Archive for aprile 2009
Posted by Simona Maggiorelli su aprile 30, 2009
Anteprima. Andrea Camilleri sulle tracce di Renoir e della sua bionda modella. Nel suo nuovo romanzo Il cielo rubato lo scrittore siciliano si prende una licenza da Montalbano e dalla scrittura di genere . Dal 6 maggio in libreria
di Simona Maggiorelli

Renoir
«Gentile signora, mi permetta di dirle che considero la sua lettera pervenutami ieri come il più bel regalo…Non solo per il contenuto, ma direi soprattutto per il suo giungermi inaspettata…». Parole quasi affettate, dal sapore vagamente d’antan. Con cui quel grande “contraffattore” di stili che è Andrea Camilleri nel suo nuovo romanzo Il cielo rubato (edito da Skira, in libreria dal 6 maggio) si cala nei panni dell’agrigentino, Mario Riotta: un maturo e colto notaio, che l’incipit del romanzo ci presenta sorpreso e forse già un po’ segretamente sedotto dalla lettera di una sconosciuta di nome Alma Corradi che gli ricorda un suo scritto giovanile, un libello su alcuni aspetti poco noti del viaggio in Italia del pittore Pierre Auguste Renoir. Da giovane appassionato di arte, Riotta aveva scoperto molti anni prima che nella Chiesa di Capistrano, un paesino sui monti di Vibo Valentia, una serie di affreschi rivelava la mano del pittore francese, padre dell’impressionismo. In questo insolito romanzo epistolare – del tutto fuori registro rispetto alla letteratura di genere che ha reso popolare Camilleri – il protagonista racconta così la sua scoperta alla signora Alma: «La mia nonna materna era nata proprio a Capistrano nel 1874, figlia di un muratore. Quindi aveva sette anni quando vi arrivò il Maestro. Nella sua memoria di bambina era rimasta impressa la figura di un pittore francese, che lei chiamava il signor Renuà il quale, visto che gli affreschi della chiesa locale si stavano distruggendo a causa dell’umidità, decise in qualche modo d’arrestarne la rovina definitiva operando una sorta non di restauro ma di rifacimento».
Finzione narrativa o ricostruzione storica? Camilleri nel libro coltiva sapientemente questa ambiguità. E se, fra gli altri, Mario Guarna, attento studioso di storia locale, in un saggio del 2008 edito da Ibiskos ha offerto molte prove a dimostrazione che il rifacimento fu veramente di mano di Renoir, Camilleri, forse intuendo una risultanza dell’opera non proprio alla altezza del maestro, si schermisce: «No, non sono andato a vedere gli affreschi in Calabria, del resto nel romanzo sono un fatto abbastanza marginale. Lo spunto narrativo piuttosto mi è venuto da un racconto del figlio di Pierre-Auguste Renoir: Il regista Jean Renoir scrisse di un viaggio di suo padre ad Agrigento e di un furto che avrebbe subito documentato da una lettera di suo pugno, lettera che per quanto ho studiato non ha riscontri storici. Già tutto questo era di per sé un enigma assai intrigante». Ma al gusto della sciarada che connota la produzione più squisitamente giallistica di Camilleri qui si aggiunge una costruzione letteraria colta, fin dalla forma scelta, quella del romanzo epistolare. «Mi ero un po’ annoiato a correre sempre lungo le due autostrade del romanzo poliziesco e del romanzo storico» accenna, sornione, Andrea Camilleri. E tocca scomodare più di un modello letterario, a partire da Lolita di Nabokov, per riferire qui adeguatamente di questa divertita rilettura da parte di Camilleri del topos della passione – vera o fantasticata – da parte da un uomo di una certa età per una giovane donna. In questo caso la bionda Alma – come scopriremo nel corso della lettura che- ha la bellezza luminosa e carnale della celebre Baigneuse blonde (1881) di Reinor e, fin dal nome, intriga il lettore in un gioco di specchi con Aline Chavirot la modella, amante e compagna di Renoir che il pittore ritrasse quasi ossessivamente. Nelle sue lettere Alma farà di tutto per evocare l’immagine di Aline nella mente del maturo notaio. E il climax del rapporto fra i due, in una ridda di riferimenti iconografici veri e falsi (compreso un finto ritratto di Guttuso che Alma spedisce in foto al già arreso Riotta) presenterà non poche sorprese. Come del resto spiazzante è lo stile e il linguaggio che qui Camilleri squaderna, senza il ricorso all’icastico siciliano dei suoi lavori più noti. Lo scrittore che in passato si è divertito a imitare lo stile barocco spagnolesco alla Manzoni e perfino la prosa di Boccaccio qui opta per una lingua apparentemente normalizzata, ridotta al grado zero, lasciando che la luminosità gioiosa, la pennellata morbida e la sensualità delle figure femminili di Renoir diventino l’impasto stesso dell’intera narrazione. «Le immagini pittoriche sono state un elemento fondante della mia formazione e sono sempre state per me una fonte importante di ispirazione» ci ricorda lo stesso Camilleri, in una pausa del suo lavoro di scrittura, che lo vede impegnato nel suo studio romano ogni giorno, invariabilmente, allo scoccare delle sette e mezzo del mattino. Così tornano in mente certe suggestioni caravaggesche de La storia del colore, ma anche tanti suoi romanzi storici ricchi di riferimenti alla pittura coeva. Ma ne Il cielo rubato Camilleri arriva a fare della pittura la protagonista stessa del romanzo. Puntando per giunta su un pittore più odiato che amato dalla critica moderna. «Mi intriga indagare il lavoro di scrittori e pittori che suscitano passioni forti – confessa Camilleri – ,cerco di scoprire le ragioni dell’amore ma anche quelle dell’odio. E questo in pittura avviene molto di più che non in letteratura. Basta pensare a quanta gente dice di odiare Raffaello».
E riguardo a Renoir, alla fine, a quali conclusioni è giunto? «Che indubbiamente è stato un grandissimo maestro. E non per un quadro in sé. Per capire la pittura occorre fare il possibile per cercare di vedere la mano che sta dietro al quadro. E’ il tipo di pennellata a fare la personalità di un artista. Così come è la scrittura a fare lo scrittore». Ma da questo nuovo romanzo di Camilleri non filtra soltanto il suo intenso rapporto con la storia dell’arte, ma anche quello con il cinema, qui chiamato in causa attraverso Jean Renoir, figlio d’arte e cineasta amatissimo da François Truffaut. «Un film come La grande illusione è un vero manifesto contro la guerra. Molto più di altri film venuti dopo – chiosa Camilleri-. Se fosse proiettato oggi risulterebbe di una modernità strepitosa». Truffaut scriveva che Jean Renoir non filma situazioni, non filma idee ma uomini e donne che hanno idee. «Come regista è stato una figura di artista enorme Camilleri. Nel suo cinema c’è l’impressionismo ma c’è anche e soprattutto il dono del vedere. E lo sguardo – conclude Camilleri – è la cosa più importante per un regista».
dal quotidiano Terra
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Posted by Simona Maggiorelli su aprile 29, 2009
Dopo l’esordio a Firenze, la mostra Nella mente di Leonardo è stata in Giappone , in California e in Ungheria. Dal primo maggio a giugno approda al museo nazionale del Palazzo di Venezia a Roma. Il direttore dell’Istituto e del museo della Scienza di Firenze, Paolo Galluzzi racconta a left come la mostra, nel frattempo, si è arricchita
di Simona Maggiorelli
“Non fare Leonardo a fette. Ma mostrarlo tutto intero. Non puntare l’obiettivo su ciò osservava, quanto cercare di capire come funzionava il suo pensiero” è l’obiettivo
che si è dato il direttore delll’Istituto e del Museo della scienza, Paolo Galluzzi ,nel realizzare la mostra La mente di Leonardo, aperta dal primo maggio al 30 agosto in Palazzo di Venezia a Roma. «La mostra appena approdata nella Capitale – racconta a left il curatore Galluzzi – fra gli autografi di Leonardo presenta tre disegni inediti di Leonardo, appartenenti a una collezione privata e mai prima esposti. Recano testimonianza della scenografia e della macchina teatrale che Leonardo ideò nel 1508, per una messinscena milanese dell’Orfeo di Poliziano. E per la quale Leonardo realizzò una articolata macchina scenica, che riportava in questo mondo Plutone, dio degli inferi. Ma in mostra in Palazzo di Venezia ci sono anche i dipinti che testimoniano l’impegno di Leonardo su il tema della Leda e il cigno, che si legava a un progetto più ampio sull’ibridazione fra uomo animale e sulla sessualità naturalistica. Opere solo in parte autografe, certamente vicine per ispirazione al cartone che Leonardo realizzò a Firenze e poi portò con sé a Milano. Un lavoro che non finì. Come molte altri.
Un tema mitologico pagano , quello della Leda e il cigno, che già ci introduce a un tratto originale di Leonardo, la sua insofferenza verso dio e la teologia, documentati in vari passaggi dei suoi scritti
Leonardo certamente non era vicino alle forme di riflessione tipica del pensiero religioso tradizionale. Aveva una sua religiosità intesa come ammirazione per la natura come come forza fisica esplosiva, ma anche come forza vitale, come carica.
