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Attacco all’arte, la bellezza negata, presentazione a Libri come, Auditorium, Roma

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 13, 2019

Attacco all’arte, la bellezza negata a Libri come, con l’autrice, il giornalista del Corriere della Sera e presidente delle Biblioteche di Roma Paolo Fallai, la sceneggiatrice e critico cinematografico Daniela Ceselli e l’editore Matteo Fago, Roma, 19 marzo 2017

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Non gli resta che il diavolo

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 21, 2018

Papa Francesco, come Paolo VI, è convinto che  il diavolo sia una persona e lo ha ribadito  in molti dei suoi discorsi. Additandolo come istigatore e responsabile di tutti i crimini che scuotono la Chiesa dal suo interno. Non a caso è il primo papa a riconoscere l’Associazione internazionale esorcisti 

di Emanuela Provera e Federico Tulli

” C’è Satana dietro il riscaldamento globale». Quella che potrebbe sembrare una battuta con tanto di allusione alle fiamme dell’inferno creato dalla fantasia dantesca è in realtà la concreta convinzione di Cristiano Ceresani, il capo di gabinetto del ministro per la Famiglia, il leghista Lorenzo Fontana. Una convinzione granitica esplicitata in diretta Tv su RaiUno alcuni giorni fa da Ceresani per promuovere il suo nuovo libro nel quale, dice, «cerco di spiegare come Satana, negli ultimi tempi che precedono la Parusia (la venuta di Gesù sulla Terra per la fine dei tempi), sarà scagliato sulla Terra con grande furore, sapendo che gli resta poco tempo proprio per prendere di mira il creato e la creazione, è un dato teologico». Quanto al dato meteorologico, secondo Ceresani, il climate change sarebbe la prova che qualcosa di mai accaduto prima stia per accadere: «Ovviamente è colpa dell’uomo, della sua incuria, ingordigia e avarizia se abbiamo calpestato questo pianeta. Ma nell’uomo agiscono forze trascendenti, nel cuore dell’uomo agisce la tentazione». La tentazione. Sicché, gratta gratta, essendovi dietro il plagio di Satana, il cambiamento climatico non è colpa degli uomini. Un bel guaio. Come possiamo difenderci? Nei giorni a seguire, l’esternazione di questo signore ha ricevuto le dovute attenzioni dei social finendo sommersa da una valanga di esilaranti parodie. Vanno però fatte due considerazioni serie. La prima è che Ceresani non è un cittadino qualunque ma un uomo delle istituzioni, presente in ben due governi: quello attuale, appunto, e quello precedente nel quale è stato capo dell’ufficio legislativo del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi. La seconda è che il suo non è un caso isolato. Non sono pochi gli italiani che nel Terzo millennio credono nell’esistenza del diavolo e gli attribuiscono le responsabilità più disparate. Prova ne è il ricorso agli esorcisti che, contrariamente a quello che molti sono portati a pensare, non esiste solo nel meridione o nelle zone povere del nostro Paese. Ma è diffuso ovunque in Italia senza soluzione di continuità. Spesso i cacciatori del demonio vengono visti come l’ultima spiaggia per chi è stato truffato da maghi e imbonitori, per chi ha perso il lavoro, per chi è stato tradito oppure – e questo forse è il dato più inquietante – per quelle persone in estrema difficoltà che sono state deluse da psichiatri capaci solo di imbottirle di psicofarmaci. Nel 2016 il docufilm Liberami di Federica Di Giacomo ha raccontato quel che accade in Sicilia, e chi scrive ha potuto assistere “live” a cerimonie in Piemonte e Lombardia (da giornalisti). Non esistono dati certi sul numero degli esorcismi che si compiono in Italia ogni anno. Nel 2012 un’inchiesta di Panorama stimava in circa 500mila le persone che l’anno prima si erano rivolte, più o meno spontaneamente, a un sacerdote per essere liberate dal diavolo. Lo stesso dato viene riportato alcuni mesi dopo da Adnkronos e dal Quotidiano Nazionale, e nel 2016 da La Stampa e da Agensir, l’agenzia stampa della Conferenza episcopale italiana. Facendo una lunga verifica online abbiamo notato che la cifra di “500mila” compare anche prima del 2012, nel 2000 e nel 2004, su diverse testate tra cui il Corriere della Sera e il Giornale. La fonte è sempre la stessa: l’Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici (Aippc), spesso per bocca del presidente e fondatore Tonino Cantelmi. Da nessuna parte sono indicate le modalità di raccolta ed elaborazione dei dati. Comunque sia a quanto pare la geografia del demonio è ecumenica: da Nord a Sud lungo lo Stivale si manifesta ovunque in egual misura. Le sue vittime preferite, è quasi inutile dirlo, sono le donne (65 per cento dei casi). 

Se non c’è da fidarsi dei numeri sciorinati dalla Aippc, per farsi un’idea della diffusione di questo fenomeno in Italia occorre guardare al dato ufficiale degli esorcisti, riconosciuti dalla Chiesa, attivi nel nostro Paese. Il calcolo è possibile grazie al riconoscimento giuridico che l’Associazione internazionale esorcisti ha ottenuto il 13 giugno 2014 dalla Congregazione per il clero, il dicastero della Curia romana incaricato della formazione degli ecclesiastici, con decreto firmato da papa Francesco. Da allora è più semplice censire gli esorcisti, anche perché hanno una «licenza»: il patentino è valido per cinque anni, o per un numero determinato di casi, ed è rinnovabile. Dicevamo dell’Italia. Quanti sono gli esorcisti? Nel nostro Paese c’è la più alta concentrazione al mondo di esorcisti con licenza. Sono 240, tra sacerdoti nominati dai vescovi e i vescovi stessi. Praticamente ce n’è almeno uno in ogni diocesi. Staccatissimi nella speciale classifica abbiamo il Regno Unito (28 esorcisti) e gli Stati Uniti (21), dove il 57 per cento dei cittadini crede nell’esistenza del diavolo e il 51 per cento nelle possessioni diaboliche. Solo in Sicilia e in Lombardia ce ne sono 40, a fronte dei 15 in tutta la Spagna e dei 5 in Portogallo, e alcune grandi diocesi (tra cui Milano e Roma) hanno perfino istituito dei call center per smistare le richieste di appuntamento.

A livello continentale, troviamo 29 esorcisti in America Latina (15 dei quali nel solo Messico), 6 in Africa e solo 5 in Asia (2 nelle Filippine, gli altri in Cina, Giappone e Corea del Sud). Benedetto XVI è stato il primo papa ad auspicare la presenza di un esorcista in ogni diocesi, ma il suo appello è stato ripreso anche in tempi più recenti. «L’esorcista – si è affermato durante la riunione plenaria del 2017 della Congregazione per il clero – contribuisce a prevenire il triste fenomeno del funesto ricorso di molti agli “operatori dell’occulto”. La mancanza di esorcisti in una diocesi può, infatti, indurre la gente a rivolgersi a tali personaggi, o a “sette” di vario genere». 

Che sia stato papa Francesco a riconoscere ufficialmente dopo quasi tre decenni di tentativi l’Associazione internazionale esorcisti non è un caso. Nemmeno Paolo VI era arrivato a tanto. Lui che durante l’Udienza generale del 15 novembre 1972 tenne un discorso dai toni durissimi per ribadire la presenza e il pericolo del diavolo come ente personale «perverso e pervertitore». Ufficialmente papa Montini intendeva arginare una frangia di teologi che non seguivano attentamente il magistero della Chiesa e che cominciavano a negare l’esistenza del demonio come persona riducendolo a un simbolo. Non sappiamo come la presero i destinatari della reprimenda ma di certo quel discorso sebbene avesse stregato pure Hollywood – il film L’esorcista è del 1973 – segnò solo parzialmente la riscossa degli esorcisti incaricati dal Vaticano che fino ad allora erano un centinaio nel mondo. Anche per Bergoglio «il diavolo esiste ed è persona». E il pontefice argentino gli ha dichiarato guerra sin dai primi giorni del suo pontificato. Monsignor Larry Hogan, vicepresidente dell’Aie, ha fatto notare come papa Francesco abbia «citato il diavolo quattro volte nei primi dieci giorni». E dal 13 marzo 2013 non si è più fermato. “Vedendo” il diavolo in tutti gli scandali che da un ventennio scuotono la Chiesa dall’interno, avendone minato la credibilità e la stabilità politica al punto da spingere Benedetto XVI alle storiche dimissioni del 2013, papa Francesco ha attribuito a Satana la responsabilità degli affari illegali che ruotano intorno allo Ior e all’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica della Santa sede; della pedofilia clericale; delle guerre intestine e dei giochi di potere che minacciano l’integrità della Curia; dei vatileaks e delle fughe di notizie riservate dalle Mura leonine. 

