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Archive for marzo 2014

Luciano Fabro, il dono del disegno

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 26, 2014

Fabro, esistere-insistere

Fabro, esistere-insistere

Disegno come dono, in senso stretto come regalo, omaggio d’amicizia, di affetto, di “corrispondenza di amorosi sensi”. Luciano Fabro usava ogni tipo di supporto per inviare i suoi appassionati messaggi colorati agli amici, ai suoi studenti, alle persone con cui aveva stabilito un rapporto profondo, anche se fuggevole.

La carta millimetrata, le schede di catalogazione, la carta-paglia, tutto poteva essere usato all’occorrenza, diventando all’impronta supporto prezioso per la sua libera espressione. Ed erano forme astratte che sembrano danzare sulla fragile carta, disegni in bianco e nero realizzati con gomitoli di linee nera ininterrotta, ma anche opere grafiche che hanno il respiro di progetti spaziali più ampi e strutturati, pur conservando la freschezza di schizzi tracciati di getto.

Il disegno per questo maestro dell’arte povera (scomparso nel 2007) era il prezioso antefatto dell’opera compiuta, ed era propedeutico alla realizzazione delle sue magnetiche ed essenziali sculture. Ma al tempo stesso trovava giustificazione soltanto in se stesso come libera sperimentazione, ricerca continua, apertura verso la scoperta. Come dimostra la variegata collezione di opere su carta radunata, dopo lunghe ricerche fra parenti e amici dell’artista, da Giacinto Di Pietrantonio che insieme a Bruno Corà e altri ha curato la mostra Luciano Fabro – disegno in opera, aperta fino al 4 maggio 2014 al CIAC di Foligno (dopo essere stata esposta alla GAMeC di Bergamo).

Una mostra che riunisce un centinaio di opere grafiche, molte delle quali caratterizzate dalla ricerca di una spazialità nuova e sfidando la bidimensionalità del disegno. Giovanissimo, Fabro era rimasto molto colpito dalla poetica di Lucio Fontana, che ebbe modo di conoscere più da vicino quando da Udine si trasferì a Milano nel 1959. A coinvolgerlo particolarmente era la sfida che l’artista italo argentino lanciava alla terza dimensione con i suoi tagli e buchi, ma anche la sua ricerca su una possibile quarta dimensione, che sembrava alludere a una spazialità non solo fisica ma interiore.

Al tempo stesso, però, Luciano Fabro continuava a essere molto legato alla tradizione più antica del disegno e a quella michelangiolesca in modo particolare. Tanto che, come insegnante in Accademia, invitava spesso i suoi allievi a studiare le opere dello scultore fiorentino apprezzandone la forte plasticità. Proprio a proposito del rapporto fra disegno e scultura, Fabro raccontava ai suoi studenti: «Ho fatto un’infinità di disegni, alcuni più precisi, altri meno, quando poi mi sono trovato con la cera, non ne ho realizzato nessuno. Ma avevo appreso disegnando il modo di vederlo in tutti i modi, per cui, pur facendolo in un altro modo, avevo già l’occhio per individuare quale era la forma». E a una studentessa che lamentava di sentirsi bloccata davanti a questo tipo di lavoro – come si legge in un dialogo pubblicato nel catalogo Silvana editoriale – rispondeva senza esitazione: «Nessuno è bloccato, io la chiamo avarizia se uno per fare una cosa deve dire: “Ecco questo approda a qualcosa”. In questo caso, invece, non sai a cosa approdi, è un atto di generosità verso il caso e può andare avanti per molto tempo». (Simona Maggiorelli)

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I colori “scavati” di Munch

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 19, 2014

Munch, litografia

Munch, litografia

E’ un Edvard Munch per molti aspetti inedito quello che incontriamo nelle sale di Palazzo Ducale a Genova dove, fino al 27 aprile, è allestita l’unica retrospettiva per i 150 anni dalla nascita del pittore fuori dai confini norvegesi. Dopo la grande antologica di Oslo, chiusa lo scorso ottobre, questa esposizione curata da Marc Restellini, direttore della Pinacothèque de Paris, permette di mettere a fuoco alcuni aspetti specifici della ricerca espressiva di Munch, come la sperimentazione a tutto raggio di varie tecniche, che lo portarono a prediligere l’incisione. Per la sua essenzialità, ma anche perché gli permetteva di sviluppare al massimo il dinamismo della rappresentazione, fino a raggiungere un effetto cinetico quasi da fotogramma cinematografico. Così, attraverso la settantina di opere scelte da Restellini (molte delle quali raramente esposte in pubblico perché appartenenti a collezioni private), si scopre il gusto di Munch per un simbolismo scabro, che insiste sulla linea e sul movimento, per portare in primo piano stati d’animo profondamente tormentati, temi ricorrenti, ossessioni.

