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Archive for ottobre 2010

Gabriela, la voce libera della Romania

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 31, 2010

di Simona Maggiorelli

Gabriela Adamesteanu

Voce tra le più autorevoli della cultura romena contemporanea, la scrittrice, Gabriela Adamesteanu è in questi giorni in Italia per presentare uno dei suoi lavori più importanti, L’incontro, scritto nel 2007 e ora finalmente pubblicato in Italia dall’editore Nottetempo nella traduzione di Roberto Merlo. Al centro del romanzo la vicenda del biologo esule Traian Manu che, diventato cittadino italiano, viene invitato dal regime di Ceausescu a tornare in Romania per tenere delle conferenze. Atterrato all’aeroporto di Bucarest, Manu si troverà davanti un mondo kafkiano, di burocrazia invischiante e di ufficiali spie. Pagina dopo pagina ne L’incontro emerge così il bruciante affresco di un paese ferito a morte dalla dittatura. Una distruzione che anche sul piano culturale Gabriela Adamesteanu ha cercato di contrstare lavorando  con il gruppo dissidente Ngo (Gruppo per il dialogo sociale), nato dopo la rivoluzione del 1989 che ha posto termine alla dittatura di Nicolae Ceausescu. ma anche attraverso il suo impegno di scrittrice e di  caporedattrice del supplemento letterario del quotidiano Bucurestiul Cultural. Abbiamo colto l’occasione della presentazione de L’incontro al Pisa Book festival per conoscerla più da vicino.

Gabriela, in questo libro, il protagonista Manu, fuggito dalla Romania, trova una nuova vita in Italia. C’è un ricordo, per quanto trasfigurato, della storia di suo zio Dinu, celebre archeologo?
Mi sono resa conto negli ultimi tempi che L’incontro spesso dà ai lettori l’impressione di essere molto più autobiografico di quanto in realtà non sia. La storia del romanzo, tuttavia, così come il profilo dei personaggi (Traian Manu, sua moglie la tedesca Christa, il giovane nipote Daniel, gli ufficiali della Securitate che lo sorvegliano e così via), è completamente inventata. D’altra parte, il tema dell’esilio e dell’emigrazione mi è stato suggerito certamente dall’esperienza di mio zio Dinu, archeologo italiano di origine romena, ma anche da quella di grandi scrittori e pensatori romeni dell’esilio, come Ionesco, Eliade e Cioran, nonché  dall’esperienza concreta di amici e conoscenti. Ho letto i documenti originali del tempo per ricreare il linguaggio particolare della Securitate, ma li ho rielaborati e riscritti per incorporarli nella costruzione letteraria. Allo stesso modo sono partita da alcuni dati reali per raccontare una condizione generale umana, quella dell’Ausländer, del meteco, dell’esule, dell’immigrato, attraverso cui sono passati e continuano a passare innumerevoli persone. E poi ho anche voluto raccontare le illusioni di questa condizione, tanto di coloro che partono quanto di coloro che restano. Nonché, certamente, qualcosa della Romania dell’ultimo periodo del totalitarismo e del clima di sospetto e di sfiducia che in quegli anni bui pesava su tutto e tutti.

Nuove voci come quella di Dan Lungu (vedi box, ndr) oppure come quella dell’ esordiente Filip Florian testimoniano un quadro molto vivace della letteratura romena oggi. Quali sono i filoni più interessanti, secondo lei?
In un quadro più generale agli autori da lei citati vorrei ancora aggiungere alcuni nomi importanti, quali Norman Manea, Mircea Cartarescu, Ana Blandiana, Paul Goma, Petru Cimpoesu e Florina Ilis, tutti tradotti anche in italiano e la cui lettura può fornire una buona prospettiva sul complesso quadro della letteratura romena contemporanea. Sono autori che appartengono a generazioni differenti; alcuni vivono in Romania mentre altri appartengono alla generazione dell’esilio. Come lei osserva, la letteratura romena è oggi particolarmente ricca e vivace: le due direzioni più fertili della prosa mi paiono essere quelle illustrate dai romanzi che riflettono la visione del presente delle generazioni più giovani oppure quelli che analizzano criticamente il passato, in particolare l’ esperienza del totalitarismo. Tra i molti nomi di autori interessanti che potrei citare vorrei ricordare ancora quelli di Dumitru Tepeneag, Stefan Agopian, Radu Aldulescu e Razvan Radulescu.

Leggendo nuovi autori già tradotti in italiano può sembrare che uno stile quasi espressionista, una torsione visionaria del racconto che combina crudo realismo e letteratura fantastica sia un main stream nella letteratura romena oggi. E’ davvero così?
La sua caratterizzazione corrisponde a una parte di realtà. La letteratura romena presenta anche, ad esempio, una vena comico-ironica, che nasce soprattutto dalla capacità di osservare con occhi critici una situazione politica perennemente disastrosa. Sulla scia di un maestro ancora di grandissima attualità, il commediografo e narratore Ion Luca Caragiale. Inoltre, ho l’impressione che la letteratura propriamente fantastica sia oggi da noi meno presente, oscurata forse dalla volontà di essere presenti qui e oggi, nella concretezza del presente: il maestro indiscusso di questo genere, comunque, resta senza dubbio Mircea Eliade, studioso e scrittore ben noto anche al pubblico del vostro paese.

L'incontro

Quanto al suo lavoro di giornalista impegnata nella società civile può raccontarci qualcosa dell’ esperienza di Rivista 22, l’unica rivista indipendente della Romania post-decembrista?
Per me, nel periodo in cui ho diretto la Rivista 22 , dal settembre del 1991 al maggio del 2005, a dire il vero il problema principale è stato quello di trovare i mezzi economici necessari a garantire l’ indipendenza della rivista, che ha sempre tenuto un atteggiamento estremamente critico nei confronti delle forze di governo. È esistito un certo supporto dall’opposizione, che però negli anni ’90 da noi cominciava appena a delinearsi. Altrettanto difficile è stato cercare di evitare la “manipolazione”, ovvero riuscire a distinguere chiaramente tra l’interesse della rivista e gli interessi personali dei suoi collaboratori. Alla fine, questi sono stati anche i motivi che mi hanno portato a concludere l’esperienza della direzione di Rivista 22, il che è stato tuttavia anche un bene poiché sono tornata alla letteratura, con i romanzi L’incontro e Provizorat (Provvisorietà, ed. 2010) e con la traduzione dei miei libri precedenti in altre lingue, a partire da Matinée perdue (ed. Gallimard, 2005).

Come è vista l’Italia dalla Romania oggi? E cosa pensa del reato di clandestinità creato in Italia dal governo di centrodestra e delle dure politiche di respingimento degli immigrati che sono in atto?
I Romeni oggi sono fortemente attratti dall’Italia, come dimostrano non solo il grande numero di immigrati che hanno trovato un posto di lavoro in questo paese ma anche il fatto che l’Italia, dopo l’Austria, è la meta turistica più amata dai romeni della middle e upper class. Mi pare evidente che la creazione di un reato di clandestinità rappresenti piuttosto una manovra politica a fini elettorali che non una soluzione reale dei problemi sollevati dal fenomeno migratorio. Certamente quel settore della politica dimentica che anche l’Italia è stato – e si avvia nuovamente ad essere, per quanto ho potuto capire, soprattutto nel caso della fuga dei cervelli – un Paese di emigranti verso paesi dalle condizioni economiche più promettenti, che ha a sua volta dovuto confrontarsi, sul banco degli accusati, con i pericoli della semplificazione e della manipolazione dell’immaginario. Certo, alcuni individui già in rotta con la legge possono aver commesso atti imperdonabili, ma il giudizio chiaramente e giustamente negativo espresso nei loro confronti non deve essere indebitamente esteso a ogni loro connazionale. Di questo è colpevole una politica populista e demagogica nonché certa parte dei media, affamati di sensazionalismo, i quali vanno contro gli interessi stessi dell’Italia dimenticando i vantaggi che molte imprese del vostro Paese hanno tratto dai massicci investimenti in Romania.