I fedeli «di tutto il mondo» sono invitati «a pregare» per «proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi» ha detto il papa il 29 settembre scorso nel pieno della bufera provocata dal “dossier” dell’ex nunzio mons. Viganò che lo accusa di aver insabbiato per anni le denunce per pedofilia contro il cardinale Usa McCarrick. Bergoglio intendeva infatti con il suo appello preservare la Chiesa «dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga». 

Ma di Satana il pontefice argentino non ha parlato solo in qualità di capo spirituale dei fedeli cattolici. Il principe delle tenebre è presente anche nei suoi discorsi ufficiali da capo di Stato. «Non esiste un dio della guerra: è il diavolo che vuole uccidere tutti» ha detto il 20 settembre 2016 ad Assisi davanti a oltre 500 leader religiosi e politici di tutto il mondo. E il demonio c’è, come se non bastasse, quando Bergoglio assume le sembianze del bonario parroco di campagna e gioca con i bambini. Il maligno «è il padre dell’odio, delle bugie, delle menzogne, perché non vuole l’unità» tra gli esseri umani, ha detto ad alcuni bambini della catechesi dagli sguardi atterriti durante una visita alla parrocchia di San Michele Arcangelo nel 2015. Secondo papa Francesco, tutti i bambini sono indemoniati: «Quando voi sentite nel cuore odio, gelosia, invidia state attenti perché viene dal diavolo; quando sentite la pace, viene da Dio» ha raccontato ai suoi giovanissimi interlocutori citando gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola («L’uomo vive sotto il soffio di due venti, quello di Dio e quello di Satana» diceva il fondatore dei gesuiti). Si tratta di un’idea violenta e perversa della realtà umana del bambino ma nessuno al di qua del Tevere si è indignato. I media italiani annotano tutto quello che dice papa Francesco, lo riportano con zelo e restano in attesa della dichiarazione successiva. Senza fare domande scomode, senza mai abbozzare una critica o evidenziare contraddizioni. Nemmeno quando nella premessa che Bergoglio nel 2017 ha firmato al libro autobiografico della vittima di un sacerdote pedofilo, scrive: «Chiedo perdono per i preti pedofili: un segno del diavolo, saremo severissimi». L’11 dicembre scorso il cardinale George Pell, ministro dell’Economia della Santa sede, è stato condannato in primo grado in Australia per aver compiuto violenza su due bambini e atti osceni. Mai un cardinale era stato accusato in prima persona di aver commesso atti di pedofilia. I fatti risalirebbero a quando Pell era solo un sacerdote nella sua città natale di Ballarat. Nessun giornale italiano – tranne il nostro – ha riportato la notizia per almeno due giorni. La sentenza con relativa sanzione sarà emanata il 4 febbraio 2019. Al momento non esistono altre informazioni, in quanto in Australia per legge il giudice può stabilire il divieto di pubblicazione di notizie su un processo fino alla sua definitiva conclusione. È questo il caso del giudizio cui è stato sottoposto a partire dal 2017 il cardinale australiano, voluto un anno prima da papa Bergoglio a capo del superministero dell’Economia vaticana quando – a proposito della severità declamata dal pontefice – erano già note le indagini della magistratura australiana sul conto di Pell anche per aver insabbiato numerose denunce contro preti pedofili quando era a capo della diocesi di Melbourne. Giova ricordare che il grande accusatore di Pell, Peter Saunders, fu silurato proprio per questo dalla commissione pontificia antipedofilia. Chissà, forse anche lui è stato “visto” come Satana…

Il libro inchiesta:Don Michele Barone, ex sacerdote della diocesi di Aversa, è in carcere da febbraio del 2018 con l’accusa di abusi sessuali su due sorelline minorenni durante i riti di esorcismo (Arianna e Giada, nomi di fantasia). Secondo la testimonianza della più piccola, Arianna, 13enne all’epoca dei fatti, i loro genitori, per curare una reazione psicosomatica dell’altra sorella, l’hanno portata da don Barone, che le avrebbe fatto interrompere le cure sottoponendola a violenti esorcismi, durante i quali la piccola sarebbe stata maltrattata. Don Barone era finito spesso in tv per parlare proprio di esorcismi e di apparizioni miracolose. Il caso è scoppiato dopo un servizio delle Iene e pochi giorni don Barone è stato arrestato. Attualmente è in corso il processo di primo grado. Fonti di stampa locale riportano che Giada è stata allontanata dai genitori e ha cominciato a stare meglio, riprendendo a mangiare.

Storia Il diavolo inventato  dai cristiani

di Simona Maggiorelli

l diavolo è un’invenzione del Cristianesimo, che ha sussunto miti precedenti, risemantizzandoli con un proprio fine: accusare e condannare i propri nemici: i pagani, gli eretici, le donne… «Tu sei la porta del diavolo, tu sei la profanatrice dell’albero della vita, tu sei stata la prima a violare la legge divina, tu sei colei che persuase Adamo, colui che il diavolo invece non riuscì a tentare. Tu che hai infranto l’immagine di Dio, l’uomo, con tanta facilità. Per causa tua esiste la morte». Così sentenziava l’apologeta cristiano Tertulliano esprimendo una condanna delle donne che con Paolo di Tarso sarebbe diventata inappellabile. Poi tra il XVI e il XVII secolo, quando la ragione rinascimentale e spinoziana annullò l’irrazionale delegando la sfera dello “spirituale” alla Chiesa, si alzarono roghi per bruciare le streghe, additate come convitate di satana nel sabba. Un crimine agghiacciante compiuto dalla Chiesa, che vanta una lunghissima storia di sangue fra guerre per l’iconoclastia e crociate, in nome di Dio, sulla base del libro sacro e di fantasticherie sul Maligno. Ma quando è cominciata questa orrenda storia? Nell’antichità pagana la mitologia e le narrazioni orali, in differenti luoghi del mondo, raccontavano di dei, di entità benevole o maligne, dei Jinn nella tradizione araba, di folletti, e di altre creature di fantasia in quella nordica. Si possono riscontrare nelle fiabe, nell’epos, nelle cosmogonie di popoli politeisti. Il pantheon dell’Antico Egitto comprendeva sia Horus, divinità benigna che Seth, dio del caos, raffigurato come un uomo con la testa da sciacallo o di capra. Anche i seguaci del culto di Zoroastro nell’antica Persia, conoscevano varie divinità positive e negative, che  si immaginava  abitassero regni celesti e infernali. Lo stesso vale per i Maya e per le società azteche. Ma è con i tre monoteismi – ebraismo, cristianesimo e islam – che inizia la narrazione tossica del diavolo. Fu il cristianesimo, in particolare, a farne la personificazione del Male. La parola latina diabolum viene dal greco diabolos che a sua volta deriva dal verbo dia-bàllein, che significa separare, disunire, fratturare. La parola satana, invece, ha una radice ebraica che rimanda al significato di osteggiare, accusare e calunniare. Una serie di studi ci aiutano a ricostruire la storia dell’invenzione del diavolo, a cominciare da Le origini della cultura europea di Semerano (Olschki, 1994). Il noto filologo e linguista ipotizzava che il termine satana fosse comparso quando gli Ebrei, dopo l’esilio a Babilonia, entrarono in Persia, dove esistevano semi divinità poi tradotte nella figura di satana. La Piccola storia del diavolo di G. Minois (Il Mulino, 1999) e Il diavolo in Occidente di Tullio Gregory (Laterza, 2013) ci aiutano a mettere a fuoco la costruzione storica della figura di satana, che compare per la prima volta nel Vecchio Testamento (Libro di Giobbe), scritto intorno all’XI-X secolo a.C. e poi sistematizzato in versione finale nel 575 a.C. Non è ancora “Il Diavolo” ma uno dei consiglieri di Dio, un diavolo tentatore che agisce solo su licenzia dell’entità superiore. Fino a quell’epoca, dunque, «satana è un titolo, non un nome proprio». È con il Vangelo e nel medioevo cristiano che il cristianesimo comincia a terrorizzare sistematicamente il proprio gregge con la figura del diavolo, perversamente incutendo paura fin da bambini. Cominciano da parte di monaci e suore, poi fatti santi, racconti deliranti di persecuzioni diaboliche, da san Domenico a Teresa d’Avila. In presenza di epidemie di peste, oppure nel caso di cataclismi e guerre si cominciò a dire che era colpa del diavolo e di peccatori. Andando a caccia del capo espiatorio. Come i cristiani continuano a fare ancora oggi, vedi Cristiano Ceresani, capo di gabinetto del ministero per la Famiglia che attribuisce al diavolo il cambiamento climatico. Ma si potrebbe ricordare anche l’allora presidente del Cnr Roberto De Mattei  parlava dello tsunami del 2004 come punizione divina per i peccati dei gay. Oggi come ieri la Chiesa alimenta queste credenze, trasformandole in uno strumento per il controllo dei movimenti ritenuti pericolosi, eversivi e devianti dall’ortodossia. È così che la Chiesa è arrivata a demonizzare gli eretici, gli infedeli, le donne. E i cristiani che siedono in Parlamento, ancora oggi in Italia, anche grazie agli scellerati Patti Lateranensi, tentano di imporne per legge un’ideologia religiosa razzista e misogina.