Come il tema della morte che percorre tutta la sua opera e qui rappresentato da opere tra cui La bambina malata, che evoca lo sguardo angosciato del pittore quindicenne quando perse la sorella minore. E se la paura della morte in Munch si accompagna alla paura della catastrofe interiore, un altro tema costante è quello del difficile e sanguinoso rapporto con l’universo femminile, a Genova raccontato attraverso una serie di serigrafie dedicate a sensuali Madonne. Fanno da pendant a queste seduttive figure di donne vampiro, ritratti femminili apparentemente più tradizionali, glaciali, di donne della buona borghesia come Inger Bath, (1921) ed Annie Stenersen, (1934) e ritratti di uomini dal volto stravolto e angosciato, striato di viola e di verdi acidi come quello di Henrik Bull (1939), quasi un alter ego di Munch stesso negli autoritratti di una disfatta e irata maturità. Qui e in altre tele apparentemente di argomento più lieve – incontri al mare e feste in campagna – il pittore scava negli strati di colore sottoponendo le sue tele a famigerate cure da cavallo: spesso le lasciava fuori casa, esposte alle intemperie del rigido clima norvegese.

Ciò che resiste alla fine è l’essenza di figure che affiorano alla tela come presenze fantasmatiche. Emotivamente potenti. Che fanno di Munch uno dei grandi maestri del moderno. Ed estremamente originale. Come sottolinea Marc Restellini nel catalogo 24 Ore Cultura che accompagna questa mostra è impossibile incasellarne l’opera nei classici “ismi” da manuale. Pur avendo assonanze con il movimento espressionista, per esempio, non lo si può definire tale, anche per il carattere impolitico di tutta la sua opera. «Munch si oppone deliberatamente a ciò che vede e conosce», nota il curatore. «In modo anarchico, si mette in contrasto con l’impressionismo, il simbolismo, il naturalismo per inventarsi una forma di espressione in rivolta con tutto ciò che sin dalla sua infanzia gli è stato presentato come regola sociale. È capace di staccarsi da tutte le convenzioni a cui ci avevano abituati gli artisti e i movimenti precedenti». (Simona Maggiorelli)

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Voci d’Oriente. Kyung-Sook Shin e la nuova letteratura coreana

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 16, 2014

Kyung-Sook Shin

Kyung-Sook Shin

Una folla si accalca sul binario. E una coppia di anziani si affretta per paura di perdere il treno, camminando vicini. Ma a un certo punto lei resta indietro e sparisce alla vista del marito. Che non riuscirà più a trovarla. Da questa “sparizione” prende avvio il romanzo Prenditi cura di lei di Kyung-Sook Shin, best seller in Corea del Sud e tradotto in diciannove lingue (in Italia è stato pubblicato da Neri Pozza).

Da questo fatto all’apparenza banale si dipana la trama complessa di rapporti fra i personaggi, che dà spessore al romanzo. Figli, parenti, vicini. Tutti si ritrovano a parlare di lei, quando non c’è più. Pensavano di conoscerla bene ma, d’un tratto, si accorgono di sapere poco e niente di lei al di là del suo noto integerrimo comportamento. Come se il ruolo di madre per anni e anni avesse coperto e cancellato la vera personalità della donna. Così quello che sembrava un banale incidente si fa metafora complessa e sfaccettata: da un lato Kyung-Sook Shin sembra voler denunciare l’annullamento della donna che tradizionalmente in Corea spariva dalla scena pubblica per dedicarsi con totale abnegazione alla vita domestica, dall’altro lato, però, sembra registrare con nostalgia la perdita del sistema di valori della Corea rurale che trovava nei rapporti familiari il suo ancoraggio. Nella corsa verso la modernizzazione capitalista il Paese è cambiato drasticamente e in tempi rapidissimi, racconta lo studioso Maurizio Riotto, docente dell’Orientale di Napoli e curatore, con Antonetta L. Bruno, de La letteratura coreana appena pubblicata da L’Asino d’oro edizioni.