LETTERATURA ROMENA. I FAVOLOSI ANNI NOVANTA

Romania primi anni Novanta. Il muro di Berlino è caduto da poco e il regime di Ceausescu è stato abbattuto . In una tranquilla cittadina di montagna, all’interno di un sito archeologico, viene scoperta una fossa comune. A chi appartengono quelle ossa che riemergono dal terreno? E perché le falangi delle loro dita mignole sono sparite? Poliziotti, giornalisti, ex detenuti e politici, cittadini si riuniscono intorno alla fossa sfidandosi a colpi di ipotesi bizzarre e surreali, finché dall’Argentina una squadra di antropologi criminali esperti in desaparecidos è chiamata a esprimere il verdetto finale. Fra indagine storica (di denuncia della violenza di regime) e invenzione, questa storia surreale e crudele è al centro di Dita mignole (Fazi editore) è il romanzo d’esordio del giornalista e scrittore romeno Filip Florian. Nella Romania post-cortina è ambientato invece il nuovo romanzo di Dan Lungu, tradotto in italiano e pubblicato da Manni. Con il titolo Il paradiso delle galline, racconta che sotto le macerie del regime  di Ceausescu è rimasto un paradiso di nome Transizione.. E’ il paradiso dell’irrealtà, sobborgo della storia, dove nulla più accade e tutto si ricorda. Dove gli abitanti di un comune di periferia, in un Paese ex comunista sono come galline che escono al mattino a beccare il mangime e alla sera rientrano nel pollaio. Lungu racconta così come gli eroi del regime di Ceausescu ora vengono considerati zavorra. Operai, pensionati, casalinghe evocono vicende più o meno immaginarie del passato, preparano progetti fantasmagorici per il futuro e intanto bevono vodka e acquavite, ciarlando e baccandosi, stravaccati ai tavoli del trattore stazzonato.

dal quotidiano Terra del 27 ottobre 2010

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Onda romena, la nuova letteratura viene da Bucarest

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 31, 2010

di Simona Maggiorelli

Annamaria Marinca in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni

Annamaria Marinca in una scena del film "4 mesi, 3 settimane, 2 giorni"

“Tsunami rumeno a Cannes” titolavano i giornali all’indomani della Palma d’oro al film 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni del regista Cristi Mungiu, film denuncia sugli aborti clandestini sotto la dittatura di Ceausescu, che benché si proclamasse comunista aveva proibito la contraccezione. E per il regista rivelazione Mungiu qualcuno scomodava epiteti del tipo «Il genio dei Carpazi» risemantizzando un’espressione che il dittatore aveva scelto per sé. Ma se Mungiu, con registi come Catalin Mitulescu, nel 2007, fu salutato come punta di diamante di nuova onda artistica romena, i riflettori sulla scena culturale del Paese rimasero accesi ancora per poco. Varcata la soglia del 2008, la Romania di lì a poco rientrò nel buio più pesto. Almeno agli occhi degli italiani. Purtroppo (ancora oggi) bersagliati e tristemente assuefatti a un’informazione che si occupa di Romania solo per parlare di immigrazione e sicurezza e di criminalità. Con un’unica, inaspettata, eccezione. Il libro del giovane scrittore Andrea Bajani, Se consideri le colpe (Einaudi): un romanzo e, al tempo stesso, uno schietto viaggio inchiesta sugli imprenditori italiani che vanno in Romania per fare soldi sfruttando mano d’opera a basso costo.
Così, mentre sui media italiani – con il pretesto di singoli casi di violenza – ha preso piede una vera e propria campagna di criminalizzazione di un intero popolo, poco o nulla è trapelato su quanto, dopo la fine della dittatura e della censura, di nuovo e di vitale si è mosso sulla scena politica e culturale del Paese. «Di fatto dal 1989 a oggi il volto della Romania è cambiato moltissimo» scrive lo studioso Michail Banciu, nel saggio La letteratura romena di oggi. «Il Paese si è avviato a passi rapidi verso la democrazia e l’editoria post ’89 è andata incontro a una vera e propria esplosione».
E se in primis, dopo la fine della censura, sono stati pubblicati autori proibiti dal regime, come l’avanguardista Tristan Tzara il drammaturgo Eugene Ionesco e il poeta Emil Cioran, (ma anche il pensatore di ultra destra Mircea Eliade) negli ultimi anni le case editrici rumene hanno cominciato a rischiare di più scommettendo su nuovi autori.

Eugene Ionescu

Eugene Ionescu

«Oggi la letteratura che la Romania sta “esportando” è soprattutto quella contemporanea, quella degli scrittori attivi intorno agli anni Ottanta, Novanta e Duemila» spiega Ileana M. Pop, esperta di letteratura rumena, che grazie a un’iniziativa di Zonza editore, cura la prima collana italiana di letteratura rumena contemporanea. «In questo momento storico – prosegue la curatrice – la narrativa rumena sta sgomitando per farsi spazio sulla scena occidentale. Ma ha già avuto qualche piccolo successo all’Est, soprattutto in Ungheria e Polonia dove, per quanto gli autori rumeni non siano certo in cima alle classifiche di vendita, almeno per vicinanza geografica e culturale, i loro titoli penetrano con più facilità».
Ma non si può negare altresì che «anche grazie al successo dei più recenti film del cinema romeno – precisa Ileana Pop – si sia aperta una piccola breccia attraverso la quale lo scambio culturale Europa occidentale-Romania si sta intensificando sempre più. Il pubblico – prosegue Pop – dimostra maggiore interesse per questo Paese latino sperduto ai confini orientali dell’Europa, per la sua storia, la cultura, il modo di essere della sua gente…».
Anche per questo, per rispondere a questa “curiosità” finalmente crescente da parte dei lettori italiani più attenti e sensibili, la casa editrice Zonza, per prima cosa ha cercato di colmare le lacune che riguardano il regime comunista che ha dominato la Romania dal 1945 al 1989, al tempo stesso cercando di ricostruire le ragioni che hanno visto il Paese ridotto in povertà e costretto milioni di rumeni a emigrare all’estero.
Un tentativo di coprire una lacuna avvenuto non solo attraverso la pubblicazione della produzione diarististica e di romanzi a sfondo storico, ma anche attraverso libri più elaborati sul piano letterario e che intrecciano differenti registri.
Fra questi il romanzo Un anno all’inferno della giovane scrittrice Liliana Corobca, in cui l’autrice si cala nell’universo di una giovane donna, con il sogno di una laurea e di una vita libera. Una ragazza normale, come tante che, una volta all’estero, vedrà naufragare tragicamente i suoi progetti, fino a essere costretta a prostituirsi. Nel racconto Sonia – questo il nome della giovane protagonista – lotta disperatamente per resistere alla violenza maschile e all’annullamento della sua identità di donna.

