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#Ipazia donna e scienziata. Una mostra ne racconta il vero volto

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 1, 2015

Ipazia

Ipazia

Roma avrà una piazza intitolata ad Ipazia, la scienziata alessandrina che fu uccisa e dilaniata pezzo a pezzo con conchiglie acuminate dai fondamentalisti cristiani capeggiati dal Vescovo Cirillo. Lo ha annunciato il comitato cittadino che ha raccolo più di 1500 firme. Il luogo assegnato si trova nel V Municipio, nella zona di Tor Sapienza.

“Nonostante avessimo indicato come luogo un giardino in zona Marconi vicino ad altre vie dedicate a scienziati, il nostro intento è stato comunque raggiunto e vogliamo evidenziare il forte significato civico che  esprime la figura di Ipazia come portatrice di valori universali quali la ricerca e la diffusione della conoscenza, che sono state da sempre ostacolate dall’oscurantismo religioso di cui lei è stata vittima”, si legge nel comunicato del comitato Una piazza per Ipazia, che così racconta il senso di questa iniziativa: “Ipazia è anche e soprattutto per noi un simbolo di Resistenza, e ricordarla non si deve limitare ad un puro atto celebrativo ma divenire paradigma di lettura del presente. È di grande attualità la sua esemplare incorruttibilità: Ipazia non si è piegata di fronte ai potenti che le offrivano grandi benefici in cambio della rinuncia alla ricerca, alla

Ipazia

Ipazia

conoscenza e soprattutto alla divulgazione del sapere”.

A far conoscere Ipazia al grande pubblico in Italia è stato soprattutto il film Agorà di Amenábar, che nel Paese che “ospita” il Vaticano nel 2009 ha incontrato non poche difficoltà di distribuzione. Ma a regalarci ritratti affascinanti e approfonditi dell’astronoma, filosofa neoplatonica e matematica alessandrina che fu fatta a pezzi dai fondamentalisti cristiani nel 415 d.C. sono stati – in tempi recenti – soprattutto studiosi del mondo antico come Silvia Ronchey (Ipazia, la vera storia, Rizzoli) e alcuni scrittori come Adriano Petta e l’egiziano Youssef Ziedan ( leggi l’intervista) che, per il suo romanzo Azazel (Neri Pozza), è stato attaccato da cristiani copti che si dicono eredi di quel vescovo Cirillo che condannò a morte la scienziata pagana (e poi fu fatto santo!).

Di questa straordinaria donna, pensatrice e studiosa di cui tutte le fonti ricordano l’autorevolezza e il modo di parlare franco si torna ora a parlare grazie a una mostra, Ipazia, matematica alessandrina, aperta fino al 30 agosto al Museo del calcolo di Rimini (Mateureka). Si tratta di una esposizione che mira a ricostruire in modo rigoroso (per quanto è possibile vista la scarsità di documenti) il contributo che la scienziata dette alla ricerca del suo tempo. Per questo il percorso espositivo invita a diffidare di Ipazia secondo Raffaelloipotesi che non trovano riscontro testuale, come l’idea che Ipazia avesse intuito molto prima di Keplero il moto ellittico dei corpi celesti. Mentre, sulla base di testimonianze antiche come quella del bizantino Suida, la mostra racconta che Ipazia, oltre a tenere lezioni aperte al pubblico, scrisse numerosi importanti commenti ad opere greche classiche. Non tanto di filosofi, quanto di “scienziati”. Per esempio alle Coniche di Apollonio di Pergamo e all’Aritmetica di Diofanto di Alessandria.

In primis, Ipazia, era una studiosa di matematica. Ma si occupò anche di astronomia. «Il nome di Ipazia è associato a un’opera chiamata dalle fonti Canone astronomico, probabilmente un commentario alle Tavole facili di Tolomeo» scrivono i curatori. E a lei si deve la “revisione” del terzo libro dell’Almagesto di Tolomeo «all’interno del commento di suo padre Teone, che scrive ,“edizione riveduta da mia figlia, la filosofa Ipazia”». Riguardo invece agli strumenti che progettò facendoli costruire ai suoi allievi, attenendosi a quanto scrisse il suo allievo Sinesio, la mostra riminese propone un astrolabio piatto, un idroscopio e un aerometro. Ma certamente Ipazia usò per le sue ricerche anche l’astrolabio messo a punto e perfezionato dal padre Tenone, astronomo e direttore del museo di Alessandria. (Simona Maggiorelli)

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L’inquieta bellezza di Pontormo e Rosso

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 21, 2014

Diversi per tempra e per poetica, i due artisti toscani innervarono la pittura del Cinquecento di nuova

Pontormo, Due amici

Pontormo, Due amici

sensibilità. Fino al 20 luglio una mostra li mette a contronto. In Palazzo Strozzi, a Firenze

Capriccio, stravaganza ribellismo, ricerca della bizzarria a tutti i costi. Il pesante giudizio vasariano che definiva Pontormo pittore «di nuova maniera ghiribizzosa» ha pesato per secoli nella letteratura critica, aduggiando questo straordinario pittore che, insieme al coetaneo Rosso Fiorentino, fu iniziatore della maniera moderna: di un modo di fare pittura che ricreava la lezione di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, innervandola di una nuova sensibilità e inquietudine. Rischiando l’eterodossia nel prendere di spigolo la committenza ecclesiastica e di regime.

Furono anni convulsi quelli in cui i due artisti realizzarono le loro opere più importanti; anni di lotte fra repubblica e signoria medicea, e poi, dal 1527, di razzie imperiali e papali, culminate nel drammatico assedio di Firenze del 1530. Entrambi allievi di Andrea Del Sarto, già a 17 anni erano artisti maturi, di forte personalità e diversissime fra loro. Come balza agli occhi dal confronto fra gli affreschi staccati provenienti dal chiostro della SS Annunziata con cui si apre la mostra Pontormo e Rosso. Divergenti vie della “maniera”, aperta fino al 20 luglio (catalogo Mandragora) in Palazzo Strozzi, a Firenze.
Nelle stesse sale dove nel 1956 fu allestita la storica Mostra del Pontormo e del primo manierismo fiorentino, e a quasi vent’anni da L’officina della maniera, Carlo Falciani e Antonio Natali, dopo lunghi studi, hanno realizzato questo nuovo, appassionante, confronto fra i due amici e rivali. L’uno, Jacopo Carrucci detto il Pontormo, introverso, solitario, umbratile (come testimoniano le scarne e ossessive note del suo diario, Il libro mio). L’altro, Giovan Battista di Jacopo, detto il Rosso Fiorentino, raffinato, colto, curioso di cabala ed esoterismo e amante della musica come il suo dolce e malinconico angelo degli Uffizi.
Rosso Fiorentino, angelo che suona

Rosso Fiorentino, angelo che suona

Due artisti profondamente distanti, dunque, non solo per indole e poetica, ma anche per frequentazioni e ambiti di attività, dato che Pontormo, pur riottoso verso il potere, lavorò sempre per la corte medicea, mentre Rosso- forse vicino alla vecchia oligarchia repubblicana e savonaroliana- fu costretto a cercare committenti in provincia, a Piombino, Arezzo e Volterra, prima di fare fortuna in Francia, diventando capo della scuola di Fontainebleau. (Dove morì improvvisamente a 46 anni).