Arte Angelo ribelle ed eroe in barba alla Chiesa

Corna, coda, artigli, piedi caprini fauci bestiali. Per dare forma all’invisibile, gli artisti, (che nel medioevo dovevano essere ligi ai programmi ecclesiastici), lo tratteggiarono in modo mostruoso, demonizzando raffigurazioni pagane. Il mosaico bizantineggiante di Coppo di Marcovaldo (1260-70) nel Battistero di San Giovanni a Firenze ben rappresenta questo mutamento iconografico che influenzò anche Giotto e il suo immaginifico Giudizio Universale (1306) nella cappella degli Scrovegni a Padova, ma anche Dante. In precedenza, nell’arte paleocristiana, fino al IX secolo – come ben racconta Demetrio Paparoni nel libro The Devil (24 Ore Cultura) – il diavolo era raffigurato con fattezze umane, anche se vecchio e deforme, con il naso ricurvo e gli occhi di fuoco. Ma alla Chiesa medievale non bastava più, perché il fine era spaventare, irretire, controllare anche e soprattutto i tantissimi analfabeti che non leggevano la Bibbia e non sapevano il latino. Ma l’obiettivo della Santa romana Chiesa era anche deturpare, negare e denigrare le culture pagane, superstiti soprattutto nelle campagne. Così ecco spuntare il diavolo su tele, bassorilievi e affreschi come fantasticheria composta collezionando aspetti mutuati da divinità degli inferi etruschi o rendendo ributtante il dio Pan. «Così facendo il cristianesimo ottenne l’effetto di attribuire caratteri di malignità e di pericolosità agli idoli pagani e creò una figura mostruosa ispiratrice di tutti gli oppositori della fede e di deviazione dalla dottrina ufficiale». A cominciare dalle donne. In alcune rappresentazioni medievali e rinascimentali il serpente che tenta Adamo ed Eva ha la testa di donna, per sottolinearne la natura demoniaca. Ma, chiosa Paparoni, sono tutto sommato rare occorrenze, «perché attribuirle le vesti del diavolo poteva anche significare concedere alla donna un potere»! 

Interessante è anche seguire lungo i secoli a venire l’evoluzione della ricerca dello storico dell’arte e critico in questo volume dal ricchissimo apparato iconografico. Si scopre così che fu John Milton nel suo Paradise Lost (1667) fra i primi a cominciare a riscattare la figura del diavolo, in quanto angelo ribelle al Dio onnipotente. Nella versione romantica, il diavolo verrà addirittura trasformato in eroe perché si ribella all’autorità costituita. E Lucifero, alla lettera, diventerà colui che porta la luce e la conoscenza. Ritroviamo poi il diavolo nei quadri degli artisti delle avanguardie storiche, da Picasso a Max Ernst, non di rado per denunciare l’agghiacciante avanzare di fascismo e nazismo. Anche Pollock ha dipinto una grande tela dal titolo Lucifer (1947) forse suggestionato dalle teorie junghiane che stava seguendo. Ed è proprio questo l’assunto più curioso del libro: «Basta fare una ricerca su Pinterest o su Google per avere conferma di quanto il diavolo sia tuttora presente nel repertorio iconografico: oggetto di riflessione da parte di teologi e psicoanalisti, anche se meno apprezzato da artisti e scrittori».  Simona Maggiorelli

editoriale del numero di Left dal titolo “Stato Terminale”

«La moglie è posseduta: per i giudici la colpa del divorzio è del demonio». Con questo titolo il Corsera ha dato notizia del debutto del diavolo in un’aula di giustizia italiana. Per la precisione nel Tribunale di Milano. Era il 6 aprile scorso. E nella sentenza si legge: «La signora non agisce consapevolmente, è agìta». Dando così valore alle testimonianze dei parrocchiani e dell’esorcista frequentati dalla donna, fervente cattolica. Tutto questo è accaduto in Italia non in Vaticano. I giornali italiani lo riportano, senza fare una piega, come se fosse normale e ammissibile. Cambio di scena: il viaggio pastorale di papa Francesco a Fatima viene riportato fra le prime notizie del giorno dalla tv pubblica italiana. I vaticanisti nel viaggio di ritorno in aereo dialogano con il papa parlando di apparizioni e di ragazzini “visionari” fatti santi. (Due su tre, uno a quanto pare è rimasto fregato). Ne parlano come fossero cose reali. Sbalorditiva è la narrazione acritica da parte dei maggiori media italiani. Non una voce giornalistica ha precisato che il racconto delle apparizioni, delle visioni, dei miracoli e il riferimento nemmeno troppo velato alla lotta contro il maligno, rappresenta unicamente la visione della Chiesa. Non è la prima volta. Da quando Bergoglio è salito sul trono di Pietro nel 2013 i riferimenti al diavolo come persona e al fatto che sia lui il vero responsabile degli scandali finanziari e pedofili della Chiesa, oltre che delle guerre e dei “mali” del mondo, sono una costante dei suoi discorsi. Volendo pensare e non credere abbiamo chiesto agli psichiatri cosa significa “vedere” il diavolo e “parlare” con la Madonna. A noi pare particolarmente inquietante che il Tribunale di uno Stato laico alluda alla presenza di misteriose forze esterne per spiegare l’evidente malessere di una persona. Da dove origina tutto ciò? A fronte di tutto questo una ricerca dell’Istat sulla “Pratica religiosa in Italia” evidenzia dal 2013 a oggi uno svuotamento delle chiese senza precedenti, ci restituisce la fotografia di una società civile sempre più impermeabile agli antichi retaggi religiosi. Una conferma di questo trend viene anche dall’XI Rapporto sulla secolarizzazione pubblicato da Critica liberale mentre andiamo in stampa. Insomma, nonostante papa Francesco e i suoi sodali, la collettività laica resiste e contrattacca. Sono circa 10 milioni gli italiani che si dicono non credenti (fonte Uaar). È in primis a loro che ci rivolgiamo e che ci rivolgeremo su Left, per costruire insieme qualcosa di nuovo (Simona Maggiorelli)

tratto da Left, 21 dicembre 2018

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le pescatrici di perle di Domon Ken. Sguardi sul Giappone

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 17, 2016

"L’attrice Yamaguchi Yoshiko", 1952 (Ken Domon)

Domon KenL’attrice Yamaguchi,1952

La teca di vetro progettata da Meyer, che protegge l’altare augusteo della pace, custodisce ora anche un altro tesoro: uno spicchio di Giappone antico e moderno. In poetico bianco e nero. Fino al 18 settembre qui sono esposte le straordinarie fotografie di Domon Ken, che nel secolo scorso ha raccontato per immagini il volto discreto e gentile del suo Paese, “narrando” la vita dei villaggi, delle pescatrici di perle, ma anche gli anni durissimi della guerra, il volto algido e militare del Giappone e poi e la rapida modernizzazione delle grandi città.

Domon Ken

Domon Ken

Come in un film scorrono sulle pareti, rosse o scure, sequenze di stampe che testimoniano tutte le trasformazioni della nazione dal 1935 al 1979.

Per questo maestro dalla sguardo morbido ed elegante furono più di cinquant’anni di intenso lavoro. All’insegna di un realismo che non si ferma alla documentazione.

