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All’ombra di un sogno. Quando erano i tedeschi ad emigrare

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 23, 2015

Heimat di Edgar Reitz

Heimat di Edgar Reitz

Nell’Ottocento il Brasile fu miraggio per tanti tedeschi, costretti a partire. Il regista Edgar Reitz ne racconta la storia nell’Altra Heimat. Evocando i migranti di oggi.

di Simona Maggiorelli

L’opera di Edgar Reitz è un unicum nella storia del cinema: attraverso la vicenda della famiglia Simon, seguita nel corso di trent’anni con la trilogia Heimat che si dipana per quasi sessanta ore, tratteggia un affresco di storia tedesca in un arco di tempo che va dal 1919 al 1982. Un unicum per durata, coerenza, rigore, ma soprattutto per la forza poetica di questo straordinario racconto cinematografico. Per trovare un’impresa paragonabile a quella del maestro del Nuovo Cinema Tedesco, oggi ottantatreenne, bisogna forse guardare alla letteratura. Non tanto ad autori come Proust spesso accostatogli, quanto all’epos, alle antiche saghe in cui i cavalieri cadetti andavano alla queste, alla ricerca di un’immagine di donna ideale e fortuna. A suggerire questo paragone è il respiro epico del cinema di Reitz, la sua capacità di cogliere il senso umano e universale che si cela dietro le avventure e disavventure dei singoli personaggi che, come Jakob, protagonista del suo nuovo film L’altra Heimat, cronaca di un sogno, spesso sono dei sognatori, dei visionari. Persone mosse dalla capacità d’immaginare un mondo diverso, sempre in cerca di spazi nuovi, anche interiori. Perché, come dice il maestro, «prendersi dei rischi per cercare uno spazio vitale appartiene alla natura umana».
All’inizio di questo appassionante capitolo della saga dei Simon (coprodotto da Ripley’s film, Viggo e Nexo digital) il regista ci mostra il giovane a lume di candela mentre di notte divora libri sulle popolazioni indigene del Sud America, tentando di imparare la loro lingua, nella speranza di poter lasciare la fredda e povera Germania dell’Ottocento per andare a stare con gli indiani. Qui, la parola tedesca Heimat, che evoca la casa e il posto del cuore, assume i contorni del Brasile fantasticato da Jakob quando, sfuggendo al lavoro di fabbro e alle botte per le sue continue assenze, solo sulla collina si immerge nella lettura mettendosi una penna in testa. Un Brasile abitato da uccelli giganti, colorati, meravigliosi, come confida alla ragazzina di cui è innamorato. Così una storia di fame e di emigrazione diventa storia d’amore e di apertura verso orizzonti sconosciuti. Nonostante l’impossibilità di partire davvero, nonostante l’amata si dia ad altro e nonostante la durezza della vita a Schabbach, villaggio immaginario dell’Hunsrück, regione d’origine del regista. Che è tornato in Italia per parlare di questa sua ultima impresa, presentata al Festival del cinema di Venezia nel 2013.

Heimat, cronaca di un sogno

Heimat, cronaca di un sogno

Il film esce nelle sale italiane a più di trent’anni dall’esordio della serie Heimat, dopo Heimat 2, cronaca di una giovinezza (1992) e Heimat 3, cronaca di una svolta epocale (2004). Di fatto, mentre la ricca Germania attuale, guidata dalla intransigente Angela Merkel, è diventata la meta più ambita dai migranti che partono dal sud del mondo, quella raccontata da Reitz in questo nuovo Die Andere Heimat è la Germania del XIX secolo devastata da guerre, carestie ed epidemie, da cui tanti tedeschi furono costretti a scappare. E se la vicenda dell’adolescente Jokob s’iscrive nella migliore tradizione tedesca del Bildungsroman, il romanzo di formazione), del tutto nuovo è invece il senso della storia che Reitz intende far emergere dalla sua rilettura di ciò che accadeva circa 160 anni fa. Come lui stesso ci ha detto in un incontro a Roma.
Edgar Reitz, i tedeschi come gl’italiani, si sono dimenticati di quando erano costretti a emigrare?
Sono ormai pochi gli europei che si ‘ricordano’ le ondate migratorie del XIX secolo. È interessante vedere che oggi molti discendenti degli immigrati di allora in America del Sud e del Nord, iniziano a interessarsi alle loro radici europee e cercano contatto con la loro terra di provenienza.
Ricostruire quel periodo permette di leggere più in profondità ciò che sta accadendo oggi riguardo all’immigrazione?
È molto difficile riuscire a trasmettere la comprensione per le migrazioni attuali. Posso solo sperare che il mio film dia un piccolo contributo in questo senso.
Perché ha scelto per l’altra Heimat il 1843 e quel preciso periodo storico?
Molte sfaccettature del nostro modo di vedere e comprendere la libertà sono nate nel XIX secolo, quando gli europei erano ancora costretti a combattere per la pura sopravvivenza.
Per leggere lo Zeitgeist e comprendere ciò che è accaduto, la cronaca non basta?
È proprio questa per me una delle ragioni del fare cinema: cercare di andare più a fondo di quanto non possano fare le cronache o certi libri di storia.
Da dove nasce la scelta del bianco e nero?
Viviamo oggi, circondati da milioni di immagini a colori che ci perseguitano in ogni circostanza del quotidiano. Persino nella propria casa attraverso gli schermi del computer e della televisione. Non volevo aggiungere altre immagini colorate a questa inflazione cromatica. La scelta del bianco e nero deriva anche da tutto questo.
L’immaginazione letteraria quanto conta nel suo lavoro?
Il protagonista del mio film con la sua passione per i libri rappresenta un’eccezione nel piccolo paese dal quale viene. La sua visione di una vita migliore – come tutte le utopie – non è trasportabile nella vita reale. Jakob, il sognatore, è proprio colui che alla fine finisce per rimanere a casa mentre gli altri, realisti come suo fratello Gustav, sono coloro che veramente abbandonano la loro terra. È questa la storia che racconto ne L’altra Heimat.

(simona Maggiorelli -dal settimanale Left)

Edgar Reitz

Edgar Reitz

Edgar Reitz, Haben die Deutschen  ( und generell die Europäer) ihre eigene Auswanderung vergessen? Erlaubt die. Rekonstruktion dieser Zeit ein tieferes Verständnis für das was aktuell mit der Migration passiert?

Es sind nur noch Einzelne Europäer, die sich an die Auswanderungswellen des 19.Jhs erinnern. Interessant ist,

dass viele Nachkommen der damaligen Auswanderer in Nord- und Südamerika beginnen, sich für ihre

europäischen Wurzeln zu interessieren und Kontakt zur ehemaligen Heimat suchen. Das Verständnis für die

aktuellen Migrationen ist allerdings schwer zu vermitteln. Ich kann nur hoffen, dass mein Film einen Beitrag

dazu liefert.

Warum ist es gerade heute so wichtig über die Zeit von 1843 zu sprechen?

Viele unserer heutigen Vorstellungen von Freiheit und Gerechtigkeit sind im 19. Jahrhundert entstanden als

die Europäer noch um das nackte Überleben kämpfen mussten.

 Wie wichtig ist es den Zeitgeist lesen zu können um zu einem Verständnis des Geschehens zu gelangen? Oft

erlaubt die reine Faktenrekonstruktion nicht ein tieferes Verständnis der Ereignisse? Erlaubt in diesem Sinn

der Film einen größeren Tiefgang als die aktuelle  Chronik?

Ja. Dies ist einer der Gründe, Filme zu machen.

Sì. È una delle ragioni per fare cinema.

Warum die Wahl des S/W  in einem Werk, dass sich über viele Stunden seit Heimat 1 entwickelt hat… Kann

man bei Ihrem Kino von Epos sprechen, auch auf Grund der poetischen Kraft welche die filmische Erzählung

entwickelt?

Wir leben heute umgeben von Millionen von bunten bewegten Bildern, die uns in allen Situationen des

Alltags verfolgen, auch zu Hause auf den Fernseh- und Computerbildschirmen. Ich wollte dieser Bilder-

Inflation nicht noch weitere bunte Bilder hinzufügen. Deswegen entscheide ich mich seit vielen Jahren für

den Schwarzweiß-Film und die damit verbundene Einfachheit und Schönheit einer Bildsprache, mit der die

Filmgeschichte angefangen und wunderbare Werke hervorgebracht hat.

Die Auswanderer von DIE ANDERE HEIMAT träumen indem sie über Südamerika lesen. Was ist die wahre

Kraft der Literatur? Wie sehr inspiriert sie Ihre Arbeit?

Der Protagonist meines Films ist mit seiner Liebe zu den Büchern eine Ausnahmeerscheinung in seiner

dörflichen Umgebung. Seine Vision eines besseren Lebens ist – wie alle Utopien – nicht in die Realität

transponierbar. Jakob, der Träumer, ist am Ende derjenige, der zu Hause bleibt, während die anderen,

Realisten wie sein Bruder Gustav, das Land tatsächlich verlassen. Der Träumer ist eben nicht der

Auswanderer. Das ist die wahre Geschichte, die in DIE ANDERE HEIMAT erzählt wird.