«Nella società coreana gli anziani hanno sempre avuto un posto di riguardo e sono sempre stati trattati con grande rispetto, faceva parte della tradizione», sottolinea lo studioso. «Ma oggi le nuove generazioni non hanno più tempo per stare con i genitori anziani e molti di loro si trovano a vivere soli e, non di rado, in stato di indigenza. La competizione per emergere è feroce nella Corea del Sud, seconda nazione al mondo, dopo la Lituania, per tasso di suicidi». Progresso economico, crescita esorbitante di metropoli come Seul, ma anche feroce darwinismo sociale, un Paese contrassegnato da laceranti contraddizioni. Così appare oggi la Corea del Sud raccontata da una nuova generazione di scrittori, che si sta facendo conoscere anche fuori confine. «Abbiamo molte risorse naturali. Tanti coreani vanno al college e poi riescono a ottenere un buon lavoro, ma la competizione fra i giovani è massima e lo stress raggiunge livelli di guardia», racconta la cinquantenne Kyung-Sook Shin, alla quale abbiamo rivolto alcune domande prima del suo arrivo a Roma per partecipare al festival Libri Come (in programma fino al 16 marzo all’Auditorium) e ad una tavola rotonda in suo onore ( il 17 marzo)  alla Biblioteca di studi orientali .

«Nel romanzo che ho da poco terminato racconto di un uomo che diventa improvvisamente cieco – dice la scrittrice – e in Prenditi cura di lei ho scritto del prezzo che le donne hanno pagato per la crescita economica del Paese. Nel libro la madre che sparisce in qualche modo simboleggia la perdita degli affetti, di relazioni umane calde, attente alla vita dell’altro che registriamo nelle grandi città. Ma bisogna anche riconoscere che la Corea del Sud ha saputo affrontare importanti cambiamenti. Se oggi è uno Stato democratico lo deve all’impegno delle giovani generazioni», sottolinea Kyung-Sook Shin. Poi commentando i dati Ocse che indicano gli studenti coreani fra i più stressati al mondo, approfondisce: «La pressione, la spinta a primeggiare sugli altri, domina la nostra scuola, ma i giovani hanno energia e possono migliorare la nostra società anche sotto questo aspetto». Della voglia di cambiamento dei giovani coreani Kyung-Sook Shin parla nel suo recente romanzo Io ci sarò, uscito in Italia per Sellerio. « In quel libro racconto rapporti di amicizia e amori fra giovanissimi. È ambientato negli anni Ottanta, un periodo molto tumultuoso in cui i ragazzi non esitavano a scendere in piazza lottando per i diritti di tutti. All’epoca molti giovani furono feriti, imprigionati, torturati».

Come il precedente romanzo, anche questo contiene elementi autobiografici? «Avevo vent’anni e come molti della mia generazione ho partecipato alle lotte per la democrazia. Sì – ammette Kyung-Sook Shin – credo che i protagonisti di Io ci sarò rispecchino molto come ero allora». Contrassegnati dal massacro di Kwangju, gli anni Ottanta «furono cruciali per il passaggio della Corea del Sud dalla dittatura militare a un sistema più libero», commenta Maurizio Riotto, autore della storia della Corea (Bompiani) ma anche primo studioso straniero a pubblicare una storia della letteratura coreana nel 1996 (con la casa editrice Novecento). «Quegli anni fanno registrare, accanto a nomi già affermati, l’esordio di molti scrittori della generazione postbellica, protagonisti di lotte per la libertà». E negli anni Novanta poi il forte ingresso delle donne in letteratura. Molte di loro contrappongono l’esplorazione del mondo interiore e dell’universo degli affetti alla velocità consumistica. Riuscendo a farsi largo nel vivace mercato editoriale (in Corea, nonostante il boom tecnologico e di internet, i libri di carta vendono migliaia di copie, talora anche milioni come nel caso di Kyung-Sook Shin.