Lo scrittore Dan Lungu

Lo scrittore Dan Lungu

Ma interessante sul piano letterario è anche l’indagine che lo scrittore e sociologo Dan Lungu (autore appena quarantenne fra i più tradotti all’estero) compie nel romanzo Sono una vecchia comunista!: ovvero una ironica e ficcante indagine sui meccanismi psicologici della cosiddetta “ostalgia” , una forma di nostalgia regressiva per il regime di Ceausescu che – racconta Lungu – si vede affiorare oggi in persone anziane, che hanno trascorso la maggior parte della loro vita sotto il comunismo. Giovedì 14 maggio Lungu incontrerà il pubblico per parlare di questo suo nuovo libro al Lingotto, nell’ambito della Fiera del libro di Torino.
Proprio in questa occasione Zonza editori presenta ufficialmente la collana Le vie dell’Est, che, dopo l’uscita dei libri di Corobca e Lungu, presto si arricchirà di un testo della giovanissima Ana Maria Sandu «sulla dura tematica dell’aborto ai tempi del comunismo» ma anche dell’ultimo romanzo del veterano Dumitru Tepeneag, scrittore ormai ottantenne molto conosciuto in Francia, sua patria adottiva, che nel libro La belle Roumaine (uscito in Francia nel 2007) insegue le avventure di una presunta spia romena tra Francia e Germania, in una narrazione avvincente e vagamente noir.

dal quotidiano Terra 6 maggio 2009

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Shakespeare, il teatro delle passioni

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 27, 2010

William Shakespeare non tratteggiò solo maschere e ruoli. «Creò uomini e donne», nella loro viva concretezza. Parola dei maggiori anglisti di oggi, da Harold Bloom, a Paolo Bertinetti  a Nadia Fusini

di Simona Maggiorelli

Shakespeare

Shakespeare non ha inventato semplici ruoli teatrali, ma «ha creato vere e proprie personalità», scriveva Harold Bloom nel 1998, in un saggio dal titolo emblematico Shakespeare, l’invenzione dell’uomo, uscito in Italia per Rizzoli.«La mente del bardo, lungi da riprodurre la natura ha inventato l’uomo, i percorsi e i motivi della sua psiche, scendendo a profondità non comprese nemmeno dagli psicoanalisti», annotava il noto critico americano.A queste conclusioni e (analogamente) dopo molti anni di studi e di frequentazione dei testi shakespeariani, è giunta anche l’anglista Nadia Fusini, docente all’Istituto italiano di scienze umane a Firenze e autrice di un’appassionata monografia in cinque atti dedicata alle tragedie shakespeariane, Di vita si muore, uscita il mese scorso per Mondadori.

Fussli, A Midnight summer dream

In questo suo nuovo lavoro la studiosa romana ci regala un ritratto articolato e complesso del grande bardo, «genio drammatico», capace di indagare a fondo la realtà umana, di rappresentare gli uomini e le donne nelle loro viva concretezza. E oltre. Già nel Settecento, del resto, Samuel Johnson parlava di Shakespeare come del «poeta della natura», intendendo – ricostruisce Nadia Fusini – per natura «la natura umana». A lui, secondo Johnson, si deve «l’invenzione dell’umano». Proprio perché inventore non di personaggi ma di uomini e donne, soggetti di passioni, di emozioni. Così ecco le dinamiche di una gelosia che arriva al delirio in Otello, le allucinazioni di Macbeth e la distruzione di Ofelia a opera di Amleto che la farà impazzire. Ma ecco anche la fiducia di Miranda e la sua scoperta del maschile, l’altro da sé, e la ribellione furibonda di Caterina agli ideali della donna obbediente e silenziosa. Infischiandosene delle rigide unità di luogo, di tempo e di azione di tradizione aristotelica, Shakespeare seppe regalare tridimensionalità alle sue creature, descrivendone la vita interiore, il “movimento psichico”. Nella terza decade del Cinquecento e fin quasi alla morte nel 1616, attraverso il suo teatro seppe farsi interprete di quei fermenti culturali e di quell’apertura al nuovo che percorreva sotterraneamente l’Inghilterra protestante. Traducendo le scoperte del sapere e l’ampliamento degli orizzonti geografici in una nuova “spazialità” interiore. Ma chi era veramente Shakespeare che anche sul palcoscenico della vita fu maestro di giochi di maschere, inganni sapienti, falsi nomi? (Al punto da rendere quasi impossibile il lavoro dei filologi alle prese con la storia delle successive edizioni del corpus sahakespeariano e dei suoi infiniti rimaneggiamenti). «Poche è incerte sono le notizie – ci ricorda Fusini – sappiamo che nacque nel 1564 a Stratford dove nel 1682 si sposò con Anne Hathaway e che morì nel 1616». Curiosamente lo stesso giorno e lo stesso anno di un altro gigante della letteratura, Miguel de Cervantes. A differenza di Ben Jonson e di altri grandi scrittori del suo tempo, Shakespeare fu molto parco nel parlare di sé e della propria quotidianità. «Di fatto – scrive la studiosa – sembrava vivere in due mondi: quello di ogni  giorno, concreto, effimero, estroverso, teatrale e quello delle ombre e dell’immaginazione». Un rapporto, quello con la scrittura teatrale e poetica, che fu per lui la passione di un’intera vita. Anche se poi «proprio lui che aveva scritto come un forsennato dramma dopo dramma, a un certo punto, come Prospero nella Tempesta, spezzò la bacchetta magica e si ritirò». Ciò che ci resta però sono le sue opere, stratificate, polisemiche, come il suo prodigioso inglese. Perciò, come ci suggerisce Di vita si muore, potremmo risolvere così la vexata quaestio della sua identità: «Shakespeare non esiste, esistono le sue opere».

UNA RIDDA DI SCOPERTE

Come il suo teatro pieno di fantasia e di inaspettate scoperte, anche il corpus delle sue opere, nei secoli, ha conosciuto continue trasformazioni e inaspettate rinascite. A opera degli attori-interpreti ma anche di copisti ed editori. Solo per fare qualche esempio. Così al corpus dei testi autografi di Shakespeare, la prestigiosa casa editrice Arden di Londra ha aggiunto nel marzo scorso una nuova, rocambolesca, commedia di tresche amorose dal titolo, Double falsehood; un testo scoperto trecento anni fa e a lungo attribuito a John Fletcher, giovane collaboratore del bardo durante i suoi ultimi anni di attività. Con il titolo Doppia menzogna ovvero gli amanti afflitti questa «Tragicommedia romantica» (come l’ha definita Roberto Bertinetti) esce ora, finalmente anche in italiano grazie all’editore Fazi.

E mentre un altro autorevole anglista, Paolo Bertinetti fa uscire per Einaudi una English literature. A short history in cui fa palesemente di Shakespeare l’asse fondante di tutta la letteratura inglese dalle origini a oggi, in Italia fioriscono studi originali e interessanti anche fuori dal mondo accademico in senso stretto. è il caso, per esempio, della brillante indagine L’immagine femminile in Shakespeare (Terre sommerse) del giovane studioso Paolo Randazzo. A partire da un puntuale studio delle fonti shakeasperiane, Randazzo fa emergere con quanta e tale originalità Shakespeare lesse e rielaborò i suoi precedenti. Ma soprattutto questo libro mette bene in luce la profondità di indagine psicologica shakespeariana, arrivando perfino a tratteggiare con precisione da clinico alcune patologie mentali.

da left-avvenimenti

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Nadia Fusini: Shakespeare inventò una nuova lingua

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 26, 2010

Nelle sue tragedie e ancor più nelle commedie Shakespeare ribaltò con ironia l’immagine femminile angelicata. «Non più figura inerte ma soggetto attivo del proprio desiderio». A colloquio con Nadia Fusini,  studiosa e traduttrice del grande bardo

di Simona Maggiorelli

Macbeth di Shakespeare, dipinto da Sargent

Professoressa Fusini, il genio  Shakespeare nasce anche da un cambio di orizzonti culturali?
Il momento shakespeariano fu una congiuntura straordinaria e complessa: di crisi politica (la regina Elisabetta moriva senza eredi) ma al contempo di apertura di orizzonti legata ai viaggi transoceanici e a “scoperte” di nuove terre. Alla fine del Cinquecento Londra era una metropoli, con mille razze e mille lingue. Un clima elettrizzante. In quella koiné Shakespeare inventò una lingua estremamente mobile, varia, espressiva. Fu un periodo pieno di vitalità e insieme di ansie, di paure di qualcosa di apocalittico, mentre il nuovo stava emergendo.

