Intervista di Simona Maggiorelli al ministro di Università e Ricerca, Fabio Mussi da “Left” 9 febbraio 2007
Il ministro dell’Università e della Ricerca scientifica Fabio Mussi risponde a Left dopo il dossier pubblicato a fine gennaio 2007 sui guai della ricerca scientifica italiana. «Bisogna risolvere l’emergenza del precariato con un piano di assunzioni rigoroso e senza infornate». Mussi parla di nuovi finanziamenti, di opportunità europee e della nuova Agenzia di valutazione. E spiega perché non si è dimesso: perché ci crede ancora.
Ministro Mussi, prima della Finanziaria lei minacciò le dimissioni se ci fossero stati ulteriori tagli alla ricerca. E i tagli sono arrivati. Perché ha deciso di proseguire lo stesso il suo lavoro?
«La Finanziaria è uscita dalle Camere meglio di come all’inizio era entrata in Consiglio dei ministri. Contiene una contraddizione. Ci sono soldi nuovi per i programmi e i progetti di ricerca: 300 milioni di credito d’imposta alle imprese che investono (con un maggior vantaggio per le commesse a Università ed Enti pubblici di ricerca); 960 milioni aggiuntivi in tre anni per il Fondo unico per la ricerca scientifica e tecnologica, il cosiddetto First; 1.200 milioni in tre anni per il fondo “Italia 2015”. A questi si aggiungono i fondi strutturali, per i quali la quota dedicata alla ricerca sale dal 5 al 14 per cento, e la quota che potrà venire in Italia dei 53 miliardi di euro del settimo Programma quadro europeo. Al tempo stesso i budget dedicati al funzionamento ordinario di Università ed Enti pubblici di ricerca diminuiscono. La contraddizione consiste nel fatto che indeboliamo i soggetti primari che devono presentare progetti e programmi. È indispensabile ora superare la contraddizione, passato il primo anno in cui il governo ha deciso di rimettere ordine nei conti pubblici. A Caserta è stato deciso che “Formazione e ricerca” è il primo dei dieci punti che qualificheranno il programma del governo nei prossimi mesi. Sono convinto che la priorità verrà rispettata. Lo sento come il primo dovere del mio mandato».
Nel ddl sugli enti di ricerca si parla solo di quelli vigilati dal Miur, ma l’esigenza di autonomia e sburocratizzazione è diffusa anche in altri enti, ad esempio l’Enea e l’Istat. Per il futuro è prevista un’estensione del provvedimento?
«Un’estensione del provvedimento penso sia auspicabile anche a questi altri due enti di ricerca. Si tratta di enti strumentali, che devono fornire servizi precisi al loro committente, lo Stato. Sono convinto che assolveranno meglio al loro compito quando avranno meno burocrazia e più autonomia. In generale è bene che la politica faccia un passo indietro e che la gestione della scienza sia affidata agli scienziati. Ciò vale per tutti gli enti di ricerca, compresi l’Istat e l’Enea. Quest’ultima in particolare presenta un’ulteriore necessità: di ridefinire in maniera chiara la sua missione attraverso un progetto fortemente condiviso dalla comunità scientifica».
Il responsabile sindacale del Cnr, che è anche un ricercatore, ha reso noti i dati ufficiali sul personale: i contratti a tempo indeterminato sono 6.640 a fronte di 1.108 ricercatori a tempo determinato. Se si considerano anche i ricercatori con assegno di ricerca, co.co.co. partita Iva, prestazioni d’opera occasionali eccetera, i precari in seno al Cnr arrivano circa a 5.000. Come risolvere l’emergenza?
«Attraverso un piano di assunzioni chiaro, rigoroso e ben programmato nel tempo. Il precariato non è una condizione sostenibile. Non conviene a nessuno. Né ai giovani che non riescono a progettare il loro futuro, né alla ricerca, che ha bisogno di stabilità, continuità e serenità per raggiungere l’eccellenza. Quindi anche al Cnr il precariato dei giovani va fortemente ridimensionato. Tuttavia nessuna infornata, nessuna assunzione ope legis. L’emergenza precari va risolta attraverso un percorso formativo ben delineato e un’attenta, trasparente valutazione del merito scientifico».