Il suo sguardo si posa con pudore e con un profondo dolore su Hiroshima. Domon Ken non si nasconde dietro l’obiettivo. Le sue opere seducenti, evocative, rivelano la sua intima partecipazione a ciò che ritrae. Specialmente quando i soggetti sono dei bambini. Che nelle sue foto appaiono straordinariamente vivi e vitali. Anche in mezzo alle macerie del dopo guerra, quando escono in strada al tramonto inventandosi sempre nuovi giochi.

Domon Ken pescatrici di perle

Domon Ken pescatrici di perle

Nel catalogo Skira che accompagna la mostra, Kamekura Yusaku ricorda il rapporto immediato, d’intesa e di simpatia, che Domon Ken stabiliva con loro. Erano anni di povertà e di fame, di vita nelle baracche e di vestiti laceri, ma bastava poco perché nei più piccoli si accendesse la scintilla dell’immaginazione. E Domon Ken sa cogliere questi momenti “magici”, raccontando i bimbi per strada la sua ricerca tocca i momenti più liberi, alti e spontanei.

Ma affascinanti sono anche i suoi lavori più ufficiali: ritratti di vigili issati su fragili strapuntini in mezzo alle prime strade trafficate del dopo guerra e abbaglianti parate militari, in cui Domon Ken insinua una vena sottilmente ironica, una critica felpata al militarismo evitando le provocazioni, ma al contempo lasciando intendere il suo pensiero.

Domon Ken Bagno nel fiume ad Hiroshima

Bellissimi poi i ritratti di fanciulle in fiore e di giovani donne, sensibili, eleganti, sui tacchi alti e con i vestiti della festa, sognando amori nei giorni della ripresa e di pace. Alcune immagini anni Cinquanta hanno l’appeal tutto francese del cinema alla Alain Resnais. Altre evocano la tradizione antica in abiti di seta richiamando i rituali di una geisha, ma perlopiù sono rare le tracce del passato. Quelle più seducenti vengono dalle maschere del Teatro No e dai templi buddisti in una imprevista esplosione di rosso, di nero e di oro.

L’antica scultura buddista in Giappone

Purtroppo è durata poco più di un mese, dal 29 lungio al 5 settembre la bella mostra che le Scuderie del Quirinale hanno dedicato alla tradizione della scultura buddista in Giappone e qui vorremmo ricordarla per la splendida occasione di conoscenza e approfondimento che ci ha offerto. Facendoci scoprire, nel centro storico di Roma, uno spicchio di Giappone antico e poco conosciuto. L’esposizione curata da Takeo Oku invita a fare un viaggio nell’arte buddista che è fiorita soprattutto nel periodo Asuka tra il VII e l’VIII secolo e poi fino al periodo Kamakura (1185-1333). Un’arte che si è espressa in una elegante e potente statuaria in legno e altri materiali pregiati. La mostra Capolavori della scultura buddhista giapponese (nata nell’ambito di un ciclo di iniziative per far conoscere la cultura e le antiche tradizioni del Giappone) presenta 21 sculture di epoche diverse, provenienti da raffinati e silenziosi templi immersi nel verde, disseminati in varie zone del Paese come mostrano le fotografie che, insieme a approfonditi apparati informativi, accompagnano e contestualizzano le opere esposte. Percorrendo i due piani della mostra s’incontrano rappresentazioni di budda dorati e imponenti, sul volto un’espressione gentile, un sorriso appena accennato che sembra voler alludere a una dimensione interiore di calma e di apertura verso l’altro, ma si incontrano anche samurai dai volti corruschi e guerreschi. Se i primi rimandano alla tradizione indiana che si riferisce al budda storico, il principe Shakyamuni, le seconde sembrano piuttosto inserirsi nella tradizione guerriera giapponese o riferirsi alla mitologia asiatica – coreana in particolare – ricca di maschere grottesche, insieme orrorifiche e fiabesche. A colpire è la varietà di stili e di modi di rappresentazione all’interno di un canone prestabilito, fortemente codificato, che prosegue per parecchi secoli. A trasmettere di generazione in generazione stili e tecniche erano i busshi: spesso si trattava di monaci, in ogni caso erano scultori che lavorano a un risultato collettivo senza apporre la propria firma. Dalle loro mani uscivano non solo rappresentazioni di budda (maestri illuminati) e di sognanti bodhisattva (persone che aiutano gli altri). Ma anche di sovrani celesti corazzati. Quelli in mostra appartengono al periodo Heian (X secolo). E incuriosisce in particolare uno dei sei Kannon di Kyoto, dotato di sei braccia (dal potere taumaturgico). In questo caso appare evidente l’ibridazione fra culture diverse. Il precedente sostrato indù fu assorbito dalla filosofia buddista in Giappone anche utilizzandone l’iconografia. Ma fortissima è anche l’influenza dell’arte buddista cinese che conobbe il momento di massimo splendore sotto la raffinata dinastia Tang. Per approfondire consigliamo la nuova monografia Einaudi L’arte cinese di Sabina Rastetelli.

Simona Maggiorelli

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L’ossessione di Pollock per Picasso

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 4, 2016

Pollock, murales Malaga

Pollock, murales Malaga

 Per chi in queste vacanze si trovasse dalle parti di Malaga da non perdere il  Museo Picasso che, oltre alla collezione permanente dedicata al pittore malagueño , ospita una mostra di Pollock che mette in scena dialogo che il pittore americano aveva sempre sognato.

 

Dopo il Guggenheim di Venezia e il MoMa di New York, ora è il Museo Picasso di Malaga a rendere omaggio  (fino all’11 settembre 2016) a Jackson Pollock con un’esposizione incentrata su Mural, l’opera monumentale che gli fu commissionata dalla collezionista Peggy Guggenheim nel Peggy_Pollock1943 e che rappresenta uno dei punti più alti dell’action painting.
Nel museo andaluso il potente murale astratto ritmato da  arricciate linee verdi, rosse e nere campeggia nell’ultima sala insieme ad altre opere dell’artista americano come il drammatico Circoncisione e il Ritratto di H.M. (1945) in cui non resta nulla di figurativo.

Questa sala monografica – quasi una mostra nella mostra – accoglie lo spettatore come un vortice di energia, dopo averne attraversate altre con opere di altri protagonisti della scuola di New York che non hanno la stessa forza  e impatto emotivo. Nei fatti più interessante come studioso  che come artista, Motherwell è rappresentato qui da una grande tela astratta intitolata Elegia per la Repubblica spagnola  n. 126 (1965-75) in cui giganteggia una massiccia  catena  nera e gialla, che allude forse a un girotondo, ma che appare privo di movimento.

Al pari di Lee Krasner e Robert Matta, anche Motherwell, in questo confronto diretto  finisce per restituire a Pollock tutta la sua originalità. E ancor più ne fanno risaltare il profilo epigoni delle generazione successive, come  David Reed (1946), che usano il dripping come tecnica razionale realizzando quadri che sembrano fatti al computer.

jackson_pollockChe ci riesca o meno (la sua opera è nel complesso piuttosto diseguale) l’intento di Pollock è di «lavorare per esprimere il mondo interiore». Il punto, scrive l’artista, è «riuscire ad esprimere l’energia, il movimento ed altre forze interiori». Questo è il filo che percorre la sua breve e folgorante carriera, dagli anni Trenta fin quasi al ’56 quando morì in un incidente d’auto, suicidandosi e uccidendo la sua giovane amica.

PicaLa mostra Mural Jackson Pollock, la energià hecha visible di Malaga, che si dipana poco lontano dalla collezione permanente del Museo dedicato a Picasso, ha anche per questo il merito di illuminare  meglio le radici dell’astrattismo di Pollock e il suo “debito” con il pittore malagueño, di cui studiò quasi ossessivamente i quadri del periodo cubista, esercitandosi nello scomporre le figure rappresentate, alla maniera delle Damoiselles d’Avignon, fino a farle diventare segni astratti.