La teologia, lei scrive, non era più vista come la scienza dominante nell’Inghilterra protestante di William Shakespeare.
C’è un nuovo sapere che si afferma, un sapere dell’uomo. La domanda che più volte torna in Shakespeare è proprio: che cos’è l’uomo? Si comincia a non cercare più la risposta nella teologia cristiana. C’è un nuovo sguardo. S’intuisce che bisogna scoprire l’umano nel rapporto con la natura e nelle relazioni con gli altri esseri umani. Anche gli studi di medicina contribuirono a riportare la “creatura” a terra.

Shakespeare filosofo? Come scrive Colin McGinn in un libro uscito due anni fa per Fazi?
Shakespeare non è un filosofo. Semmai è un poeta filosofo, comediceva T.S.Eliot, perché è uno che lavora con la lingua, che crea immagini. e attraverso le immagini che inventa passano emozioni, passano pensieri. Shakespeare pensa per immagini.

Conobbe il pensiero di Giordano Bruno che fu Oltremanica dal 1582 al 1585?
Un contatto indiretto ci fu. Shakespeare della sua epoca coglie le idee più vive, fa parte di circoli di persone che discutono nuove ipotesi. Shakespeare non incontrò personalmente Giordano Bruno ma incontrò certi suoi pensieri. E, per quanto fossero diversi anche nella scrittura, lo stesso Bruno per far passare ciò che pensa usa una lingua drammatica.

Come per Bruno, per Shakespeare l’immaginazione è positiva, non una maligna fantasia come invece dicevano invece Hobbes e Spinoza?
Assolutamente sì. Shakespeare sta dal lato bruniano della questione. Al contempo Shakespeare drammatizza la polisemia della parola, che vuol dire anche fiction e finzione. Allora che cos’è la verità? Domande così percorrono e dinamizzano tutti i suoi testi.

La Tempesta di Shakespeare, Miranda

«Dagli occhi delle donne lui impara»,fa dire Shakespeare a un suo personaggio. Le donne sono rappresentate in modo nuovo nelle sue opere?
Shakespeare stigmatizzava con ironia il Dolce Stil Novo. Lasciandosi alle spalle l’idea poetica di una donna “sovrana” da corteggiare ma che il cavaliere non conquisterà mai. Anche in Romeo e Giuletta, per citare la tragedia più romantica, c’è comunque un personaggio come Mercuzio che, a suo modo, prende in giro l’immagine angelicata della donna.

Del resto Shakespeare è anche l’autore de La bisbetica domata, dove Caterina si ribella all’idea della donna obbediente e silenziosa. Come lei stessa ha scritto nel libro I volti dell’amore...
Qui l’idea dell’amore angelicato viene addirittura ribaltata. Io penso che la ricchezza di Shakespeare stia proprio nel mostrare molti punti di vista e, riguardo ai personaggi femminili, molti tipi di donne. Soprattutto nelle commedie sono ragazze molto sveglie e che sanno come conquistare l’amore. In Tutto è bene quel che finisce bene, per esempio, c’è un’ eroina, Elena, che parte per andare a cercare l’uomo che ama e che l’ha rifiutata per banali motivi di classe. E lei riesce a “conquistarlo”. La donna non è più figura inerte, qui è soggetto attivo del proprio desiderio. Ofelia, certo non è così. Ma Shakespeare sa rappresentarla nel momento in cui sboccia; è una bellissima immagine, però, come accennavo, non si iscrive nel Dolce Stil Novo. Anche il fatto che lei impazzisca a causa della freddezza di Amleto rende ancora più drammatica questa figura di fanciulla che si trova vittima di una trama psicologica e politica che la supera. Ma pensi anche a una figura come Cordelia di  Re Lear, è un personaggio femminile che dice quello che pensa, che va alla corte di Francia per difendere il padre. Non possiamo dimenticare un fatto storico, ovvero che fino al 1603 Shakespeare vive in un Paese in cui sul trono c’è una donna. Vive in una cultura misogina ma concretamente c’è comunque Elisabetta, una donna, al comando. Insomma una figura che, per quanto regale, faceva pensare che la donna non fosse necessariamente il sesso debole.

Da ultimo, una domanda a Nadia Fusini traduttrice. Quanto si perde leggendo Shakespeare in italiano?
è il grande sconforto di chi come me prova a tradurre. Io so bene che la lingua in cui trasporto Shakespeare non è assolutamente all’altezza. Non è per fare una boutade ma non è un caso che Shakespeare non sia nato in Italia. L’italiano è una lingua che non credo avrebbe mai potuto partorire un autore come lui. L’italiano è una lingua diversa e non consente quelle arditezze, quelle acrobazie straordinarie. L’inglese di Shakespeare è una lingua molto concreta, onomatopeica, una lingua di suoni aspri, gutturali, è molto difficile tradurla nella nostra lingua, qualcosa necessariamente si perde.

Ma forse nemmeno l’inglese di oggi, molto standardizzato, sarebbe adatto a renderne l’espressività?
L’inglese di oggi è molto più facile da tradurre, perché è molto più povero. L’inglese di Shakespeare ha un vocabolario molto ma molto grande. Attinge da un lato alle radici latine, dall’altra alle radici sassoni, c’è una ricchezza originalissima.

da left-avvenimenti

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Genio, nonostante la pazzia

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 22, 2010

Dall’8 ottobre una mostra al Vittoriano espone settanta opere di  Vincent Van Gogh. In dialogo con tele di Cézanne, di Gauguin, di Pissarro  e di altri impressionisti.

di Simona Maggiorelli

Vincent van Gogh Le tre età dell'uomo

Non solo un evento spettacolare e seducente come lo è, d’impatto, ogni mostra di Vincent van Gogh. Ma anche un’esposizione pensata dalla studiosa Cornelia Homburg per presentare le più recenti acquisizioni negli studi sull’opera di questo rivoluzionario artista. Che a secoli di distanza resta ancora insuperato nella potenza del colore e nella capacità di creare immagini assolutamente nuove a partire dalla rappresentazione di un paesaggio interiorizzato. Vedute en plain air o scorci di interni- ci ricorda la mostra Van Gogh campagna senza tempo, città moderna, dall’8 ottobre al Vittoriano – che nell’opera del pittore olandese, in meno di una decina di anni, diventarono via via sempre più onirici e visionari, pur restando legati a una realtà riconoscibile.

«Un artista non rappresenta le cose come sono, esaminandole freddamente e analiticamente, ma come le sente» annotava Van Gogh nel 1885. Mentre con pennellate materiche e vibranti portava i suoi paesaggi al massimo dell’espressività, regalando a ogni forma un proprio movimento con fasci di linee grafiche che percorrono la tela vorticosamente. Ne sono visibilmente contrassegnati alcuni quadri esposti in questa rassegna romana, come i celebri Cipressi con donne di Saint Rémi (1889) ma anche alcune più aperte e luminose vedute di campagna realizzate in Provenza, al pari di vivaci panoramiche di città che Van Gogh maturò a Parigi a contatto con la prima bohème impressionista. Un gruppo di artisti- da Pissarro a Seurat – di cui seppe cogliere e apprezzare la tavolozza brillante e le novità coloristiche ma al contempo essendo ben consapevole di voler e poter andare oltre.

«L’artista del futuro – scriveva Van Gogh – sarà soprattutto un artista del colore». Ma anche: «Il colore può assumere una funzione e un senso che è indipendente dall’immagine rappresentata». E per raggiungere questi risultati l’artista olandese sapeva bene che la strada da percorrere non era quella dell’estenuante analisi dei meccanismi fisici della visione, come sostenevano gli impressionisti.

