, con uno sguardo allargato all’Europa e ai rapporti che i futuristi ebbero con “Der Sturm” e con gli artisti che parteciparono all’avanguardia tedesca: da Chagall a Kandinskij, da Klee a Macke a Marc, fino allo stesso Grosz e altri espressionisti. Ma soprattutto con la mostra Illuminazioni-Avanguardie a confronto. Italia, Germania, Russia (dal 17 gennaio al Mart, catalogo Electa) insieme alla curatrice Ester Coen, la Belli ora approfondisce i contatti che il futurismo ebbe con l’avanguardia russa. Argomentando così in maniera più ampia la tesi della osteggiata mostra francese, ovvero che il futurismo italiano fu un movimento complesso e magmatico in cui, specie nei primi anni, si trovarono a convivere una tradizione intellettual-sovversiva di stampo anarcoide, un certo ribellismo borghese e un montante spirito nazional-fascista. Nell’underground romano di Bragaglia e negli ambienti intellettuali di una Milano che agli inizi del secolo sorso si faceva teatro di un primo sviluppo capitalistico e di lotte operaie avvenne questo bizzarro incontro culturale. Una ossimorica koinè che Umberto Carpi ha puntualmente ricostruito già anni fa ne L’estrema avanguardia del Novecento (Editori riuniti) e in Bolscevico immaginista (Liguori). Quasi, verrebbe da dire, anticipando alcune contraddizioni del ’68: nel futurismo istanze diversissime, quando non del tutto opposte, si incontravano nell’idea di un avanguardismo «come metodo» e in una vitalistica «febbre di ricerca». popova_01E in un primo momento anche Antonio Gramsci guardò con simpatia a questo svecchiamento della cultura italiana promesso dal futurismo con un’apertura internazionale. Ma di lì a poco l’inconciliabilità delle diverse posizioni esplose in modo deflagrante. E se gli interessanti tentativi di creare una arte progressista che si saldasse a una sinistra politica del costruttivista Pannaggi e dell’immaginista Paladini (artisti che ebbero qualche risonanza internazionale e rapporti costanti con l’avanguardia russa) finirono per arenarsi e rimanere isolati, con l’accordo fra Mussolini e i futuristi ogni velleità di sperimentazione, anche di Marinetti, dovette cedere il passo alla trinità “ordine, gerarchia, tradizione” imposta da Prezzolini e dal gruppo dei vociani. Ma già molti anni prima della definitiva normalizzazione del movimento futurista che avvenne negli anni 30 (con il suo leader assurto ad accademico d’Italia e gli ultimi futuristi mutati in  picchiatori) durante il “leggendario” viaggio in Russia di Marinetti del 1914 si sarebbero potuti leggere segni di una fredda presa di distanza da parte di quella avanguardia russa che poi Lenin ingaggiò per dipingere i treni della rivoluzione del ’17. Pagine di storia che ora, in occasione della mostra al Mart, si possono leggere nel resoconto di uno storico dell’arte russo Vladimir Lapšin, pubblicato in catalogo. Di fatto i pittori cubo-futuristi russi snobbarono il tour marinettiano mentre artisti come Mikhail Larionov, Natalia Goncharova a Olga Rozanova guardarono alla Francia non all’Italia. Senza dimenticare che fu soprattutto il poeta Majakovsky a organizzare un’accoglienza apertamente ostile alle conferenze di chi, come Marinetti, teorizzava la necessità della violenza e parlava della guerra come «sola igiene del mondo». Left 02/09




carra

Quei semi di Futurismo

Con il manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti apparso il 20 febbraio del 1909 sul quotidiano parigino Le Figaro “l’Italia assume un ruolo di porta bandiera nel panorama delle avanguardie europee”. Così scrive Antonio Paolucci nel catalogo della mostra Futurismo avanguardia-avanguardie, dal 20 febbraio alle Scuderie del Quirinale di Roma, dopo l’anteprima al Centre Pompidou di Parigi ( vedi left del 16 gennaio 2009 e del 30 dicembre 2008). Ma il presidente della commissione scientifica delle Scuderie poi aggiunge: “Il movimento futurista è velocità, movimento, dissoluzione della forma tradizionale, contaminazione, simultaneità, rimescolamento e sovrapposizione dei codici. I suoi ideali sono il vitalismo, il modernismo, la rivoluzione radicale e permanente; valori guida delle grandi ideologie totalitarie del ‘900, dalla Russia dei Soviet all’Europa dei fascismi”. Affermazioni inaccettabili in così rozze equiparazioni che “dimenticano” che il comunismo, benché andato incontro a esiti disastrosi, aveva obiettivi del tutto opposti a quelli del fascismo. Ma se per un momento ci accontentassimo della disanima del Futurismo dovremmo dire che si tratta di affermazioni utilissime per valutare la complessa koinè di anarchismo ( nella foto I funerali dell’anarchico Galli di Carrà, 1911), interventismo, ribellismo borghese che dette vita al movimento marinettiano di inizi ‘900 a Milano. La straordinaria messe di documenti contenuti nel catalogo Futurismo 1909-2009 edito da Skira, che accompagna la mostra in corso in Palazzo Reale a Milano, offre argomentazioni ampie su quanto da un po’ di tempo cerchiamo di dire a proposito di un certo mix, di un micidiale corto circuito, fra istanze libertarie e violente, che poi avrebbe allungato un’ ombra ( con tutti i distinguo storici del caso) fino al Surrealismo e al ’68. Se ne rintracciano alcuni segni , per usare parole dello stesso Marinetti, nella “ travolgente e incendiaria” rivendicazione di un movimento aggressivo…insonne e febbrile”, che auspicava un “ salto mortale, lo schiaffo ed il pugno”. Pur mettendone fra parentisi molti altri aspetti, non è difficile intravedere in queste parole i prodromi di gesti surrealisti che prendevano ad esempio gli assurdi di Lautrémont incitando a spari a caso nella folla, come massimo gesto surrealista. Certo Breton e compagni non arrivavano con Marinetti a celebrare la” guerra igiene del mondo”.