Accanto all’influenza picassiana la mostra riporta in primo piano anche l’interesse di Pollock per la pittura di El Greco (che lavorò a Toledo): con le sue figure ritorte e fiammeggianti è una presenza costantemente evocata anche nei suoi quadri astratti. ( Simona Maggiorelli)

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L’universo culturale di Aldo Manuzio, rivoluzionario editore umanista

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 30, 2016

Aldo Manuzio

Aldo Manuzio

Per chi è a Venezia, da non perdere,  la nostra dedicato a uno stampatore colto, laico e cosmopolita come Aldo Manuzio.  Chiude il 31 luglio

Aveva la grande ambizione di ampliare la circolazione della cultura. Pubblicando non solo classici in latino, ma anche la nuova letteratura in volgare. Dunque non fu “solo” uno stampatore Aldo Manuzio (1449-1515), ma un editore colto e umanista, che guardava al futuro. Da questa sua visione laica e moderna derivano tutte le sue importanti innovazioni editoriali – dal carattere corsivo ai libri tascabili – che non furono soltanto soluzioni formali ed estetiche ma corrispondevano a un preciso pensiero: allargare il pubblico dei lettori, mantenendo una veste di qualità e la cura filologica dei testi. Come dimostrano gli incunaboli e le eleganti edizioni aldine esposte nelle sale della Galleria dell’Accademia nella mostra Aldo Manuzio il Rinascimento di Venezia. Una esposizione che ha dietro il lavoro scientifico di tre curatori (G. Beltramini, D. Gasperotto, e G. Maneri Elia), in cui il rigore di studio si combina con una raffinata eleganza nell’allestimento.

La Tempesta di Giorgione

La Tempesta di Giorgione

Attorno ad edizioni stampate e miniate di classici della cultura greca, latina e umanista , sono radunati capolavori dell’arte veneta coeva e nordica: dipinti di Giovanni Bellini, di Giorgione, Lorenzo Lotto e Cima da Conegliano, ma anche opere grafiche di Albrecht Dürer che fu a Venezia dal 1494 al 1495 e poi nel 1510 entrando in contatto con ambienti neoplatonici ma anche con i maestri del colorismo veneto, dai quali mutuò una tavolozza più chiara e luminosa, oltre che forme meno rigide.

Interessante è come i curatori siano riusciti a raccontare chi era Manuzio attraverso la selezione di queste straordinarie opere d’arte: Il ritratto di gentiluomo di Tiziano che si ipotizza raffiguri il poeta arcadico Jacopo Sannazzaro ci racconta della passione del marchio contrassegnato con l’ancora per il linguaggio poetico, mentre la misteriosa Tempesta di Giorgione, ci dice dell’interesse di Manuzio per la tradizione pagana e panteista più raffinata e per la filosofia neoplatonica, di cui il pittore veneto si fece raffinato interprete.

Lorenzo Lotto, ritratto di Laura di Polo

Lorenzo Lotto, ritratto di Laura di Polo

Poco più in là fa bella mostra di sé una delle pubblicazioni di cui lo stampatore veneto andava più orgoglioso: l’Hypnerotomachia Poliphili, il romanzo allegorico di Francesco Colonna che fu pubblicato nel 1499 corredato da 172 xilografie. La narrazione si dipanava come una sorta di viaggio iniziatico alla maniera delle Metamorfosi di Apuleio.

Dietro a pubblicazioni del genere c’era il pubblico delle corti, ma interessante è anche le edizioni aldine diventassero un oggetto del desiderio anche delle dame, come ci racconta qui il Ritratto di Laura di Polo di Lorenzo Lotto. Insieme al Ritratto di uomo con petrarchino di Parmigianino ci dice della rivoluzione rappresentata dalle edizioni tascabili. ( Simona Maggiorelli)

 

 

 

 

 

 

 

 

Conferenza su Aldo Manuzio, i lettori e il mercato internazionale del libro

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Il meglio della collezione #Gugghenheim a Firenze, last weeks

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 16, 2016

number 18 1950 by Jackson Pollock;

number 18 1950 by Jackson Pollock;

Una selezione del meglio che il Guggenheim di New York e di Venezia insieme possono offrire è in mostra, fino al 24 luglio, nelle sale di Palazzo Strozzi a Firenze con il titolo La grande arte dei Guggenheim, da Kandinsky a Pollock.

Curata da Luca Massimo Barbero (che, forte di una profonda conoscenza delle collezioni Guggenheim, ha già realizzato operazioni analoghe in passato) l’esposizione fiorentina permette di tuffarsi nelle avanguardie del Novecento, seguendo lo sviluppo dell’informale europeo e dell’action painting americana che prima e dopo la guerra si influenzarono a vicenda.

Rothko

Rothko, untiltled

Se fino agli anni Trenta Parigi era l’epicentro della ricerca, con la guerra molti artisti europei emigrarono negli Stati Uniti, a cominciare da Max Ernst, che sposò Peggy Guggenheim e divenne il tramite per la diffusione del Surrealismo oltreoceano. Influenzando anche Jackson Pollock allora giovanissimo protetto di Peggy e ancora alla ricerca di una propria identità. Come lasciano intuire alcune tele come La donna luna e una ampia selezione di opere grafiche in cui appaiono fantasmagorie mitologiche e figure mostruose, metà umane, metà animali.

Ma nella ampia sezione – quasi una mostra nella mostra – dedicata all’inventore dell’action painting compaiono anche opere celebri come Foresta incantata (1947), Senza titolo (argento verde del 1949 e Number 18 (1950) in cui la matassa di linee realizzata con il dripping, facendo colare direttamente il colore sulla tela, sembra percorsa da un movimento continuo che pare espandersi oltre i bordi della tela. È il momento più intenso e vitale della ricerca di Pollock che subito dopo sembra quasi diventare maniera, freddo esercizio di scrittura automatica.

Fanno eccezione nel 1951 alcune serigrafie in cui il contrasto fra bianco e nero diventa inaspettatamente netto e potente, in un gioco di forme astratte e fantastiche che appare come una danza. Altrettanto e forse ancor più suggestiva la sala dedicata a all’astrattismo lirico di Mark Rothko, una stanza scura, diversamente dalle altre, dove scenograficamente le macchie di colore rosso e viola emergono dal buio, quasi le tele fossero in movimento. Poi la mostra presenta ancora molte  altre sorprese quando incontriamo il confronto  fra la materia arsa e dolente di  Alberto Burri e ritmati e vitali tagli di Lucio  Fontana. E poi le sciabolate di nero con cui il più engagé dei maestri dell’astrazione, Emilio Vedova, rappresenta L’immagine del tempo (sbarramento) e un raffinato e lunare quadro di Adolph Gottlieb, quasi giappones,e dal titolo Foschia (1961). Ma questo non è che uno dei percorsi, il nostro, in questa mostra articolata e ricca come una selva fantastica. ( Simona Maggiorelli, left)

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L’eros nell’antica Cina. Stampe e pitture su seta

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 17, 2016

12802699_10153560172632620_4446494375454288876_nProibiti in Cina e a lungo conservati al riparo dello sguardo pubblico vedono finalmente la luce quattro album di pitture erotiche cinesi, dipinte su seta e realizzate tra la fine della dinastia Ming (1368-1644), epoca di grande fioritura dell’arte, e l’inizio della dinastia Quing (1644-1911), che coincise con una svolta conservatrice. Le pubblica nel volume Il palazzo di primavera, arte ed eros in Cina la casa editrice LAsino doro, in una raffinata veste grafica creata da Laurie Elie. Si tratta di opere di grande importanza, non solo sotto il profilo artistico, ma anche da un punto di vista storico-culturale anche perché permettono ad un pubblico non solo di specialisti di avvicinarsi a un mondo a noi in larga parte sconosciuto, quello della Cina antica, dove fiorì una cultura atea, libera dal dogma religioso e dalla condanna del desiderio femminile che, invece, ha segnato secoli di cultura ebraico-cristiana in Occidente.

In queste opere arrivate in Italia nel 1949 in modo rocambolesco, grazie al sinologo Giuliano Bertuccioli (che le nascose con copertine su cui comparivano massime confuciane) la vita sessuale di uomini e donne è raccontata in modo naturale, senza pruderie. Un aspetto che colpisce tanto più se si pensa alla storia dell’arte italiana dove l’iconografia per secoli è stata dettata dalla Chiesa. Ancora in pieno Rinascimento, un pittore carnale e pagano come Tiziano nel suo celebre Amor sacro e amor profano (1515) rappresentava l’eros “profano” con una donna sontuosamente vestita, mentre la donna nuda era il sacro. Per non dire poi, solo per fare un altro esempio, di quel che accadde con la Controriforma che impose le brache ai nudi michelangioleschi della Sistina.

stampe«Nella cultura cinese non c’è l’idea del sacro. E in questo genere di pitture erotiche l’attrazione sessuale fra uomo e donna è rappresentata senza censure», dice il sinologo Federico Masini mentore di questa pubblicazione insieme a Bruno Bertuccioli. Il cosiddetto «manuale del sesso» era un antico genere letterario, che esisteva già duemila anni fa in Cina e sopravvisse per secoli, prima di essere oscurato dal puritanesimo confuciano. Erano raccolte sapienziali, intuitive, sul mondo e sulla vita quotidiana, che trattavano il tema della vita sessuale con delicata precisione. Per questo si è pensato che queste pitture erotiche potessero avere anche una funzione didattica come album da regalare alle giovani donne. «Questi “libri del cuscino” o “libri della sposa” venivano offerti come augurio alle fanciulle per liberare, secondo i dettami delle pratiche taoiste, le forze positive dello Yin e dello Yang, ovvero per imparare a lasciarsi andare», scrive Bruno Bertuccioli nell’introduzione al libro.