«Le scrittrici e le poetesse coreane sono eredi di un passato in cui non solo gli uomini scrivevano – chiarisce Riotto -. Pur essendo una società maschilista, quella coreana ha visto sempre le donne cimentarsi, spesso con grande successo, nel campo delle lettere». Accanto alla letteratura, negli ultimi anni è cresciuto il cinema (come racconta il Korea film festival di Firenze dal 21 marzo), ma anche il teatro popolare e la produzione poetica.«La Corea da sempre pensa se stessa come il Paese dei poeti. La poesia è un genere largamente diffuso e in molti si cimentano nello scrivere versi, anche se la qualità – ammette Riotto – non di rado scarseggia». E mentre la Corea del Sud da anni attende un Nobel per la Poesia, a causa delle difficoltà di traduzione, la lirica coreana circola poco all’estero. Non così la narrativa, come dicevamo, e se autori noti anche da noi come Yi Munyol sono rimasti negli ultimi anni più in ombra, anche grazie al lavoro di scouting di case editrici come O barra O e Metropoli d’Asia emergono nel frattempo autori più di tendenza, come il caustico Kim Young-ha, del quale proprio Metropoli d’Asia ha appena pubblicato il provocatorio Ho il diritto di distruggermi. Un libro – ha confessato l’autore al suo editore -che non immaginava potesse uscire in Italia. « Nel Paese del Vaticano – ha detto Kim Young-ha – pensavo che il mio nome fosse off limits». (Simona Maggiorelli)

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Klimt, Mahler e Kokoschka. La doppia vita di Alma

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 11, 2014

Klimt, Alma come Giuditta Salomè

Klimt, Alma come Giuditta Salomè

«Alma la conoscevo già, l’avevo vista una volta di sfuggita quando hanno inaugurato il monumento di Schindler, mi è piaciuta come a noi pittori piace una bellezza bambina…. e mi sono meravigliato che tu non l’avessi mai dipinta», scrive Gustav Klimt a Carl Moll in una lettera del 1899. Fra i fondatori della secessione viennese, dopo la morte del pittore Schindler, Moll divenne il patrigno di Alma Schindler, la futura moglie di Gustav Mahler e amante di Gropius, che allora aveva diciassette anni.

Il trentacinquenne Klimt ne avrebbe fatto la musa altera, algida e sensuale della Secessione: musa ieratica ed elegante, ritratta come Giuditta e al tempo stesso Salomè, in una famosa tela che dal 12 marzo sarà al centro della mostra milanese Klimt. Alle origini di un mito (catalogo 24 Ore Cultura). In Palazzo Reale, insieme a numerosi altri ritratti femminili e alla ricostruzione del Fregio di Beethoven (1897), questa rappresentazione di Giuditta definisce un modello di femme fatale e donna guerriera, capace di allontanare dal “tempio dell’arte” chi non è degno; un modello che sarebbe durato fino agli anni Venti e Trenta, trovando nel cinema nuove declinazioni, in dive come Marlene Drietrich e, soprattutto, Greta Garbo.

Ma chi era veramente Alma? «La ragazza più bella di Vienna» che, dice ancora Klimt nell’epistolario (edito da Abscondita), lo conquistò parlandogli della sua passione per Wagner, Tristano, la musica, la danza. «Alma è bella, intelligente, piena di spirito» annotava Klimt e racconta Andrea Camilleri nel suo nuovo libro La creatura del desiderio (Skira) aveva un debole per gli uomini che inseguivano un proprio sogno, una propria ricerca, poco importa se nell’ambito della pittura, della musica o della scienza.

Fu così che credette di vedere una straordinaria passione per l’arte nello sguardo bruciante del ventiseienne Oskar Kokoschka, pittore “selvaggio” ma anche autore di feroci drammi teatrali come Assassino, speranza delle donne. Lei aveva molti anni di più, ma non era prigioniera delle convenzioni. Divenuto l’amante di Alma il pittore si dette a ritrarla in decine e decine di quadri e bozzetti che, via via assumono un aspetto sempre più inquieto, cupo, ossessivo. La figura femminile a poco a poco si sfalda, perde di umanità assumendo i tratti di una inquietante bambola, come documenta la retrospettiva dedicata a Kokoschka dal Leopold Museum di Vienna.