Assai più fruttuosa era la lezione che veniva da un pittore romantico come Delacroix o ciò che si poteva ricavare dai colori piatti, del tutto innaturali, delle stampe giapponesi. Nasce proprio all’incrocio fra queste differenti e lontane culture un capolavoro come il Seminatore al tramonto (a Roma nella versione dell’Hammer museum di Los Angeles), opera simbolo di questa monografica al Vittoriano che, riportando Vincent van Gogh a Roma dopo ventidue anni, raccoglie settanta opere autografe accanto a quaranta tele di maestri come Cézanne e di artisti come Gauguin con cui Van Gogh condivise burrascosi momenti di arte e di vita. “Opera manifesto”, questo seminatore, non solo perché faceva incontrare la forza quasi mitologica delle campagne giovanili con i segni di una troppo rapida industrializzazione conosciuta a Parigi. Ma anche per l’innovativa risonanza di timbri e di colori che anima questo quadro: «Un immenso disco color limone come sole. Cielo verde giallo con nubi rosa, il terreno violetto, il seminatore e l’albero blu di prussia», nelle parole che usava lo stesso Van Gogh per raccontarla al fratello via lettera. Il realismo e il tono elegiaco dei contadini alla Millet tanto ammirato negli anni giovanili qui è del tutto sparito. Resta la forza panica della natura e l’epos della povera gente. Intanto la visione ha acquistato potenza e Van Gogh ha raggiunto il pieno possesso dei propri mezzi espressivi. «Nonostante i più vedano Van Gogh come un artista maledetto e guardino alle sue opere come al prodotto stupendo della sua follia – scrive la curatrice Homburg nel catalogo Skira che accompagna la mostra – Van Gogh era invece un uomo di grande cultura e un pensatore raffinato». E aggiunge: «Per quanto spesso tormentato da profondi dubbi in parte originati dalla sua malattia, aveva una percezione chiara della propria opera nel suo insieme e del ruolo che avrebbe avuto nella storia dell’arte». Questa esposizione romana, insomma, ci consegna l’immagine di un artista colto, tutt’altro che naif, che quando la malattia gli dava tregua studiava e ripensava ogni opera, ogni colore, ognuna di quelle pennellate apparentemente incontrollate, finché non raggiungeva ciò che voleva: una vividezza abbagliante, capace di toccare il cuore dello spettatore.

IL LIBRO.Le memorie ritrovate della sorella Elisabeth

I rapporti di Vincent van Gogh (1853-1890) con la famiglia furono sempre durissimi. Lui stesso scriveva di essere fuggito da casa anche per l’odio a pelle che sentiva da parte dei genitori che lo consideravano un «cane selvaggio e pieno di pulci» per la sua mancanza di rispetto delle regole di “buona educazione”, cristiana e borghese.Formalmente le cose andavano meglio con il fratello minore, Theo. Fu lui a sostenere l’artista economicamente nei momenti più bui. Ma dalla monumentale edizione completa delle lettere di Vincent Van Gogh uscita di recente (colmando molte lacune), la figura di Theo emerge ora con più chiarezza come quella di un mercante d’arte dalla mentalità  ottusa, convinto che Vincent fosse un fallito, tanto da raccomandargli di correggere quelle deformazioni oniriche che regalava ai suoi ritratti, stigmatizzandole come «errori di prospettiva». In tutt’altra direzione vanno invece le pagine su Vincent scritte dalla sorella Elisabeth, presenza silenziosa e schiva nella vita del pittore. Molti anni dopo quel tragico 1890 si decise a pubblicare un libro di ricordi che ora Federica Ammiraglio pubblica per i tipi di Skira. Con il titolo Vincent, mio fratello è in libreria dal 6 ottobre, restituendoci l’immagine di un artista che si dedicava allo studio con ferrea disciplina,  cercando di apprendere quelle tecniche che gli avrebbero permesso di esprimere la sua originale visione. In quegli anni, scrive Elisabeth, «il suo genio, ancora sopito, continuava a farsi strada inconsciamente. Lavorava a modo suo: era un osservatore sempre attento e una volta che si mise a dipingere, i risultati arrivarono velocemente. Non deve sorprendere che in dieci anni egli abbia realizzato più di quanto altri non abbiano fatto in una vita. Quelli che hanno scritto su di lui se ne sono meravigliati – nota Elisabeth -. Non sono stati in grado di comprendere tutto il lavorio che aveva preceduto l’esplosione della sua arte».  Restituendoci  un ritratto di Van Gogh più assai più autentico ( e curiosamente in sintonia con i più recenti  risultati negli studi ) di quelloche entrato nella storia dell’arte attraversoo pato-biografie come Van Gogh genio e follia di Karl Jaspers.
s.m.

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Chiesa e pedofilia. L’analisi culturale che mancava

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 19, 2010

Dopo decenni di silenzi e nonostante l’omertà delle gerarchie ecclesiastiche, è esploso in tutta la sua virulenza lo scandalo della pedofilia nel clero cattolico. Centinaia di migliaia di vittime accertate in tutto il mondo testimoniano un fenomeno dalle dimensioni inquietanti, paragonabile a uno sterminio. Un crimine, quello degli abusi del clero sui bambini che non ci fa trascurare il fatto che le violenze pedofile avvengono spesso nell’ambito della cerchia familiare. Senza dimenticare qui anche la dimensione internazionale che hanno assunto il cosiddetto “turismo sessuale” e la pedopornografia on-line. Reati disumani che a loro volta alimentano altri reati disumani, a cominciare dalla tratta dei minori. Che non risparmia nessuna popolazione nel globo. Ma riguardo al fenomeno pedofilia nella Chiesa si segnala un fatto nuovo: dal modo in cui i media stranieri hanno trattato la vicenda della Santa sede, alla reazione dell’opinione pubblica sembra infatti trapelare un nuovo atteggiamento. Che è di totale indignazione. Cosa è cambiato? Per dare una risposta a questa domanda, il libro indaga la storia del pensiero che ha fatto da matrice all’azione e ha garantito l’impunità dei pedofili. Si parte dall’analisi delle radici culturali della pedofilia, un crimine che in Occidente si consuma da 2500 anni sotto la copertura culturale che comincia con Platone, Socrate e Aristotele. Una cultura e un modo di pensare il bambino che segna 20 secoli di cattolicesimo e che nel Novecento ha trovato nuova velenosa linfa in Freud, padre di quell’idea violenta e assolutamente infondata che il bambino abbia già una sessualità. Sino ad arrivare al pensiero, anche sessantottino, per cui in fondo al bimbo piacerebbe essere violentato fisicamente e psichicamente dall’adulto. Lo sosteneva Foucault, proprio negli anni in cui la Chiesa emanava il testo segreto Crimen sollicitationis. E d’accordo con questo pensiero criminale del filosofo francese si sono detti intellettuali e politici, italiani e stranieri. Da Cohn-Bendit fino a Vendola.

Federico Tulli è giornalista professionista, frequenta da anni il settore scientifico. È autore di numerose inchieste sul mercato dei farmaci, sui finanziamenti pubblici alla ricerca scientifica, sulla tratta delle schiave del terzo millennio, solo per citarne alcune. Ha lavorato con diverse testate giornalistiche, tra cui l’agenzia stampa Il Velino. Collaboratore del settimanale Avvenimenti e di Left che ne ha raccolto e rinnovato l’eredità, è redattore del quotidiano Terra.