Le scene erotiche o romantiche e di corteggiamento sono quasi sempre ambientate in giardini in fiore, evocando l’importanza di un rapporto armonico fra uomo e natura, fra microcosmo e macrocosmo. Dietro vi si può leggere appunto un riferimento al Tao, la filosofia naturalistica che si diffuse nella Cina antica e che invitava a considerare la vita sessuale come un fattore importante per la longevità e il mantenimento di una buona salute, fisica e mentale.

«La tradizione taoista è stata a lungo molto rispettata da cinesi. Diversamente dal confucianesimo dei burocrati di Stato che obbligava a una rigida morale, considerava la sessualità come un fattore fondamentale per la società, perché non solo finalizzata alla procreazione, ma importante per lo sviluppo psichico dell’uomo e della donna», spiega Masini.

tavDiversamente dalla tradizione giapponese degli Shunga, genere erotico colto in cui si cimentarono anche maestri come Hiroshige e Utamaro (e che fu strumento di diffusione di una concezione edonistica dell’esistenza, conosciuta come Ukyo-è ) le illustrazioni cinesi non hanno elementi guerreschi. «Gli Chungong hua cinesi, ovvero le pitture del Palazzo di primavera, sono del tutto prive di questo tipo di elementi, non vi si trovano mai rappresentate armi. I cinesi del resto sono sempre stati un popolo pacifico», precisa il sinologo, professore ordinario de La Sapienza.

Quanto al ruolo della donna nella lunga storia cinese raramente è stata libera, ricostruisce Marina Miranda nel saggio “Donne e sessualità in Cina pubblicato in questo volume de LAsino doro. Nel libro la sinologa ripercorre la storia di concubine imperiali, madri di famiglia confuciane, e rivoluzionarie in giacchetta grigia e dall’aspetto desessualizzato. Ricordando che «le unioni matrimoniali socialiste dovevano essere finalizzate a servire il popolo e l’impegno sul lavoro». La sessualità dunque anche nella Cina rivoluzionaria era repressa e la politica del figlio unico costrinse molte donne ad abortire, come ha raccontato uno scrittore, certo non dissidente, come il premio Nobel Mo Yen nel romanzo Le rane  e in molti altri racconti pubblicati in Italia da Einaudi.

In questa serie di pitture, però, c’è qualcosa di diverso e che forse poi è andato perduto,  notiamo per esempio che in queste scene  non di rado a prendere l’iniziativa sessuale è la donna, attratta più che dalla prestanza fisica dell’uomo, dalla sua arte musicale e poetica. «Gli organi genitali sono appena magnificati, quasi a voler indicare che il rapporto, il corteggiamento e la scelta del partner non sono dettati dalla robustezza corporea o da fattezze ricercate, ma – fa notare Masini – sono il frutto di pura attrazione intellettuale». Con un misterioso dettaglio: anche quando sono completamente nude, le donne indossano sempre scarpe tanto raffinate quanto piccole. «La questione dei piedi nella cultura cinese è complessa. Sono percepiti come una parte intima, al pari degli organi sessuali. I piedi delle donne sono seducenti, per questo vengono tenuti nascosti», approfondisce Masini aggiungendo altre preziose chiavi di lettura a quelle contenute nella sua prefazione al libro che sarà presentato il 21 novembre (alla libreria Feltrinelli di via Appia nuova a Roma).
Quanto alla rarità di questo tipo di pitture «gli album di questo genere di cui oggi si conosce l’esistenza sono pochissimi, non più di una decina», scrive Masini. «In realtà pensiamo che tanti erano i generi e i tipi di tali raccolte ma la censura della bigotta dinastia Quing e tutta la storia della Cina moderna hanno di fatto oscurato completamente queste immagini. Il regime comunista, infatti, conducendo nei primi decenni dopo la fondazione della Repubblica popolare cinese (1949) una sacrosanta battaglia contro lo sfruttamento sessuale delle donne ha anche voluto cancellare ogni memoria della tradizione letteraria e artistica dell’erotismo cinese che, ciononostante, è entrato a far parte dell’immaginario collettivo sulla Cina del mondo occidentale». Colpisce il fatto che ancora oggi, di questo tipo di opere ce ne siano centinaia magari nascoste nei caveau delle biblioteche e che non possano ancora essere divulgate. «Dal punto di vista della scabrosità queste immagini ai nostri occhi non rappresentano nessuno scandalo, ma resta un veto allo loro diffusione. Il popolo cinese che ha subito la censura imperiale continua ad essere censurato ancora oggi». (simona maggiorelli, Left)

il libro sarà presentato il 18 marzo a Siena, alla biblioteca degli Intronati. Intervengono Federico Masini e Massimo Vedeovelli

 

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Goya, il pittore che pensava per immagini

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 4, 2016

E’ una fiammeggiante e altera duchessa d’Alba ad accogliere gli spettatori. Ci fissa negli occhi con un’espressione attonita, mentre con la mano ingioiellata indica imperiosamente la scritta ai suoi piedi che dice: “solo Goya”. Come se volesse dirci che solo un maestro come lui poteva fare un ritratto così, capace di mettere a nudo l’animo umano. Quel quadro, datato 1797 e conservato alla Hispanic Society of America di New York,  era  l’immagine guida della mostra che la National Gallery di Londra dedica ai ritratti di Goya  che ha chiuso i battenti lo scorso 10 gennaio. E ora è al centro del docufilm Goya visioni di carne e sangue che Nexo Digital porta nelle sale italiane il 2 e 3 febbraio.

Goya, duchessa d'alba

Goya, duchessa d’alba

La bella e capricciosa nobildonna si presenta avvolta nella mantiglia di pizzo tipica delle vedove aristocratiche e con la fascia rossa di “sindaco” che aveva ereditato. Se non fu amante, certamente fu musa e sodale del pittore spagnolo che ne ritrasse la snella figura e gli «occhi metallici», come ha raccontato Lion Feuchtwamger nell’affascinante romanzo storico Goya o l’amara via della conoscenza ora riproposto da Castelvecchi. Un libro che ci introduce direttamente in quella vita di intrighi e di rituali feudali in cui il pittore di corte Francisco Goya (1746-1828) fu immerso, cercando ogni giorno il modo per portare avanti la propria ricerca, nonostante gli obblighi verso il potere e i tribunali dell’inquisizione, fino al XIX secolo, ancora feroci in Spagna. Il risultato, oltre ai Capricci (1798), ai Disastri  della guerra (1820) e alle tele d’ispirazione storica e mitologica, è questa straordinaria serie di  settenta ritratti che si dipana nella mostra della National Gallery, raccontata con passione da critici e studiosi– fra cui il curatore della mostra Xavier Bray e il direttore della National  Gabriele Finardi – nel film diretto da David Bickerstaff.

E mentre sfilano come  marionette, aristocratici imparruccati e intellettuali illuministi, soldati blasonati e re che appaiono in tutta la loro brutale rozzezza nonostante l’eleganza delle vesti, lo sguardo si posa su alcuni ritratti più intimi, che trasmettono la presenza viva di timide fanciulle come Teresa Sureda e Francisca Sabasa, sposa appena sedicenne o di giovani donne velate di tristezza come Antonia Zarate. Analogamente ai ritratti degli amici più cari a Goya, sono rappresentate nella loro individualità e grazia, quasi con pudore.

Goya 87Non troviamo traccia qui della fatuità che aleggia sul volto di don Luis, ritratto insieme alla sua famiglia nella tela prestata dalla Magnani Rocca, ma neanche di quell’aria eterea che ha la colta e illuminata duchessa di Osuna, figura ideale a tal punto da sembrare quasi astratta, evanescente. Quasi che attraverso queste immagini Goya esprimesse una sua acuta e sottile critica, non solo all’aristocrazia feudale, ma anche della nuova e fredda ragione illuminista.