Studiosi come Batkin, come Pedretti e, più di recente, Martin Kemp, nel libro Leonardo. Nella mente del genio (Einaudi)hanno decostruito lo stereotipo romantico dell’artista toscano, come genio isolato. Che ritratto ne emerge dalla mostra?
L’immagine di Leonardo come anticipatore chiuso in se stesso, che come un ragno tesse una tela, senza prendere materiali da fuori, purtroppo, è ancora molto diffusa, a dispetto dell’avanzamento degli studi. Chi va a leggere i manoscritti e confronta le fonti, scopre che Leonardo ha letto molto di più di quanto non si pensasse e che è pieno di debiti nei confronti di contemporanei e predecessori. Ma così facendo si scopre anche che Leonardo legge in maniera creativa. Assorbe e trasforma. Non è mai passivo. Ha sempre una reazione personale interpretativa o polemica nei confronti della tradizione o del contesto. Insomma, che Leonardo vada letto nel suo contesto seguendo lo sviluppo cronologico della sua produzione fa parte di paradigmi acquisiti fra studiosi. Ma se in un saggio si riesce bene a dimostrare tutto questo, la cosa difficile è farlo con una mostra dedicata a un pubblico non di soli specialisti. Non per nulla questo tipo di operazione culturale non era mai stata tentata.
Come siete riusciti a far emergere la mentalità non compartimentizzata di Leonardo e la «trasversalità» del suo sapere?
Non dedicando sezioni separate a pittura, architettura, ingegneria eccetera, ma cercando lungo il percorso espositivo di attivare una visione multipla: dietro a ogni brano di pittura di Leonardo, per esempio, c’è l’anatomia, lo studio della natura, l’ottica. Leonardo non le separa minimamente. Se disegna un cavallo Leonardo istintivamente fa in modo che il suo centro di gravità cada nel punto previsto dalle leggi di meccanica e di statica. Non lo disegna in maniera solo fantasiosa. La mostra sottolinea queste trame sottese al suo lavoro. Di fatto l’esposizione è una provocazione rispetto al consumo popolare delle mostre di Leonardo, rispetto ai modellini che si vedono nei piccolimusei leonardeschi. E’ una sfida a questo tipo di banalizzazione, che ha la sua logica nel turismo di massa, nella fretta con cui si consumano gli eventi. E’ il tentativo di restituire dignità a Leonardo, una dignità offesa.
In controtendenza con questo tipo di operazioni “ in stile Disneyland” nella mostra La mente di Leonardo lei è riuscito a dar conto anche degli ultimi studi sullo sfumato leonardesco. In che modo?
Un’ampia parte della mostra è dedicata al Libro della pittura. Di fatto è un libro di scienza con dimostrazioni e esperimenti. Da qui emerge l’importanza che l’ombra ha per Leonardo. Scrive proprio che l’ombra «è di maggiore potenzia del lume». Senza la gestione dell’ombra non c’è rilievo. È l’ombra che dà l’effetto di tridimensionalità sulla tela. Ma l’ombra è figlia dell’ottica, è la conseguenza della geometria; ha a che fare con la riflessione della luce, con la ricerca scientifica. Poi se ne potrà fare un uso artistico.
Malgrado Leonardo rivendicasse il primato dell’esperienza, il suo sguardo non appare mai “positivistico”.
Leonardo è un artista che si pone come traguardo di riuscire a rappresentare perfettamente la natura. Per questo la studia. E se non fosse diventato uno “scienziato” non avrebbe potuto fare bene il mestiere dell’artista. Viceversa i suoi studi scientifici – anche quando lo trascinano lontanissimo, affascinato dalle piste che scopre- sono sempre concepiti come strumento per la rappresentazione artistica. Questa sua ossessione di comprendere i meccanismi della natura diventò via via sempre più febbrile, tanto che lui non finiva mai i suoi lavori. Si può sempre fare meglio nell’osservazione della natura. Quindi l’opera rimane sempre imperfetta, necessariamente incompiuta.
Resta anche nel non finito una sua straordinaria capacità di rappresentare l’invisibile, i moti dell’animo, gli affetti. Basta pensare allo sguardo di Sant’Anna nel celebre cartone conservato a Londra.
L’essere umano è al centro dell’opera di Leonardo, che si interessa anche di fisiognomica e di patognomica. In mostra si racconta il suo interesse per i moti dell’animo, parlando dell’Ultima cena affrescata in Santa Maria delle Grazie (1945- 1948 ndr). Ne è l’espressione più alta e intensa. Leonardo qui mette al centro l’invisibile, ciò che può essere letto solo dall’espressione dei volti, dalla gestualità esterna, la quale però traduce in modo indiretto ciò che muove i personaggi interiormente. Il Cenacolo è il teatro delle emozioni in senso proprio . La cura con cui Leonardo prepara questa straordinaria pittura muraria abbiamo cercato di raccontarla in mostra attraverso il linguaggio del cinema, del teatro, della multimedialità.
È curioso che nelle migliaia di fogli che Leonardo ha lasciato non ci sia un accenno al fatto che il Cenacolo aveva già cominciato a disgregarsi quando lui era in vita. Lo stesso vale per la Battaglia di Anghiari che presto svanì dalle pareti di Palazzo della Signoria, a Firenze
Leonardo era un tipo molto particolare, probabilmente rimuove questi insuccessi, ma non possiamo affermarlo, non abbiamo documenti. Certo è che il Cenacolo gli costò molto di preparazione. Lui non era un pittore intuitivo, preparava le opere con un grande scrupolo. Compresa la Battaglia di Anghiari. Ma Leonardo è un uomo di successo, viene chiamato a Milano e ha una giustificazione anche con sé stesso per abbandonare Anghiari e dedicarsi ad altre cose.
Lei scrisse anni fa nel catalogo Giunti che accompagnava la prima edizione della mostra che Leonardo come scienziato non ebbe influenza sui secoli seguenti perché i suoi manoscritti per molti secoli furono dimenticati e dispersi. Oggi è ancora di quell’avviso?
Il giudizio credo vada bilanciato. Leonardo ha avuto una serie di grandi intuizioni. Nella sua maturità intuì che per capire molte di quelle attività che oggi chiamiamo scienza occorre la matematica, la geometria; è necessario introdurre dei modelli. Che in gran parte riprese da Archimede a Euclide. Fu un pioniere in questo. Ha poi avuto un ruolo molto importante nell’ottica e ha praticato con cura l’anatomia. Arrivando a vedere dei fenomeni che solo un secolo e mezzo più tardi si potranno capire. Ma la ragione per cui queste sue acquisizioni non furono riprese non dipese solo dalla dispersione dei manoscritti, ma anche dal modo in cui erano concepiti. Ragiona per frammenti. Leonardo morde e fugge. Tocca un argomento e subito lo abbandona per parlare di altro. Nello sforzo di comprensione delle cose, la sua mente non segue sempre un procedimento lineare, procede per intuizioni. Nei suoi scritti non ci sono quattro pagine consecutive dedicate a uno stesso argomento e questo tipo di materiale era difficilissimo da usare per i filosofi naturali del suo tempo. Il modello usato da Leonardo era in certo modo quello dei ricettari medievali, ispirati al principio della varietà.
da left-Avvenimenti primo maggio 2009
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Roma, 16:00
LEONARDO DA VINCI: GALLUZZI, SUO PENSIERO PER INTUIZIONI

Leonardo da Vinci , Macchina volante
(AGI-repubblica.it) – Ragiona per frammenti. Morde e fugge. E tocca un argomento e subito lo abbandona per parlare di altro. Nello sforzo di comprensione delle cose, la sua mente non segue sempre un procedimento lineare: procede per intuizioni. Lo dice in un’intervista al settimanale ‘Left’ in edicola e curata da Simona Maggiorelli, il direttore dell’Istituto e del Museo della scienza, Paolo Galluzzi, uno degli artefici della mostra aperta ieri e fino al 30 agosto a Roma, ‘La mente di Leonardo’. Subito viene messo in chiaro l’obiettivo della mostra: “non fare Leonardo a fette. Ma mostrarlo tutto intero – spiega Galluzzi – Non puntare l’obiettivo su cio’ osservava, quanto cercare di capire come funzionava il suo pensiero”. E di Leonardo saranno presentati tre disegni inediti appartenenti ad una collezione privata e mai prima esposti che recano testimonianza della scenografia e della macchina teatrale che ideo’ nel 1508, per una messinscena milanese dell’Orfeo di Poliziano. E per la quale realizzo’ una articolata macchina scenica che riportava Plutone il dio degli inferi in questo mondo. Dipinti che testimoniano l’impegno di Leonardo su il tema della ‘Leda e il cigno’, che si legava a un progetto piu’ ampio sull’ibridazione fra uomo ed animale e sulla sessualita’ naturalistica. “Un tema mitologico pagano, quello della Leda e il cigno, che gia’ ci introduce a un tratto originale di Leonardo – osserva Galluzzi – la sua insofferenza verso dio e la teologia, documentati in vari passaggi dei suoi scritti. Leonardo certamente non era vicino alle forme di riflessione tipica del pensiero religioso tradizionale. Aveva una sua religiosita’ intesa come ammirazione per la natura come come forza fisica esplosiva, ma anche come forza vitale, come carica”. (02 maggio 2009)
http://www.repubblica.it/ultimora/24ore/LEONARDO-DA-VINCI-GALLUZZI-SUO-PENSIERO-PER-INTUIZIONI/news-dettaglio/3659159
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Posted by Simona Maggiorelli su aprile 27, 2009

eva cantarella
di Simona Maggiorelli
Dopo aver guidato il lettore in un viaggio colto e appassionato all’interno della polis raccontandoci come i greci vivevano i rapporti sessuali e le passioni, con il suo nuovo libro, Dammi mille baci (Feltrinelli, dal 23 aprile in libreria), Eva Cantarella ci fa scoprire i lati meno noti della vita dei Romani.