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Il collezionista di bambine

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 19, 2010

Passato alla storia come libro per l’infanzia, Alice nel paese delle meraviglie era in realtà l’esca con cui il reverendo Dodgson – alias Lewis Carroll – adescava le sue vittime. Lo racconta in un libro la scrittrice e avvocato siciliana che da anni si occupa della difesa di minori

di Simona Maggiorelli

Lewis Carroll Alice Liddell

«Caro Signore, mi è balenato, dopo che ci siamo separati in strada ieri sera, che forse lei è il proprietario di una certa “Ruth Mayhew” che Mrs Arnold e altri amici mi hanno detto che dovrei fotografare. Se così fosse la giornata è di una bellezza così inconsueta che mi arrischio a proporre che lei o Mrs Mayhew la portino qui. Mi capita di avere del tempo libero e sarò in casa alle 2 e un quarto o alle 3, ma più vicini al mezzodì, migliore la luce…». Così il reverendo Charles Lutwidge Dodgson – più noto con lo pseudonimo Lewis Carroll – scriveva in una lettera inviata il 29 novembre del 1878 da Christ Church (il collegio maschile di Oxford dove insegnava matematica) al padre di una bambina che avrebbe voluto come modella. In altre missive chiedeva a genitori compiacenti di poter «prendere in prestito» le loro figlie per portarle nel piccolo mondo a parte del suo laboratorio di fotografia.

Uno studio che si era fatto costruire ad hoc a latere della sua abitazione e che, agli occhi delle piccole ospiti, doveva sembrare una wunderkammer, una camera delle meraviglie zeppa com’era di giocattoli, di bambole semoventi e di bauli di costumi di scena. Qui l’autore di Alice delle meraviglie metteva in atto tutte le sue strategie per arrivare a poter fotografare le bimbe nude in pose da adulte oppure vestite da reginetta, piccola geisha, damina o in altri abiti esotici. Ogni volta promettendo, da uomo a uomo, al pater familias di non andare oltre i limiti pattuiti. Una contrattazione che il reverendo Dodgson faceva per posta con un linguaggio freddamente razionale, mettendo i nomi delle bambine fra virgolette, quasi quei segni grafici fossero asettici guanti bianchi per afferrarle. Poi lo scrittore avrebbe pensato a ricompensare le madri regalando alle figlie copie rare e autografate della sua Alice nel paese delle meraviglie, da ostentare in società.

Fin qui la parte di verità che si può ricostruire attraverso i diari di Dodgson-Carroll e i rari documenti sopravvissuti alla censura operata dal nipote dello scrittore inglese che, alla sua morte nel 1898, si premurò di cestinare le testimonianze più scabrose. Oltre la superficie della storia documentabile di recente si è avventurata, con sensibilità, la scrittrice Simonetta Agnello Hornby, dedicando all’attività di fotografo di Lewis Carroll il libro Camera oscura, pubblicato dall’editore d’arte Skira. Un romanzo breve quanto folgorante nel ricostruire l’uso e l’abuso che si faceva delle bambine nella società vittoriana, puritana e sessuofoba, dove a 13 anni si poteva essere date in sposa a uomini maturi. Ma anche un libro che si segnala per il preciso e inquietante ritratto psicologico del padre di Alice. Che dopo una giovinezza da esteta con brame di scalata sociale, alla morte del padre, tornò all’ordine seguendone le orme, nonostante fra i due ci fosse stato un rapporto difficilissimo.Così il balbuziente reverendo Dodgson, appartato e serissimo a scuola, viveva una doppia vita, frequentando recite per bambini e altri luoghi dove poter incontrare nuove «amichette». Le disillusioni della vita, le amarezze, le incomprensioni che lo avevano spinto a isolarsi quasi completamente diventavano «delizie» quando Carroll poteva puntare il suo obiettivo su un’Alice in carne e ossa, fissando sulla carta fotografica quelli che lui definiva «indicibili momenti trascorsi in amabile intimità». Già il fotografo e studioso d’arte, Brassaï, in un saggio del 1970 aveva raccontato che il reverendo Dodgson era capace di «infiniti maneggi per impadronirsi di una ragazzina. Le spiava nelle strade, nei giardini pubblici, in treno, nelle gare di tiro con l’arco, nelle feste massoniche e, soprattutto, nei teatri londinesi per bambini». «Ligio al suo clan – aggiungeva Brassaï – le sceglieva di preferenza tra le figlie dei suoi “colleghi” a Oxford… quel timido professore di matematica osava le più incredibili audacie per conquistare una nuova ninfetta, sollecitava gli amici per farsi introdurre nella sua famiglia, era capace di ogni sorta di stratagemmi». La sua esca più riuscita, come si accennava, era proprio quel romanzo che nella storia della letteratura non solo inglese è entrato come libro per l’infanzia. E mentre in Inghilterra in contemporanea con l’Alice cinematografica di Tim Burton è uscita la biografia apologetica In the Shadow of the dreamchild di Karoline Leach (tradotta in italiano da Castelvecchi) in cui si sostiene che «Carroll era una persona normale con normalissimi gusti sessuali, socievole e interessato al teatro», sulla strada aperta da Gianna Sarra con il romanzo Il collezionista e la farfalla (Nutrimenti, 2006), Simonetta Agnello Hornby ha il coraggio di affrontare, attraverso il registro della finzione narrativa, la terribile violenza psicologica che Carroll esercitava sulle bambine che finivano nella sua trappola coperta da fini artistici.

Così, in questo ficcante libricino fornito di apparato fotografico e di un’importante sezione di documenti, la scrittrice siciliana che da trent’anni lavora a Londra come avvocato difendendo minori fa precipitare il lettore nella mente malata del reverendo Dodgson, mostrandone, pagina dopo pagina, la fredda lucidità nell’adescare sempre nuove «bambine-amiche», incurante della distruzione che provocava in loro. Usando magistralmente gli strumenti della narrazione per essere il più fedele possibile alla psicologia del suo personaggio, colta per intuizione. Poi rientrando nei panni usuali della donna di legge nell’appendice biografica del libro Agnello Hornby si chiede: Chi era il vero Charles Dodgson? «Come il padre ecclesiastico – ricostruisce la scrittrice a margine del romanzo – Dodgson junior perdeva il senso dell’umorismo dinanzi a innocue allusioni sulla Bibbia». L’inventore di Alice nel paese delle meraviglie era un bigotto, che faceva molta elemosina agli orfanotrofi (sic!), un uomo – aggiunge – che benché dichiarasse al figlioccio di essere un uomo appagato e felice, nei diari rivela un animo mangiato dai sensi di colpa e un corpo esaurito dalle notti insonni, in cui non riusciva a frenare pensieri ossessivi. Insomma – conclude Agnello Hornby- Charles Dodgson – Lewis Carroll era quello che si dice un vero dr Jekyll e mr Hyde».