Goya era entrato in contatto con le nuove idee francesi proprio grazie alcuni aristocrati illuminati come gli Osuna e fu profondamente influenzato dai nuovi ideali liberali, di secolarizzazione e apertura della società, ma ne vide anche i limiti di una ragione fredda, che rischia di diventare astratta.  Come nel film racconta Filardi Francisco goya può a buon diritto essere considerato l’iniziatore dell’arte moderna. Anche perché come scrisse Matheron nel 1858. “Insieme ai suoi colori macinava idee”. “La pittura non è mai stata un semplice gioco, pura distrazione, elemento decorativo, arbitrario. L’immagine è pensiero e rappresenta sempre una visione sul mondo e sugli uomini. Che ne sia consapevole o meno un grande artista è un pensatore di alto livello”, scrive Todorov nel saagio Goya (Garzanti).

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Esprimendosi con il linguaggio universale delle immagini Goya racconta la buona società madrilena ma ci dice anche della suo intimo riufiuto del conformismo che la caratterizzava, ci parla della lotta degli ilustrados, gli illuminati spagnoli, contro l’oscurantismo ma anche della violenza gratuita della guerra, cominciata  con l’invasione napoleonica del 1808.

Intrecciando il racconto delle opere di Goya alla sua biografia il film di David Bickerstaff offre anche un interessante affondo sull’ultimo drammatico periodo dell’esistenza del pittore spagnolo, segnato fin dai 43 anni da una grave sordità,  raccontando come l’artista riuscì, nonostante tutto, a trasformarla da ostacolo in opportunità per liberarsi dalle convenzioni pittoriche del tempo e lavorare maggiormente di immaginazione.

Seguendo solo la propria esigenza di libera espressione, emancipandosi  dalle imposizioni della committenza.

Del dolore, della lotta, che gli costò tuttavia l’isolamento causato dalla sordità e dalla malattia ci dicono oltre alle pitture nere, i drammatici autoritratti finali, uno in particolare in cui il pittore si rappresenta in tutta la propria fragilità di malato mentre il medico cerca di dargli da bere. Nel film questa immagine finale appare dopo una serie di autoritratti della maturità e un curioso ritratto giovanile –  che campeggia anche nella locandina del film – in cui Goya appare in pantaloni attillati e giubbino alla moda con un grande cappello sormontato di candele per poter dipingere anche di notte. Ci guarda in tralice, con aria complice come invitandoci ad entrare nel suo mondo di immagini che ci parlano ancora oggi. @simonamaggiorel

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L’arte rupestre scoperta da Frobenius, che ispirò l’avanguardia. Al @GropiusBau

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 12, 2016

Aquarell von Leo Frobenius, 1929 © Frobenius-Institut

Aquarell von Leo Frobenius, 1929
© Frobenius-Institut

Figure umane stilizzate, rese con pochi tratti essenziali, danzano in cerchio, oppure appaiono sedute in pose rilassate, come se stessero assistendo a uno spettacolo. Le gambe sono linee lunghissime o sintetizzate in un ricciolo elegante, quando accovacciate. In altre scene ambientate in mezzo alla natura, intorno a una sorta di “forno” primitivo, appaiono uomini e donne con dei bambini. Sembra una scena di festa. La didascalia e la scheda ci parlano di un rito sciamanico, evidenziando l’ampia tunica che riveste la figura centrale.

Colpisce che non ci siano segni di guerra o di violenza in questa serie di graffiti perlopiù risalenti al neolitico, copiati dal vero da pittori che presero parte alle spedizioni africane dell’etnologo tra il 1913 e il 1939.

Zimbabwe, 8.000-2.000 copiato da Mannsfeld, 1929 © Frobenius-Institut

Zimbabwe,
8.000-2.000 copiato da Mannsfeld, 1929
© Frobenius-Institut

Per lungo tempo, anche dopo la diffusione della fotografia, le scoperte di pitture e incisioni rupestri in Europa, in Africa e in altri continenti (lo stesso Frobenius andò anche in Indonesia) furono raccontate attraverso bozzetti e schizzi. Suggestivi, per esempio, sono quelli che Henri Breuil realizzò ad Altamira e nelle grotte della Dordogna. Ma qui siamo davanti a qualcosa di diverso: questi 500 schizzi e bozzetti che fanno parte della collezione Frobenius (fino al 16 maggio 2016 in mostra al Martin Gropius Bau di Berlino) non sono dei calchi o delle pedisseque copie documentali.

Per rendere su carta l’emozionante effetto che i graffiti preistorici facevano sulla roccia scabra e accidentata, i pittori ingaggiati dall’etnologo tedesco inventarono di volta in volta soluzioni estetiche e creative. Ognuno con un proprio stile, con una propria cifra, nel tratto e, talvolta, nella scelta dei colori. Il risultato finale sono esperimenti originali che costituiscono un unicum nella storia dell’arte. Quelle opere “d’occasione”, che poi andarono in tour in Europa e furono esposte in una trentina di città americane, rappresentarono un punto di svolta nei percorsi personali di chi le aveva realizzate aprendoli alla ricerca. Intanto cresceva l’interesse degli artisti d’avanguardia come Matisse e Picasso per il “primitivo”, per la bellezza della scultura negra che non seguiva i canoni neoclassici, ma anche per l’arte del paleolitico dopo la scoperte delle pitture rupestri di Altamira. Al punto che Picasso sembra abbia commentato: «Dopo Altamira tutto è decadenza». Vero o non vero che sia, restano i suoi tori essenziali, ridotti a sola linea, a dirci quanto avesse amato quelli gialli e rossi di Altamira e l’arte primitiva spagnola. E non fu il solo. Anche i pittori della scuola di New York si interessarono alla rock art. A cominciare da Pollock che giovanissimo si era innamorato dell’arte dei nativi americani. (Simona Maggiorelli, Left

 Aquarell von Elisabet Mannfeld, 1929 © Frobenius-Institut


Aquarell von Elisabet Mannfeld, 1929 © Frobenius-Institut

 

 Chi era Leo Frobenius

 Personaggio singolare Leo Frobenius, che per portare avanti le proprie ricerche e radunare la sua straordinaria collezione di disegni che documentano l’arte rupestre nel mondo accetto anche incarichi a rischio  che non rientravano nella sua professione di etnologo. Una notte del 1915, durante la prima guerra mondiale, vestito come un arabo salì clandestinamente a bordo della nave francese Desaix al porto di Massaua, Eritrea, attraverso un percorso insolito, quello delle latrine. I servizi segreti di mezza Europa vennero a sapere così che l’archeologo tedesco e antropologo Leo Frobenius sotto copertura tentava di attraversare il Mar Rosso con una missione segreta: provocare una sollevazione delle tribù africane contro i nemici della Germania.

In questo ruolo di insolito agente segreto Frobenius riuscì  a raggiungere l’Etiopia. Ma era anche finito in Egitto, dove fu  preso per ladro e messo in prigione. A spingerlo a intraprendere queste spedizioni grottesche non era però il suo patriottismo guerra. Quello che Frobenius cercava, anche con la sua attività di spia, erano reperti per la sue sue ricerche sull’arte paleolitica.

 Begräbnisszene mit Mumie im Ochsenfell Mumie im Ochsenfell Simbabwe, Rusape Distrikt, Fishervall-Springsfarm 8.000-2.000 v.Chr. Aquarell von Joachim Lutz und Leo Frobenius, 1929 © Frobenius-Institut

Zimbabwe, 8mila a.CAquarell von Lutz und Frobenius, 1929 © Frobenius-Institut

Viktor Leo Frobenius (1873-1938) era stato allievo di Ratzel e insegnò all’Università di Francoforte, facendo 12 spedizioni in Africa tra il 1904 e il 1935. negli anni raccolse molto materiale etnografico che divenne la base della teoria della Kulturkreis, che considera la cultura come un organismo vivente che si sviluppa secondo le proprie leggi “biologiche”, sviluppando ciò che c’è in origine. In questo modo cercava di dare basi materiali alla sua idea della creatività arcaica, una dimensione creativa che esiste nei Sapiens fin dall’origine della specie. Questa sua idea che si contrapponeva al crescente razzismo, contrastava però contrastava con teoria dell’evoluzione , per questo incontrò molte difficoltà istituzionali impigliandosi in faccende burocratiche e accademiche con le amministrazioni di Guglielmo II, la Repubblica di Weimar mentre nel 1937, la mostra “Arte degenerata” voluta da Hitler in Germania, ha ottenuto un finanziamento ufficiale per esporre alcune delle loro scoperte a New York.