Fino ad arrivare alla concitata, impastata, visione de La sposa del vento (1914), il quadro che Kokoschka dedicò ad Alma quando la relazione, diventata tempestosa e violenta, si interruppe improvvisamente. Con questa spiazzante biografia, in parte narrata in parte costruita sulle lettere, Camilleri indirettamente ci invita ad interrogare di nuovo quel quadro che sembra avvicinarsi pericolosamente ad una cacofonia di linee e colori, lontana dalla libera espressione di un artista capace di realizzare opere universali. Da lì a poco a poco il tragico epilogo: la pazzia conclamata di Kokoschka che arriverà materialmente a farsi costruire una bambola dalle sembianze di Alma, automa disumano, grottesco simulacro di un’immagine femminile che per lui era sempre stata solo un fantasma?

( Simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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L’Aquila ferita. A cinque anni dal terremoto

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 9, 2014

Bella-mia-Donatella-Di-PietrantonioDopo il brillante esordio con  Mia madre è un fiume, Donatella Di Pietrantonio torna con  Bella mia (Elliot) che denuncia lo sfregio causato dalla ricostruzione post sisma

di Simona Maggiorelli

L’Aquila «è fradicia e gonfia dopo tutto questo tempo… la pioggia e la neve l’hanno impregnata fino alle fondamenta», nota la protagonista di Bella mia (Elliot), il nuovo romanzo di Donatella Di Pietrantonio. Dopo il terremoto in cui perse la vita sua sorella l’io narrante è tornato nella zona rossa, in quella piazza amplificata dal silenzio, fra crepe imbiancate e teli di plastica slabbrati.E quello scenario urbano ancora sfatto e desolato, raccontato con una prosa evocativa che sembra accarezzarne le ferite, si fa concreta metafora della difficile condizione che vivono gli aquilani a cinque anni dal sisma.

«La “grandiosa”opera di messa in sicurezza che fu attuata con enorme dispendio di denaro e energie oggi mostra la corda: perché gli edifici non furono ricostruiti. Ma solo messi in sicurezza. Se lei oggi va a L’Aquila – incalza la scrittrice – trova edifici ingessati e contenuti da milioni di metri cubi di tubi Innocenti, ma i tetti crollati continuano a far passare acqua. Il degrado dilaga perché non sono stati fatti interventi strutturali». E continua a pesare come un macigno sullo stato d’animo degli abitanti. «A distanza di quasi cinque anni come stanno gli Aquilani? Di questo nessuno parla più», nota Di Pietrantonio.«L’identità collettiva è ferita, appare disgregata. Anche perché- denuncia – gran parte degli abitanti hanno subìto una deportazione in new towns dove le relazioni di amicizia, di vicinato, si sono allentate».

Nel romanzo la scrittrice abruzzese ha immaginato tre personaggi di generazioni diverse che, dopo il lutto e in questo difficile scenario, si trovano a dover  mettere in discussione se stessi, in cerca di nuove strade. «Ho provato a seguire il loro lavoro di elaborazione e di ricostruzione interiore – dice Di Pietrantonio -. I due personaggi più giovani, il ragazzo e sua zia, alla fine riusciranno a trasformare il proprio dolore, senza cancellarne la portata».

Di fronte alla protagonista di Bella mia che ha scelto di non avere figli e che si trova, dopo il sisma, ad occuparsi del nipote riuscendo a sviluppare una nuova identità, torna in mente la protagonista del romanzo di esordio di Donatella Di Pietrantonio Mia madre è un fiume (Elliot) in cui una donna che ha sempre avuto un raporto difficile con la madre si trova a doverla aiutare, dopo che si è ammalata di Alzheimer. «In effetti c’è un parallelo fra i due personaggi – ammette la scrittrice -.Tengo particolarmente all’evoluzione dell’io narrante, mi interessa capire come gli esseri umani possano sviluppare nuove aspetti di sé, spesso imprevisti». Un percorso che in qualche modo sembra aver riguardato la stessa autrice che di professione fa la dentista per bambini, e che solo in età matura ha conosciuto il successo in letteratura.