Ma bisogna anche rilevare che i due furono uniti dallo studio assiduo dell’opera di Michelangelo, da una radicale insofferenza verso il classicismo, inteso come norma assoluta e razionale, nonché da una ricerca creativa che metteva l’umano al centro della pittura. Come dimostra la qualità dei ritratti che entrambi realizzarono nel corso della loro vita. Grande merito di Falciani e del direttore degli Uffizi Antonio Natali è proprio essere riusciti a ricomporre, per questa occasione, quasi la totalità del disperso catalogo rossesco, disseminato fra musei e collezioni private.
E davvero potente è il dialogo che in Palazzo Strozzi i suoi ritratti di giovani, intellettuali, soldati e anziani aristocratici ingaggiano con quelli di Pontormo, in una sfida di scavo psicologico per far emergere sulla tela presenze umane, anonime, ma quanto mai vive e vibranti
Pontormo, autoritratto

Pontormo, autoritratto

Così alla sottile malinconia e allo sguardo lievemente attonito del giovane che Rosso ritrae con in mano una lettera datata 1518, idealmente risponde lo sguardo sorpreso e bruciante del Gentiluomo con libro (1542) di Pontormo, opera appartenente a un privato e raramente esposta in pubblico.

E ancora: al fiero e quasi arcigno profilo virile (1521-22) di Rosso – di grande forza espressiva nonostante il quadro sia quasi monocromo – risponde, sul versante di un colorismo acceso e brillante, quello altrettanto altero e scavato di Cosimo il vecchio ritratto da Pontormo, nel 1518, anni dopo la scomparsa del padre di Lorenzo il Magnifico. E oltre. Passando dalla pacata fierezza del ritratto virile (1522) di Rosso conservato alla National Gallery, all’espressione fresca e sfrontata del giovanetto di Pontormo.

Un’immediatezza che ritroviamo anche negli schizzi del pittore empolese, fra sorprendenti e quasi giocosi nudi in mutande (in cui qualcuno ha voluto vedere una sorta di “selfie”) e che si perde invece in opere di tema sacro come la celebrata Visitazione di Carmignano, da poco restaurata, dove la ridda di colori acidi e il tentativo di rendere in simultanea momenti diversi dell’incontro fra Maria ed Elisabetta, rende artificiosa l’intera scena.
Analogamente, se i riflessi lunari e violacei che inondano la Pietà (1537-1540) del Louvre rendono la tela di Rosso toccante e drammatica, il gusto per un certo corrosivo grottesco finisce per appiattire e svuotare di senso la Pala dello spedalingo (1518), in un parossimo di “santi diavoli”, pieghe uncinate e figure scarnificate e spigolose. Che fanno immediatamente avvertire la mancanza della Deposizione (1521) di Volterra, spigolosa sì, ma potente e terribile per quella dimensione metafisica e astratta che riesce ad additare, evocando una dimensione di vuoto.
Varcata l’uscita della mostra non resta quindi che prosguire il percorso, approfittando di quello straordinario museo diffuso che è la Toscana.
Facendo tappa a Volterra per Rosso, ma anche alla Certosa e nella villa di Poggio a Caiano dove si trovano affreschi di Pontormo. E, prima ancora, nella vicinissima chiesa di Santa Felicita dove si trova la Deposizione (1526-1528) che Pontormo tramutò in una danza allucinata con i personaggi che sembrano chiusi in una dimensione solipsistica, avendo drammaticamente perso ogni rapporto umano.
(Simona Maggiorelli) dal settimanale left

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Restauri sospetti

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 28, 2013

Bronzi di Riace, restauro infinito

Bronzi di Riace, restauro infinito

Mentre il sindaco di Firenze Matteo Renzi nel Salone dei Cinquecento si danna a trapanare gli affreschi del Vasari in una insensata caccia del perduto affresco di Leonardo, pur di avere file di turisti non solo agli Uffizi, ma anche a Palazzo Vecchio, e mentre si moltiplicano gli scavi macabri in cerca di ossa della Gioconda, di Giotto e di altri malcapitati protagonisti della storia dell’arte italiana, un restauratore come Bruno Zanardi lancia un allarme riguardo al moltiplicarsi di restauri inutili. Quando non addirittura dannosi. Restauri commissionati solo per un effimero ritorno d’immagine da parte di Comuni ed enti privati. Restauri ingaggiati per drenare finanziamenti e che talora mettono a rischio la leggibilità critica dell’opera.

È questo il caso di un dipinto di Orazio Gentileschi «pulito per i prossimi mille anni», scrive Zanardi nell’acuminato pamphlet Un patrimonio artistico senza. Ragioni, problemi, soluzioni (Skira). Ricordando come una giovane storica dell’arte di un museo comunale del centro Italia gli avesse confidato orgogliosa di aver ottenuto diecimila euro per restaurare quel quadro… perché sarebbe dovuto andare in mostra il mese successivo. Ma c’è anche di peggio.

«Un’importante casa automobilistica prese a interessarsi di restauro», ricorda Zanardi nel capitolo “Raffaello, un restauro inutile, quasi dannoso”. In che modo quell’azienda privata avrebbe voluto dedicarsi a tale nobile impresa? «A modo suo», chiosa con ironia lo studioso che è stato allievo di Giuliano Urbani e sodale di Cesare Brandi. La casa automobilistica in questione prometteva «un pacco di soldi a uno dei più celebri musei italiani e del mondo per restaurare una qualsiasi delle opere lì conservate. Unica condizione: l’opera doveva essere molto famosa». Niente di male, direte. Chi produce auto non è tenuto a saperne d’arte. Ma il funzionario pubblico della soprintendenza sì. E avrebbe dovuto rifiutare quella proposta. Cosa che non è accaduta.