E se in Passato prossimo (Feltrinelli) con personaggi come Tacita Muta aveva messo a fuoco l’assoluto silenzio a cui le donne erano condannate nei primi secoli della romanità, in questo nuovo lavoro racconta come le matrone apparentemente acquisirono nuovi diritti durante gli anni della Repubblica e dell’Impero, guadagnandosi un posto nella sfera pubblica. Ma pagando un prezzo altissimo. «Consapevoli dei premi, dei vantaggi e degli onori che sarebbero derivati loro dall’adempimento dei propri compiti – scrive la studiosa – le donne romane di regola condividevano i ruoli maschili. Esse accettavano, profondamente convinte della sua importanza, la costruzione maschile della loro immagine e del loro ruolo».
Tanto che, riempite di gioielli e onorate pubblicamente come matrone, mogli e madri modello, azzarderemmo, se la passavano perfino peggio delle donne greche, stigmatizzate dal sommo Aristotele come esseri inferiori, irrazionali, incapaci di ragionare. Pienamente sussunte nel modello maschile sulla scena pubblica e violentate in privato da mariti che concepivano solo una «sessualità per stupro» non facendo alcuna differenza fra uomini e donne, purché avessero un ruolo passivo, le donne dell’Urbe ci appaiono catturate in una situazione di annullamento totale della propria immagine e identità. Senza contare che presto sarebbe stato il Cristianesimo a dar loro il colpo finale. «Studiando la condizione femminile a Roma ci si trova davvero di fronte a un quadro agghiacciante – ammette Eva Canterella -. E la cosa ci tocca da vicino perché ha lasciato tracce durevoli e pesanti su di noi. La grande abilità politica dei Romani e la loro astuzia determinò questa situazione. A differenza dei Greci che discriminavano le donne tanto da costringerle a vivere appartate, le Romane stipularono questo tacito patto con gli uomini, che vige ancora oggi, nelle ricompense, nei piccoli vantaggi.
Purché fossero mogli e madri modello…
Solamente se diventavano delle madri modello, mogli o vedove potevano ottenere qualcosa. Quanto alla lunga durata di una certa mentalità mi impressiona quello che si sente dire oggi riguardo alla necessità di aumentare le pene nei casi di stupro. Per carità, aumentino pure gli anni di carcere, ma il punto è che molto spesso i responsabili non vengono nemmeno individuati perché gli stupri avvengono in famiglia. Soprattutto non si ferma con il mero istituto della pena un fatto psicologico culturale di questa portata che ha radici così profonde. Ci vuole veramente una rivoluzione culturale.
Nel saggio Essere diverse contenuto nel libro Donna m’apparve curato da Nicla Vassallo per Codice edizioni lei scrive che la diversità della donna è una teoria elaborata dai Greci.
Sì, ma il fatto è che i filosofi greci elaborano un’idea di differenza che significa inferiorità della donna. E Aristotele, lo sappiamo, ha avuto un peso enorme sulla cultura occidentale. Il suo pensiero ha resistito fino a quando le femministe hanno elaborato una nuova teoria della differenza. Che poi sia riuscita o meno, questo è un altro discorso. Ma non c’è dubbio che fino a quel momento la “differenza” è stata solo una sciagura per le donne.
Fra i Romani, come fra i Greci, l’omosessualità era pratica comune. Ma quello che più colpisce è che per i primi essere uomini voleva dire avere un ruolo sessualmente attivo. Poco importava se poi il partner era una donna o un uomo.
Questo accadeva anche in Grecia. Con una differenza tuttavia: Aristofane usa tutta una serie di aggettivi per indicare gli omosessuali passivi, usa parole che poco si adattano a un’intervista. Ma se si trattava di un giovane da educare ai valori della polis, il rapporto omosessuale veniva considerato un mezzo nobilissimo, in ogni caso. I Romani erano portatori – per capirsi – di un “celodurismo” alla Bossi, si pensavano supermaschi, ma se certi ragazzi romani di buona famiglia erano intoccabili, gli adulti non esitavano a ficcarlo in quel posto ai nemici e agli schiavetti. Perfino il dolce Catullo rivendicava l’io te lo metto lì e lo scriveva nei messaggi che indirizzava ai giovani uomini.
A Pompei i fanciulli che si prostituivano erano più ricercati e pagati delle donne?
Accadeva anche a Roma dove c’erano molti ragazzini viziati che dagli uomini si facevano pagare moltissimo. L’etica cittadina diceva no a tutto questo, ma la pratica quotidiana era cosa diversa. Come sempre.
E il Cristianesimo che tipo di cesura segnò nella cultura romana?
Una cesura radicale. Per il Cristianesimo l’unico rapporto secondo natura è quello che porta alla procreazione. E condannava ogni relazione omosessuale. Le conseguenze si possono leggere nelle costituzioni di epoca imperiale. Anche allora vigeva questo vizio dei politici di imporre a chicchessia quanto affermato dalle gerarchie ecclesiastiche. Gli imperatori cristiani cercarono di adeguare la legislazione, ma non potevano bruciare vivi gli omosessuali attivi che erano “approvati” dall’etica pagana. Quindi per secoli si punirono solo gli omosessuali passivi.
Lei scrive che nella società romana il parricidio era un’ossessione diffusa. E non di rado si passava all’atto.
Non lo dico solo io, ma anche un grande storico come Paul Veyne. E devo ammettere che se si vanno a leggere direttamente le fonti il fenomeno appare impressionante. A Roma, di fatto, non si smetteva mai di essere figli. Capitava così che un individuo a 40 oppure a 50 anni, sposato o console che fosse, dipendesse ancora dal padre, il quale poteva tagliargli i viveri o diseredarlo. L’usura, anche per questa causa, era molto praticata e c’era chi arrivava, per questo, ad uccidere il padre. E che non fosse un fatto straordinario, lo si capisce dalle leggi ad hoc che furono emanate.
Dunque la famiglia romana produceva crimini e pazzia?
Di sicuro produceva rapporti difficili e contorti. Certo che il problema del parricidio era un affar serio, è documentato da molte fonti. Andrebbe ricordato a quanti ancora oggi esaltano la famiglia dipingendola in ogni epoca come un paradiso.
Il parricidio veniva punito con una pena efferata: la morte in un sacco con un cane, un gallo, una scimmia e una vipera
La pena del sacco, che a noi sembra assolutamente primitiva, rimane in vigore anche nell’Impero. La si comminava anche agli adulteri, ma forse senza animali.
In questa romanità incentrata sul pater familias, in cui si imponevano modelli culturali anche attraverso la letteratura e la scelta dei miti e delle divinità, Apuleio come riuscì a introdurre la favola di Amore e Psiche?
In effetti fu un bel salto. Quello che sappiamo è che la favola di Amore e Psiche probabilmente era di origine orientale e arrivò in occidente attraverso percorsi sui quali si discute moltissimo.
Di questo lei si è occupata per una nuova edizione della favola di Apuleio che uscirà a giugno per Rizzoli. A che conclusione è giunta?
Ho scritto, appunto, che le radici della storia di Amore e Psiche affondano in luogo diverso da Roma e in un tempo probabilmente molto lontano da quello in cui visse Apuleio. Secondo alcuni studiosi il mito viene dalla Siria, secondo altri ancora sarebbe l’elaborazione greca di un mito iraniano. L’ipotesi sulle origini sono incerte. Ma quali che siano, la storia viene ripresa e rielaborata da Apuleio per adattarla alla società in cui viveva.
Da cosa lo deduce?
Apuleio, come sappiamo, era un avvocato e nel suo testo ci sono molti riferimenti ad istituti romani. Per esempio le donne a cui Psiche chiede aiuto le rispondono: non posso perché altrimenti sarei punita. La legge effettivamente sanzionava chi aiutava gli schiavi fuggitivi. Lo stesso Giove, a un certo punto dice: «Per colpa tua, io ho più volte violato la lex Iulia.
Il fatto che Apuleio fosse di origini berbere non potrebbe anche far pensare che la materia del mito provenisse proprio da quell’area dove le donne fin dalle epoche più antiche hanno sempre goduto di una certa libertà?
Non è da escludere, ma non abbiamo prove certe. Quello che possiamo dire è che il mito è sicuramente orientale, berbero o persiano che sia. Il mio lavoro su Amore e Psiche in realtà origina da alcune lezioni che tenni a New York con Karol Gilligan. Nel libro In a different voice, la Gilligan scrive che la favola di Amore e Psiche racconta una storia di resistenza femminile. Un’interpretazione affascinante, anche se mi convince fino a certo punto. Il mito si offre a molte letture. In ogni caso particolarmente eversivo nella cultura classica romana, razionale, impostata sull’autorità paterna e la sottomissione totale della donna e dei figli.