Lei dice, giustamente, di voler introdurre meritocrazia e di investire in una vera e propria Agenzia per la valutazione. Ma i ricercatori denunciano il fatto che i criteri in base ai quali saranno valutati non sono chiari. Come vede la questione?
«Il percorso che porterà tra breve alla creazione dell’Agenzia di valutazione non si è ancora compiuto. I criteri non sono stati ancora definiti nel dettaglio. L’Agenzia sarà terza sia rispetto alla politica sia rispetto alla comunità che dovrà essere valutata. Avrà criteri di valutazione internazionali e anche i valutatori saranno scelti secondo standard internazionali. Inoltre giudicherà soprattutto le strutture: le università, i dipartimenti. Non i singoli. L’Agenzia invece stabilirà i criteri in base ai quali le università dovranno valutare i singoli docenti. E questi criteri, ripeto, avranno standard internazionali».
Da pochi giorni è stato varato in Europa il VII programma quadro per la ricerca che, fra l’altro, sembra la riprova dell’arretratezza italiana rispetto agli obiettivi di Lisbona. Cosa pensa di quel programma?
«Penso che il nuovo Programma Quadro sia una grande opportunità per l’Europa e per l’Italia. Sono previsti investimenti per 53,2 miliardi di euro in sette anni, cui vanno aggiunti 2,8 miliardi di euro per l’Euratom. In complesso sono 56 miliardi di euro, 8 miliardi l’anno. Con una crescita di circa il 60 per cento rispetto al precedente Programma Quadro. Dico che non è moltissimo. In fondo 8 miliardi di euro sono circa il 5 per cento di quanto si spende ogni anno nell’Unione per la ricerca scientifica. L’altro 95 per cento viene speso dai governi dei singoli Paesi secondo modalità e obiettivi diversi, talvolta divergenti. Tuttavia quei soldi non sono neanche pochissimi. Soprattutto, rappresentano una novità. Il settimo Programma Quadro finanzierà con un miliardo di euro l’anno il neonato Consiglio europeo di ricerca. Una struttura gestita in totale autonomia dalla comunità scientifica, che promuoverà la ricerca di base o, come la si definisce oggi, curiosity-driven. È un significativo passo avanti verso la creazione di uno “spazio europeo della ricerca” visto che per la prima volta l’Unione finanzia direttamente la ricerca di base».
Che è una ricerca davvero fondamentale.
«Sì, perché ha un valore culturale in sé ma anche perché senza la ricerca curiosity-driven, alla lunga anche la ricerca applicata si inaridisce. Inoltre vorrei ricordare il Programma “Persone”, che finanzierà i progetti di ricerca di giovani scienziati. Tutto ciò rappresenta una grande opportunità per l’Europa. In tutto il mondo gli investimenti crescono e si qualificano, l’Unione non può restare indietro. Anzi, deve rinnovare il programma di Lisbona e ambire a una posizione di leader nella società della conoscenza».
Il gruppo di ricercatori all’avanguardia che lavora ad Ispra ha ottenuto dall’Unione Europea nove milioni di euro per un progetto sulle staminali embrionali. Ma il parere negativo del Comitato di bioetica ha costretto gli italiani a ritirarsi a tutto vantaggio di colleghi tedeschi. Ma non è una buona occasione mancata?
«Quando sono diventato ministro il mio primo atto in Europa è stato quello di togliere la firma dell’Italia dalla “Dichiarazione Etica” con cui si era ritrovata a formare assieme a pochi paesi, tra cui la Germania, una “minoranza di blocco” volta a impedire finanziamenti europei a favore della ricerca sulle staminali embrionali in ciascun Paese. Anche in quei Paesi in cui la ricerca è consentita dalla legge. Penso che sia stato un atto di laicità. Tuttavia in Italia ci sono i vincoli della legge 40. E finché c’è questa legge quel tipo di ricerca è fortemente limitato, anche se non escluso. In altri Paesi quei vincoli non ci sono. Quindi è giusto che i ricercatori di quei paesi possano accedere ai fondi europei».