COP_8991_ZanardiPatrimonio_ok:SKIRA«Il soprintendente, italico more, se ne fregò e accettò», ricorda Zanardi. «Né la decisione destò problema. Anzi tutti a dire: questo sì che è un muoversi da liberale! Far entrare i privati nella tutela e nella valorizzazione. Nessuno osò sostenere il contrario». Ovvero che «un restauro condotto senza indiscutibili ragioni conservative è l’opposto di rigore etico, professionale e morale del liberalismo. Oltre a essere denari buttati via». Per non parlare poi della cosa più importante: i danni arrecati all’opera da un restauro inutile. E non si tratta di un singolo episodio. In questo appassionato diario di uno dei massimi restauratori italiani si trova un’intera pletora di casi analoghi. Compreso quello, annoso, che riguarda i bronzi di Riace in restauro da un paio d’anni. Il terzo dal 1980. Per una spesa di un milione di euro o giù di lì. A mo’ di commento Zanardi riporta lo sfogo (meritorio) di un custode che allargando le braccia gli dice: «Secondo me che li vedevo ogni giorno, erano perfetti. Bastava spolverarli…Ma mi rendo conto che se una cosa la spolveri e basta senza spendere nulla c’è una probabilità su un miliardo che tu vada in televisione e sui giornali».  (Simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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Creatività cercasi

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 13, 2013

Maurizio Cattelan, installazione al MoMa

Maurizio Cattelan, installazione al MoMa

Il Salone del libro che prende il via il 16 maggio ha un interessante filo rosso: il tema della creatività. E chiama artisti,  critici, filosofi e scienziati a parlare di immaginazione e fantasia. Al Lingotto fino al 20 maggio. Cercando di capire dove va la ricerca internazionale dopo la fine della stagione delle artistar. Mentre è  già cominciato il count down per la Biennale di Venezia che si aprirà il primo giugno

di Simona Maggiorelli

L’ artista è l’essere umano«più libero che esista, perché può compiere un miracolo, può creare l’opera più bella partendo dal nulla. Solo l’idea conta davvero», dice Marina Abramovic sul nuovo numero della rivista Lettera Internazionale. In un’intervista rilasciata a Gioia Costa in cui l’artista rievoca il lungo itinerario che l’ha portata dalle provocazioni “patologiche” della Body Art a una Performing Art che mescola vari linguaggi, dalla videoarte al teatro, per comunicare più profondamente con le persone. «La leggenda è finita, i templi sono diventati musei e l’artista oggi ha il compito fondamentale di comunicare con la propria intuizione. Oggi la vera scommessa è riuscire a cambiare la consapevolezza delle persone. Facendo della creatività un motore di cambiamento delle persone e del mondo», dice l’artista di Belgrado. Con accenti utopistici non troppo lontani da quelli dell’ultimo Michelangelo Pistoletto.

Non a caso parliamo di due artisti, di generazioni differenti, ma entrambi emersi a livello internazionale negli anni Settanta. «Un periodo che fu molto stimolante per l’arte» commenta il critico Luca Beatrice, che il 19 maggio sarà al Salone del Libro per presentare il suo libro Sex (Rizzoli) che indaga la rappresentazione artistica del sesso e per parlare di creatività. Che è il filo rosso della prossima edizione della fiera dell’editoria.

A Torino, dal 16 al 20 maggio,  il tema della creatività vedrà una declinazione scientifica. In particolare, il 18 maggio, con la presentazione della nuova edizione di Bambino donna e trasformazione dell’uomo dello psichiatra Massimo Fagioli ( L’’Asino d’oro edizioni) e il 17 maggio con la lectio magistralis di Ian Tattersall, autore de Signori del Pianeta. La ricerca delle origini dell’uomo (Codice edizioni), in cui l’antropologo americano spiega come Homo Sapiens abbia prevalso grazie a una caratteristica specie specifica come la fantasia.
In un articolo intitolato Le artistar sono finite, trionfa la noia, su Il Giornale Luca Beatrice, di recente, ha scritto del tramonto degli “anni zero” dell’arte, imposti dal mercato e caratterizzati, per esempio, dall’ipervalutazione di artisti come Danien Hirst con i suoi squali in formaldeide «oggi andati incontro a un deprezzamento del 300 per cento». In giro si respira un’aria di «ritorno all’ordine», scrive Beatrice, ma la fine dell’euforia dei mercati «ci ha liberati dalla mondanità artefatta dell’ultimo Francesco Vezzoli e dall’arte dei pupazzi, dalle provocazioni gratuite, dalla cronaca elevata a storia a cui ci aveva abituati Maurizio Cattelan».

Vanessa Beecroft

Vanessa Beecroft

Nell’arte italiana oggi «c’è molto vintage – sottolinea il critico -. Non a caso alla Biennale di Venezia che aprirà il primo giugno si vedranno molte opere degli anni Settanta riportando le lancette dell’orologio su un tempo molto vitale per la nostra storia dell’arte. Senza contare che molti autori di allora sono ancora qui per raccontare quel periodo». Il lato positivo di questa «retromania è che l’arte oggi ha finito di cantare le magnifiche sorti e progressive del mercato», dice a left Luca Beatrice. Anche se nel mainstream proposto dalle gallerie e dai templi internazionali del contemporaneo, dalla Tate al MoMa, continuano a dominare artisti come Vanessa Beecroft con le sue raggelate rappresentazioni di donne, modelle, bambole meccaniche, che inneggiano a un’arte che non cerca più nemmeno lo choc del sangue e delle ferite della Body Art, ma propone l’anestesia, celebrando il vuoto. «Beecroft ben rappresenta l’era inizio anni Duemila di un tardo capitalismo ormai arrivato alla frutta» commenta il condirettore del Padiglione Italia alla Biennale d’arte del 2009. «Le sue donne nude e perfette non hanno nulla di sensuale, sono l’estrema punta di una rappresentazione del sesso ridotto a ready made».