Questo rapporto con l’Oriente è stato problematico. In Dammi mille baci, per esempio, lei racconta che la leggenda di Cleopatra con il naso lungo fu inventata da Pascal. Ma sono tante le storie di donne di culture mediorientali che la tradizione ebraico-cristiana ha deformato e alterato.
È comprensibile che Cleopatra fosse vista malissimo dai Romani, ma è vero che si potrebbero fare molti altri esempi di cattiveria occidentale. Uno dei pochi casi opposti è quello di Zenobia, la regina di Palmira. Di lei le fonti occidentali dicono che conosceva non so quante lingue e che cavalcava alla testa dei suoi soldati. Se ne parlava con rispetto. Se il nostro sguardo si fosse liberato dal pregiudizio si sarebbe accorto già molti secoli fa che nella storia e nella letteratura orientale emergono figure femminili veramente straordinarie.
da left-Avvenimenti 27 aprile 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su aprile 27, 2009
Il suo l’Amore è un dio uscito per Feltrinelli (dopo una fortunata serie radiofonica) è diventato rapidamente un best seller. Per la semplicità e il rigore con cui Eva Cantarella conduce i suoi lettori nell’universo della mitologia e nella vita della polis antica. Già al lavoro su un ideale seguito di quel libro, sulla vita nella Roma antica, fra un impegno accademico e l’altro, Eva Cantarella è a Firenze per il convegno Donne in rivolta,organizzato dal Maggio musicale.
Il tema scelto dalla docente di diritto greco e romano dell’Università di Milano è una originale rilettura dell’Orestea e in particolare di Clitemnestra, figura tragica per antonomasia che, con la complicità di Egisto, diventa l’assassina di Agamennone.
Professoressa Cantarella perché questa scelta?
Fra tutti i personaggi tragici femminili è quello che più è stato oggetto di riletture interessanti. Da Dacia Maraini e Valeria Parrella. In lei colpisce la violenza terribile, anche psicologica, verso i figli Oreste e Elettra. Le femministe hanno scritto che non era cattiva, originariamente violenta. Ma vittima di quella che una volta si chiamava oppressione di genere. Nell’Orestea questo non è così chiaro, ma da altre fonti emerge cheha subito ingiustizie, che ha grande dignità, forza di carattere,consapevolezza della condizione di oppressione che grava sulle donne. Una condizione da cui secondo la Clitemnestra classica se ne può uscire solo “con la scure”. Ma più a fondo il personaggio pone la necessità di riflettere su come trasformare il rapporto con l’uomo.
Da studiosa di diritto antico che cosa l’ha interessata?
Sulla scia di riletture di antichisti e letterati sono tornata a esaminare l’ultima parte della storia. Clitemnestra è morta, c’è il processo a Oreste. La sua assoluzione contiene tutto il sensodell’Orestea. È la nascita deldiritto. Ma avviene con una sentenza che stabilisce la superiorità del padre e la conseguente subalternità della donna. Le Erinni che rappresentano la passione, le emozioni, la parte femminile del mondo, sono sconfitte dalla ragione. La nascita del diritto si lega alla fine di una fase che qualcuno, forse non del tutto impropriamente, ha voluto dire di matriarcato. Ma oggi, prendendo spunto da interessanti riletture del mito, c’è chi dice che il diritto non debba essere solo ragione. Per essere giusto, il diritto deve comprendere anche le emozioni.
Le donne, dice Aristotele, vanno messe sotto tutela. Perché non hanno il logos,non sono in grado di deliberare. In questo passaggio l’immagine e l’identità femminile vengono negate, deformate. Santippe, per esempio, è tramandata come la pestilenziale moglie di Socrate. Che fosse solo ribelle alla sua logica astratta del filosofo?
Tutto si può dire in tempi di revisionismo come quelli in cui viviamo, ma affermare che i Greci non fossero misogini è davvero difficile. Già Esiodo dice che Pandora, la prima donna, nasce perché Zeus deve mandare un castigo agli uomini. Così la dota di grazia e di desiderio struggente, e ne fa «una trappola da cui non si può sfuggire».
Esiodo dice che da quel momento gli uomini non vivranno più bene. Quali sono le radici di questa misoginia che fa distinguere Omero fra mogli obbedienti come Penelope e pericolose sirene?
Si radica nella necessità di controllare le donne. Dietro c’è la paura della sessualità femminile. Le donne sono sessualmente incontinenti, non si sanno controllare e, dal momento che fanno anche i figli, bisogna appropriarsi delle conseguenze dei rapporti. La teorizzazione della necessaria subalternità femminile cresce intorno a questa equazione. Donna uguale non razionale, materia, passività. Uomo, cioè spirito, logos
e tutto quanto.
Questo attacco all’identità femminile sarà ancora più forte nel passaggio dall’epoca pagana al cristianesimo?
Si compirà con l’identificazione fra donna-sesso-peccato, tipica della religione cristiana. Quanto al diritto, la libertà che le donne romane avevano avuto, sul piano sociale anche se solo nell’ambito del matrimonio, si riduce con gli imperatori cattolici. Giustiniano, per esempio, vieta il divorzio. E compare la punizione dell’aborto che primanon c’era. Con i Severi on era vietato perché si pensa che il feto abbia solo spes animantis. Homo non recte dicitur dicono i giuristi romani a proposito del feto. Andrebbe detto a Giuliano Ferrara. Però la donna che abortisce senza il consenso del marito viene punita. Ma se ha il suo consenso può continuare a farlo. Il cristianesimo, si sa, condannava l’aborto, ma gli imperatori cristiani non riuscirono subito ad adeguarsi fino in fondo alla sua morale perché era troppo in contrasto con la mentalità romana. Per esempio non riescono a vietare il divorzio consensuale. Oggi, insomma, con la legge 40 sulla fecondazione assistita, siamo regrediti perfino rispetto ad allora.
Riprendendo il titolo del convegno, “Donne in rivolta” che cosa pensa del pensiero femminista contemporaneo che, per esempio, con Judith Butler associa la liberazione delle donne alla cultura omosessuale e transgender?
Una prospettiva di questo tipo, devo ammettere, mi lascia più che perplessa. Il pensiero femminista mi ha sempre interessato molto. Ma da un po’ di anni, confesso, non riesco più a seguirlo. Da quello che capisco di questa nuova stagione del femminismo di cui mi accenna, posso solo dire che non credo che la liberazione delle donne passi da una rinuncia di questo genere . Penso semmai che in ciascuno di noi ci possa essere, per così dire, “una parte femminile”, sensibile e una maschile intesa come capacità teorica, logica. Ma come fatto interiore, che è cosa ben diversa- da quel capisco- dalla cultura tansgender. Sul piano della vita pubblica, invece, mi pare sia da percorrere la strada a cui accennavamo di un diritto che possa comprendere ragione ed emozione, dunque un discorso di conciliazione dei sessi sul piano del diritto.
Per finire, tornando al tema della conferenza che terrà a Firenze, perché le eroine della letteratura, tutte le più belle, le più libere dell’Ottocento e Novecento vengono fatte morire dai loro autori? Come se dovessero espiare?
Forse perché sono storie scritte degli uomini. Ma a ben pensare, non proprio tutte muoiono. La protagonista di Casa di bambola di Ibsen, per esempio scappa dal marito. Quando facevo il ginnasio,ricordo, mi portarono a vedere Nora seconda di Cesare Giulio Viola. Io che allora avevo appena letto Ibsen, sono uscii furente: Nora seconda era la stessa Nora. Ma pentita.
Carmen e le altre
Sensuale, libera, fedele solo al proprio desiderio, incurante dei giudizi. Così Carlos Saura torna a pensare e immaginare Carmen, protagonista 25 anni fa di un suo storico film, Carmen story, realizzato a partire dalle coreografie di Antonio Gades e dalle musiche del chitarrista Paco de Lucia. Di fatto, ci voleva l’affascinante sigaraia di Mérimée per convincere il cineasta spagnolo a tornare a mettersi in gioco con la lirica. Galeotta la proposta che gli è arrivata dal Maggio musicale fiorentino di curare la regia di un’opera per questa settantunesima edizione del festival. Così, dal 30 aprile all’11 maggio 2007, al Comunale di Firenze la Carmen di Georges Bizet trova un nuovo allestimento. Sul podio, il maestro Zubin Metha a dirigere l’Orchestra del Maggio. A dare voce a Carmen sarà Julia Gertseva, mentre Marcelo Alvarez è Don Josè, il brigadiere innamorato e tradito che impazzisce di gelosia e la uccide davanti all’arena di Siviglia, dove l’amante di Carmen, Escamillo, sta toreando«Una vicenda – sottolinea Saura- tristemente attuale. Le cronache nere traboccano di delitti efferati in cui la vittima è quasi sempre la donna». Ma il regista spagnolo, che si dice convinto che la radice del problema stia, in primis, nella testa degli uomini che temono il desiderio e la libertà delle donne («gli uomini perdono sempre la testa per Carmen ma poi vogliono farla diventare moglie e madre») non ha scelto una chiave realistica per questa sua nuova Carmen. Al contrario. Invece della assolata Spagna che potremmo aspettarci, punta su una raffinata veste scenografica, fatta di chiaroscuri e ombre cinesi. Ricreando in teatro quei giochi di luce che ora va sperimentando al cinema con Vincenzo Storaro, in un nuovo film sul mito di Don Giovanni, visto attraverso le vicende del librettista Lorenzo Da Ponte. Da una tragica storia di passione e morte, tipicamente ottocentesca, la 71/a edizione del Maggio approda il 5 giugno alla Phaedra contemporanea del compositore Hans Werner Henze. Poi il 21 giugno, proseguendo in un viaggio alla riscoperta delle figure femminili meno convenzionali della tradizione lirica, al Comunale torna Lady Macbeth nel distretto di Mzensk di Sostakovic diretta da James Conlon. Due i monologhi teatrali quest’anno: Il dolore di Marguerite Duras, interpretato da Mariangela Melato e la controversa Erodias di Testori riproposta da Lombardi e Tiezzi al Museo del Bargello. Mentre l’apertura del festival, il 26 aprile, è affidata a Charlotte Rampling (in foto), voce recitante de Il sopravvissuto di Varsavia di Schönberg direttoda Zubin Metha e con Peter Greenway nell’insolita veste di video jokey.Ma è soprattutto il trittico di debutti operistici a connotare questa edizione del Maggio dal titolo “Donne contro”, come racconta il direttore artistico Paolo Arcà: «Carmen, Fedra, Lady Macbeth, pur diversissime fra loro, sono tre protagoniste del teatro in musica con una personalità nitida, che si rapportano al loro ambiente con una caratterizzazione forte, vibrante, mai asservita o subalterna». Donne contro, certamente, ma anche eroine fragili, tragiche, come Katerina che Sostakovic fa precipitare in un gorgo autodistruttivo di fronte alla violenza dell’ambiente circostante, rappresentato da un mondo di pupazzi.
