
Foto di Wim Wenders (Electa)
L’orizzonte sconfinato di Paris Texas, fra il deserto e qualche desolato Motel che evoca i vuoti paesaggi esistenziali dipinti da Edward Hopper.
E poi lo sguardo ipertecnologico che fa impazzire i protagonisti di Fino alla fine del mondo catturandoli in un mondo virtuale, facendoli precipitare in un’altra dimensione, all’apparenza più vera del vero. Oppure, su un versante completamente diverso, pensiamo allo scabro sguardo in bianco e nero, denso di presagi, che si posa su tetti berlinesi trasfigurandoli in un mondo abitato da angeli (Il cielo sopra Berlino).
La macchina da presa di Wenders non si limita a filmare l’oggettività delle cose ma crea immagini e paesaggi a partire dalla realtà. Nel cinema di Wim Wenders, fin dai suoi esordi, s’incontrano e si fondono più linguaggi, dalla videoarte, all’architettura, dalla pittura alla fotografia. Ora un libro dell’architetto e scrittore Carlo Truppi, Vedere i luoghi dell’anima con Wim Wenders (Electa), ne analizza gli intrecci e le inedite alchimie. Confrontando le riflessioni e le memorie dello stesso Wenders con i risultati di una ventina di fotografie realizzate dal cineasta tedesco a margine dei suoi più importanti film: scatti che colpiscono soprattutto per il loro spiccato carattere pittorico, al punto da sembrare veri e propri quadri. Con un appeal di spaesante iperrealismo scorrono davanti ai nostri occhi spazi extraurbani, “terre di nessuno”, come vecchie pompe di benzina in lande californiane semi desertiche oppure scorci metropolitani come i palazzi specchianti di Houston in Texas, cartelloni pubblicitari su muri che si ergono all’improvviso davanti allo spettatore, luccicanti lamiere d’auto in vertiginosi incroci stradali…

Wim Wenders in uno scatto di Donata Wenders
Ogni scatto crea un ambiente, un luogo da attraversare emotivamente, un mondo a parte, uno speciale paesaggio interiore. Chi guarda viene attratto in un inedito “cronotopo”, in un originale spazio-tempo, che più che uno spazio fisico è una dimensione mentale, un umore, un modo di sentire. I luoghi ricreati da Wenders con l’obiettivo della macchina fotografica o attraverso l’inquadratura della telecamera contagiano lo spettatore, così come i soggetti rappresentati. Come se ogni spazio urbano, ogni quartiere, ogni forma architettonica formasse una speciale stimmung o una sorta di genius loci che contagia abitanti e viaggiatori di passaggio.
Nelle sue opere, cinematografiche o fotografiche, Wenders rende visibile questo “invisibile”. I luoghi, anche quelli più anonimi o devastati, appaiono decontestualizzati e risemantizzati. Con maestria Wenders esplora quelle affinità fra architettura e cinema di cui aveva parlato, fra i primi, Ejzenstein. Che non a caso, prima di darsi al teatro e al cinema, aveva studiato architettura, come ci ricorda Antonio Somaini in un saggio contenuto nel denso volume a più mani Architettura del Novecento (Einaudi, 2012).
E se per Ejzenstein il cinema era «sintesi e memoria delle arti», per Wenders è in primis spazio pittorico, immagine bidimensionale in cui è visibile un disegno, ma anche spazio tridimensionale, con una sua costruzione architettonica, in cui la luce modella e scolpisce le forme, mente i diversi tipi di inquadratura, la relazione fra campo e fuoricampo e il montaggio contribuiscono a dinamizzare le sequenze di immagini.
( Simona Maggiorelli)
dal settimanale left
Corriere della Sera 8.3.13
Wenders: «Lasciava le attrici libere di essere se stesse. Era l’unico»
«Blow up, per me esordiente, fu un faro. Un vero inno rock»
Pochi registi hanno conosciuto Michelangelo Antonioni ( a cui Ferrara dedica una mostra dal 10 marzo in Palazzo Diamanti) da vicino come Wim Wenders. Insieme hanno realizzato Al di là delle nuvole nel 1995. Una volta Wenders ha detto che Antonioni è stato uno dei primi cineasti moderni, e uno dei primi a lavorare come un pittore. Gli chiediamo di spiegarci questa intuizione.«Antonioni aveva la mente analitica di un architetto; era uno scrittore, un pittore, e sapeva far confluire tutto questo nei film. All’epoca era una novità: di solito i registi venivano dal teatro, dalla fotografia e dalla narrativa. Inoltre, in un mezzo così monopolizzato dagli uomini, aveva il grande dono di vedere le donne e lasciare che fossero più “se stesse” di quanto era successo finora nella storia del cinema. Non dico che le capisse meglio di altri: di certo dava loro una libertà diversa di fronte alla macchina da presa. La sua modernità nasce da tutte queste cose».Che cosa la affascina nelle sue immagini?