Ma chi è l’artista oggi e come trova il suo pubblico? Se nel Quattrocento e nel Cinquecento andava a bottega giovanissimo e poi, da quel trampolino riconosciuto (specie se la bottega era quella di Raffaello o di un altro artista noto) entrava direttamente nel mondo dell’arte e delle commissioni ecclesiastiche o di corte, oggi quali sono i percorsi? «Nel Quattrocento l’arte era un mestiere. Oggi non più – risponde da New York Francesco Bonami -. Ma è anche vero che ai nostri giorni il mito del “dottore” ha reso il mestiere dell’artista una professione da residuo sociale…Almeno finché uno non diventa di successo. Non a caso c’è chi dice “mia figlia si è messa con un artistoide”. L’artista è l’artistoide oggi. E poi – approfondisce Bonami che sarà al Salone del libro di Torino il 18 maggio per presentare il suo nuovo libro Mamma voglio fare l’artista (Mondadori-Electa) -. Nel ‘400 l’arte era un fenomeno per pochi oggi è per tutti. E far contenti tutti e più difficile che far contenti pochi. Secoli fa una persona che non era un nobile vedeva al massimo un paio d’immagini sacre o artistiche nella sua vita. Oggi se ne vedono milioni. Creare un’immagine o una forma nuova che dica qualcosa di nuovo o solo qualcosa è una cosa ai nostri tempi difficilissima». Inflazione di immagini a scarso tasso creativo e, dall’altro lato, stupore, se non ostilità, verso chi si cimenta con la ricerca creativa, invece di cercare un impiego sicuro, sembrano connotare i nostri anni. «La ragione ed il calcolo sono oggi l’equivalente di denaro e successo; voler comunicare qualcosa senza altri scopi della condivisione è molto sospetto», commenta il critico fiorentino, direttore artistico della Fondazione Sandretto che è stato direttore della Biennale di Venezia nel 2003 .

Intanto però il mercato internazionale dell’arte e le vetrine delle Biennali europee e americane pullulano di opere all’insegna di un violento iperaelismo tardo pop o, più spesso, di opere iperconcettuali, freddamente astratte, autoreferenziali. Tanto che il filosofo Maurizio Ferraris ha scritto: «La morte dell’arte profetizzata da Hegel due secoli fa si è realizzata alla perfezione. Solo che non riguarda tutta l’arte ma solo l’arte visiva che si autocomprende come grande arte concettuale, o post concettuale. Mentre altre arti stanno benissimo e ne nascono di nuove», riprendendo i fili di un suo vecchio libro, La fidanzata automatica (Bompiani). «Credo che l’arte contemporanea abbia concluso un ciclo» commenta Bonami. E promette: «Racconterò questo nel prossimo libro Dall’Orinale all’Orale dove si parte da Duchamp e si arriva a Tino Seghal quello che usa le persone che raccontano qualcosa. L’arte deve raccontare qualcosa di altro che se stessa e quindi si riparte da capo».

«

Hegel

Hegel

Quella della morte dell’arte è una tesi che oramai vanta un bel tratto di storia- ricorda Tiziana Andina, docente d  Filosofia teoretica all’Università di Torino, autrice per l’editore Carocci, di Filosofia contemporanea,  ma anche di Filosofie dell’arte. Da Hegel a Danto. «Per primo l’ha formulata appunto Hegel. Riteneva che l’arte fosse destinata a risolversi nella filosofia, cioè in pura concettualità. Ma francamente non credo che questo avverrà mai. Penso che la previsione di Hegel non solo non si sia realizzata, ma che sia sbagliata sotto il profilo teorico. Filosofia e arte sono essenzialmente diverse, l’una non potrà mai risolversi nell’altra». Che cosa è accaduto allora? «E’ successo che la “storia dell’arte”, ovvero la narrazione elaborata nei secoli dagli esperti per leggere le opere, sembra non funzionare più – spiega Andina -. Non è più efficace per interpretare il lavoro degli artisti, frammentato in miriadi di sperimentalismi». Quando alla pratica artistica contemporanea «non credo che l’arte sia morta – dice la filosofa – e nemmeno che se la passi male. Penso piuttosto che tutta l’arte abbia molto sperimentato  propri linguaggi. Questo può apparire stucchevole o incomprensibile alla più parte delle persone, che preferiscono opere immediatamente figurative e arricchite di una connotazione emozionale». Nietzsche, però, sosteneva che le opere possono incidere sulle nostre vite in misura maggiore di quanto non riesca a fare un ragionamento ben formulato, cosa ne pensa? «Spesso l’arte ha la capacità di incidere profondamente sulle emozioni. La ragione dell’ “invidia” dei filosofi nei confronti degli artisti (pensiamo a quanto Platone maltratti gli artisti nella Repubblica ) ha probabilmente radici proprio in questa idea. Possiamo leggere dettagliate analisi filosofiche che riguardano questioni morali, ma leggere dei pensieri e delle emozioni di Raskol’nikov, in Delitto e castigo, quando prepara l’omicidio della vecchia usuraia, e poi dei suoi tormenti dopo che l’ha uccisa, ci porta a una comprensione “emozionale” di molte cose: che cosa vuole dire uccidere, che cosa significa essere esseri umani, che cos’è la compassione. Tutto questo ha una importanza grandissima per le nostre vite».

dal settimanale left, numero 18 in edicola fino al 17 maggio 2013

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La Cina può attendere

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 13, 2012

L’occasione mancata del Rinascimento fiorentino al National Museum di Pechino. Dall’Italia capolavori come La Scapigliata di Leonardo ma anche una imbarazzante ridda di “opere” solo pittoresche

di Simona Maggiorelli, da Pechino

 

Leonardo, La scapigliata

«Il Rinascimento italiano conquista la Cina del 2012. Lo dicono i numeri e, si sa, la matematica non mente: due ore di coda per entrare e una media di 1.600 visitatori al giorno, con entrate contingentate di massimo 150 persone alla volta» recita in tono trionfale un comunicato del 19 luglio divulgato dal ministero dei Beni culturali italiani.

La mostra di cui si parla è Il Rinascimento a Firenze. Capolavori e protagonisti, curata da Cristina Acidini, responsabile del Polo Museale Fiorentino; una rassegna che raduna nel più grande museo di Pechino 67 opere fra le quali figurano fragili e preziosi capolavori come La Scapigliata di Leonardo da Vinci (proveniente dal Museo di Parma), il David-Apollo di Michelangelo conservato al Bargello e L’Adorazione dei Magi degli Uffizi firmata Sandro Botticelli, e ancora opere di Raffaello, Gentile da Fabriano, Filippo Lippi, Andrea del Sarto e altri.