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Sotto la pelle delle immagini. Il nuovo cinema #documentario

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 20, 2014

dal film di Alina Marazzi

dal film di Alina Marazzi

Non solo Sacro Gra. I documentari stanno diventando sempre più creativi. Lo storico del cinema Marco Bertozzi tratteggia il nuovo panorama

«Negli ultimi dieci anni il cinema documentario ha compiuto una svolta. E non è più percepito come un prodotto cinematografico polveroso e ideologico, ma come un’opera artistica che esprime un punto di vista originale sul mondo», dice Marco Bertozzi, filmaker, storico del cinema e autore della Storia del documentario in Italia edita da Marsilio. Un cambiamento dovuto al lavoro di ricerca di nuovi registi ma anche al tam tam dei festival e di iniziative dal basso. «A far cambiare idea sul documentario hanno contribuito storiche rassegne come il Festival dei Popoli di Firenze ma anche, più di recente, lo spazio sempre più ampio che i festival internazionali del cinema di Torino, Roma e Venezia dedicano a questo genere». E per quanto qualcuno si sia scandalizzato per il Leone d’oro a Sacro Gra, perlopiù «il pubblico si rende conto che i documentari nascono da laboratori espressivi che riflettono sul realismo, sulla ammissibilità di certi realismi, sul confine fra riflessioni etiche ed estetiche».

Alberi di Michelangelo Frammartino

Alberi di Michelangelo Frammartino

Ma resta tuttavia un vistoso paradosso: benché molti autori italiani ricevano riconoscimenti anche all’estero, riuscire a trovare dei finanziamenti per questo tipo di cinema è difficile. Ed è quasi impossibile farne di che vivere. «La straordinaria fioritura artistica del cinema documentario è un vero miracolo all’italiana», commenta il docente dell’università Iuav di Venezia. «Si inserisce nella tradizione della bottega medievale e rinascimentale. Con la maestria di alcuni e con mezzi artigianali si riesce ancora a creare un’opera d’arte. Ma se da un lato c’è la cura, l’attenzione e la forte esigenza espressiva dei filmakers, dall’altro c’è la ristrettezza delle nostre realtà produttive». Nonostante le difficoltà materiali, però, la nuova produzione si distingue per un uso originale, imprevisto e talora perfino spiazzante del genere documentario, come Bertozzi ricostruisce nel suo recente saggio Recycled cinema (Marsilio).

«Oggi non c’è più solo un uso “informativo” del documentario», spiega Bertozzi. «In passato prevaleva la dimensione storico letteraria del cinema a base di documentario d’archivio. Al commento scritto di un esperto venivano associate immagini storiche che confermavano il suo discorso. Oggi invece si parla di “metraggio ritrovato” per dire di un lavoro che indaga l’ambiguità delle immagini, che cerca di svelare i processi di mistificazione che esse subiscono: pensiamo per esempio alla tragica importanza del cinema documentario nei regimi dittatoriali. Si lavora sempre più sulla polisemia delle immagini per dar loro nuova vita in termini mass-mediali, espressivi, artistici, politici». Un esempio di riciclo riuscito? «Quello compiuto da Alina Marazzi nel raccontare la storia di un ramo della sua famiglia, gli Hoepli. La regista usa le immagini felici di famiglia per raccontare invece il dramma del suicidio di sua madre in Un’ora sola ti vorrei (2002). Ma – aggiunge il professore – potremmo parlare anche di altri usi più plastici e scultorei di vecchi metraggi. Alcuni registi graffiano le immagini, le ri-musicano, altri sottraggono l’emulsione e la ricompongono. Eccezionale in questo senso è il lavoro di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, che con la loro camera analitica rifotografano fotogramma per fotogramma spezzoni ritrovati di documentari sui reduci della prima guerra mondiale. Ingrandiscono, ricolorano, rallentano i fotogrammi per offrire ciò che quelle immagini in un primo momento sembravano celare. Questo procedimento indica anche un orizzonte di ecologia del visivo: in un momento come questo in cui ogni secondo vengono prodotte migliaia di immagini, riaprire i preziosi archivi del nostro Novecento per fare dei film assolutamente contemporanei è una bella sfida all’inflazione delle immagini, ma anche al mito dell’alta definizione e del tempo reale: Il Recycled cinema ci porta in un tempo meno reale, ma più riflettuto. è un cinema con qualche bolla, qualche rigatura, non tutto è liscio come nell’alta definizione ma sono immagini che in noi evocano memorie profonde». Potremmo dire che il cinema documentario si sta avvicinando alla videoarte? «In un certo senso sì, Cresce la dimensione artistica anche nelle opere di denuncia sociale e politica. E in questo settore ci allontaniamo dalla produzione tv molto gridata, che spettacolarizza perfino le tragedie. La maggiore auto consapevolezza del cinema documentario lo rende più etico e politico, ma anche artistico».

E se un tempo il documentario era un genere a parte ora registi di talento come, per esempio, Michelangelo Frammartino o come Daniele Vicari passano di continuo da un genere all’altro. «Per la generazione di registi come Antonioni, Maselli e Zurlini che erano cresciuti nel neorealismo il documentario era la palestra formativa per poi passare al “vero cinema”. Di solito realizzavano 8-10 documentari dalla durata di dieci minuti. Era il sistema produttivo che imponeva quella durata rigida perché i documentari venivano proiettati prima dei lungometraggi narrativi. Oggi fortunatamente questa divisione non c’è più e si assiste a continui scambi e passaggi. Sono convinto davvero- conclude Bertozzi – che il documentario ci possa offrire delle possibilità che il cinema narrativo del Novecento non ci ha dato, perché si proponeva come una sorta di romanzo ottocentesco tradotto in pellicola. Il documentario oggi non è semplice rappresentazione referenziale del mondo ma è come se ci portasse in una dimensione inconscia, verso una realtà più profonda. Non ha più quel narrante autoritario (più che autorevole) che descriveva il mondo come fosse fatto di assolute certezze. Oggi perfino la voce narrante è sempre più di scavo, di ricerca».

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Il sogno di un artista barbone

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 9, 2013

Fausto delle Chiaie nel film di Acocella

Fausto delle Chiaie nel film di Acocella

Presentato al Festival internazionale del cinema di Roma “Ho fatto una barca di soldi,  l’opera prima del regista  Dario Acocella.  Un poetico omaggio all’artista di strada  Fausto delle Chiaie

di Simona Maggiorelli

Per quanto sia abbondantemente nutrito di testimonianze raccolte sul campo, di interviste e di frammenti dal vero Ho fatto una barca di soldi, il docufilm di Dario Acocella che  è stato presentato al Festival Internazionale del Cinema di Roma ( al MAXXI, nella sezione prospettive doc Italia) ci appare come un’opera di videoarte originale e poetica, lontana anni luce dal piglio cronachistico tipico del genere documentario.

La sceneggiatura del film prodotto da Zerozerocento Produzioni in collaborazione con Rai Cinema ruota intorno ad un personaggio singolare come Fausto delle Chiaie (classe 1944), artista che da più di quant’anni lavora per strada a Roma, avendo scelto l’esterno dell’Ara Pacis come tela su cui disegnare le proprie fantasie utilizzando se stesso come pennello in carne ed ossa e come protagonista di curiosi tableaux vivants.
Così sul far della sera, quando i marmi del monumentale complesso augusteo biancheggiano sullo sfondo, questo artista un po’ anarchico, un po’ barbone (che assomiglia ad un omino di Folon) dissemina piccoli tesori sul selciato. Qua un finto topo dentro una gabbia disegnata sormontata dalla scritta “Rattu in inganno”, là un mucchietto di gioielli falsi e una borsetta accompagnata da un laconico cartello con su scritto “scippo”.

Se invece di guardare dritti davanti a noi, camminando, ci si concede uno sguardo da flâneur, curioso verso ciò che accade più in basso, si può scoprire anche una solitaria barchetta in plastilina, carica di spiccioli, ovvero quel piccolo e inaspettato vascello che dà il titolo all’intero film.

Fausto dell Chiaie

Fausto dell Chiaie

Regista, sceneggiatore, montatore e molto altro Acocella dà un’impronta personalissima a questo racconto per immagini di una giornata trascorsa con Fausto delle Chiaie e in cui le rare parole contano tanto quanto i silenzi, pieni e vibranti. Per più di un’ora ci ragala di poter abbandonare il ritmo caotico della capitale per farci scoprire il gusto della lentezza e per farci fare un pieno di incontri emozionanti, raso terra.

La telecamera di Acocella ci fa vedere il mondo ad altezza marciapiede, quasi il nostro fosse il punto di vista di un bambino, non più alto di metro e che intorno scopre un universo di incanti e magie, di sculture e pitture naif, di piccole provocazioni ora gentili ora spiazzanti che mirano a rompere il guscio dell’indifferenza e a mettere in connessione chi si sfiora per strada senza vedere e percepire l’altro.

Come fossero tanti piccoli laici ex voto le installazioni di Fausto delle Chiaie tracciano mappe metropolitane inedite, creano percorsi imprevisti in quel grande museo a cielo aperto che il centro storico di Roma. Poi il nostro artista barbone, imbacuccato e frugale, raccoglie le sue poche cose e sale su un treno per raggiungere una stanza di periferia, zeppa di oggetti trovati, di cose desuete, di matite e pastelli. E a rompere il silenzio della notte resta solo il rumore acido dell’attrito che fa il pennarello sulla carta. Come nota giustamente Achille Bonito Oliva nel frammento di intervista che Acocella ha incastonato nel film, l’arte di Fausto delle Chiaie è una domanda aperta sul mondo, una sfida a mettere insieme arte e vita. Forse anche per questo ci cattura, interrogandoci nel profondo.

