Il Paese delle grandi conquiste democratiche è diventato il più chiuso d’Europa. Con una durissima legge sulla immigrazione. La denuncia dello scrittore Olav Hergel
di Simona Maggiorelli
La Danimarca delle grandi conquiste democratiche, dei diritti, del benessere, da qualche anno mostra un volto assai diverso e duro. Un volto fatto di intolleranza e ostracismo. Verso gli immigrati che guardano al ricco Nord con la speranza di potersi ricostruire una vita migliore. Ma anche verso i rifugiati. Che nella civilissima Danimarca, al 95 per cento, si vedono respingere la richiesta d’asilo. In media, dopo aver passato dai 2 ai 4 anni nel vuoto pnueumatico di centri di accoglienza che sono delle vere e proprie carceri: “non luoghi”, asettici e impersonali dove circa il 50 per cento dei richiedenti asilo, anche i minori, viene messo sotto psicofarmaci. Mentre crescono i tentativi di suicidio. A denunciarlo è un noto giornalista, Olav Hergel, oggi collaboratore del Politiken e vincitore del Premio Cavling.
«In meno di quindici anni la Danimarca è diventata una delle nazioni più chiuse d’Europa. Con una delle leggi sull’immigrazione più severe nella Unione Europea; una norma – ci ricorda – nata da un accordo fra il governo di centrodestra e il Partito del Popolo che gli ha dato sostegno esterno». Così, prosegue Hergel, «un popolo gentile e tollerante ha assorbito ciò che c’è di peggio in Occidente quanto a xenofobia, diventando capofila della negazione dei diritti umani».
Dopo essersi scontrato con la riluttanza dei maggiori media danesi, restii a dare spazio alla questione dei rifugiati, Hergel ha deciso di fare del suo lavoro di ricerca sul campo il nerbo di un romanzo d’inchiesta, Il fuggitivo, uscito nel 2006 in Danimarca e nel 2008 diventato film per la regia di Kathrine Windfeld (ma perdendo di mordente politico). Ora, finalmente, questo avvincente esperimento di reality-fiction esce anche in Italia nella collana Ombre di Iperborea.
Ambientato durante la prima guerra Usa in Iraq, racconta la storia di una giornalista che accetta di andare in Medioriente da embedded, al seguito dell’esercito danese. Ma il “mestiere” in Rikke Lyngdal (solare alter ego femminile dell’autore è più forte dell’obbedienza al direttore-manager della testata per cui lavora: i suoi reportage dal fronte portano in primo piano la crisi e la sfiducia dei soldati danesi verso una guerra fondata sul pregiudizio, in cui i civili iracheni muoiono come mosche. Così il direttore del Morgenavisen regolarmente li cestina. Finché un giorno Rikke viene rapita da un gruppo di ribelli iracheni e lui, d’un tratto, vede in tutta questa storia un mezzo per fare soldi.
Intorno a questa trama scarna e fin troppo realistica, Hergel costruisce un potente affresco di storia danese recente, dai primi anni Novanta a oggi; anni in cui l’uso politico della paura da parte delle destre ha fatto breccia in una ricca Danimarca che teme di perdere i propri privilegi. Ma anche in quella parte più povera e religiosa del Paese che torna a vagheggiare il mito di Cristiania. Fondendo cronaca e narrazione, senza scadere mai nell’aridità letteraria di molti noir, Hergel ci mostra come i discorsi di pochi fanatici siano diventati legge in Danimarca. Agitando lo spauracchio di una immigrazione-invasione che non c’è mai stata nel Paese. «I centri di accoglienza danesi ospitano appena 2600 richiedenti asilo. Quelli olandesi 25mila. Benvenuti in una nazione che non ha problemi di immigrazione ma non se ne rende conto» scrive Hergel calandosi nei panni della protagonista femminile de Il fuggitivo. Poi l’amaro affondo: «Dopo l’assassinio di Theo van Gogh i media danesi hanno fatto di Ayaan Hirsi Ali un’icona. E sembra quasi che sperino nell’arrivo del terrorismo e dei crimini religiosi».
E ancora: difendendosi da accuse di filoterrorismo per aver nascosto il giovane rapitore iracheno che l’aveva liberata, Rikke annota: «Quando una nazione perde il rispetto per l’individuo e non si lascia turbare dal suo dolore…, nel suo orizzonte si profila il totalitarismo. E il fatto che qui si tratti di un totalitarismo fondato su un ampio sostegno popolare e democratico, non lo rende meno raccapricciante». Ma che cosa ha davvero innescato la miccia della xenofobia in Danimarca? «Siamo solo cinque milioni di abitanti e il passaggio alla multiculturalità è stato uno choc per molte persone – spiega Hergel – Siamo sempre stati una nazione “bianca”, solo negli ultimi trent’ anni siamo passati a una diversa composizione etnica. Molti danesi si sono spaventati e hanno reagito voltando le spalle ai principi democratici. Anche in Olanda, in Francia e in Italia – sottolinea lo scrittore – sta accadendo qualcosa di analogo stiamo assistendo a un vero cambiamento sociale, il vostro paese riceve ogni giorno via mare, sulle sue coste, un gran numero di immigrati. La xenofobia è la risposta che nasce dalla paura: ci si spaventa e si inizia a smettere di considerare gli individui in quanto tali». Ma non solo.
« Senza contare che le nostre classe dirigenti si “dimenticano” di considerare il ruolo sociale, indispensabile, che ormai i lavoratori stranieri hanno da noi». Una miscela esplosiva di ignoranza e paura che, peraltro, i maggiori media non aiutano a smascherare. Abdicando così al proprio ruolo. «Tv e giornali- stigmatizza Hergel- non raccontano quasi mai la ricchezza culturale che i migranti portano con sé dai paesi di origine. Per compiacere i pregiudizi e i gusti dei lettori i media descrivono più facilmente gli immigrati come un problema senza approfondire le loro storie, senza restituircene la complessità e le sfumature. Ho incontrato centinaia di Romeo e Giulietta come Fatima e Nazir (la giovane afgana e il ragazzo iracheno che nel romanzo s’incontrano in un centro danese per poi fuggire nella più democratica Svezia ndr), ragazzi, che sono in Europa, con fantastiche storie d’amore. Ma i media le trovano noiose e lasciano che un caso di cronaca nera caratterizzi tutta la comunità». Ne Il fuggitivo molti particolari, così come molti discorsi di politici, vengono dalla realtà e da 15 anni di articoli che Hergel ha scritto per vari giornali. Da lì viene anche la storia bruciante del ponte di Istanbul dal quale alcuni ragazzi si gettano per saltare in groppa a camion con targhe europee. «Anni fa ero negli slum di Casablanca cercando di capire perché alcuni gruppi di terroristi islamici vengono da lì. Mi sono ritrovato in una situazione di estrema povertà. Dei bambini mi hanno portato su un ponte poco lontano- ricorda Hergel – era pieno di scritte “mamma, ciao, vado a farmi una nuova vita a Berlino, a Londra, a Parigi, a Roma”. Da lì tanti ragazzini si buttano ogni mese sui camion in transito sulla sottostante autostrada: c’è un avvallamento e i guidatori sono costretti a rallentare, i bambini si tuffano giù dal ponte, con un coltello aprono il telo e si nascondono fino a Tangeri, e da lì sperano di riuscire a nascondersi per tutti il tragitto fino in Europa. Questi sono fatti, la storia de Il fuggitivo che si butta è fiction». (Ha collaborato Cristina Gerosa).
dal settimanale left-avvenimenti