Insomma una mostra kolossal con cui, a luglio è stato inaugurato lo “Spazio Italia” all’interno del National Museum of China, in piazza Tian’anmen. Un museo di 192mila metri quadri che richiama circa 50mila visitatori al giorno. Ma chi fosse andato davvero a visitare quella mostra, avendo nelle orecchie solo gli squilli di tromba che hanno accompagnato questo ultimo atto in veste di direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale siglato dall’ex manager McDonald’s Mario Resca forse si sarebbe trovato alquanto disorientato.

Non tanto perché le file all’ingresso del museo c’erano sì, ma non per entrare alla suddetta mostra, del resto non facile da scovare ai piani alti del museo, quanto per la bizzarra scelta di opere che la curatrice Acidini ha operato intercalando, per esempio, l’inarrivabile sfumato di disegni di Leonardo con grotteschi e improbabili ritratti del genio da Vinci e poi il celebre autoritratto di Raffaello con un sedicente e alquanto bolso ritratto dell’Urbinate fatto da non meglio noto «pittore di ambito italiano del Seicento».

E ancora affreschi staccati di Botticelli e di Pontormo, raggelati da un contorno di vedute fiorentine di maniera, rigide e scolastiche, per lo più di pittori anonimi ripescate forse da qualche scantinato degli Uffizi dove meglio sarebbe stato che fossero rimaste. Fra una ridda di cestini di frutta e santi smaltati e ceramiche robbiane fra le più pesanti (tanto la ceramica piace ai cinesi?). Al di là di ogni battuta il fatto è che non si scorge nemmeno l’ombra di un pensiero scientifico dietro questa costosa mostra.

Cui prodest far correre i rischi di un così lungo viaggio fino in Cina a opere delicatissime di Botticelli, Michelangelo, Ghirlandaio, Gentile, Leonardo se poi la mostra risulta solo un imbarazzante guazzabuglio di opere d’arte e croste più o meno pittoresche?

da left avvenimenti

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Oltre olo specchio di Venere

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 21, 2012

La ricerca di una vita, la passione per l’arte , gli incontri e gli amori di Diego Velazquez nella prima biografia italiana del grande pittore del Seicento spagnolo, edita da Cavallo di Ferro e firmata da Riccardo De Paolo. Fra storia e romanzo l’avventura di un autore di penetranti ritratti, di opere complesse come Las Meninas e di laici nudi femminili , in un’epoca di roghi feroci

di Simona Maggiorelli

Velazquez, Venere allo specchio (1650)

La narrazione comincia dalla fine: dalla lettera che il pittore Diego Velàzquez, ormai sul letto di morte, invia nel 1660 all’amico Juan de Còrdoba. Lasciando che sulla pagina affiorino memorie di vita, di incontri, di amori ma anche la passione di una intera vita, quella per l’arte («Volevo spingermi nell’arte dove nessuno si era ancora spinto»).

Con quella fierezza di hidalgo che lo caratterizzava fin da giovane, ma soprattutto con la consapevolezza di una esistenza pienamente riuscita, Diego Rodriguez de Silva y Velàzquez, cavaliere dell’Ordine di Santiago, si appresta ad uscire di scena.

«La nostra vita è solo una goccia nel mare del tempo; e non sono così stolto – o privo d’immaginazione – da poter escludere che questo nostro stato non sia soltanto una temporanea finzione. Ricordatene se un giorno, oppresso dai ricordi, o da qualche bicchiere di troppo, ti verrà voglia di piangere», scrive all’amico in questa lettera immaginata da Riccardo De Palo ad incipit de Il ritratto di Venere, la vita segreta di Diego Velàzquez (Cavallo di Ferro), la prima biografia italiana del grande pittore del Seicento spagnolo.

In forma di romanzo, ma puntuale nella ricostruzione storica e soprattutto generosa di approfondimenti sulla poetica, originalissima, di questo autore di penetranti ritratti (basta pensare al suo celebre nano di corte), di opere complesse come Las Meninas e di morbidi nudi femminili come la Venere allo specchio conservata alla National Gallery di Londra: un’opera luminosamente laica in un’epoca di feroci roghi controriformisti.

In questo romanzo storico De Palo ne rintraccia il vero volto nella bella ventenne Marta di cui il già maturo pittore si innamorò perdutamente durante un soggiorno romano. E più indietro nel tempo l’autore ci porta a rintracciare l’origine della calda tavolozza di ocra, rossi e terre tipica di Velàzquez in quella libera e arabizzante Siviglia in cui  era nato nel 1599 e aveva trascorso la giovinezza, «rimirando i fregi intarsiati di quelle che un tempo erano moschee», fra botteghe che vendevano di ogni tipo di mercanzia e strade piene di gente.

Nella cosmopolita Siviglia Velàzquez entrò giovanissimo a bottega del colto Pacheco (di cui sposerà la figlia Juana) assorbendone la lezione improntata al naturalismo fiammingo e, attraverso stampe e riproduzioni, facendo proprio il drammatico chiaro-scuro dei caravaggisti. Poi la decisione di trasferirsi a Madrid, per tentare la carriera a corte, riuscendo a diventare l’artista preferito del re Filippo IV e amico di Rubens da cui il pittore andaluso apprezzava la libertà dai moralismi religiosi e il coraggio nel portare avanti progetti personali e lungimiranti in barba alle meschinerie e alle trame di corte.

Seguendone le orme, ricostruisce Riccardo De Palo, Velàzquez ebbe incarichi ufficiali per acquistare all’estero opere per la collezione imperiale. Ma divenne anche testimone privilegiato del Siglo de oro, frequentando Francisco de Quevedo, Luis de Gòngora, Calderòn de la Barca, Lope de Vega e altri importanti intellettuali del tempo. Avendo anche la possibilità di un diretto  confronto con i maestri dell’arte italiana, grazie a una serie di viaggi nella penisola dove poté studiare le opere di Michelangelo, di Raffaello, di Tiziano, di Veronese e di Tintoretto.

Il suo fiammeggiante Innocenzo X  resta un debito aperto con quel Tiziano di cui a Venezia ebbe modo di apprezzare la grande libertà creativa e  la rappresentazione dell’umano piena e immanente. A tutto questo, specie nella ritrattistica, Velàzquez seppe aggiungere una straordinaria capacità di cogliere in un guizzo, in un’espressione, in una smorfia imprevista, ciò che più profondamente si agita nell’animo umano, raccontandone i tormenti interiori, riuscendo a fermare la realtà vibrante sotto il suo pennello.

da left-avvenimenti

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Tintoretto, il teatro delle passioni

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 23, 2012

Tintoretto, autoritratto 1548

Artista dal segno inquieto e nervoso, nel secondo Cinquecento aprì una nuova stagione nella pittura emancipata dal razionalismo della propspettiva rinascimentale. Una importante antologica ne ripercorre l’opera alle Scuderie del Quirinale. Colmando una lacuna. Basta dire che l’ultima mostra di Tintoretto in Italia  risale al 1937

di Simona Maggiorelli

Bellezza, esattezza, armonia non abitano più qui. Nell’ultimo scorcio di Cinquecento è finita la stagione della aurea classicità raffaellesca.