Intervista a Agnello Hornby: «pedofilia, un crimine inaccettabile»

Da trent’anni come avvocato, la scrittrice siciliana Agnello Hornby è un questi giorni in Italia per partecipare al Festival del diritto di Piacenza e per presentare il suo nuovo romanzo La monaca (in uscita il 29 settembre per Feltrinelli), «un libro – racconta a left – in cui avrei voluto tracciare due storie parallele: su una ragazza islamica costretta al matrimonio e su una ragazza  europea, in particolare siciliana, costretta allo stesso passo. Poi però questa seconda vicenda mi ha preso la mano. La Monaca, potremmo dire, è un libro nato… da un mio errore.
E La camera oscura, come è nato?
Da un lunghissimo lavoro di studio e di ricerca su documenti originali. Benché sia un romanzo breve, mi ha richiesto molto impegno. Tutte le parole che Dodgson-Carroll pronuncia nel libro sono sue, ovvero, sono tratte dai suoi scritti.
Come si spiega la compiacenza dei genitori che in una società vittoriana e puritana, gli affidavano le figlie?
Purtroppo c’era una connivenza, cosciente o meno. Ed ha molte risonanze nel presente. Pensiamo a come è stato coperto lo scandalo pedofilia nella Chiesa. Ma anche al fatto che in un Paese come l’Inghilterra quasi ogni scuola privata registra casi di pedofilia. Da avvocato ho potuto constatare quale distruzione provochi questo crimine su un bambino. Perdipiù l’adulto violenta approfittando di una posizione di potere e di fiducia. E i pedofili vanno proprio a cercare di infilarsi in quelle istituzioni dove sanno che troveranno dei minori. è davvero perverso.

da left-avvenimenti del 4 settembre 2010

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Un altro sano colpo alla legge 40

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 17, 2010

Fonte: ANSA 2010

Il tribunale di Catania ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sulla parte della legge 40 che vieta la fecondazione eterologa, quella con seme o ovuli che arrivano da donatori esteri. Un sentenza che ricalca in parte quando già stabilito con sentenza del tribunale di Firenze due settimane fa. A spiegarlo è stata l’avvocato Marilisa D’Amico, docente di diritto costituzionale all’università di Milano, del collegio di difesa della coppia che ha fatto ricorso. “Non si può discriminare una coppia in ragione del grado di sterilità”: una coppia che non ha ovuli o seme in base alla legge italiana, spiega l’avvocato Marilisa D’Amico che ha seguito il ricorso assieme agli avvocati Costantini, Clara e Papandrea, non può infatti fare uso delle tecniche di fecondazione assistita perché è vietato l’utilizzo di materiale genetico (appunto ovuli o seme) esterni alla coppia. E’ sulla base anche di questa considerazione che è stato presentato il ricorso urgente che ha portato al rinvio della legge 40 all’esame della Corte Costituzionale, per la seconda volta in pochi giorni e sempre sul tema della fecondazione eterologa, caposaldo della legge italiana. “Il tribunale di Catania ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del divieto assoluto di fecondazione eterologa – ha aggiunto il legale – rispetto al principio di eguaglianza, diritto alla saluta e conformità delle norme italiane a quelle europee”. Il ricorso era stato impostato non solo rispetto alla sentenza della Corte Europea che aveva condannato la legge austriaca, simile a quella italiana, ma soprattutto riguardo ai principi costituzionali italiani.

LEGALI COPPIA FIRENZE, MASSIMA SODDISFAZIONE – “Esprimiamo massima soddisfazione perché sulla scia del tribunale di Firenze anche il tribunale di Catania ha sollevato la questione di costituzionalità relativa al divieto di fecondazione eterologa della legge sulla fecondazione assistita”. Così gli avvocati Filomena Gallo e Gianni Baldini – che hanno già seguito il caso della coppia di Torino che ha ottenuto dai giudici di Firenze il rinvio alla Consulta della legge 40 in relazione al divieto di fecondazione eterologa – commentano il secondo rinvio alla Corte Costituzionale sul divieto di eterologa della legge 40/04. “A dispetto delle obiezioni e delle critiche di taluni all’indomani dell’ordinanza fiorentina – afferma Baldini – il tribunale di Catania con analoghe argomentazioni rinvia la legge 40 alla Consulta “. Con l’ordinanza di Firenze, sottolinea inoltre Gallo, anche vice segretario dell’associazione Coscioni, “abbiamo aperto una strada di affermazione giuridica di diritti per coppie che hanno perso irrimediabilmente il loro potenziale riproduttivo; la Corte Costituzionale è chiamata a verificare non solo che siano rispettati i diritti costituzionalmente rilevanti ma anche l’affermazione di diritti riconosciuti dalla Carta Europea dei diritti dell’uomo”.

COSCIONI, ENNESIMA VITTORIA DEL DIRITTO – “Sta accadendo quello che avevamo ampiamente previsto: una legge malfatta, il cui unico intento è quello di vietare e punire, che non ha riscontro con la legislazione europea, che viola i principi costituzionali e le elementari norme del buon senso e non regge al peso delle sue stesse contraddizioni”. Maria Antonietta Farina Coscioni, deputata radicale e co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, saluta come “un’importante vittoria del diritto e delle ragioni dell’umanità” la decisione del tribunale di Catania. “Ora attendiamo fiduciosi il pronunciamento della Corte Costituzionale – aggiunge Coscioni – E’ però evidente che la risposta ‘politica’ a una questione aperta non può che venire dalla politica stessa. In Parlamento ci sono, sia nell’ambito del centro-sinistra che del centro-destra, forze autenticamente liberali e laiche e non asservite a logiche clericali. E’ a loro – conclude – che rivolgo un appello perché questa legge medioevale e assurda sia modificata”.

ROCCELLA, PROSEGUE ATTACCO IDEOLOGICO – “E’ evidente che prosegue l’attacco ideologico alla legge sulla procreazione assistita che invece ha già resistito perché è stata sostanzialmente confermata dalla pronuncia della Corte Costituzionale del 2009 e ha ormai dimostrato di dare buoni risultati”. Così il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, commenta a margine di un convegno il nuovo rinvio alla Corte Costituzionale della LEgge 40 da parte del Tribunale di Catania. Roccella si è detta comunque “fiduciosa” rispetto alla nuova pronuncia che dovrà arrivare dalla Suprema corte “che già ha mantenuto l’impianto della legge. La Corte Costituzionale, ha proseguito Roccella, “penso vorrà tener conto delle intenzioni del Legislatore e della volontà popolare visto che la legge è stata confermata dal referendum, che erano quelle di mettere le coppie infertili nella stessa condizione di quelle fertili, non di usare la procreazione medicalmente assistita come forma di procreazione”. La fecondazione eterologa, attualmente proibita dalla legge e punto sul quale la coppia di Catania ha fatto ricorso, “provoca – ha sottolineato il Sottosegretario – moltissimi problemi a partire della compravendita degli ovociti, passando per lo sfruttamento delle donne” con le pratiche dell’utero in affitto, oltre a “mettere in discussione il diritto del bambino a conoscere e avere informazioni sui propri genitori biologici che è anche un rischio per la salute”. Non bisogna poi “sottovalutare e considerare le ricadute sociali di alcuni fenomeni come la fecondazione eterologa e vedere la questione solo in termini ideologici e ‘diritti'”. “Questa legge – ha concluso Roccella – è molto saggia e riesce a equilibrare le garanzie dei diversi soggetti coinvolti”.

BIANCHI (UDC), NON DECIDANO I TRIBUNALI – “E’ un paradosso Made in Italy: quando ci sono delle buone leggi, si fa di tutto per scardinarle”. Così Dorina Bianchi, vicepresidente dei senatori Udc e correlatrice della legge 40, la legge sulla procreazione medicalmente assistita, commenta la sentenza del tribunale di Catania. “Se proprio bisogna rivedere la legge – afferma l’esponente centrista – la strada migliore è quella che passa per il Parlamento, non certo per i tribunali. E questo vale soprattutto se si deve decidere sui delicati temi di bioetica”.

Ansa 22 ottobre 2010

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Vargas Llosa, un Nobel al Sudamerica liberale

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 9, 2010

di Simona Maggiorelli

 

Mario Vargas Llosa

 

Nel Sudamerica la letteratura è una presenza concreta nella società, un elemento di stimolo alla riflessione pubblica. Da noi il mito della letteratura è molto importante nella vita pubblica e privata. E mi colpisce che qui da voi, invece, la cultura sia scaduta a livello di intrattenimento. C’è una deriva frivola, preoccupante”: così lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa raccontava della sua idea alta di letteratura a margine del Festival Anteprime, in Versilia, dove pochi mesi fa è stato chiamato per parlare del nuovo libro Il sogno del Celta che uscirà a novembre per Einaudi ( che sta ripubblicando tutta la sua opera, e che racconta la storia del diplomatico britannico David Casement che fu amico di dello scrittore Joseph Conrad.