da left-Avvenimenti maggio 2008
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Posted by Simona Maggiorelli su aprile 26, 2009

Alla scoperta della nuova Petra e delle testimonianze dell’antico popolo preislamico dei Nabatei
di Simona Maggiorelli
Lungo la via caravaniera dell’incenso proveniente dalle regioni dell’Arabia felix (oggi Yemen) nasceva Petra, la città scavata nella roccia del deserto, capitale nabatea dal IV secolo a.C. e oggi universalmente conosciuta come la perla del patrimonio artistico giordano. Ma a venticinque chilometri più a Nord fonti arabe raccontavano fin dall’antichità di una città nabatea fortificata, altrettanto meravigliosa, ricca di giardini e di palazzi.«Per secoli-chiosa l’archeologo Guido Vannini- si è creduto che si trattasse solo di leggende. Ora le ricerche archeologiche hanno dimostrato che quell’insediamento incastellato, poi divenuto città straordinariamente cosmopolita, era esistito davvero». La città di cui parliamo è Shawbak e ai recenti importanti ritrovamenti delle spedizioni archeologiche dell’Università di Firenze e internazionli è dedicata la mostra Da Petra a Shawbak nella Limonaia del Giardino dei Boboli che sarà inaugurata il 13 luglio, per poi essere trasferita in autunno in Giordania. «Nel corso del tempo Shawbak ha più volte cambiato pelle– spiega Vannini- maturando sul più antico substrato nabateo, uno strato romano-bizantino e poi islamico, fino a diventare durante il medioevo avamposto crociato e poi ancora città militare in epoca ayyubide», E, fatto abbastanza straordinario,senza che le differenti culture si elidessero l’un’altra, ci spiega lo studioso, anticipandoci alcuni risultati delle sue ricerche che saranno presentati in mostra. Pur essendo nata come città di frontiera, Shawbak di fatto non segnò mai una cesura netta nella regione. Al contrario seppe farsi zona osmotica di passaggio fra il Nord “siriano” e il Sud “egiziano”, Ma anche fra Mediterraneo e Arabia, sussumendo e intrecciando differenti culture in una identità nuova e originale.

Petra
Qualche segnale di questo complesso processo si può leggere anche nelle decorazioni di alcun vasi che accanto a decorazioni islamiche conservano figurazioni di stampo latino. Alcuni di questi reperti, mai prima presentati al pubblico, saranno in mostra a Firenze accanto a reperti che raffigurano divinità del pantheon nabateo, perlopiù legate ai riti della fertilità e insieme a ceramiche nabatee cosiddette a “pelle di uovo”, per la loro delicata consistenza. «le radici culturali nabatee sono l’origine nobile di Shawbak e di Petra, un po’come lo sono quelle etrusche per certa Toscana, ma la cultura di cui poi è rimasta maggiore traccia nei secoli è quella medievale. Così oggi- conclude Vannini- quella che appare agli occhi del visitatore che magari abbia visitato Petra quindici anni fa è una città enormemente arricchita di monumenti riportati alla luce, ma anche sempre più tipicamente medievale».
da left-Avvenimenti aprile 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su aprile 19, 2009
Il progresso della scienza chiede un’etica e leggi moderne. Basate sull’umano. Non sulla metafisica.
Corbellini: Mai in Italia si è assistito a un attacco di tale portata allo statuto epistemologico e morale della ricerca. Dietro c’è un pregiudizio religioso
di Simona Maggiorelli
Per dirla con un celebre lavoro di Thomas Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche, quello che si configura in questo inizio di nuovo millennio è un vero e proprio salto di paradigma. E questo grazie alla ricerca genetica e ai nuovi orizzonti della medicina rigenerativa che in poche decine di anni potrebbe schiudere orizzonti insperati di terapia. Ma anche grazie agli importanti progressi che ha compiuto la psichiatria dagli anni Settanta a oggi permettendo una nuova e più profonda conoscenza della realtà umana.
I passi avanti che la medicina sta facendo nei più diversi ambiti impongono alla società e alla politica riflessioni nuove sulle questioni cosiddette (con imprecisa espressione) “eticamente sensibili”. Di fatto questioni che riguardano il nascere e il morire, ma anche il diritto di ciascuno di noi a poter scegliere liberamente per la propria vita, nel rispetto di se stessi e degli altri.
In questo quadro anche la morte ormai – come ha scritto il neurologo Carlo Alberto Defanti nel libro Soglie. Medicina e fine vita (Bollati Boringhieri) – è divenuta un fatto culturale, non solo perché perlopiù preceduta da una diagnosi e da un tentativo di cura. Ma anche perché lo sviluppo della trapiantistica e delle tecniche rianimative hanno imposto dagli anni Sessanta a oggi un ripensamento della morte, prima intesa rozzamente come cessazione del battito cardiaco, poi come morte cerebrale e oggi come morte corticale quando, come nel caso specifico di Eluana Englaro, una persona si trovi, dopo un grave incidente e per esiti infausti di protocolli rianimativi, in uno stato vegetativo persistente, senza più percezioni, né immagini, senza affetti e pensieri, né alcuna possibilità di relazionarsi con gli altri. Purtroppo Eluana «è morta a 21 anni in un incidente d’auto», come ha detto e ripetuto più volte il neurologo che l’ha seguita da allora. Ma, come è ben noto, ci sono voluti 17 anni di battaglie nelle aule di tribunale perché venisse riconosciuta la volontà della ragazza, espressa quando era ancora cosciente, di non essere obbligata a una vita meramente biologica attaccata alle macchine.
E mentre coraggiosamente il padre di Eluana, Beppino Englaro, ha saputo trasformare quella tragedia in una battaglia per la conquista di diritti di tutti, qualche settimana fa una coppia portatrice di una grave malattia genetica, grazie in primis a una sentenza del Tribunale di Firenze, è riuscita a riportare davanti alla Consulta la legge 40/2004, ora dichiarata parzialmente incostituzionale.