Lo splendore del colorismo veneto, sotto il vento rigido della Riforma, già si smorza in una tavolozza terrea e austera. Mentre i sensuali impasti di colore e la pagana celebrazione delle forme femminili, nell’ultimo intenso atto dell’arte di Tiziano, lasciano il posto a inquieti notturni

Anche attraverso le maglie strette della fiera indipendenza veneziana, ora che la Serenissima ha perso il primato di porta d’Oriente e di regina del mare, comincia a filtrare tetra l’ombra della Controriforma spalleggiata dal dominio spagnolo.

Così dai vasti orizzonti e dai paesaggi lirici di Bellini, Giorgione e Tiziano (di cui ora racconta la mostra Tiziano e la nascita del paesaggio moderno in Palazzo Reale a Milano) quasi d’un tratto si precipitin una catacomba, in quell’antro oscuro e misterioso dove Tintoretto accende la scena del Ritrovamento del corpo di San Marco. Sotto una fuga di archi appena rischiarati dalle torce, nella tensione che segna i gesti nervosi e concitati dei protagonisti di quest’opera dipinta nel 1563-64 si compie simbolicamente un radicale passaggio di stile e di visione pittorica: dall’armonia e dalla morbidezza di linee del Rinascimento agli scorci arditi, alle contorsioni e ai drammatici chiaro-scuri di un Manierismo che nell’arte di Jacopo Robusti detto Tintoretto (1519-1594) già precipita nel Barocco.

Tintoretto, Il ritrovaento del corpo di San Marco

Per questo è difficile non dar ragione a Vittorio Sgarbi quando dice che in questa sua importante antologica di Tintoretto che si apre il 25 febbraio alle Scuderie del Quirinale (la prima, in Italia dal 1937!) non poteva mancare quest’opera chiave. Che invece Brera non ha voluto concedere. In compenso però, sfidando l’idea che le opere del Robusti risultino poco comprensibili fuori dal loro originario contesto veneziano, Sgarbi ha organizzato un percorso che comprende una quarantina di dipinti di Tintoretto, punteggiato di veri capolavori.

A cominciare dal visionario Trafugamento del corpo di San Marco fino alla poetica e suggestiva Santa Maria Egiziaca. Un percorso e un lavoro di elaborazione critica ( nel catalogo edito da Skira) da cui emerge con forza l’originalità del segno pittorico di Tintoretto, inquieto, dinamico, libero e fugace nel tratteggiare ciò che è essenziale. In modo ficcante e sintetico senza preoccuparsi delle rifiniture. Ma da questa attesa mostra romana emerge anche il suo essere stato un ritrattista ”spietato” nel cogliere la verità più profonda sui volti. E il suo ardito sperimentare scorci, prospettive inusuali e persino vorticose, come nella luminosa ricreazione della leggenda di San Giorgio e il drago con l’eroe retrocesso sullo sfondo e in primo piano una principessa in fuga che sembra precipitarsi verso di noi, fuori dal quadro.

Tintoretto, il trafugamento del corpo di San Marco

Per non dire poi delle grandi macchine teatrali, dei grandi telieri come il Miracolo dello schiavo dove l’episodio sacro è tramutato in dramma umanissimo mentre il punto di vista dello spettatore è lo stesso  degli astanti assiepati intorno allo schiavo: una straordinaria summa della capacità di Tintoretto di creare scene dinamiche, in movimento, che sembrano accendersi d’un tratto e altrettanto presto svanire.

Un dinamismo che fa sembrare immediatamente ingessate e inerti molte pale di Raffaello e di altri maestri del Rinascimento. Stigmatizzato da Vasari e dai contemporanei come frettolosità, imperizia o addirittura furore fu proprio quel tratto individuale e originalissimo dello stile di Tintoretto, in seguito, ad accendere l’interesse di molte generazioni di pittori. Guadagnandogli la simpatia e l’interesse di El Greco e di Velazquez, dei Romantici e oltre, arrivando fino alle avanguardie della pittura astratta e all’informale. Non è un caso che un pittore tutto sommato poco attento alla tradizione pittorica come Pollock, giovanissimo, studiò a lungo riproduzioni di opere di Tintoretto interessandosi soprattutto a opere tarde come il Paradiso che sembra realizzata quasi soltanto con filamenti di luce. Un uso della luce (e dell’ombra) che l’artista veneziano emancipò completamente dalla prospettiva rinascimentale. Basta pensare al biancheggiare delle quinte architettoniche nel Trafugamento del corpo di San Marco in vivo contrasto con il cadavere del santo che appare immerso nell’ombra, benché sia in primissimo piano. Un uso completamente irrazionale della luce che, come è stato notato, aprì la strada alla rivoluzione di Caravaggio.

Ma profondamente innovativa fu anche la sua concezione dello spazio. Nell’Ultima cena, per esempio, il tavolo posto di sbieco sembra risucchiare lo spettatore verso la profondità della tela. Liberando la spazialità dalla rigida griglia prospettica, Tintoretto inglobava l’ambiente fuori dal quadro cancellando ogni soluzione di continuità fra spazio della rappresentazione e spazio della fruizione dell’opera. Con un’intuizione che sarebbe piaciuta molto a Lucio Fontana. Così come la forma aperta della sua pittura con molti elementi appena accennati e che stimolano  la fantasia dello spettatore.Come tante porte invisibili che chi guarda desidera aprire.