Dal settimanale left-avvenimenti, numero 44 9- 15 novembre 2013

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La regista cinese Emily Tang sfida la censura.

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 14, 2013

Perfect life

Perfect life

Nel pluripremiato film Perfect life – che nel 2008 a Venezia l’ha fatta conoscere anche al pubblico italiano – la regista cinese Emily Tang raccontava due personaggi femminili agli antipodi: una contadina delle campagne più povere della Cina che lotta per sopravvivere e una giovane che si vende come modella e accompagnatrice a Hong Kong, in cambio di una vita agiata. In questo piccolo capolavoro cinematografico  le discrasie della Cina post maoista sono riassunte in una sintesi potente e suggestiva. E la censura cinese non glielo ha mai perdonato. Ma da Hong Kong Emily Tang è riuscita a continuare il suo lavoro, che mette a fuoco le contraddizioni più brucianti della Cina di oggi.

«Nei decenni passati la rapida crescita economica ha portato moltissimi cambiamenti», racconta Emily, fra gli ospiti dell’Asian Film Festival che si è svolto dal 6 all’11 aprile a Reggio Emilia. «I cinesi erano abituati a vivere in un sistema sociale stagnante, conservatore, autocentrato. Affrontare questi repentini cambiamenti, correre per recuperare il ritardo, cercare di adattarsi alla nuova situazione, per molti è difficile. Ci si scopre passivi, non si ha chiaro lo scopo di questi sconvolgimenti».

Quali sono gli anelli più deboli della società in questa corsa?
Le donne soffrono molto questa accelerazione. Tradizionalmente erano loro a occuparsi della casa, dei figli, della cucina. Poi, negli anni Ottanta del secolo scorso, milioni di donne hanno lasciato le terre d’origine per cercare lavoro altrove. Proprio come le due protagoniste di Perfect life. Dalla misera campagna alle città ricche, pagandone il prezzo e le difficoltà. Con il rischio di idealizzare il passato come “ vita perfetta” . Un posto come Shenzhen, vicino ad Hong Kong, per molti è stato il miraggio da inseguire. Perciò ho girato lì la sparatoria finale del mio film. Oggi Shenzen ha una popolazione di 12 milioni di persone. Più di 10 sono immigrati da aree poverissime e il 70 per cento di loro sono donne. Senza questa immensa forza lavoro Shenzen non sarebbe mai passata, in pochi decenni, da villaggio di pescatori a megalopoli. Tutto il merito è andato alla politica di apertura di Deng Xiaoping e nessuno parla di queste lavoratrici. Lasciano i loro figli al Paese, soffrono la solitudine e lottano per sopravvivere in una città caotica. Con la telecamera ho cercato di cogliere il loro mondo interiore, ignorato da tutti. Sono orgogliosa che siano diventate le “eroine” del mio film».

All Apologies

All Apologies

Nel suo nuovo film All Apologies racconta il dramma di Yunzhen, maltrattata dal marito per aver perso un figlio. Un nuovo capitolo della ricerca sull’identità femminile?
Per trent’anni la Cina ha sostenuto la politica del figlio unico, per controllare la crescita della popolazione. Ma  i problemi più seri sono sorti per il modo spesso disumano con cui la polizia ha costretto le donne ad abortire e a farsi sterilizzare. Yunzhen rappresenta queste vittime: vive da sola con un figlio, senza il marito al fianco per lunghi periodi. Mentre lui è via, subisce un intervento di sterilizzazione. Ma la tragedia scoppia quando muore il figlio, che era tutto per lei. Il marito, tornato a casa, scopre che lei non può più partorire e reagisce con violenza. Più dell’intervento subito, sono i valori tradizionali e  una cultura retrograda a mandarla in pezzi.

Però alla fine del film Yunzhen trova il coraggio di chiedere il divorzio…
Mentre giravo questa parte del film ero emozionatissima, mi sentivo partecipe, sapevo quanto fosse difficile per Yunzhen prendere quella decisione, ma speravo che il mio personaggio avrebbe trovato il coraggio di dire addio alla tristezza e allo sfruttamento.

In una società atea come quella cinese lontana dalla condanna cristiana del desiderio femminile, il rapporto fra uomo e donna è più libero e paritetico?
La cultura cinese è priva di un fondo religioso, ma ha subìto per più di due millenni un sistema feudale e patriarcale. Se una donna restava vedova non poteva risposarsi. Anche se questa usanza è scomparsa il sessismo è ancora dilagante. Ora è tempo che le donne prendano in mano il proprio destino. Questo è il messaggio che ho voluto dare nei miei film.

La regista Emily Tang

La regista Emily Tang

Il suo stile è fantasioso, evocativo. E conserva un forte rapporto con la realtà. Come ha trovato questa un cifra così originale?
Fare film è sempre stato il mio sogno. Sul set seguo il mio istinto, senza esitazioni. Diversamente dalla maggior parte dei miei colleghi non esco da una scuola di cinema. Mi sento libera da fardelli teorici. E ammiro maestri come Edward Yang, Antonioni e Angelopoulos.

Perché la censura cinese teme i suoi film?

Non mi curo molto della censura. Se hai un’idea, se hai qualcosa da dire, alla fine nessuno ti può fermare. Dieci anni fa girai Conjugation sentendo l’urgenza di farlo, ed è questa esigenza di esprimermi che conta, anche se in Cina quel film è ancora all’indice. Con All Apologies la faccenda è più complicata. Non possiedo i diritti. Per farlo uscire ho dovuto modificare un paio di frasi nei dialoghi.
Il Premio Nobel Mo Yan ha detto che la censura, alla fine, è stata l’occasione per sviluppare il proprio talento…
Ciascuno ha il suo modo di trattare con la censura. Ma non mi piace la condotta di Mo Yan. È inevitabile fare i conti con le limitazioni imposte dal potere. Ma non non si può certo dire che sia la condizione ideale.
Un artista come Ai Weiwei, intanto. continua a denunciare la violazione dei diritti umani in Cina. Che ne pensa?
Lo apprezzo moltissimo.

E’ già alle prese con una nuova opera?
Ho appena finito di girare un docudrama che parla dell’unica concessione commerciale italiana in Estremo Oriente, quella di Tianjin, che è rimasta in vigore tra il 1900 e il 1947. Per lunghi anni è stato una sorta di tabù parlare di come vivevano in queste aree i ricchi occidentali mentre noi eravamo poveri. L’unica parola che usavamo per descrivere  quella situazione era imperialismo. Ora, dopo aver vissuto uno sviluppo “ad alta velocità”, la Cina non è più umile come una volta. Ed è pronta a rivedere la propria storia in una prospettiva più ampia.

da left-avvenimenti

Chinese filmaker Emily Tang against censorship

Perfect life

Perfect life

In Perfect life you “compared” the stories of two very different women, who have many problems of identity and autonomy unresolved. In recent years something has changed for women in China? And in Hong Kong?

 

In the past decades, the rapid economic growth of China has brought a lot of changes to people’s way of living. Chinese people used to live in a stagnated, conservative and self-sufficient social system for such a long period of time. While facing such rapid changes, many peoples find it difficult to adapt to new situation. In the middle of the process, we may be consciously trying to catch up with all these changes, but finally we find out that we are actually in a very passive position, we even confused the purpose of all these changes, or is it worth the pursuit on the origin of our departure.I believe Chinese women suffer even more under such social changes. In the past, their natural duties would be farming, give birth, cooking and housework. In the 1980’s, millions of women left their land and went out for jobs, just like the two women characters in my film PERFECT LIFE. You can treat them as one person, working hard to fight for a better life, but eventually they no longer recognize their own meaning. Move from the poor area to an expensive city, they have to pay the cost and endure the pain. They have to keep struggle without turn back to seek for a imagined “perfect life”. A place called Shenzhen conveys such common dream. It is the shooting place of my film’s ending, near Hong Kong, which is referred as the world’s factory. It has a population of twelve million, over 10 million of them are the migrant workers from the poor area over the big country, and among all these workers nearly 70 percent are women. Without this huge work force, Shenzhen is impossible to change from a small fishing village into a megacity in a few decades. All the glory and merit belongs to the success of opening policy implemented by leader Deng Xiaoping, but who really care about the women workers. They leave their children in the poor countryside, endure loneliness and struggle to survive in a messy city. I attempt to use my camera and capture their inner world being ignored. I am very pleased that they become the hero in my film.

 

All apologies

All apologies

Your new film All Apologies tells the drama of Yunzhen. Is It a new chapter in your cinematographic research on the identity of women?