Ma che Paese è, viene da chiedersi, quello in cui il cittadino debba ricorrere al giudice per veder riconosciuto il proprio diritto alla salute e il rispetto della propria dignità umana, garantiti dalla Carta? E che Stato è quello che violando il rapporto medico-paziente proibisce la fecondazione eterologa come fa la legge 40 oppure impone idratazione e alimentazione artificiale al paziente, quale che sia, come vuole il ddl Calabrò sul biotestamento? Questioni importanti, urgenti, che toccano direttamente la vita dei cittadini e alle quali un giurista come Stefano Rodotà nel suo pamphlet Perché laico (Laterza) dà risposte preoccupate e forti: «Quella che si profila in Italia è una deriva da Stato etico» chiosa Rodotà, che avverte: «È in atto un attacco strisciante alla Costituzione da parte di questo governo di centrodestra che non rispetta sentenze passate in giudicato (come nel caso di Eluana ndr) e impone norme come quella sul biotestamento, che nega i diritti fondamentali del cittadino e quella laicità in cui una sentenza del 1989 ha riconosciuto il principio supremo della nostra Costituzione». Di questa grave crisi politica che il Paese sta attraversando e in cui Rodotà vede anche i segni di una «forte, drammatica, regressione culturale» il professore parlerà alla Biennale democrazia (www.biennaledemocrazia.it), l’iniziativa ideata da Gustavo Zagrebelsky che dal 22 al 26 aprile riunisce a Torino la migliore intellighenzia nazionale, dal filosofo Giacomo Marramao alla studiosa di diritto Eva Cantarella, dal politologo Marco Revelli all’economista Claudia Saraceno, al sociologo Alain Touraine e molti altri. Su democrazia e laicità, in particolare, interverrà anche il filosofo Salvatore Veca, che di questo binomio ha fatto il filo rosso del suo ultimo libro Dizionario minimo. Le parole della filosofia per una convivenza democratica da poco uscito per Frassinelli. «Al di là della frastagliata geografia di partiti che connota oggi la sinistra, quello che vorrei lanciare – dice Veca – è un appello alla sinistra nel suo insieme perché torni a dire a voce alta parole forti di un lessico civile come libertà, laicità, pluralismo, democrazia». «Io sono da sempre convinto – prosegue Veca – che dal dibattito pubblico nessuna voce debba essere esclusa, gerarchia cattolica compresa. Ma una volta che si siano ascoltati tutti i punti di vista il politico e il legislatore hanno il compito di fare leggi erga omnes, in cui non prevalga il principio inaccettabile di una minoranza che dice: io non lo farei, dunque anche tu non devi farlo». Come è accaduto, solo per fare un esempio, con la diagnosi pre impianto per la selezione di embrioni sani ancora oggi proibita in Italia dalla legge 40. E mentre norme antiscientifiche come quella sulla fecondazione assistita e il nuovo ddl Calabrò sul testamento biologico hanno visto un’opposizione di sinistra fiacca e (da quando Verdi e Rifondazione comunista non sono più in parlamento) addirittura afasica, cresce sui giornali e in tv la disinformazione scientifica. Dal salotto di Porta a Porta abbiamo ascoltato di tutto su Eluana, perfino che nonostante 17 anni di stato vegetativo la donna potesse fare passeggiate in giardino, mangiare panini. Ma se la stampa e i media cattolici da tempo non perdono occasione per dipingere i ricercatori come novelli Frankestein e per paventare derive della genetica liberale (con il placet di Habermas, filosofo un tempo progressista) stupisce che anche un giornale illuminato come Repubblica pubblichi articoli palesemente antiscientifici come una recente pagina in cui si parlava di attività onirica nel feto, incuranti del fatto che a quello stadio l’apparato cerebrale è ancora immaturo e del tutto deconnesso.
«Forse mai come in questo momento in Italia si è assistito a un attacco di questa portata allo statuto epistemologico, ma anche politico morale della scienza e degli scienziati» nota Gilberto Corbellini. Nel suo nuovo libro Perché gli scienziati non sono pericolosi (Longanesi) lo storico della medicina dell’Università la Sapienza tenta una interessante analisi di questo fenomeno, specifico del nostro Paese e che non trova rispondenze nell’area anglosassone. Alla base di questa immagine alterata della scienza che si riverbera sui media italiani c’è un retrostante pregiudizio religioso. «Essendo la scienza per definizione un metodo di indagine della natura, in grado cioè di produrre soluzioni dimostrabili e quindi condivisibili dei problemi dovrebbe essere interesse di tutti valorizzarne la portata educativa e culturale. Invece – scrive Corbellini – proprio la scienza si trova messa sotto accusa in quanto rappresenterebbe la maggiore minaccia alla libertà e alla dignità dell’uomo. E questo perché alcune discipline metterebbero in discussione la natura spirituale e metafisica della cosiddetta “creatura”, mentre altre diffonderebbero l’idea che l’uomo può conoscere».
Come dice il premio Nobel Rita Levi Montalcini «la scienza non ha bisogno di un’etica imposta dall’esterno», perché la ricerca scientifica ha come suo interesse specifico il progresso umano, senza trascurare che la comunità internazionale degli scienziati svolge un lavoro di monitoraggio di continuo verificando ipotesi e scoperte e mettendole alla prova dei fatti. E se in privato ognuno può avere le convinzioni che meglio crede, da ultimo torniamo a chiederci: è giusto, nella prospettiva di un’etica condivisa (come la chiama Enzo Bianchi nel suo nuovo libro Einaudi) che queste convinzioni siano imposte come valori non negoziabili nel dibattito pubblico? E più in là: è lecito che un’etica basata su fondamenti metafisici abbia l’ultima parola nell’agone della politica quando si tratti di fare leggi che riguardano tutti, credenti e non credenti?
dal quotidiano Terra, 19 aprile 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su aprile 17, 2009
Il filosofo Salvatore Veca interviene nel dibattito pubblico con un nuovo libro che declina il dizionario minimo del nostro vivere pubblico e civile
di Simona Maggiorelli
«Democrazia e laicità formano un binomio imprescindibile per la politica e le istituzioni – dice con passione Salvatore Veca, filosofo politico dell’Università di Pavia, che ora di queste due parole ha fatto il cuore del suo nuovo libro Dizionario minimo (Frassinelli). «Un binomio – precisa subito il professore – che vedo molto offeso in questa realtà italiana Per più ragioni diverse».
Di questo lei parlerà alla Biennale democrazia ideata da Zagrebelsky. Qualche anticipazione?
Il punto di partenza del mio discorso è che democrazia e laicità simul stabant simul cadent o stanno assieme oppure, assieme, cadono. Se la laicità è sotto pressione significa che le leggi, le scelte collettive pubbliche, sono fatte nell’interesse di qualcuno e non di tutti. Ovvero si trattano alcuni cittadini come di serie B, mentre chi condivide la scelta della maggioranza sarebbe di serie A.
Leggi ad personam e populismo, uso politico della paura, come lei ha scritto, connotano questo governo di destra. Mentre il premier Berlusconi sembra aver cominciato una campagna di autopromozione per il Quirinale dalle zone terremotate…
Il Premier cerca di far passare il messaggio “sono uno di voi” e usa un meccanismo fatuo di rassicurazione. In situazioni pubbliche all’estero, poi, l’abbiamo anche visto fare il joker e l’amicone. Come diceva Garboli, Berlusconi è un «tip pictoresque», è un piazzista lombardo, una specie di Sordi del Nord. Di fatto replica la classica forma del populismo, in tempi mutati. Per questo irriderlo non basta. Da sinistra bisogna dire: così non va! Ma dobbiamo anche indicare cosa va fatto in positivo.
La Sinistra, però, appare afasica, specie sui diritti civili e sulle questioni bioetiche. Nel manifesto del Pd, ad esempio, si legge che la religione appartiene alla sfera pubblica. Ma «valori non negoziabili» come quelli che la Chiesa vorrebbe imporre come possono trovare cittadinanza nell’agone politico?
Valori e credenze religiose, a mio avviso, hanno diritto ad avere voce nella discussione pubblica – quella che in modo poco brillante va in scena a Porta a Porta ma anche quella che abita il dibattito alto – dando spazio a tutte le voci. Ma non dovrebbero avere voce in capitolo nello spazio di deliberazione di nuove norme.
Questa posizione la differenzia nettamente da Habermas.
Sì diversamente da lui e dagli altri fautori di tesi cosiddette postsecolari io credo quando si fanno delle scelte che valgono per chiunque e non per qualcuno, non possiamo che rimanere fermi al vecchio, semplice, rude principio della laicità delle istituzioni. Certo, non senza aver ascoltato tutte le voci. Ex ante io rispetto tutte le persone, anche se non condivido le loro ragioni. Ma se facciamo una legge sul biotestamento o sulle staminali, o sulla fecondazione assistita, non possiamo corroborare la nostra scelta legislativa sulla base di un insieme di credenze. Dobbiamo puntare su scelte che diano la massimo di libertà e di opzioni alle persone, purché non rechino danno agli altri. Alla domanda di eticizzare le istituzioni noi dobbiamo rispondere deflazionando.Dobbiamo fare leggi in questo ambito che non siano coercitive, ma dicano: se vuoi, puoi. Noi siamo scarsamente abituati al pluralismo, che addirittura viene avvertito come una sorta di catastrofe, quando invece è un tratto persistente del paesaggio delle democrazie recenti.
Il pluralismo spesso viene stigmatizzato come relativismo.
Ma il problema non è il relativismo. Il punto è prendere sul serio il pluralismo dei valori. Ci sono al mondo civiltà e culture in cui le persone hanno idea che le cose buone della vita siano diverse fra loro. Oppure, all’opposto ci sono valori come equità efficienza, libertà e sicurezza che sono per tutti importanti. Ma se io pedalo solo su uno di questi lo pago in termini di altri. Sicurezza e libertà sono entrambi valori, ma confliggono tra loro e devo trovare un’idea degli equilibri il più possibile coerente. Purtroppo nella offerta di politiche alternative c’è chi lavora sulla sicurezza ritenendo che i prezzi di libertà siano poca cosa.
In Italia la Destra ci marcia…
La Destra è una grande imprenditrice della paura sociale. Sia quando la paura è giustificata, sia quando non lo è perché è costruita dalla politica stessa. Il problema, torniamo a dire, non è il relativismo una parola da lasciare ai talk show o alle prediche dei preti, il punto è costruire a partire dalle nostre idee diverse un modo per convivere bene.
Lo sviluppo della scienza oggi si impone di rinegoziare certi valori e modi di pensare. Perché la sinistra non sa contrapporre risposte forti a chi pretende che solo la religione sia un’ancora per l’etica?