Nei primi video e fotografie Man Ray , Max Ernst e altri facevano delle belle donne un’icona. Ma il”disprezzo della donna” invocato da Marinetti che è alla base del mascolino Manifesto delle donne futuriste del 1912 sembra sinistramente riverberarsi, in forma più nascosta e inconscia, negli scritti e affermazioni di Breton e sodali , mentre la bella Kiki de Montparnasse che aveva creduto alle loro fredde lusinghe, si suicidava fra alcol e droghe. s. maggiorelli

Da Left-Avvenimenti 20 febbraio 2009

Da Left-Avvenimenti 20 febbraio 2009


Amazzoni futuriste

di Simona Maggiorelli

Per Marinetti e co. la guerra era “l’igiene del mondo”. E l’enfasi sulla violenza, così come l’adorazione della macchina (“Un automobile da corsa è più bella della Venere di Samatrocia”) lasciava intendere un universo tutto al maschile. Del resto il Manifesto del Futurismo pubblicato nel 1909 su Le Figaro è esplicito: “il disprezzo della donna” era uno dei punti cardine dei futuristi – pittori, scultori, teatranti, paroliberisti e aeropittori- che ben presto sarebbero finiti sotto lo stivale di Mussolini. L’avversione al femminismo delle prime suffragette, ree di trascurare le faccende di casa, come il disprezzo per la femme fatale decadentista, sensuale sciupa-famiglie, ne sono una traccia concretissima. E se nel 1912 Boccioni e Marinetti sfilano a Londra “sottobraccio alle pochissime suffragette carine”, in quello stesso anno, nel Manifesto Tecnico Marinetti scrive: “il calore di un pezzo di ferro o di legno è ormai più appassionante per noi del sorriso e delle lagrime di una donna”. Come documenta Giancarlo Carpi nel suo Futuriste, letteratura, arte e vita (Castelvecchi) “Linferiorità assoluta della donna” è teorizzata da Marinetti in più occasioni. Tanto che una voce di donna gli risponderà in Francia, quella di Valentine de Saint-Point, autrice del Manifesto della donna futurista, in cui – ahinoi- rivendica un ruolo di donna amazzone e guerriera. Nel centenario futurista, con il suo documentatissimo lavoro Carpi ci invita a leggere libri futuristi come L’uomo senza sesso di Fillìa accanto a quelli di Bruno Corra e del prode Marinetti. Testi che presentano una costante: “l’eroe- scrive Carpi- è avversato da donne sentimentali e portatrici di eros debilitante…”, che ostacolerebbero l’uomo proteso verso il futuro tecnologico. Ovvia conseguenza di tutto ciò, una ridda di rappresentazioni deformanti, grottesche della donna, nella pittura futurista come negli scritti. Ma il fatto tragico che Carpi racconta è l’adesione cieca che artiste oggi sconosciute ai più – come la pittrice Regina, come la danzatrice Giannina Censi e molte altre – manifestarono, facendo propria la violenza di queste immagini, assumendole come modelli.

dal quotidiano Terra

Regina, l’outsider futurista

Una mostra a Brescia riscopre il percorso originale della scultrice, dall’aeroplastica all’astrattismo

di Simona Maggiorelli

Regina

Urge un’arte nuova!” proclamava la scultrice Regina nel manifesto dell’aeroplastica futurista, stilato con Bruno Munari, Carlo Manzoni, Gelindo Furlan e Riccardo Ricas nel ’34 ( ora edito in Futuriste, Castelvecchi).”Naturalmente -scriveva l’artista – urge per noi sensibili ché tanto il pubblico se ne frega che si possa trasmettere una nuova sensibilità come non avrà certamente organizzato magnifici festeggiamenti al sig. Newton quando scoprì la forza di gravità”. Apertura ai nuovi linguaggi ( compreso quello della scienza),sperimentazione a tutto campo fra scultura, disegno, danza e musica connotano tutta l’opera di Regina, lungo un quarantennio di ricerca continua. La mostra Regina futurismo, arte concreta e oltre alla Fondazione Ambrosetti di Brescia, fino al 9 aprile 2010, invita a riscoprire il suo originale percorso dagli esordi negli anni Venti con sculture in lamina di latta e alluminio fino agli esperimenti di arte concreta con Gillo Dorfles e Munari nei primi anni Cinquanta e poi ai “divertimenti” in plexiglas colorato negli anni 60. Come emerge con tutta evidenza anche da questa personale curata da Paolo Campiglio, per Regina l’adesione al Futurismo nel 1931 non fu che una tappa. E non a caso che le sue frequentazioni in questo ambiente non riguardarono la marmaglia guerrafondaia del secondo futurismo. Piuttosto, come ricostruisce Luciano Caramel in una monografia Electa oggi pressoché introvabile, era stata la scultura di Boccioni ad interessare Regina,attratta in modo particolare dalla sua ricerca polimaterica e sulle forme in movimento. Diversamente dalle artiste che si dicevano tout court futuriste e figuravano nel movimento lanciato da Marinetti da gregarie, (quando non da mogli o fidanzate),lei seppe cogliere la spinta futurista verso un’arte nuova intuendo che si trattava di riempire quelle parole di nuovi contenuti che riguardavano l’arte astratta perché non rimanessero lettera morta.

da Left-Avvenimenti gennaio 2010

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