 

China has implemented the one-child policy for three decades in order to control population growth. This is a matter of last resort. But serious problem arise due to the inhuman way in executing the policy, the officers very often against the will of women, forced them to receive abortion or sterilization. Yunzhen is a representative of victims, I am concerned about the kind of women she lived with her child in the hometown without the presence of husband for long period of time. In accordance with the policy, she has a boy and loses the right to give birth another child. Forced ligation surgery will be implemented to her by the village officers. The two men (a husband and a son) in the family become her everything. But her world collapsed after the son died, especially when the husband learnt that she cannot give birth anymore. Although it is a tragedy caused by a traffic accident, but then we see that the traditional values and demand upon her is the actual force to tease her apart. I have deep sympathy for the character Yunzhen, at the end of the movie, Yunzhen sent a text message to her husband and ask for a divorce. While writing this scene, I was very excited. In accordance with the logic of the character, it must be very difficult for her to make this decision, but I hope my character will say goodbye to sadness and exploitation. In fact, the role of Qiaoyu is most crucial in the film to reveal inequality problem. After the traffic accident, when Yonggui broke into her room and rape her to reproduce a new life to him, she made a seemingly only the oriental women can do under such social context: the surrogate. It is also become the solution for her in order to have the money to pay for the surgery she simply cannot afford for her injured husband. This is a game that I imagined most distorted, the most painful, but the most well-intentioned fertility; or simply a woman to borrow her body for the salvation of others. Some might say that this is not necessary, why not ask for help from law enforcement bodies to protect themselves? I have to say, in China, the laws usually protect bigwigs. If you are the one without much education, struggling at the bottom of society, you don’t have much option after you are in trouble or badly ill. After Qiaoyu’s husband learnt that she give birth a son for Yonggui, he make a decision to take away their only daughter as her lifetime punishment. The scenes are act perfectly and with convinced most Chinese audience. I am hoping to express that in a male-dominated society, men’s selfishness and narrow-mindedness will come out without much constraint.

 

 Monotheistic religions for centuries have oppressed women, painting them like the devil. We imagine that Chinese culture, more secular, offers the possibility of a free and equal relationship between man and woman . Is that right? Wich are the problems in China?

Chinese cultural context is in lack of the sense of religion like Christianity. China built up a rigid feudal system for over two thousand years. The ethics of feudal society has always been patriarchal, for instance, in the past after the man die, his wife cannot remarried. Although this kind of practice is no longer retained, but sexist value still exist and commonly practice in every aspect of our society. Women should take over their own fate, this is the underlying theme in all my past films.

 

 Your way of making films is both poetic and attentive to the reality. How did you find your own way? Did you have some directors, some models, that inspired you?

 

I always comply with my heart to make films, seems like a voice telling me I should make this film and should handle the subject matters this way. I make use of my impulse and basic instincts without hesitation. Unlike most of the film directors in China, I am not professionally trained as filmmaker in film school. I did not study any film genre or theory seriously. Start from the very beginning, I am free of burden. I admire Edward Yang, Antonioni and Angelopoulos.

 

 What Chinese censorship feared about your films?

 

I do not take China’s censorship system seriously. If there is a story or an ideas that you really want to make it into film, I don’t think anyone can stop you. The authority never stop us from shooting a film. I made my first film CONJUGATION ten years ago impelled by strong passion, now it is still black-listed by the authority and cannot be public release in China. ALL AP OLOGIES is a bit complicated, unlike the past films I made, I did not own the copyrights. In order to release the film, I made one modifications: two dialogue lines of Yunzhen were redubbed in order to blur her passiveness for receiving forced ligation surgery.

 

Il premio Nobel Mo Yan

Il premio Nobel Mo Yan

Recently, the Nobel Prize Mo Yan said that the censorship forced him to find a more complex, allusive, fantastic styke in writing. What do you think?

 

All Chinese authors and creators have their thought and have their own way to deal with censorship. I do not appreciate the attitude of Mo Yan. Although all of us have to face the same censorship issue, we cannot think the situation now is as it should be.

 

 Ai Weiwei never gets tired of denouncing the situation of human rights in China . Which is your point of view?

 

I respect him a lot.

 

 Is Art an universal language that allows you to communicate strong contents beyond national barriers?

 

Yes, this is one of the reason I was obsessed with Art. An interesting experience is that I travelled a lot to many difference places due to shooting or presenting my films, in turn, it expanded how I watch the world and myself, and then influenced my films.

 

 Are you working to a new film project?

 

I just finish shooting a docudrama and now in postproduction status. It is about the past Italian concession in Tianjin, China. That concession was setup from 1900 until 1947, the only concession in the Far East in Italy’s history. For many years, it is a taboo for the Chinese people to talk about the details of how Westerners lived in the concessions during that humble period. We only imply a term “imperialism” to describe the whole. While experienced such high-speed economic development, China is not humble anymore, I think it is time for us to review the history with a broader scope. (Simona Maggiorelli)

From the italian weekly magazine Left-avvenimenti

 

 

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Educazione siberiana. Urka che bufale

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 16, 2013

Nicolai Lilin

Nicolai Lilin

Nelle lontane terre degli Urka, antico popolo siberiano, selvaggio e ribelle, di cui narra Nicolai Lilin nei suoi romanzi. Il regista Gabriele Salvatores si è innamorato del suo Educazione siberiana (Einaudi), tanto da trarne un film in uscita nelle sale il 28 febbraio e di cui si parla già molto.

Un kolossal, girato a parecchi gradi sotto zero, con John Malkovich nel ruolo del carismatico e crudele nonno Kuzja, figura chiave del romanzo di esordio di questo giovane scrittore russo che vive a Milano dopo essere stato guastatore in Cecenia e poi investigatore privato, infiltrato e tatuatore secondo una tradizione che in Transnistria si trasmetteva di generazione in generazione.
A trentadue anni, con un tris di bestseller all’attivo e un libro fresco di stampa, Storie sulla pelle (Einaudi) in cui racconta l’abilità di fare tatuaggi come una sorta di arte maieutica, Lilin è un personaggio piuttosto curioso nel panorama letterario, attento a costruire la propria immagine di “uomo duro delle steppe” pezzo dopo pezzo, dosando interviste e apparizioni in programmi come Le regole del gioco  (in onda su Dmax) in cui racconta il mondo dei  gladiatori sul ring e dei tiratori scelti.

Una cifra di cruda violenza, codificata secondo ancestrali codici di onore, del resto, caratterizza tutta la narrativa di Lilin e in modo particolare l’infanzia di Kolima il piccolo eroe di Educazione siberiana. Tanto che incontrando Gabriele Salvatores  dopo l’anteprima dell’omonimo film non possiamo non chiedergli, incuriositi, che cosa lo abbia convinto a tradurre il romanzo di Lilin sul grande schermo.

John Malkovic, in Educazione siberiana

John Malkovich, in Educazione siberiana

«La violenza è quanto di più lontano da me ci possa essere – dice  il regista -, ma quando i produttori di Cattleya mi hanno chiesto di leggere questo romanzo mi ha incuriosito il popolo Urka di cui racconta. Mi ricorda i pellerossa d’America che difendevano il loro mondo mentre tutto intorno a loro stava cambiando inesorabilmente. Nonno Kuzja è un po’ come l’ultimo dei Mohicani, lo dicevo sempre   a Malkovich sul set. Ma più di tutto – racconta Salvatores – mi interessano le domande che sollevano  le storie estreme di questi personaggi: quali regole rispettare? Cosa è giusto e cosa non lo è? Domande che chiamano in causa la nostra visione del mondo».

L’etica in cui Kollima cresce è certamente un’etica criminale. Mentre il suo alter ego Gagarin, non ha nemmeno quella. Ed entrambi si trovano del tutto impreparati a vivere un momento epocale come la fine dell’Urss. «La loro storia mi ha riportato alla mente alcuni racconti di Conrad e di London – dice Salvatores – ma anche certa letteratura russa da Dostoevskij a Tolstoj. In particolare Delitto e castigo». E in effetti il film ha un tono da narrativa ottocentesca: immagini pittoriche si alternano a scene cruente, dando alla narrazione un respiro che vorrebbe essere epico. Il piglio è quello del romanzo di formazione avventuroso e a tratti perfino picaresco. Aspetti che non troviamo nel libro di Lilin. «Mi sono permesso di prendere dal libro quello che più mi piaceva – ammette il regista – Trascurando una certa mitizzazione delle armi che non mi corrispondeva. E forse ho aggiunto qualcosa di mio alla storia dei due personaggi. Kollima e Gagarin, che sono l’uno l’opposto dell’altro. Ma mi ha fatto piacere che Lilin si sia sentito comunque rappresentato dal film. Si è addirittura commosso vedendolo».

il regista Salvatores con Malkovich sul set

il regista Salvatores con Malkovich sul set

Un elemento che è molto forte tanto nel romanzo quanto nel film è, invece, la presenza viva della natura, fortissima e ostile. «I personaggi hanno un rapporto quasi panteistico con la natura- commenta Salvatores-. Ma la natura è crudele, non ha pensiero, non ha regole se non quella della continuazione della specie. Per questo tipo di comunità, invece, ogni cosa è derivata dall’ambiente e ho cercato di raccontarlo. Anche se personalmente rifiuto la giustizia sommaria che mutuano dalle leggi naturali. Se un mio amico avesse violentato una ragazza come fa Gagarin io non vorrei più vederlo, non lo frequenterei più, ma non credo arriverei ad ammazzarlo. Detto questo, il film non è un documentario sugli Urka, non vuole essere un’indagine sociologica o antropologica. Né mi interessa, al fondo, sapere se le cose che Lilin racconta come vissute in prima persona gli siano state solo riferite. Credo che il suo romanzo nasca da un misto di invenzione e autobiografia. Per quel che mi riguarda  volevo girare una storia di formazione in un mondo lontano dal nostro, reso più affascinante proprio dalla lontananza».