«In realtà ho sempre scritto – racconta – ma per lungo tempo ho distrutto i miei testi o non li ho proposti. Solo di recente ho cominciato a farlo. Ma mi sono accorta che, anche in assenza di un riscontro di pubblico o editoriale, comunque, la prosa maturava. Lentamente sono passata da una fase giovanile piuttosto ampollosa, da un periodare con molte subordinata, a una scrittura decisamente più asciutta». Asciutta ma anche densa, poetica e che in Bella mia, a tratti, ha il respiro della prosa lirica. «La densità è proprio ciò che cerco – dice Di Pietrantonio -, attraverso il peso della singola parola ma anche calibrando il più possibile le pause. Perché il risultato finale sia una prosa sintetica , vagliata ». In questo percorso è stata aiutata da letture? «Ho sempre letto con passione Borges, Marguerite Yourcenar, e più di recente Ágota Kristóf. Non so se ho saputo recepire la loro lezione. Ma le pagine che ci coinvolgono nel profondo poi in qualche modo riemergono quando si scrive, come un fiume carsico».

E una affascinante e frugale figura di scrittore emerge, inaspettata, anche in Bella mia: uno scrittore senza nome, descritto come «resistente dichiarato », per il suo netto rifiuto di abbandonare le rovine aquilane al loro destino. «A dire il vero si tatta di una figura reale, molto particolare: è lo storico Raffaele Colapietra, per noi abruzzesi e per gli aquilani in particolare, è una sorta di eroe. Si è opposto strenuamente in questi anni a questa vera e propria occupazione militare della città, che non ha eguali in altre situazioni post sismiche in Italia. Subito dopo il terremoto gli aquilani non sono stati più padroni della città. E Colapietra lo ha denunciato in ogni modo. Ha opposto anche una resistenza fisica. Cosa nsolita per un signore gentile e anziano con lui. Con i suoi modi garbati ma fermi, alla fine, è riuscito a rimanere nella propria casa”.

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Il marmo e la vita. Da Michelangelo a Rodin

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 8, 2014

Rodin, Il bacio a RomaRodin, “ultimo atto”. Il più intenso ed emozionante – diciamo subito – fra quanti abbiamo cercato di raccontare su queste pagine nelle ultime settimane e mesi punteggiati da un fiorire di esposizioni dedicate all’arista francese che rinnovò la scultura europea fra Ottocento e Novecento, aprendola al movimento, al non finito e all’espressività dei gesti. Nelle grandi aule delle terme di Diocleziano, fino al 25 maggio, è allestita la mostra Rodin, il marmo e la vita, presentata l’anno scorso in Palazzo Reale a Milano.

E la medesima scelta di sculture, provenienti dal Musée Rodin di Parigi, in questo spazio archeologico denso di storia, sembrano acquistare nuovi significati. I marmi selezionati dalla curatrice Aline Magnien, in collaborazione con Flavio Arensi, paionoacquistare ancora maggiori risonanze michelangiolesche collocati qui, su scabre tavole di legno al centro della sala inondata di luce dell’antico edificio termale. Ricordando che il frigidarium, il tepidarium e il calidarium furono trasformati dall’artista fiorentino per la realizzazione della Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei martiri cristiani. E non si tratta solo di una suggestione, perché Rodin studiò a lungo l’arte di Michelangelo, facendo tesoro della sua arte del levare e di quel suo uso del non finito che regalava pathos e senso tragico ai Prigioni e a gruppi scultorei come la Pietà Rondanini.

Ma Rodin non copia. Non è mai pedissequo nell’esprimere la sua ammirazione per questo maestro del Rinascimento. Il non finito, nelle mani dello scultore francese, diventa uno strumento per aggiungere dinamismo, per immettere le opere nel flusso del tempo, facendole sembrare perennemente in fieri e aperte allo sguardo creativo del pubblico.