Sono molto preoccupato del fatto che la Sinistra – con la quale mi identifico con la Sinistra quale che sia da molti anni – non abbia la capacità e la forza di rispondere con chiarezza e con la volontà di farsi comprendere dalle persone, di fronte a questioni di questo genere Certo le esperienze legate allo sviluppo della conoscenza scientifica possono in alcuni suscitare incertezza perché il mondo viene messo a soqquadro e possiamo fare nuove cose che ci trovano impreparati. Di fronte a questo ci sono due risposte possibili: una è quella della scurita. La risposta di chi si immunizza rispetto ai rischi del cambiamento e usa i vecchi schemi di giudizio, religiosi etici riguardo a questioni come il far nascere e il morire. In questo caso le possibilità che la tecnica e la scienza ci offrono vengono stigmatizzate come “male” e così si chiede al politico e al legislatore di sanzionare con la forza della coercizione delle comunità morali omogenee, basate su convinzioni che spesso poi nella vita non sono messe in pratica nemmeno da chi le propugna. Il discorso, al fondo è, io non farò mai l’aborto, ma non voglio che altri lo facciano. E’ questa, badi bene, è una domanda nuova. Fin qui alla politica era sempre stata fatta una domanda di diritti per sé, perché erano negati.
Per questa via il ddl Calabrò sul biotestamento affida a politici e a sacerdoti senza competenze il diritto di imporre terapie mediche, obbligando il medico a una cattiva pratica. Cosa ne pensa?
Che è una barbarie. Spero in un referendum. Ma intanto penso che la Sinistra tutta dovrebbe ribadire con gran forza un principio di libertà fondamentale. Non dovremmo lasciare alla destra un termine prezioso come libertà. Parliamo della libertà delle persone di scegliere se stesse, ovviamente senza fare danno agli altri. Questo è un principio da urlare a voce alta.
Noi di sinistra «ci siamo decostruiti fin troppo», lei ha detto di recente. La Sinistra oggi dovrebbe sviluppare una nuova identità facendo proprie le nuove conoscenze scientifiche?
Senza dubbio. Certe leggende metropolitane sulla scienza come del resto convinzioni del genere “solo un dio ci può salvare” sono segni di scarsa civiltà.
Lei si è occupato di immagine della scienza. Perché in Italia più che altrove i ricercatori sono dipinti come novelli Frankestein?
E’ un fatto tipico in Italia. Non vale nel Nord d’Europa. Negli Usa la faccenda è più controversa. Ora è girato il vento, ma da poco tempo. I costruttori di Frankestein o chi fantastica su mondi fatti di cloni esprime una condanna della tecnica. In realtà sono gli scienziati stessi, per primi a non fare promesse irreali, dicendo noi ad oggi possiamo arrivare fino a qui. Ma noi vecchi illuministi troppo spesso dimentichiamo che certe leggende metropolitane sulla scienza fanno presa sulla percezione di larghe fette di popolazione. Sappiamo fare discorsi da cattedra, da aristocrazia intellettuale di sinistra. Ma trascuriamo che politicamente siamo una aristocrazia senza popolo.
C’è un problema di rappresentanza nel Pd e non solo?
Non c’è dubbio. E io trovo questa cosa gravissima.
da left-Avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su aprile 10, 2009
A tre anni dalla sua scomparsa una monografia curata da Fabrizio D’Amico invita a rileggere l’opera di Mimmo Rotella
di Simona Maggiorelli
La reazione all’informale alla sua furia iconoclasta e nihilista, sfociata nel “suicidio” di artisti come Pollock, negli anni Sessanta fu fortissima.Ma se l’arte povera cercò una via di uscita da quel caos attraverso un nuovo e più intimo rapporto con la realtà, la pop art annullò ogni tormento con l’euforia di immagini cartellonistiche e piatte. Sulla lacerazione non sanata e non ricomposta di Rothko, di Stella e degli artisti che animarono la cosiddetta scuola di New York, Warhol e compagni stesero una mano di sgargiante vernice: Marylin in serigrafia accanto a una gigantografia di una lattina di zuppa; frammenti di realtà quotidiana riprodotti in una cartellonistica seriale. Con la pop art l’immagine si fa piatta e indifferente. Ma se la Biennale di Venezia del 1964 segnò anche in Europa l’affermazione del pensiero unico di Warhol, con una profusione di opere che isolano oggetti e merci per farne dei feticci, delle icone, dei totem, il filone italiano che ne fu più influenzato non può essere ascritto tout court a quella tendenza di riduzione al grado zero della creatività.
Pensiamo, in questo caso, all’opera di un artista come Mimmo Rotella che – a tre anni dalla sua scomparsa- una monografia curata da Fabrizio D’Amico (Rotella, disegni, Umberto Allemandi editore) invita a rileggere, prestando particolare attenzione alla sua ricca attività di disegnatore.
Accanto all’immagine più nota dell’artista romano, fantasioso compositore di quadri con la tecnica del décollage, emerge così anche un suo tratto più intimo che si esprime in tavole colorate di vaga ispirazione picassiana e in disegni e bozzetti: nel corso del tempo, via via sempre più stilizzati, specie quando si tratta di ritratti di persone e nudi di donna. Con tutta evidenza, già negli anni Settanta, Rotella era del tutto fuori dalla celebrazione del trionfo della merce tipica di Lichtenstein, Johns, Dine, per quanto ironica fosse verso i meccanismi del consumismo e della società di massa.
Dopo l’informale e l’insana vertigine di una perdita totale del rapporto con la realtà, la strada scelta da Rotella non sarà quella di riprodurla anche se in termini polemici e corrosivi. Se qualcosa mutua dall’arte americana è piuttosto lo stile combinatorio del new dada alla Rauschenberg. Ma anche in questo caso il suo riuso di lacerti di realtà, cartelloni strappati e locandine del cinema, non mira banalmente allo scenografico. Quelle immagini rovinate e strappate diventano per Rotella il vocabolario con cui creare un sua visione del mondo. «Per strada mi colpirono alcuni muri tappezzati di affissi lacerati- raccontava lui stesso-. Mi affascinavano letteralmente, anche perché pensavo allora che la pittura era finita e che bisognava scoprire qualcosa di nuovo, di vivo e di attuale. Sicché la sera cominciavo a lacerare questi manifesti, a strapparli dai muri e li portavo a studio… componendoli in immagini nuove».
da left Avvenimenti 24 aprile 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su aprile 9, 2009
A più di cinquanta anni anni dall’ultima retrospettiva dedicata a Beato Angelico, una mostra e nuovi studi riaprono la discussione sulla sua operae sul suo colore intriso di luce
di Simona Maggiorelli
Colpito da quella speciale luce che hanno gli affreschi di Beato Angelico in San Marco a Firenze, Rothko si mise a studiare una preparazione in gesso per dare al pigmento una qualità simile all’affresco e quella consistenza diradata che facesse sembrare le sue forme di puro colore come percorse da un movimento. Nasceva così l’osmosi di giallo radioso, bianco e azzurro di Untitled del 1950. Ma dalla nuova monografia, edita da Phaidon che Diane Cole Ahl ha dedicato all’opera dell’Angelico si apprende anche che il colore intriso di luce che faceva risplendere gli affreschi e i dipinti del pittore toscano affascinò anche molti altri pittori di avanguardia.
Studiando la luce e il colore, Rothko voleva davvero realizzare “i colori trascendenti e la spiritualità dell’arte” del maestro di Fiesole come è stato scritto? O piuttosto – come ci piacerebbe pensare – cercava quel valore prismatico, mobile, del colore che regala una straordinaria gamma di timbri alla pittura sacra del Quattrocento?
Domande che qui non possiamo che tenere aperte per ricerche future. Ma che, intanto, devono fare i conti con la risposta filologica di Maurizio Calvesi che, annota: “Quella luce che diverrà nella storia della pittura agente fondamentale di animazione, nell’Angelico è soprattutto un fissativo che scende su uno spettacolo ne varietur” .
Consulente scientifico della mostra Beato Angelico l’alba del Rinascimento aperta dall’8 aprile al 5 luglio nei musei Capitolini di Roma, nel suo saggio pubblicato nel denso catalogo Skira, Calvesi ricostruisce la biografia di Beato Angelico (al secolo Pietro di Guido) e la koinè culturale in cui visse e fu attivo fra il 1417 e il 1455. D’accordo con Cole Ahl, nel dire che se Vasari creò una leggenda agiografica intorno a Beato Angelico, Calvesi però ci ricorda che il pittore aveva fatto studi tomistici e che la sua arte intesa come predicazione dipinta era densa di sfumature teologiche.
La scelta di fra’ Angelico indubbiamente fu diversa da quella di un altro artista suo contemporaneo, fra’ Filippo Lippi che, invece, fuggì con una giovane suora e smise il saio. Peraltro senza che questo pregiudicasse la sua carriera di pittore di immagini sacre. Papi, cardinali e principi, a quell’epoca, non vedevano affatto sconveniente che a dei “libertini” fossero commissionate le più importanti immagini sacre. Gli ordini minori, come insegna la storia di molti letterati e artisti fra Medioevo e Rinascimento, si prendevano perlopiù per avere di che vivere. Ma l’angelicus pictor, come fu subito nominato, si tramanda che avesse fede fervente e quella aureola che gli fu da subito assegnata è stata un ingombro non di poco conto alla lettura della sua opera.