E a questo patto “letterario” si lega il pubblico che per godersi il film non ha bisogno di passare la storia al vaglio della verità. «Per essere esistiti, gli Urka sono esistiti davvero- precisa Salvatores – erano tribù di guerrieri e cacciatori liberi, un po’ come i cosacchi che furono usati come truppe speciali. Gli Urka si rifiutarono sempre di essere assoldati; non accettavano il potere, né quello zarista né quello comunista. Parliamo di una cultura che probabilmente si è estinta, anche questo mi piaceva l’idea di riscoprirla». Spietati con i trafficanti di droga e i traditori, orgogliosi di essere diversi e lontani dalla mafia russia, fin dalla prima scena del film gli Urka vengono presentati con un ossimoro, come «onesti criminali».

Da parte sua, a scanso di equivoci, rivendicandoli come propri avi, nelle interviste Lilin non perde occasione per dire che gli Urka non erano una mafia. «Certo non una mafia come quella russa o italiana di oggi – commenta Salvatores – ma simile alla mafia dell’Ottocento, con un codice d’onore, un’appartenenza a una setta a una famiglia, a un clan, non a caso tornano sempre questi termini». E a chi, come lo scrittore russo Zachar Prilepin, accusa Lilin di essersi inventato tutto di sana pianta, creando un immaginario ad uso e consumo dell’Occidente e dei “brividi delle signore”, Salvatores commenta sorridendo «Probabilmente la realtà delle cose in Transnistria, dove è ambientato il romanzo e dove Lilin dice di aver vissuto fino all’età di 18 anni, è diversa. Ma la forza dell’arte russa è sempre stata quella di basarsi su cose reali, procedendo per metafore. Perciò il realismo magico di Chagall ci incanta». (Simona Maggiorelli)

dal settimanale lft-avvenimenti

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Marilyn, la sposa bambina

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 4, 2010

Esce per la prima volta in edizione italiana, e con 47 scatti restaurati, l’autobiografia in cui l’attrice raccontava la sua durissima infanzia

Marilyn Monroe

E’ una storia struggente e durissima quella che Marilyn Monroe (1 giugno 1926 – 5 agosto 1962) racconta nella sua autobiografia scritta a  28 anni con l’aiuto di Ben Hecht, sceneggiatore di capolavori cinematografici come Notorius e A qualcuno piace caldo. Un libro che, con il titolo La mia storia e corredato di 47 scatti restaurati del fotografo Milton H. Greene, esce ora per la prima volta in traduzione italiana grazie a l’editore Donzelli. Il volume, che in America non vide la luce prima del 1974 per paura di querele e scandali, nacque in un giocoso lavoro di equipe, fra Marilyn, Hecht e Greene. L’attrice  allora aveva da poco vinto una causa contro la Twentieth Century Fox che l’aveva sfruttata come una schiava. E, proprio grazie all’aiuto di Greene, Marilyn aveva appena fondato una casa di produzione di cui era socia di maggioranza. In questo momento di “grazia” e di rara indipendenza (anche mentale) lei si prestò a questo giocoso lavoro corale che la  portava alla ribalta in una luce irresistibile. Come aveva sempre desiderato. Così ogni momento di pausa delle riprese di Bus stop era l’occasione per andare con Greene a frugare nei cassoni dei costumi di scena.

Inventare nuovi personaggi, darsi nuove vite di fantasia era ciò che Marilyn amava fare di più. «Da piccola non facevo che sognare ad occhi aperti» racconta nell’autobiografia. «Anche quando dovevo servire a tavola, da bambina, fantasticavo di lavorare come cameriera in una casa elegante». Ma se le foto inventate con Greene (come quella celeberrima in tutù slacciato perché le andava stretto) raccontano attimi di spensieratezza, le parole che Hecht registrò rivelano ferite profonde e mai sanate. E che venivano da lontano. L’infanzia di Marilyn trascorse fra orfanotrofi e temporanei affidi in famiglie poverissime che la sfruttavano per i lavori di casa. La madre biologica, da impiegata, non guadagnava abbastanza per tenere con sé Norma Jean (questo era il vero nome di Marilyn). Il padre della futura star di Hollywood, invece, era fuggito quando lei era piccolissima. Per uscire da miseria, solitudine e fame, quando era ancora a scuola, su consiglio della “zia” Grace (un’amica di famiglia che si prese cura di Marilyn quando sua madre fu internata in manicomio) a poco più di 16 anni Norma Jean decise di sposarsi con un vicino «dall’aria elegante e gentile». Ma le cose andarono di male in peggio. «Sposai Jim Dougherty – annota Marylin in questo suo diario dettato a Hecht-. e fu come essere rinchiusa in uno zoo. Il primo effetto che il matrimonio ebbe su di me fu aumentare la mia mancanza di interesse per il sesso. A mio marito non interessava, oppure non ne era cosciente. Eravamo entrambi troppo giovani per discutere apertamente di un argomento così imbarazzante».

Era l’America puritana che precipitava verso la guerra, un mondo moralistico e religioso di cui Marilyn coglieva tutta l’ipocrisia. Quando, a tredici anni, un pensionante di una famiglia che l’aveva presa in affido aveva tentato di violentarla, Norma Jean lo disse in famiglia ma nessuno volle crederle. Per tutta risposta «la settimana seguente la famiglia, incluso il signor  Kimmel andò a una riunione religiosa che si teneva in un tendone» ricorda Marilyn ne La mia storia.

da left-avvenimenti

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Paolo Rossi, il mio cinema all’improvviso

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 1, 2010

Tra un instant film su Pomigliano, un libro e una regia lirica, il comico milanese è di nuovo giullare on the road. Il 5 agosto a Genova e l’8 sulle Dolomiti

di Simona Maggiorelli

Paolo Rossi

Tra un instant film sulla vertenza di Pomigliano d’Arco e la regia lirica de Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa che lo attende a Spoleto alla ripresa autunnale, Paolo Rossi torna a vestire i panni del giullare on the road: scendendo giù al Porto Vecchio di Genova per fare, sull’acqua, Il meglio di Paolo Rossi il 5 agosto. E poi arrampicandosi su fino alla conca fiorita di Prà Martin per riproporre il Mistero Buffo di Dario Fo «in umile versione pop» l’8 agosto nell’ambito della rassegna Suoni delle Dolomiti.  Del resto, il teatro popolare, è la sua prima e grande passione. La sua molla originaria. Tanto più in tempi di tv irreggimentata e di pesanti tagli alla cultura che lo fanno sommamente indignare. Perché «tagliando i fondi alla cultura – avverte – si impedisce ai giovani persino di immaginare di dire le cose. È una censura micidiale, silente, che non porta allo scandalo perché non è repressiva. E così crea vuoti generazionali». Senza contare che un processo di regressione culturale procede imperterrito in Italia ormai da una ventina di anni. «La tv commerciale – sottolinea il comico milanese – ha compiuto una “rivoluzione culturale”, ci ha fatto diventare tutti tifosi e spettatori. Di fatto ha tramutato il popolo in pubblico. E anche quando si parla di politica, in senso alto, gli italiani  oggi sembrano diventati tutti spettatori». Una situazione di narcolessia «generale e generalizzata» che nel teatrante Paolo Rossi ha fatto tornare la voglia  di ripensare il teatro popolare e gli strumenti che offre per stimolare nuovi pensieri. («Sarà che proprio nei periodi più neri – chiosa – quando tutti sono pessimisti, io sono ottimista: toccato il fondo, non si può che risalire»). Così Paolo Rossi si rimbocca le maniche non risparmiandosi in scena, ma lo fa anche sul piano più “teorico” mandando in libreria con la regista di Mistero Buffo Carolina de la Calle Casanova (sì, si chiama proprio così) un appassionato libro a più voci, La commedia è finita! (Elèuthera) in cui  Rossi dialoga intorno a una moderna idea di teatro popolare,  squadernando gli strumenti, i trucchi del mestiere, ma anche invitando idealmente il lettore nel backstage e nelle cene fra saltimbanchi nel dopo-spettacolo durante le quali, non di rado, «nascono le idee migliori». Ma Rossi con questo libro riesce a far entrare in scena anche le chiaccherate a notte fonda e gli incontri casuali con baristi, fan, benzinai, colleghi attori e albergatori, insomma tutto ciò quel mondo che ruota intorno al palcoscenico e che fa la vita e il lavoro del teatrante. Infilando fra una sigaretta e un autografo qualche piccola perla del genere: «Il potere, ‘o sistema, racconta falsità, menzogne. L’artista del teatro pop ne racconta di migliori». Oppure: «Sarà stato per il personaggio che interpretavo in una compagnia (un comico che studiava da ribelle), sarà stato per il periodo storico (questi anni settanta che secondo me devono ancora cominciare) o per il successo che ci accarezzava… ho avvertito subito il progetto di trasformarci tutti in marionette. Allora l’avevo intuito. Ma solo passato il giro di boa, quasi trent’anni dopo, ho capito che la mia intuizione era giusta e che anzi era già realizzata». E poi calando ogni maschera, con il coraggio che dà, talvolta, il parlare di notte, Paolo Rossi aggiunge: «Io ho avuto fortuna. Sono caduto. Cadere è come quando ti fanno i tarocchi e ti esce la carta della morte. Mica vuol dire sempre che si muore in senso fisico, magari ci vai vicino, ma poi è anche molto divertente riuscire a organizzare e assistere al funerale di una parte di te stesso. Del defunto rimane sempre il meglio… e poi come si fa a parlare male di un morto?».  Ed è davvero una rinascita artistica quella che il poliedrico Rossi sta vivendo fra progetti apparentemente molto distanti fra loro ma che lui riconduce sempre a un unico comun denominatore: il teatro popolare. Anche se a settembre al Lirico sperimentale Belli di Spoleto lei si darà alla regia lirica? «Il melodramma è teatro popolare in senso stretto» ci dice al telefono da Pomigliano in una pausa delle riprese del film  R.C.L.- Ridotte Capacità Lavorative prodotto da Mauro Berardi e Agenzia Multimediale Italiana (Ami), per la regia di Massimiliano Carboni. E questo docu-film sulla vertenza Fiat? «Un metodo di cinema all’improvviso si è sposato bene con un metodo di teatro all’improvviso. Vediamo se sarà così anche in fase di montaggio. Ora tutto passa a Massimiliano (Carboni ndr). Certo fare un film in quattro giorni non è cosa da poco…». Insomma Paolo Rossi ha inventato un nuovo genere cinematografico? «Non esageriamo – si schermisce -. Già altri registi si sono dedicati a lavorare sul canovaccio e non su una sceneggiatura compiuta. Non siamo certo i primi». L’importante, insomma, è farlo alla propria maniera.  Anche perché per dirla con Dario Fo: «Prendere ispirazione è cosa buona, copiare è da imbecilli».