Come si vede, più che nel celebre Bacio del 1882-1889 (qui posto ad incipit del percorso) nel complesso intreccio del gruppo L’amore porta via i suoi veli 1900-1905 o nell’abbraccio di Paolo e Francesca fra le nuvole (1904-1905). In questa fase Rodin ha superato la lunga e faticosa gavetta che lo aveva messo alla prova come artista ma anche come uomo. Dopo aver collezionato innumerevoli rifiuti da parte di accademie e collezionisti nei primi anni del Novecento è un artista famoso e riconosciuto non solo in Francia.

rodinmostraroma_4 E la sua mano si fa sempre più sicura nell’orchestrare pesi e contrappesi, ricreando interamente, anche sotto questo riguardo, la lezione di Michelangelo. Fino a compiere un vero miracolo: regalare una nuova vita alla scultura in marmo nel XXI secolo. Grazie a Rodin, come nota il direttore e conservatore del Musée Rodin di Parigi Catherine Chevillot nel catalogo Electa, “sopravvive il marmo: nobiltà della forma, la traccia lasciata dalla mano dell’artista”, la bravura di far emergere un corpo di donna da un blocco di marmo intonso come accade con la Danaide (1889). La mostra Rodin, il marmo e la vita permette di cogliere tutte le fasi del processo creativo, comprese le irregolarità e le incertezze. Permette di seguire il divenire dell’opera nello schizzo, nella maquette, nel modello lavorato, documentato da Rodin stesso anche attraverso una interessante serie di fotografie. (simona Maggiorelli)

Dal settimanale left-avvenimenti

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Effetto Rodin sulla scultura del Novecento

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 2, 2014

Effetto Rodin

Giovanni PIni, Gli amanti

Giovanni PIni, Gli amanti

ROMA- Mentre alle Terme di Diocleziano, lo scorso 18 febbraio è arrivata da Milano la mostra dedicata ai marmi di Rodin,  la collettiva D’apres Rodin, scultura italiana del primo Novecento  negli spazi della  Galleria d’arte moderna (Gnam) offre al pubblico un’interessante occasione per indagare l’influenza che la poetica di August Rodin esercitò non solo sugli artisti a lui contemporanei ma anche su quelli di generazioni successive. Come stimolo a uscire dall’accademismo, a cercare nuove strade fuori dall’ingessata tradizione monumentale, facendo tesoro della statuaria più antica, della levigata eleganza di Donatello e soprattutto della torsione drammatica che anima le sculture di Michelangelo.

 Di fatto  il movimento e l’espressione che August Rodin seppe dare alle sue statue fecero entrare la scultura nel moderno. Recuperando sulla pittura, che aveva compiuto questo passaggio da tempo, rinnovandosi radicalmente nella poetica e nella tecnica. Più costosa e legata a committenze celebrative del potere, la scultura nell’Ottocento era per lo più retoricamente celebrativa, un trionfo di gigantismo carico di accenti sentimentali e idealizzanti. Ma Rodin, attraverso un difficile e travagliato percorso di ricerca, riuscì a imporre un nuovo stile e un nuovo modo di fare scultura, che dall’antico recuperava il gusto del frammento e che osava sfidare anche la neonata fotografia rappresentando il movimento come processo, liberato dall’immobilità dell’istante in cui lo confina l’obiettivo fotografico.

Medardo Rosso, Ecce puer

Medardo Rosso, Ecce puer

Una lezione che, come ben racconta nel catalogo Electa la curatrice della mostra  Stefania Frezzotti, fu raccolta e ricreata in maniera del tutto originale da Umberto Boccioni. Per lui la scultura del maestro francese era ancora troppo “da museo”. E i futuristi, si sa, volevano distruggere i musei in quanto anticaglie polverose. Ma a Boccioni non sfuggì l’indicazione che veniva da opere come L’homme qui marche, in cui Rodin realizzava una scultura in movimento, perennemente in fieri. Quella statua dal movimento plastico e senza testa, come ricordavamo la settimana scorsa, colpì parimenti Alberto Giacometti, che ne dette una sua interpretazione corrosivamente filiforme.

Tornando al passaggio fra Ottocento e Novecento di grande impatto emotivo è la dialettica che nelle sale della Gnam ingaggiano sculture di Rodin come L’età del bronzo (1877) con capolavori che Medardo Rosso realizzò anni dopo, come ad esempio Bambino malato (1889) e poi Ecce puer (1905-6).