da left-avvenimenti

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Tintoretto e Marietta

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 23, 2012

La scrittrice Mazzucco, autrice dei testi per la retrospettiva Tintoretto  che siapre il 25 febbraio a  Roma, racconta il talento del maestro del tardo Rinascimento e quello di una inaspettata donna pittrice: sua figlia Marietta 

di Simona Maggiorelli

Tintoretto, presentazione di Maria al tempio

Quella bambina che, da sola, ne La presentazione di Maria al tempio (1552-’53) s’inerpica su una scalinata puntata al cielo è l’immagine che molti anni fa colpì la fantasia di Melania Mazzucco. In quella fragile e risoluta bambina la scrittrice vide Marietta, la figlia illegittima di Tintoretto, che sarebbe diventata artista, nascosta in abiti da maschio. Poi da quell’incontro inaspettato sarebbero nati due libri, il romanzo La lunga attesa dell’angelo (Rizzoli) nel 2008 e un anno dopo la ponderosa biografia Jacomo Tintoretto e i suoi figli (Rizzoli). Due testi diversissimi, ma parimenti frutto di una lunga ricerca d’archivio durata una decina di anni. Una ricerca di fatto mai terminata e a cui Mazzucco ha attinto anche per scrivere i testi che accompagnano il visitatore lungo la mostra di Tintoretto a Roma. Ma lasciamo la parola alla scrittrice: «Anni fa, per caso, mi ritrovai fra le mani la prima biografia di Marietta, apparsa nel 1584, quando sia lei che il padre erano vivi e potevano leggerla. E mi sono accorta che già lì si parlava della Tintoretta come artista, ma anche di figlia molto amata. E si sa che a quel tempo dei sentimenti non si parlava, erano sottintesi, o temuti come fonte di disordine, frutto di incantamento e magia. Proseguendo nelle ricerche, mi sono resa conto che Marietta era stata,- come artista, come persona e come leggenda – una creazione, quasi un’invenzione del padre».

Perciò nella storia ci sono state solo poche pittrici?

La storia dell’arte ne ha avute poche perché la pittura era un mestiere e non era previsto né auspicabile che una donna lavorasse. Alle donne era riservato un altro ruolo nella società. Tanto che oggi, con la rivoluzione culturale, politica e sessuale del Novecento ,ci sono tante artiste quanti artisti. Ma va la storia ci insegna che vi sono state più lavoratrici di quante pensiamo. Nella Fraglia dei Pittori di Venezia intorno al 1580 (l’epoca di Marietta) risultavano attive numerose donne capo-bottega. Si trattava per lo più di vedove o di figlie che proseguivano, talvolta con successo, il mestiere di un parente. Spesso, però, si dedicavano a una pittura minore: dipingevano tessuti, maaschere, carte da gioco, illustravano libri. Così il loro nome non è stato tramandato, e il loro ricordo si è perduto.

Non fu così, però, per Marietta.
No, ma non ebbe mai una bottega propria, lavorò in quella di Tintoretto. Del resto Il padre la educò a rifare se stesso: era il destino dei figli d’arte. Il sesso non aveva qui molta importanza: anche il fratello Domenico divenne capo-bottega solo dopo la morte del padre. Non sappiamo quanto Marietta riuscì a emulare il padre e a realizzare opere che lui poteva firmare. Sappiamo solo che sapeva disegnare bene, perché le sue esercitazioni sono sopravvissute. Il caso di Marietta – una pittrice senza opere – non è unico, e testimonia che al grande interesse suscitato dalla sua figura non corrispondeva un’uguale considerazione del suo lavoro. Poco dopo la sua morte i suoi quadri erano già dispersi.

L’arte di Tintoretto, intanto, dopo una lunga eclisse conosce una riscoperta. A partire dalla mostra al Prado del 2007. Sorprendente è stata anche l’esposizione di un trittico di sue opere alla Biennale di Venezia l’anno scorso.

Sono molto felice del rinnovato interesse intorno alla figura di Tintoretto. La scelta della curatrice della Biennale 2011, Bice Curiger, di inserire le sue opere tra quelle d’arte contemporanea, e quella delle Scuderie del Quirinale di dedicargli una personale, dimostrano che i tempi sono maturi per confrontarsi di nuovo con lui. Credo che la ragione del suo “ritorno” sia anche la ragione della sua sottovalutazione precedente. Tintoretto non è un pittore facile: non ha creato icone, o immagini gradevoli come Bellini, Tiziano, Raffaello. E non è stato neanche un pittore maledetto come Caravaggio benché anche lui abbia alimentato una leggenda di ribellione e anticonformismo. Non è catalogabile e sfugge a ogni definizione. La sua arte è insieme brutale e raffinata, artigianale e geniale, immediata e cerebrale, realistica e mistica. Personalmente sono affascinata dalla sua sperimentazione: è un artista che non si acquieta; che si cimenta con ogni genere, linguaggio, stile, e dipinge i suoi fantasmi sulla tela senza un rigido schema prestabilito, inseguendo la sua personale visione. Ma mi colpisce anche che crea pensando all’effetto delle sue immagini su chi guarda e su di sé. Dipinge dunque anche per sé, cosa rara, unica forse nella sua epoca. Crede insomma in un’arte che “muova”, ovvero smuova, commuova, coinvolga. Provoca, lusinga, irrita, comunque non lascia indifferente. Tintoretto si parla e mi parla, Tintoretto mi riguarda.

Da qui muovono i suoi testi per la mostra?

Parola e immagine si sfiorano, talvolta si intrecciano, ma non possono mai spiegarsi a vicenda e non si bastano. E’ la sfida che ogni artista, pittore o scrittore che sia.

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La bellezza incarnata

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 5, 2011

A Forlì una mostra invita a riscoprire Melozzo e i suoi «trovatori del cielo». Studiò a fondo la pittura di Piero della Francesca, umanizzandola

di Simona Maggiorelli

Melozzo da Forlì frammento di affresco

Un incontro di liuti, tamburi, mandolini. Un concerto di armonia di forme e di colori. Che suggerisce allo spettatore un’immagine idealizzata di vita a corte, fra poesia e musica. Non certo un orizzonte sacro e dottrinale che sa di morte.

Tanto che nella sua storia dell’arte italiana del 1913 Adolfo Venturi aveva definito gli angeli di Melozzo da Forlì «trovatori del cielo». Così, con tocco immediato e fresco, evitando l’ombra claustrale ed infida, l’architetto e pittore Melozzo di Giuliano degli Ambrosi (1438- 1494) fa vivere queste sue creature celesti in piena luce, lasciando che un sole radiante riscaldi i suoi quadri.

In pieno Quattrocento, in un’area romagnola ancora artisticamente attardata rispetto a quanto stava accadendo per esempio in Toscana, Melozzo riuscì a voltare i diktat della committenza ecclesiastica a favore di una limpida poetica inneggiante alla vita e all’arte. Distillando un proprio stile originale a partire dallo studio della pittura di Piero della Francesca. Leggendo in profondità l’arte del pittore aretino e umanizzandola. Facendo della bellezza enigmatica e mistica delle Madonne di Piero una bellezza incarnata e presente.