da left-avvenimenti 30 luglio 2010

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Lode alla passione di Semiramide

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 18, 2010

Ecco perché il fondamentalismo cristiano se la prese con la scienziata alessendrina Ipazia. A margine dell’uscita nelle sale italiane del film Agorà del regista cileno Amenàbar, il filosofo Giulio Giorello invita riscoprire le grandi figure femminili che il Vicino Oriente ci ha tramandato. E che l’Occidente cristiano stigmatizzò come “dee false e bugiarde”

di Simona Maggiorelli

Gustave Moreau, Salomé 1876

il regista Amenábar racconta Ipazia come una filosofa neoplatonica ma anche come una grande matematica impegnata nel rileggere in modo critico la tradizione di Tolomeo. Fino a farne una precorritrice di Copernico e addirittura delle orbite ellittiche di Keplero. Chiaramente – sottolinea Giulio Giorello, fra i relatori del convegno su Ipazia che si è tenuto il 14 aprile a Roma su iniziativa dalla Treccani – nel film Agorà c’è un tocco di immaginazione riguardo a questo punto.  A mio avviso, una licenza legittima nella reinterpretazione poetica di Ipazia che Agorà ci offre. Ma va detto anche – prosegue il filosofo della scienza – che il film di Amenábar è molto preciso nella ricostruzione del fanatismo cristiano visto in due momenti: nella lotta contro i pagani al tempo del vescovo Teofilo e poi sotto suo nipote Cirillo che fece ancora peggio: un figuro che poi è stato fatto santo e addirittura è stato schierato fra i padri della Chiesa.

E il fondamentalismo cristiano dei parabolani?

Il film è molto coraggioso nel mostrare come le bande cristiane che linciarono Ipazia fossero “parenti strette” delle squadracce fasciste o, se vogliamo, delle bande comuniste di Pol Pot. «Il ventre che ha partorito l’intolleranza è ancora fecondo», diceva Brecht. E Agorà mette bene in luce il ruolo nefasto dell’intolleranza cristiana. Gli stessi cristiani che si batterono per una politica più lungimirante furono sconfitti. Quanto a Cirillo, a me ricorda i costruttori del totalitarismo, la «banalità del male», per dirla con Arendt; una banalità del male che i cristiani rivolgono verso gli altri… Alla fine, anche nel film la scienza, comunque sia, andrà avanti lo stesso, nonostante i lutti, le tragedie, le usurpazioni.

Ipazia fu calunniata dai cristiani che ne alterarono ferocemente l’immagine?

Fra le accuse che le furono mosse c’era anche quella di stregoneria, di praticare la magia nera, un reato che era odioso non solo ai cristiani ma anche fortemente represso a Roma. I parabolani, manipolati e manipolatori, praticarono sistematicamente la disinformazione. Ecco un altro tratto che avvicina il loro cristianesimo alle forme di totalitarmo che abbiamo conosciuto nel secolo breve.

Alessandria d’Egitto era una città multiculturale. I parabolani vollero colpire anche una certa libertà che lì le donne avevano?

La cultura greca e romana aveva una componente misogena. E quella del cristianesimo, poi, è più che evidente. In una cultura come quella alessandrina, invece, alle donne eccezionali veniva riconosciuto un prestigio intellettuale e politico, una sorta di status, che altre tradizioni invece negavano. Alessandria era stata, non dimentichiamolo, la città di Cleopatra nel I secolo a.C. Per Roma era una lussuriosa ma per gli orientali era la risposta all’imperialismo romano. Ci vorrà Shakespeare per riconoscere questo tratto politico di Cleopatra. Per molti versi, Ipazia fu il contrario. Mentre Cleopatra fu regina dai grandi amori, Ipazia fu una “virgo”, una vergine che si dedica alla contemplazione filosofica.

Allora perché colpirla?

In quell’atto di ferocia avvenuto sotto Cirillo la Chiesa si rese colpevole di tre diverse violenze: contro la donna, contro la libertà religiosa e contro la libertà scientifica. Per questo Ipazia fu straziata in modo orribile; il film riguardo alla sua morte edulcora la storia reale. Non so se il suo assassinio fu il segno della fine della grande cultura classica e pagana, come dice lo storico Gibbon. Certamente fu un segno nefasto: dice che le religioni, e in particolare il cristianesimo, possono essere elementi non di pace ma di discordia sociale, tarpando la fioritura di personalità di donne e di uomini, diventando solo fanatismo, violenza, repressione. Nella storia, poi, la Chiesa cattolica non si è smentita. Ricordiamoci come è finito Giordano Bruno, come fu messo a tacere Galilei, pensiamo alle dure repressioni di pensatori eretici o libertini. Altro che radici cristiane dell’Europa! Se le nostre radici cristiane sono quelle piantate dai parabolani è ora di tagliarle. Senza dimenticare poi che gli umani non sono piante che hanno bisogno di radici. Piuttosto sono nomadi che vogliono camminare in libertà.

Nel suo libro Lussuria (Il Mulino) indaga la sessualità vista da Oriente e da Occidente e scrive che Cleopatra fu vista come «un ostacolo da eliminare nel cammino di Roma nel mondo civilizzato».

Ottaviano per gli storici classici fu il restauratore delle virtù repubblicane di Roma dopo le guerre civili. Shakespeare conosceva bene le fonti classiche! Cleopatra subì una demonizzazione come altre eroine del Vicino Oriente. Ipazia no. Fonti posteriori, sia pagane che cristiane, riconobbero il suo grande valore intellettuale.

Le dee dell’Oriente furono dette false e bugiarde…

Da Agostino ma anche da Dante. E la donna fu considerata in modo molto diverso da quanto accadeva nel mondo pagano. Il monoteismo cristiano in questo ha molte responsabilità. Furono dette false e bugiarde Hinanna dei Sumeri, Isthar degli Accadi, Astarte della Siria e Afrodite che, prima di essere associata alla Venere latina, era una divinità femminile molto potente: in Oriente non era solo la dea dell’amore ma rappresentava anche la potenza della natura che genera il nuovo. Una dea terribile verso chi la ostacola. Un aspetto ripreso meravigliosamente nei Cantos di Pound e che troviamo già in Euripide. E poi molte figure femminili che ci ha lasciato il Vicino Oriente (checché ne dica Dante) furono grandi regine. Penso a Didone e alla grande Semiramide che l’Occidente vuole colpevole di incesto e assassina. La tradizione orientale che il paziente lavoro degli assirologi ha fatto riemergere, invece, ce ne parla come di una regina che apportò importanti novità politiche. La vera Semiramide, come ha dimostrato Giovanni Pettinato, fu una grande legislatrice, una edificatrice di civiltà e si tramanda dicesse: «Siccome la natura mi ha dotata di un corpo di donna ho avuto anche il tempo per coltivare i miei amori». Nel mio libro ho cercato di raccontare che ciò che oggi si dice lussuria era considerata in Oriente una qualità creativa potente. Un’idea che fu normalizzata dal monoteismo cristiano. Tertulliano diceva che la donna era «porta del diavolo» attraverso la quale tutti i vizi irrompono nell’umanità. Gli effetti di questo paradigma occidentale li vediamo anche oggi: le donne sono oggetto di una “lussuria” molto bassa da parte di maschi che poi pubblicamente fanno come Ottaviano.