“Oggi è del tutto evidente che la diffusione di questa arte preistorica esercitato una forte influenza sul avanguardia e soprattutto l’arte del XX secolo”, dice il curatore della mostra del Gropius Bau Richard Kuba “parliamo di opere che non possono essere qualificate come mere manifestazioni di una cultura sciamanica negando l’evidenza  deld loro valore estetico indiscutibile.  Esiste un’ arte anche 38.000 anni fa “. “Queste immagini hanno mostrato che l’uomo preistorico non era brutale e ottuso. Da quel momento  l’Africa,  che era sttaa considerata un continente astorica ha cominciato ad essere guardata dagli studiosi come la culla della civiltà. E questo è stato un grande cambiamento culturale “, sottolinea il direttore del Frobenius Institute, Karl-Heinz Kohl.

Spesso Frobenius  vendeva i materiali raccolti in precedenti spedizioni per finanziare quelle successive. Tanto che negli annali della intelligence britannica si legge: “la sua reputazione scientifica è mediocre come l’onore della sua condotta”, ma i campioni di arte del Paleolitico che riuscì a raccogliere costituiscono il primo capitolo della storia dell’arte universale.

Simona Maggiorelli

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Gli indomiti 105 anni di #GilloDorfles @skiraeditore

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 5, 2016

Dorfles-copyright-Eredi-Ugo-Mulas

Dorfles-copyright-Eredi-Ugo-Mulas

Può vantarsi di aver conosciuto Italo Svevo e di essere stato amico di Lucio Fontana. Come racconta nel libro intervista volume “Gillo Dorfles. Gli artisti che ho incontrato” curato da Luigi Sansone, e appena pubblicato da Skira editore.

Classe 1910, Gillo Dorfles ha inaugurato di persona la bella retrospettiva “Essere nel tempo” che gli dedica il Macro di Roma fino al 30 marzo 2016 (accompagnata da un denso catalogo Skira). Dialogando con i giornalisti e raccontando le sue opere preferite lungo tutto il percorso, in più sale della mostra curata da Achille Bonito Oliva, con quadri, fotoografie, libri e poi lettere, scritti autografi, schizzi, che testimoniano il suo incessante cercare e interrogarsi sulle estetiche e  su questa esigenza profonda, irrinunciabile: la  libera espressione artistica del fare arte.

Medico,  specializzato in neuropsichiatria, dice di non aver mai voluto esercitare per rispetto dei pazienti, “sapendo  di non essere un buon medico”. Molto invece si è dedicato all’arte, dpiingendo, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta. “Ufficialmente poi ho smesso”, racconta. ” Ma ultimo quadro risale alla scorsa estate”.

Il physique du rôle è sempre quello, asciutto,  dritto,  solo il volto appare un  più scarno e scavato. Con un’espressione  ancora di attenzione  e di meraviglia verso il mondo e gli esseri umani . Intorno a lui nelle sale del museo romano scorrono gli anni di speramentazione,  che lo portarono a partecipare alla storica  Esposizione italiana di arte astratta  di Milano, nel 1945 e nel 1948  a fondare il Movimento per l’arte concreta (Mac).

Gillo-Dorfles-Essere-nel-tempo-veduta-della-mostra-presso-il-Macro-Roma-2015-photo-Eleonora-Milner

Gillo-Dorfles-Essere-nel-tempo-veduta-della-mostra-presso-il-Macro-Roma-2015-photo-Eleonora-Milner

Dopo essersi avvicinato al surrealismo  giovanissimo,  rifiutò ogni forma di arte figurativa, mimetica del reale, per cercare un linguaggio nuovo che si esprime soprattutto attraverso il linguaggio dell’arte astratta. Una scelta dirompente, davvero d’avanguardia, nell’Italia del dopo guerra, in cui a prevalere fu una pittura figurativa pesante, vetero classicista in ambienti post futuristi e accademici, tanto quanto in quelli di sinistra che, nell’era togliattiana, si allineavano ai dettami del realismo socialista.

Le forme colorate, dinamiche, cangianti che popolano le tele di Dorfles hanno invece il ritmo pulsante di chi non accetta ideologie e steccati di genere, spaziando dalla pittura, alla scultura, alla fotografia, al design.

Accanto a questa poliederica attività creativa che la mostra al Macro ripercorre lungo ottant’anni di attività,  è fiorita quella di critico d’arte e saggista. Docente di estetica in  più università italiane, Gillo Dorfles ha scritto decine e decine di libri, alcuni dei quali, diventati dei classici, come Il divenire delle arti (1959), L’architettura moderna (1954); Il Kitsch (1968); La moda della moda (1984); Il feticcio quotidiano (1988); Horror pleni. La (in)civiltà del rumore (2008). Senza dimenticare la sua folgorante sintesi delle avanguardie del secondo Novecento, racchiusa nelle 250 pagine di Ultime tendenze nell’arte di oggi, uscito nel 1961 nelle edizioni Feltrinelli, aggiornato nel 1995 e ancora oggi una delle guide più incisive e illuminati per chi voglia avventurarsi nel mondo dell’arte dei nostri giorni.

“Io ho sempre seguito l’arte contemporanea- ha dichiarato Dorfles in una recente intervista di Clelia Patella apparsa su Artslife -. Nel senso letterale del termine: non sono uno storico dell’arte, per cui ho sempre seguito l’arte del mio tempo. Naturalmente oggi il mio tempo è un po’ arretrato, però quello che suscita il mio interesse sono sempre le ultime correnti, decisamente più di quanto non mi interessi il passato, per quanto questo passato possa io anche considerare artisticamente superiore. Ormai certe correnti artistiche passate hanno i loro rappresentanti e cultori storici, quindi è inutile che me ne occupi io”.

@simonamaggiorel

la recensione della mostra Essere nel tempo

 

Gillo Dorfles

Gillo Dorfles

Archittettura, design, musica, teatro, grafica, pittura, critica. L’opera di Gillo Dorfles attraversa una grande molteplicità di ambiti del sapere e dell’arte. Medico e neuropsichiatra che ha scelto di non esercitare («per rispetto dei pazienti», sapendo di non essere in grado di curare), con grande onestà e coraggio, ha attraversato tuto il Novecento continuando a sperimentare con inesausta curiosità nuovi linguaggi. La retrospettiva Gillo Dorfles, essere nel tempo, curata da Achille Bonito Oliva, permette di coglierlo con immediatezza in una travolgente sequenza di sale che al Macro di Roma (fino al 30 marzo 2016, catalogo Skira) ospitano opere datate dagli anni 30 a oggi. E se quadri come Paesaggio con volto umano (1934) mostrano ancora ascendenze simboliste e l’influenza di Munch nell’uso quasi spettrale di lingue dai colori vorticosi e freddi, già con vivaci opere come Senza titolo (1940) e Guanto a spirale (1940) Dorfles dimostra di aver sviluppato un proprio linguaggio astratto originale, che si esprime attraverso il dinamismo delle forme e una ridda di rossi, blu, viola. gialli e verdi. Alla fine della guerra fioriscono, inaspettate, le terracotte dipinte e, in parallelo, composizioni con creste, dove le linee colorate si fanno più nette e definite, tracciando forme astratte che sembrano crescere sotto il nostro sguardo come fossero organismi viventi. L’egemonia del Pop che svuota le immagini riducendole a piatte icone non ha sedotto l’artista triestino, classe 1910, che nel anni 60 era già un uomo maturo, e un artista che aveva scritto capitoli importanti della storia dell’arte, fondando nel 1948 Il Movimento per l’arte concreta (Mac) con Soldati, Munari, Monnet e altri. Avendo ben chiaro che un’arte progressita deve essere innovativa anche dal punto di vista formale. Erano gli anni in cui a sinistra dominava ancora il pesante realismo socialista di marca togliattiana. Ma Dorles e compagni intuirono che, dopo il cubismo e la svolta delle avanguardie storiche, non si poteva tornare a una piatta raffigurazione della realtà, ma che era necessario promuovere un’arte non figurativa, ed in particolare un tipo di astrattismo libero da ogni imitazione del mondo materiale. Dal Mac avrebbero preso le mosse poi artisti più giovani come Accardi, Dorazio e Perilli. Ma importante nell’opera pittorica di Dorfles è anche il rapporto ininterrotto con i movimenti artistici stranieri come racconta lui stesso nel volume Gli artisti che ho incontrato (Skira, 2015), uno sguardo che ha regalato un respiro cosmopolita ed europeo a tutto il suo lavoro. (Simona Maggiorelli, settimanale Left)

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