Scrittore raffinato che ha cercato una propria strada fuori dal solco già tracciato del realismo magico sudamericano, giornalista e polemista, capace di interventi spiazzanti e scomodi, sperimentatore di generi assai diversi – dal noir al teatro, dal romanzo storico al cinema- Mario Vargas Llosa (classe 1936) fin dai suoi primi romanzi ha rivelato una vena di impegno civile nella lotta contro il totalirismo e la violenza, suscitando non di rado reazioni forti. Tanto che La città e i cani, fu bruciato sulla pubblica piazza in Perù. Proseguendo per la propria strada senza lasciarsi intimorire, il liberale Vargas Llosa mise la denuncia dell’autoritarismo al centro di un altro suo capolavoro Conversazione nella cattedrale (1969), ambientato negli otto anni di regime del generale Odría (1948-1956), la dittatura che ha segnato lo scrittore, allora adolescente. E poi ancora coraggiosa satira di denuncia nella Festa del Caprone ,incentrato sugli ultimi giorni di vita di Rafael Leonidas Trujillo Molina, dittatore della Repubblica Dominicana, assassinato nel 1961 da un gruppo di uomini di sua fiducia appoggiati dalla Cia.

Intanto,  nel romanzo Chi ha ucciso Palomino Molero?Vargas Llosa narrava del tenente Silva e della guardia Lituma, un soldatino, ucciso per aver osato corteggiare una giovane bianca e altolocata. La violenza militare, lo strapotere del colonialismo, il machismo sono il filo rosso che lega molti suoi romanzi. Senza dimenticare il tema dell’eros, esplorato non certo nella chiave conformista e prevedibile della letteratura erotica ma in romanzi che descrivono i percorsi mentali tortuosi, se non malati, di una certa alta borghesia peruviana.

L’opera letteraria di Vargas Llosa ha il merito anche di ricuperare voci che raramente troveremo nei manuali di storia, come quella di Flora Tristan, attivista dei diritti delle donne nella Francia del primo Ottocento la cui vicenda scorre in parallelo a quella della fuga del pittore Paul Gaguin verso i mari del Sud nel “Il paradiso è altrove” . La cultura e la storia francese, va detto, hanno sempre giocato un ruolo da protagonista nell’orizzonte di Vargas Llosa che, oggi rivendica di sentirsi ancora vicino a Camus ma non più a Sartre. ” Si potrebbe dire di lui che contribuì con più talento di chiunque altro alla confusione contemporanea. Era troppo cerebrale” ha scritto in Sartre e Camus uscito in Italia nel maggio scorso per Scheiwiller.Aggiungendo poi ” L’invenzione letteraria in Sartre manca di mistero: tutto è sottomesso al governo della ragione”.

Raccogliere le “sfide alla libertà” (come recita il titolo di una sua raccolta di articoli) è sempre stato l’impegno dello scrittore peruviano. Anche se leggendo le motivazioni dell’Accademia di Svezia per l’assegnazione del Nobel per la letteratura a Vargas Llosa ( “ per aver tracciato una cartografia delle strutture del potere e per le sue immagini taglienti della resistenza dell’individuo”) viene da ricordare che questa sua strenua difesa della libertà dell’individuo non è stata sempre senza ombre. Difficile dimenticare, per esempio, il suo attacco a Morales a Chàvez dalle colonne del giornale argentino conservatore la Nación, tacciati, in quanto indios, di ordire governi razzisti contro i bianchi.

E se è da apprezzare la sua condanna della violenza israeliana contro i palestinesi (in Israele e Palestina, Pace o guerra santa, Scheiwiller) che dire del Diario di bordo sulla guerra irachena che Vargas Llosa disse di voler scrivere dal punto di vista degli iracheni? Terminava dicendo: “ la distruzione della dittatura di Saddam Hussein, una delle più crudeli, corrotte e furibonde della storia moderna, era una ragione di per sé sufficiente a giustificare l’intervento Usa”.

dal quotidiano Terra 8 ottobre 2010

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Cercare l’assoluto. La follia di Ingeborg Bachmann

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 8, 2010

di Simona Maggiorelli

Ingeborg Bachmann

Mentre l’editore Einaudi pubblica i versi disperati e splendidi della raccolta Oscurato del poeta Paul Celan, Guanda presenta una biografia di Ingeborg Bachmann scritta da un illustre germanista come Hans Höller. Nel libro La follia dell’assoluto lo studioso dell’università di Salisburgo – che il 18 ottobre presenterà questo suo ultimo lavoro nella biblioteca comunale di Trento – ripercorre tutta l’opera filosofico-letteraria di Ingeborg Bachmann ( Klagenfurt 1926- Roma 1973), leggendola in filigrana con la sua tormentata vicenda esistenziale, segnata dalla guerra, dal maschilismo dell’ambiente intellettuale, ma anche da un corrosivo male di vivere a cui la scrittrice oppose una inesausta ricerca sul linguaggio poetico e letterario.

Una ricerca che, dopo i tentativi giovanili di smascherare la violenza del pensiero di Heidegger, divenne l’assoluto della sua vita, mangiandosi tutto il resto. Al contrario del razionale Malina, protagonista dell’omonimo romanzo pubblicato in Italia da Adelphi, Ingeborg Bachmann aveva lasciato che l’inquietudine scandisse i suoi giorni e i suoi pensieri. Diversamente da molti uomini che aveva incontrato nella vita e sulle pagine dei libri di filosofia, lei si era lasciata contagiare dalla vita, finendo però per abitare soprattutto il dolore.

Poi distillato in versi brucianti, irti di accenti gutturali e insieme capaci di una segreta armonia. Il suo tedesco austriaco, come ricostruisce Höller in questo suo libro, si vestiva di malinconia, con infinite, delicate sfumature. Versi di una bellezza assoluta che Ingeborg Bachmann scriveva nella continua fuga da una città all’altra: Zurigo, Roma, Berlino. E poi di nuovo Roma.

Era il 1965 ed era «la quarta volta che si stabiliva nel suo paese primigenio per un periodo lungo – racconta Höller – questa volta senza la speranza di un nuovo inizio, «perché non si riesce ad andar via da un luogo su cui si è investito così tanto», come scriveva la Bachmann stessa. In lei non c’era più l’entusiasmo della giovane studentessa viennese, anche se ora viveva in una specie di casa-castello vicino a piazza di Spagna, circondata da amici. Ai quali cercava di nascondere i segni di una violenta autodistruzione.

A Roma, Bachmann lavorò intensamente al ciclo Todesarten, che considerava la sua opera più ambiziosa. Continuando a rimandare la consegna del manoscritto all’editore che ormai lo attendeva da anni. Il libro era finalmente finito quel tragico 17 ottobre 1973 quando la scrittrice morì per le ustioni che si era procurata addormentandosi con la sigaretta accesa. Il suoi amici di sempre, fra cui il compositore Hans Werner Henze, l’11 novembre sporsero una denuncia alla Procura di Roma per sospetto omicidio: come era possibile procurarsi ustioni così gravi senza svegliarsi? Ma alcool e farmaci, probabilmente le avevano abbassato la soglia del dolore, dissero i medici. Il caso Bachmann venne archiviato con la dichiarazione che non sussisteva alcuna responsabilità di terzi: «deceduta a seguito di gravi ustioni riportate  accidentalmente». Una coincidenza: «Ma quando ci sono di mezzo le coincidenze deve trattarsi di qualcosa che ha radici molto lontane», come aveva appuntato la scrittrice austriaca.

da left-avvenimenti

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