Un gioco di segrete risonanze percorre i volti e i gesti di queste opere, anche se Rodin privilegia l’eleganza del gesto e un’espressione struggente del volto, mentre Medardo Rosso arriva fin quasi a dissolvere le forme nella luce. Amici e rivali, i due artisti sembrano ingaggiare qui un dialogo, in un gioco di emulazione e di presa di distanza che li portò a definire sempre più la propria originale identità.

La mostra D’apres Rodin documenta anche la grande popolarità che le sue creazioni ebbero fra scultori italiani del Novecento come l’arcaizzante Libero Andreotti e poi il “citazionista” Arturo Martini. E ancora sulo schivo e originale Giovanni Prini ma anche su autori più di maniera come Angelo Zanelli che finirono per ricalcarne le forme svuotandola di senso. (Simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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Io, Camille Claudel

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 1, 2014

Camille Claudel

Camille Claudel

Apettando la mostra Rodin, il marmo e la vita che, dopo Milano, dal 18 febbraio è aperta alle Terme di Diocleziano, torniamo indirettamente sull’opera e sulla vicenda biografica del grande scultore francese, ricordando il talento e la vita spezzata della sua amante, l’artista Camille Claudel (1864-1943). Di recente protagonista di una retrospettiva al Musée Rodin di Parigi ma anche al centro di una più ampia riscoperta punteggiata da film e biografie. Dopo Isabelle Adjani nel 1988, l’anno scorso è stata Juliette Binoche a far rivivere la tormentata storia della Claudel sul grande schermo. E fra i tanti omaggi e le storie romanzate che ne fanno un’eroina maudit (ripronendo il logoro e fuorviante binomio “genio e pazzia”) spicca invece la puntuale biografia Camille Claudel di Odile Ayral- Clause, docente di letteratura francese alla California Polytechnic State University. Scritta nel 2002, è stata di recente tradotta e pubblicata da Castelvecchi e permette di avvicinarsi alla dolorosa vicenda di Camille Claudel, nella sua complessità attraverso lettere, documenti, e incrociando testimonianze dirette e indirette, ripescate anche nelle cronache locali dei giornali in cui le infermiere del manicomio in cui l’artista fu internata nel 1913 parlavano di lei.

Vaglio critico delle fonti e narrazione mai arida fanno di questo libro un’opera davvero preziosa per chi voglia conoscere più da vicino la genesi di sculture affascinanti e oscure come Sacountala, forse l’opera più nota della Claudel, fra le poche che le sono sopravvissute. Il soggetto derivava dalla tradizione indiana e la scultrice rilesse il mito arricchendolo di riferimenti alla difficile condizione della donna nella società ottocentesca ancora “vittoriana” ma anche alla propria tormentata relazione con il maturo Rodin che in lei trovò una musa e una compagna capace come pochi altri di comprendere il senso profondo della sua arte, essendo artista in prima persona e in modo originale. Eppure Rodin non lasciò mai la sua compagna Rose che nella sua vita rivestiva un ruolo di moglie e madre, sembra in ombra. Ayral-Clause ricostruisce la relazione fra i due fin dall’inizio complicata, fra improvvise freddezze e allontanamenti da parte di Camille e sue ossessive richieste di essere l’unica allieva del maestro Rodin. Che fuggiva chiudendosi in un grigio ménage domestico contrassegnato anche dai problemi di un figlio taciturno e isolato che poi avrebbe cercato una via di fuga dall’asfittica dimensione familiare arruolandosi nell’esercito. Intanto le condizioni psichiche della Claudel si facevano sempre più instabili. Proveniente da una famiglia cattolicissima era giudicata figura scandalosa anche nella Parigi degli artisti dove era ammessa la libertà di pittori e scultori, ma solo se maschi. Accusata di rubare idee al maestro Rodin, Camille non smetteva di ripetere: «Traggo le mie opere esclusivamente da me stessa». «Ho fin troppe idee di mio» rispondeva nel 1899 a un critico che, alla vista della sua Clotho, l’accusava di aver plagiato un’opera di Rodin. La scultura a partire da sé, sostiene Ayral-Clause, era proprio il segno originale della grande artista francese.

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