Il primo a tentare di liberare la sua multiforme produzione di affreschi, quadri, disegni e opere miniate dal cliché di arte mistica e fatta di atmosfere celestiali fu Roberto Longhi rintracciando nella pittura dell’Angelico degli anni 20 e 30 del Quattrocento gli incunaboli del Rinascimento. Poi sarebbero venuti le importanti retrospettive di Roma e Firenze per il cinquecentenario della nascita dell’artista, il saggio di Giulio Carlo Argan e una gran messe di studi e acquisizioni recenti che (confermate dalle indagini riflettografiche di alcune opere realizzate dalla Normale di Pisa) oggi ci permettono di mettere a fuoco la figura di Beato Angelico come pittore di grande respiro pienamente inserito nel dibattito sulla prospettiva e sull’evoluzione dell’immagine del Quattrocento, capace di cimentarsi con le più diverse tecniche e aperto alla rivoluzione espressiva di un artista più giovane di lui di 15 anni, come Masaccio. Di un artista inserito nel suo tempo e in transito fra tradizione e innovazione oggi parla autorevolmente la storica dell’arte inglese Diane Cole Ahl, raccontando come nella luminosa pala di Cortona (ora in mostra a Roma) Beato Angelico avesse innovato la tradizione iconografica dell’annunciazione,mentre Calvesi nel catalogo Skira racconta come l’artista fosse passato da una concezione di una “natura naturata”, cioè immobile come dio l’ha creata, a una rappresentazione della natura come, physis, come divenire e come energia vitale aprendo la strada alla dinamica veduta del Valdarno che un giovane Leonardo avrebbe tracciato nel 1473.
E se una maggiore espressività delle figure, Beato Angelico la realizzò in rapporto con la pittura di Masaccio, dal Brunelleschi ricavò l’idea della profondità dello spazio architettonico, abbandonando a poco a poco gli sfondi oro, ma anche tralasciando la struttura a più ante del polittico a favore della più sintetica pala che gli consentiva di mettere in rapporto le figure umane.
Percorrendo le sale capitoline che ospitano questa nuova retrospettiva dell’ Angelico si può leggere questa evoluzione: dalle finezze tardo gotiche della prima Madonna di Cedri (proveniente dal Museo San Matteo di Pisa) alla scrittura ancora paratattica della Tebaide fino all’approdo a un Umanesimo tosco-emiliano, monumentale e classicheggiante che, alla fine dei suoi anni, lo porterà a affrescare la cappella Nicolina.
F
In mezzo a questo articolato percorso, capolavori come la luminosa Annunciazione di San Giovanni Valdarno (1434) e il grande trittico di Cortona completo di predella. Ma anche opere da poco restaurate come il Trittico della Galleria Corsini di Roma e la predella della Pala di Bosco dei frati. Da Desdra arriva l’Annunciazione riassemblata nel XVI secolo e da Lipsia il frammento con San Giovanni Battista. Ma ad attrarre lo sguardo è anche una potente raffigurazione di Beati e Dannati (1430c.), oggi appartenente a una collezione privata americana. Una pittura di cremisi, neri, bianchi e blu radiosi che fa risplendere la tavola come pietre preziose.
da left-avvenimenti del 10 aprile 2009
FRA’ANGELICO , IL GRANDE INNOVATORE
Beato Angelico pittore devozionale, ma anche grande innovatore. Ripercorrendo tutte le più importanti acquisizioni che gli studiosi hanno messo a punto dal 1955 (l’anno delle grandi mostre per il cinquecentenario) a oggi, la storica dell’arte inglese Diane Cole Ahl, nel volume Fra’ Angelico pubblicato da Phaidon, ricolloca finalmente l’opera del pittore toscano nel suo giusto contesto storico, offrendone una lettura aggiornata. «Innovatore che seppe trasmettere le tradizioni iconografiche e spirituali del proprio ordine domenicano, egli concepì la propria arte come predicazione reinterpretando i temi sacri e conferendogli una nuova risonanza», scrive Cole Ahl. Dunque non più pittore del tutto chiuso in mondo di smalti medievali e sordo al tumultuoso rinnovamento culturale che la Firenze medicea stava vivendo grazie a una folta schiera di studiosi umanisti e artisti. Con questa sua importante monografia Cole Ahl invita a prestare maggiore attenzione ai segni di innovazione che le opere dell’Angelico mostrano, sia che si tratti di affreschi monumentali, sia di pale d’altare o di codici miniati. L’orchestrazione prospettica e la tridimensionalità architettonica delle scene sacre degli anni Trenta del Quattrocento, in effetti, ci dicono quanto il pittore fiesolano fosse lontano dagli appiattiti sfondi medievali, e interessato alle novità introdotte da Brunelleschi e Ghiberti. Mentre l’uso sapiente della luce e dei colori, in quella gamma vastissima di bianchi brillanti, cremisi e blu radiosi che fa risplendere le sue pitture come pietre preziose, appare in un certo modo in sintonia con nuova visione umanistica e rischiarata. E non si può dire nemmeno che Beato Angelico, con Masaccio, non avesse compreso la novità di una rappresentazione pittorica che dava nuova centralità e dignità all’umano. Basta guardare, nota Cole Ahl, il volto della Vergine nella Grande crocefissione e più ancora il gesto della Maddalena, bella e sensuale ai piedi della croce. «L’Angelico creò opere di profonda espressività», scrive la studiosa inglese e la mostra Beato Angelico, l’alba del Rinascimento che si apre oggi ai Musei Capitolini a Roma sembra, fin dal titolo, volerne raccogliere il messaggio. ( Simona Maggiorelli)
Da Europa 8 aprile 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su aprile 8, 2009

Malevich
di Simona Maggiorelli
A Como una grande mostra indaga il milieu da cui nacque la ricerca del Novento in Germania e in Russia con artisti come Kandinsky e Malevich
È costruita come un viaggio immaginario attraverso le avanguardie russe del primoNovecento (ma anche come un affondo nel retroterra filosofico che le ispirò) la mostra Maestri dell’avanguardia russa aperta nella settecentesca Villa Olmo di Como fino al 26 luglio (catalogo Silvana editrice). Una mostra – curata da Evgenia Petrova e Sergio Gatti – che attraverso un’ottantina di opere provenienti dal museo di San Pietroburgo riporta in primo piano il lavoro di artisti dai percorsi diversissimi come Casimir Malevic, Marc Chagall e Vassily Kandinskij (al quale proprio in questi giorni il Centre Pompidou di Parigi dedica una importante retrospettiva) e il meno noto in Italia, Pavel Filonov. La stagione delle avanguardie storiche in Russia, come del resto gran parte della ricerca europea del primissimo Novecento, ci racconta questa mostra, traeva linfa dalla corrente filosofica antipositivistica che si era diffusa a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, durante la stagione simbolista.
Negli ambienti artistici si leggeva Nietzsche, ma l’elite più sensibile faceva spazio anche le ricerche di un filosofo creativo e antiaccademico come Greog Simmel che metteva al centro della riflessione filosofica l’Erlebnis, intesa in senso pieno come vita e esperienza vissuta. L’esplorazione di una fantasia libera dalle categorie razionali intrigò da subito un artista come Kandinskij, fondatore del gruppo Cavaliere azzurro insieme a Franz Marc. Già con i suoi primi acquerelli astratti Kandinskij aprì la strada a un’arte fatta di colori e linee, che non si proponeva più di raffigurare il reale, ma voleva realizzare un vocabolario creativo fuori da ogni cliché imitativo della realtà. Nel frattempo (e in parte influenzato dal medesimo contesto culturale) nasce il cubo-futurismo in Russia. Intorno al 1911-1912 in Germania e in Russia si moltiplicarono le interpretazioni eretiche del cubismo, come quella orfica, sensibile alla dimensione lirica del colore.

Malevich due
Fu quest’ultima tendenza, per altro di breve durata, a coinvolgere Kandinskij, come raccontano le primissime opere dell’artista esposte a Villa Olmo che presentano case e paesaggi fiabeschi fatti di solo colore. Ma poco dopo ecco le prime innovative composizioni su variazione musicale: qui i significati sono espressi solo dai colori, dalle linee e dalle forme compositive. Come una musica può evocare sentimenti e pensieri senza per questo riprodurre nessun dato realistico, così la pittura, suggerisce Kandinskij, non ha bisogno di copiare fatti oggettivi e fotografici. «L’arte deve rendere visibile ciò che non sempre lo è» annota in uno dei suoi scritti più famosi, Lo spirituale nell’arte. Intanto in Russia, raccontano i due curatori della mostra, la ricerca dell’arte astratta aveva seguito strade diverse con Casimir Malevich «che mescolava un primitivismo fiabesco tipicamente russo con le conquiste del cubismo» ma lette attraverso le composizioni razionali di Léger. Tra il 1913-1914 Malevich dipinge opere cubo-futuriste dalla composizione a-logica, affollate di lettere collages. E intanto comincia a pensare la svolta suprematista intesa, sulla carta, come supremazia della sensibilità pura. Ma già dopo la rivoluzione russa Malevic abbandonò l’arte per l’insegnamento. Dopo la condanna dell’arte astratta da parte di Stalin, poi l’approdo finale per Malevich sarà una emblematica composizione geometrica di bianco su bianco, drammatico annuncio di una caduta nel vuoto di un nihilismo assoluto.
da Left-Avvenimenti 10 aprile 2009
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