«Le sue inquadrature erano più rigorose e controllate di quelle di chiunque altro. Fu il primo a sapere esattamente come utilizzare il CinemaScope. Altri, come Godard, si limitavano a giocarci. C’era stato Fuller, che lo usava con grande efficacia, e il western. Ma un conto è il paesaggio americano e un conto il nostro mondo, le nostre città. E in ciò Michelangelo è stato unico. Tutte le sue inquadrature erano necessarie ed evidenti. Erano un linguaggio, non solo uno strumento».
A quali suoi film è più legato?
«Ho imparato molto da “Blow-up”, che vidi proprio quando iniziavo a studiare cinema. Che film cool, sexy e intelligente! Non potevo credere che ci fossero Jeff Beck e gli Yardbirds che suonavano e spaccavano le chitarre. Un inno al rock’n’roll! Fu travolgente. Ovviamente amo molto “L’avventura”. E poi “Il grido”, “Professione reporter”, l’inquietante “Zabriskie Point”. Ogni volta si vede un regista che racconta una storia ma non ha la ricetta già pronta, e la inventa dalla base».
Anche all’estero si è parlato di «incomunicabilità»?
«È stato il termine-chiave nella ricezione dei suoi film ovunque, forse per mancanza di fantasia da parte dei critici. In ogni caso nella modernità postbellica ci fu un collasso comunicativo, di cui Antonioni fu probabilmente il primo acuto osservatore».
Quando lo conobbe di persona?
«Quando presentò “Identificazione di una donna” a Cannes, nel 1982. Così gentile, modesto e misurato: il contrario di quello che mi aspettavo. Apparì nel mio corto “Room 666”, dove fu molto acuto ed eloquente. Quando seppi dell’ictus, fu molto doloroso. Per anni cercai senza successo di aiutarlo a realizzare “Due telegrammi”, una sceneggiatura che aveva scritto prima dell’ictus. Poi fui contattato dal produttore Stéphane Tchalgadjieff, che mi chiedeva se ero disposto a fare da stand-by director, per motivi di assicurazione, durante le riprese di “Al di là delle nuvole”. Inoltre avrei scritto (con il grande Tonino Guerra) e diretto una storia-cornice attorno alle quattro “storie d’amore impossibile” tratte da “Quel bowling sul Tevere”. Accettai, non appena seppi che era stata un’idea di Michelangelo. Il progetto prese un anno della mia vita, ma fu un periodo memorabile».
Ci racconti della lavorazione di «Al di là delle nuvole».
«Ero sul set dal mattino alla sera, tutti i giorni. Cercavo di aiutare come potevo, “traducendo” i suoi desideri alla troupe. Non era sempre facile, a volte dovevo indovinare. Deve averlo fatto impazzire il fatto che non sempre capivamo che cosa avesse in testa. A volte si metteva un dito sulla fronte, per dire “Siete tutti matti”, e scoppiavamo a ridere. Il fatto che non potesse parlare non gli impedì di fare esattamente il film che voleva».
Come lavorava con gli attori?
«Il rapporto che aveva con le attrici per me rimane un po’ un mistero. Era molto speciale e diverso da quello con tutti gli altri. Ovviamente l’impossibilità di parlare qui diventava nodale e dolorosa. Ma Michelangelo aveva un modo di osservarle, e di accompagnarle con gli occhi durante ogni ripresa (posso assicurare che non aveva la stessa attenzione per gli uomini…), che dava loro molta sicurezza. A volte, finita la scena, rivolgeva loro un piccolo gesto delicato, in cui condensava le sue sensazioni».
Che cosa le manca di Antonioni?
«Quando penso a Michelangelo, rivedo il suo sorriso triste. Erano gli occhi, più che la bocca, a mostrare che sorrideva. Lo vedo che guarda Enrica. Il suo nome era una delle poche parole che riusciva a pronunciare. E vedo una lacrima nei suoi occhi. In quegli ultimi anni, a volte, era molto emozionabile, ma lo si capiva solo dal quel piccolo luccichio. Dava l’impressione di essere una persona dura, ma si commuoveva facilmente per ciò che amava». ( Alberto Pezzotta)
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