Nell’epopea di Gilgamesh l’incolto Enkidu ottiene l’intelligenza grazie al rapporto con una prostituta…

Quello che noi chiamiamo vizio di lussuria era in realtà passione della conoscenza. Questa è una componente molto radicata nella cultura dell’Antica Mesopotamia. La sessuofobia paolina cancellò tutto questo. Paolo di Tarso deve aver avuto non pochi problemi psico-fisici… Come si vede da Lussuria le mie simpatie vanno alle grandi dee, Isthar e Afrodite, ma vanno soprattutto a quelle donne che hanno cercato di liberarsi volendo seguire il desiderio, che una cultura stupidamente maschilista definisce «voglie». Un grande esempio fu l’inglese Harriett Taylor che lottò per i diritti delle donne facendone conquiste per tutti. Le sue intuizioni passarono nel libertarismo di John Stuart Mill.

dal settimanale Left-avvenimenti


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L’avventura di due grandi maestri

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 31, 2007

La scomparsa di due giganti del cinema, Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni. Marco Bellocchio racconta a left il loro cinema , la loro poetica.L-arte di Antonioni fu profondamente laica. Quella di Bergman, pervasa dalla religione.Come Ghuther Grass, da giovanissimo Bergman fu affascinato da Hitler e dal nazismo. Ma se lo scrittore se ne separ; molto presto,Bergman lo fece solo quando seppe dei campi di concentramento.

di Simona Maggiorelli

Ingmar Begman e Michelangelo Antonioni se ne sono andati a poche ore l’uno dall’altro, una casualità che colpisce e che lascia con la sensazione che con la loro scomparsa si sia chiusa una fase storica, comunque importantissima, del l’arte cinematografica. «Il cinema ha una sua storia, anche lunga, ormai, ma certo in questo caso sono scomparsi due giganti», dice il regista Marco Bellocchio. «Con Antonioni ci sono state delle assonanze profonde. Ma negli anni giovanili Bergman, devo dire,  mi aveva molto colpito, quando ventenne a Roma studiavo cinema.
Era come se la sua disperazione, la sua angoscia incontrassero un mio modo di pensare di allora, quello dei primi quindici anni di lavoro. Dopo i miei pensieri cominciarono a cambiare, si allontanarono inevitabilmente dal pensiero, dalle ideologie, dalla filosofia di Bergman.
Era il Bergman in bianco e nero quello che più l’aveva colpita?
Sogno di una notte d’estate, Il posto delle fragole, Il settimo sigillo, La fontana della vergine, ma anche Persona film straordinariamente
innovatore.Le mie idee sulla vita non erano troppo distanti da quelle di Bergman, mi colpiva questo suo continuo riferimento alla morte e alla trascendenza come via di fuga alla disperazione. In lui, al fondo, più che con l’infelicità e la follia, c’è sempre un rapporto con la morte. Il settimo
sigillo
, in questo senso, è emblematico.
Il cinema di Bergman ha una cifra esistenzialista. Ma anche più strettamente heideggeriana in questo gioco a scacchi con la morte, in questo «esserci per la morte» che pervade la sua poetica?

Era religioso e pensava che in noi ci sia un male connaturato con la nostra stessa nascita. Un male che al massimo può essere controllato.
Con il quale convivere. Un tema che c’è anche in Stanley Kubrick: un male intrinseco che poi è il peccato originale.
In Antonioni, invece, non c’è. Questa distinzione mi pare molto importante. Il suo cinema è stato profondamente laico. Bergman, invece, quando studiava a Weimar disse che Hitler «aveva un fascino tremendo» Quando subiva questa “fascinazione”, va detto, aveva vent’anni. Lo racconta nella sua autobiografia. Non era un ragazzino come Grass quando entrò nell’esercito. E poi Bergman era figlio di un pastore evangelico, anche se non voglio dire che questo debba essere una condanna. Ma ha nessi evidenti con il suo modo di pensare l’infelicità dell’uomo. l’idea dell’intrinseca infelicità dell’essere umano permea anche un film come Il volto. Lì Bergman lo fa dire al ciarlatano, che con la sua fantasia, i suoi trucchi, ha la capacità di portare lo scienziato a una sorta di paura panica. Il positivismo, insomma, è sconfitto, ma non c’è la proposizione
di un pensiero diverso. Centrale lì è il tema del teatro come anche nel Settimo sigillo. Anche lì è una famiglia di saltimbanchi che guarda i flagellanti, il cavaliere e la morte. Come se, per il disperato Bergman, la recita, la rappresentazione, il teatro fossero un antidoto alla disperazione dell’esistenza.

Ma il ricorso al teatro, per Bergman, non è un espediente in fondo rassicurante, che riconduce le tensioni a uno schema verbale e razionale come in Scene da un matrimonio?
Con Scene da un  matrimonio siamo già usciti dalla fase migliore del suo lavoro. Rassicurante però non direi, c’è sempre una disperazione
che sta per entrare in casa. Anche nel Posto delle fragole il personaggio capisce della propria aridità, di aver badato sempre e solo ai suoi
studi, con ingenerosità verso gli esseri umani. Lui percepisce tutto questo e c’è il famoso sogno in cui vienetrascinato dentro la bara e poi in varie visioni. Tutto poi si conclude. È con i tre ragazzi che partono per le vacanze e che gli fanno una specie di serenata sotto la finestra. Lui, certo, sì è un pochino rasserenato, ma è sul punto di morire.
Quella celebre sequenza, da spettatrice, oggi mi appare oggi senza invenzioni, quasi preistorica rispetto a una certa ricerca su un certo modo di fare immagini  che hanno a che fare con una fantasia profonda e non con meccanici tentativi di trascrizione di sogni.
Quella non è solo una trasposizione di un sogno ma anche una rappresentazione. Anche se, però, mi viene subito in mente, per contrasto, la dimensione fantastica, onirica, di Bunuel, nel quale ritrovo tematiche che mi sono più congeniali, il rapporto con la donna, il desiderio. Quello di Bergman, ribadisco, è sempre un discorso cristiano sulla morte. Anche se indubbiamente ne Il posto delle fragole con risultati notevoli. Lì non c’è il sogno tout court ma una trasfigurazione. Usa il sogno proprio per dare una rappresentazione disperata di un destino che lo terrorizza.
Bergman fa un uso della parola, molto abbondante e molto espressivo, però se noi lo confrontiamo alla genialità delle immagini  di Dreyer, per esempio, la differenza appare subito.
Cosa distingue, secondo lei,  la ricerca di Dreyer?
Le sue sono immagini originali. Lavora molto sui primi piani. È stato magnifico il gruppo di attori che lo ha seguito. Dreyer ne ha
raccolto i risultati superlativi.
A differenza di Dreyer Bergman è più un regista di parola che di immagine?
Non direi. Anche le parole sono immagini. Ma Giovanna d’Arco è un capolavoro, come lo è Dies Irae, fino a Ordet. Ma la forza delle immagini è qualcosa che vedo più potentemente in Dreyer che in Bergman, anche se è un autore che ha influenzato tutti fino agli anni Ottanta. Il suo ultimo film che mi ha impressionato è stato Sussurri e grida. Un film estremamente drammatico incentrato su un rapporto di assistenza e di estrema violenza… È un discorso sull’indifferenza, sulla disperazione, ma c’è anche quel tema religioso del male in questo rapporto fra la donna che sta per morire e la camerierache l’assiste e mente. Più che Ibsen, che in fondo è un personaggio più positivo, si sente l’influenza di Strinberg:
la vita come inferno i rapporti familiari, finti, terribili. E più al fondo c’è Kirkegaard. Bergman ha avuto delle intuizioni poi la sua ricerca sembra essersi indebolita.
È accaduto anche ad Antonioni?
Il suo ultimo film, per me, è stato Identificazione di una donna. Non voglio negare gli altri ma in quel film con Tomas Millian lui si è impegnato
totalmente, c’è la personalità, poi dopo larazione dell’esistenza. Ma il ricorso al teatro non è un espediente in fondo rassicurante,
che riconduce le tensioni a uno schema verbale e razionale come in Scene da un matrimonio?
Lì siamo già usciti dalla fase migliore del suo lavoro. Rassicurante però non direi, c’è sempre una disperazione che sta per entrare in casa. Anche nel Posto delle fragole lui capisce della propria aridità, di aver badato sempre e solo ai suoi studi, con ingenerosità verso gli esseri umani. Lui percepisce tutto questo e c’è il famoso sogno in cui viene trascinato dentro la bara e poi in varie visioni. Tutto poi si conclude. È con i tre ragazzi che partono per le vacanze e che gli fanno una specie di serenata sotto la finestra. Lui, certo, sì è un pochino rasserenato, ma è sul punto di morire.
Quella celebre sequenza, da spettatrice, mi appare oggi un po’meccanica, senza invenzioni, quasi preistorica
rispetto a una ricerca sulle immagini inconscie come la sua. Lei, oggi, cosa ne pensa
?
Quella non è solo una trasposizione di un sogno ma anche una rappresentazione. Anche se, però, mi viene subito in mente, per contrasto,
la dimensione fantastica, onirica, di Bunuel, nel quale ritrovo tematiche che mi sono più congeniali, il rapporto con la donna, il desiderio. Quello di Bergman è sempre un discorso cristiano sulla morte. Anche se indubbiamente ne Il posto delle fragole con risultati notevoli. Lì non c’è il
sogno tout court ma una trasfigurazione. Usa il sogno proprio per dare una rappresentazione disperata di un destino che lo terrorizza. Bergman fa un uso della parola, molto abbondante e molto espressivo, però se noi lo confrontiamo alla genialità delle immagini di Dreyer, per esempio, la differenza appare evidente.
Che cosa distingue in questo senso la ricerca di Dreyer?
Le sue sono immagini originali. Lavora molto sui primi piani. È stato magnifico il gruppo di attori che lo ha seguito. Dreyer ne ha raccolto i risultati superlativi.