Pier della Francesca madonna Senigallia

Una preziosa summa della pittura di Melozzo è offerta fino al 12 giugno dalla mostra Melozzo da Forlì. L’umana bellezza tra Piero della Francesca e Raffaello (catalogo Silvana editoriale). Una monografica di grande valore scientifico anche perché il direttore dei musei Vaticani Antonio Paolucci, con i curatori Mauro Natale e Davide Benati, è riuscito a ricostruire nei Musei di San Domenico a Forlì una buona parte del complesso programma di pitture che Melozzo realizzò nel 1480 nell’abside della chiesa dei Santi Apostoli: un grande affresco dedicato all’Ascensione di Cristo e tradotto visivamente dal maestro forlivese in una dinamica sequenza di scorci, di punti di vista, di salti, tanto da far sembrare l’insieme una danza. Il colpo d’occhio finale, per quanto frammentario (l’affresco fu ridotto in 14 frammenti nel 1711) lascia l’impressione di una affascinante macchina teatrale, precorritrice delle invenzioni visive di Correggio e di Veronese. Ma l’aver radunato a Forlì una dozzina di dipinti di Melozzo non è l’unico merito di questa mostra che squaderna una sessantina di opere di altri artisti di area romagnola, ricostruendo così quella temperie culturale in cui poi si sarebbe formato Raffaello. Ma non solo. In mostra a Forlì s’incontra anche un capolavoro da poco restaurato come la Madonna Senigallia di Piero della Francesca (che Melozzo aveva conosciuto tra il 1465 e il 1475 a Urbino). Proprio nella colta corte urbinate, come ci ricordano i curatori, l’artista conobbe anche la pittura di fiamminghi e spagnoli come Giusto de Gand e Pedro Berruguete e approfondì quegli studi sulla prospettiva che, tra il 1475 il 1484, gli avrebbero permesso di conquistare la fiducia papale.

da left-avvenimenti 2011

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L’Italia nel mito preraffaellita

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 25, 2011

Alla Gnam di Roma a confronto opere di pittori inglesi dell’epoca vittoriana  e i capolavori, da Giotto a Botticelli, da cui trassero linfa

di Simona Maggiorelli

Dante Gabriel Rossetti Venere Verticordia (1866)

Colori chiari, purezza della forma, bellezze muliebri morbide e sensuali. Immerse in un bagno di fiori pre-liberty. Fondendo l’immagine idealizzata della donna stilnovistica con l’immagine delle eroine shakespeariane e romantiche.Così Dante Gabriel Rossetti coltivava in pittura il mito del Belpaese, frutto di frequentazioni letterarie e non di conoscenza diretta (per quanto fosse figlio di un poeta, carbonaro e fuoriuscito abruzzese dei moti napoletani del 1820).

Ma il sole meridiano stregò anche un artista raffinato e grande sperimentatore come il pittore William Turner, uno studioso di arte come John Ruskin ( che si fece mentore dei Preraffaelliti) e tanti poeti romantici , fra i quali anche Browning e Tennyson. Tanto che nell’Inghilterra vittoriana si sviluppò un vero e proprio filone di interessi italianistici e risorgimentali che infuocò le fasce più vivaci dell’intellettualità. In questo milieu, nel 1848, Dante Gabriel Rossetti, con Burne-Jones, con Millais e altri, fondò il movimento dei Preraffaelliti (Pre-Raphaelite Brotherhood) che proponeva il superamento di ogni rigido accademismo attraverso la riscoperta  «della verità del Trecento» (per dirla con Gombrich) e di un Quattrocento inquieto e tormentato.

John W. Waterhouse, la Sirena

Nel segno di Giotto, di Gentile da Fabriano e dei coevi maestri del paesaggismo veneto. Ma anche nel segno aspro e verace di Crivelli e Carpaccio e in quello fragile e altero di Botticelli. Riportando in primo piano la pittura italiana precedente all’armonioso Rinascimento di Raffaello che tutto leviga e ricompone. Al sogno ribelle e carbonaro di questo singolare movimento artistico uscito dalle nebbie di un secondo Ottocento inglese puritano e bacchettone, la Galleria nazionale di arte moderna (Gnam) dal 24 febbraio al 12 giugno dedica la mostra Dante Gabriel Rossetti, Edward Burne-Jones e il mito dell’Italia in cui, attraverso un percorso di un centinaio di opere, sono messe a confronto diretto le opere oniriche ed estetizzanti dei Preraffaelliti e i capolavori italiani che le ispirarono. «La mostra che proponiamo – spiega una delle curatrici, Maria Teresa Benedetti nel catalogo Electa – vuole documentare, con scelte probanti, la trasposizione talora arbitraria di elementi chiave della nostra tradizione in area inglese nel corso del XIX secolo».

E se un anno fa l’antologica ravennate I Preraffaelliti e il sogno del Quattrocento italiano ha permesso di vedere per la prima volta in Italia un’ampia selezione di opere di pittura inglese del secondo Ottocento, in questa nuova occasione romana sono approfinditi alcuni rapporti specifici fra Rossetti e  Burne-Jones con Botticelli e Michelangelangelo. Ma non solo. Nella mostra romana firmata da Stefania Frezzotti, Robert Upstone  si ricostruisce la scoperta inglese degli affreschi di Beato Angelico per l’effetto di leggerezza della sua grana rada e luminosa.
E il fatto che  Hunt, Millais, Rossetti e compagn – in fuga  dalla retriva borghesia vittoriana e  dal capitalismo delle  macchine e affascinati dal socialismo umanitario di  William Morris- si lasciarono incantare anche dalle architetture medievali e dal mito delle rovine, come nella mostra alla Ganm ci ricorda attraverso opere come il trittico del 1861 di  Burne-Jones, con l´Annunciazione e Adorazione dei Magi, “una tela ad olio di grandi dimensioni destinata a una chiesa Gothic Revival a Brighton progettata da Carpenter”. L’idealizzazione della vita agreste intanto fa capolino nel ritratto della Nanna di Frederich Leighton. Ma l’attrazione per il medioevo di Dante trova espressione anche nel il ritratto di Beatrice dipinto da Rossetti , alla Ganm al centro di una serie di ritratti in cui Rossetti si divertva a trasfigurare amiche e amanti in dee e figure del mito.

da left-avvenimenti

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