A differenza di Dreyer Bergman è più un regista di parola che di immagine?
Non direi. Anche le parole sono immagini. Ma Giovanna d’Arco è un capolavoro, come lo è Dies Irae, fino a Ordet. Ma la forza delle immagini è qualcosa che vedo più potentemente in Dreyer che in Bergman, anche se è un autore che ha influenzato tutti fino agli anni 80. Il suo ultimo film che mi ha impressionato è stato Sussurri e grida. Un film estremamente drammatico incentrato su un rapporto di assistenza e di estrema violenza… È un discorso sull’indifferenza, sulla disperazione, ma c’è anche quel tema religioso del male in questo rapporto fra la donna che sta per morire e la cameriera che l’assiste e mente. Più che Ibsen, che in fondo è un personaggio più positivo, si sente l’influenza di Strinberg: la vita come inferno i rapporti familiari, finti, terribili. E più al fondo c’è Kirkegaard.
Bergman ha avuto delle intuizioni poi la sua ricerca sembra essersi indebolita. È accaduto anche ad Antonioni?
Il suo ultimo film, per me, è stato Identificazione di una donna. Non voglio negare gli altri ma in quel film con Tomas Millian lui si è impegnato
totalmente, c’è la personalità, poi dopo larazione dell’esistenza.

Ma il ricorso al teatro non è un espediente in fondo rassicurante, che riconduce le tensioni a uno schema verbale e razionale come in Scene da un matrimonio?
Lì siamo già usciti dalla fase migliore del suo lavoro. Rassicurante però non direi, c’è sempre una disperazione che sta per entrare in casa. Anche nel Posto delle fragole lui capisce della propria aridità, di aver badato sempre e solo ai suoi studi, con ingenerosità verso gli esseri umani. Lui percepisce tutto questo e c’è il famoso sogno in cui viene trascinato dentro la bara e poi in varie visioni. Tutto poi si conclude. È con i tre
ragazzi che partono per le vacanze e che gli fanno una specie di serenata sotto la finestra. Lui, certo, sì è un pochino rasserenato, ma è
sul punto di morire.

Quella celebre sequenza, da spettatrice, mi appare oggi un po’meccanica, senza invenzioni, quasi preistorica
rispetto a una ricerca sulle immagini inconscie come la sua. Lei come la giudica?

Quella non è solo una trasposizione di un sogno ma anche una rappresentazione. Anche se, però, mi viene subito in mente, per contrasto, la dimensione fantastica, onirica, di Bunuel, nel quale ritrovo tematiche che mi sono più congeniali, il rapporto con la donna,
il desiderio. Quello di Bergman è sempre un discorso cristiano sulla morte. Anche se indubbiamente ne Il posto delle fragole con risultati
notevoli. Lì non c’è il sogno tout court ma una trasfigurazione. Usa il sogno proprio per dare una rappresentazione disperata di un destino che lo terrorizza. Bergman fa un uso della parola, molto abbondante e molto espressivo, però se noi lo confrontiamo alla genialità delle immagini
di Dreyer, per esempio, la differenza appare subito evidente.
Che cosa distingue in questo senso la ricerca di Dreyer?
Le sue sono immagini originali. Lavora molto sui primi piani. È stato magnifico il gruppo di attori che lo ha seguito. Dreyer ne ha raccolto i risultati superlativi.
A differenza di Dreyer Bergman è più un regista di parola che di immagine?
Non direi. Anche le parole sono immagini. Ma Giovanna d’arco è un capolavoro, come lo è Dies Irae, fino a Ordet. Ma la forza delle
immagini è qualcosa che vedo più potentemente in Dreyer che in Bergman, anche se è un autore che ha influenzato tutti fino agli anni 80. Il suo ultimo film che mi ha impressionato è stato Sussurri e grida. Un film estremamente drammatico incentrato su un rapporto di assistenza e di estrema violenza…
È un discorso sull’indifferenza, sulla disperazione, ma c’è anche quel tema religioso del male in questo rapporto fra la donna che sta per morire e la cameriera che l’assiste e mente. Più che Ibsen, che in fondo è un personaggio più positivo, si sente l’influenza di Strinberg:la vita come inferno i
rapporti familiari, finti, terribili. E più al fondo c’è Kirkegaard.
Bergman ha avuto delle intuizioni poi la sua ricerca sembra essersi indebolita. È accaduto anche ad Antonioni?
Il suo ultimo film, per me, è stato Identificazione di una donna. Non voglio negare gli altri ma in quel film con
Tomas Millian lui si è impegnato totalmente, c’è la personalità, poi dopo larazione dell’esistenza.
Ma il ricorso al teatro non è un espediente in fondo rassicurante, che riconduce le tensioni a uno schema verbale e razionale come in Scene da un matrimonio?
Lì siamo già usciti dalla fase migliore del suo lavoro. Rassicurante però non direi, c’è sempre una disperazione
che sta per entrare in casa. Anche nel Posto delle fragole lui capisce della propria aridità, di aver badato sempre e solo ai suoi studi, con ingenerosità verso gli esseri umani. Lui percepisce tutto questo e c’è il famoso sogno in cui viene trascinato dentro la bara e

poi in varie visioni. Tutto poi si conclude. È con i tre ragazzi che partono per le vacanze e che gli fanno una specie di serenata sotto la finestra. Lui, certo, sì è un pochino rasserenato, ma è sul punto di morire.
È accaduto anche ad Antonioni?
Il suo ultimo film, per me, è stato Identificazione di una donna. Non voglio negare gli altri ma in quel film con Tomas Millian lui si è impegnato
totalmente, c’è la personalità, poi dopo lamalattia è stato in qualche modo aiutato,sorretto. Per me il suo periodo più fecondo comprende Le amiche, Il grido, La notte, L’eclissi, fino a Blow up. Ma forse il film più misteriosamente geniale resta L’Avventura.
Perché più misteriosamente geniale?
Per quella sua curiosità, interesse profondo, per le donne: per il modo in cui le sa rappresentare. E poi ne L’Avventura sa dire della sparizione, dell’assenza, rappresentandola in modo assolutamente artistico, inconsapevole.
C’è una donna che sparisce e quest’uomo futile, superficiale che si coinvolge con la migliore amica di lei, ma la tradisce, così per nulla. Ma è anche vero che un autore non va preso solo per un film, ma per l’intera sua opera.
Diverso, il suo dal modo di rappresentare le donne di Bergman?
L’interesse di Bergman per le donne, indubbiamente, si pone su una dimensione del trascendente, creduta o non creduta. Antonioni invece

è su un versante laico, di rapporto umano. Vede e anticipa. Non dimentichiamo che il film L’avventura da tutta una certa critica di sinistra non fu immediatamente riconosciuto proprio perché era anticipatore, metteva in discussione i principi che erano del comunismo, cioè andava già in un’altra direzione: quella della ricerca sulla realtà interna del rapporto uomo donna che tutta la sinistra sottovalutava largamente. Personalmente credo di aver capito la sua grandezza con Le amiche e Il grido. Due film che si concludevano con due suicidi… Nel L’avventura c’è qualcosa che diventa più complesso, un’idea più originale.

C’è un filo di esistenzialismo anche in Antonioni e che differenza c’è con quello di Bergman
Anche lì c’è una differenza, pur essendo Antonioni un introverso, un uomo molto discreto era uno che amava la vita, e poi si prendeva grandi rischi. Questo devo dire anche Bergman. Ma per le cose che mi interessano particolarmente, è più Antonioni il regista a cui posso far più riferimento, specie rispetto ad alcuni film, Blow up è un film perfetto altri che mi interessassero di meno. Ma anche in grandi artisti ci sono delle opere, se pensiamo anche ai grandissimi, per esempio Picasso, che ti toccano più di altre. Il deserto rosso è una di
queste? Deserto rosso è un film molto innovatore. i rimproveravano a Antonioni i dialoghi non realistici,si facevano anche battute su certe frasi, perché il cinema italiano era abituato a un certo realismo. Invece Antonioni rischiava perché nei dialoghi voleva concentrare dei contenuti, che andassero oltre il mero realismo. In deserto rosso, il suo primo film a colori, fa come il pittore, cambia la tavolozza. Adesso si fa tutto in elettronica successivamente lui ebbe l’ardire di modificare gli scenari. Era l’epoca in cui gli attori ancora si doppiavano.
La sua grande originalità non stava tanto nella descrizione fenomenologica di una schizofrenica ma nel rappresentare il mondo molto deteriorato, inquinato, incomprensibile, incomunicabile in cui si muove questa donna che ormai ha perso tutti i punti di riferimento. Anche a
causa dell’indifferenza di un marito freddo che poi si coinvolge con un ingegnere e scompare. In questo senso però è un film molto originale,
ma se parliamo di capolavori, preferirei usare questa definizione più per L’Avventura e per Blow up. Poi non dimentichiamo i primi film, Cronaca di un amore, I vinti, La signora senza camelie.

Ma oggi, guardandosi indietro accanto a Bergman e Antonioni chi metterebbe fra i registi che per lei hanno contato?
Mi viene in mente immediatamente anche Bunuel la sua complessità, la sua genialità. È raro percepirlo, capirlo, sentirlo immediatamente,
perché la genialità è qualcosa di talmente nuovo che il comune spettatore ci mette un po’di tempo, magari anche il cineasta. Veramente
se si pensa all’opera di Bunuel è gigantesca e comunque mi è più affine. Ha una sua espressività potente, ma anche una delicatezza e una grazia particolari. Ma anche alcuni Fellini, certamente  vi troviamo Chaplin, Dreyer. Ma ribadisco, anche Bergman e Antonioni in mododiverso. Che poi ciò che io penso, che desidero e che la mia ricerca vada in un’altra direzione, non c’è dubbio.

da left-avvenimenti 31 luglio 2007

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