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Il secolo lungo di Rodolfo Mondolfo

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 22, 2012

Socialista laico e sorprendentemente moderno, per una fase vicino a Gramsci, Rodolfo Mondolfo è  un pensatore poco noto in Italia e che ora è  al centro di una  riscoperta. Dopo la pubblicazione di una raccolta di suoi scritti a settembre per Bompiani, esce per l’Asino d’oro edizioni la prima importante monografia che ne ripercorre la vicenda intellettuale.

di Simona Maggiorelli

 

Manifesto del Partito socialista

Manifesto del Partito socialista

Nato a Senigallia nel 1877 e morto nel 1976 a Buenos Aires, all’età di 99 anni Rodolfo Mondolfo ha svolto un’attività intellettuale ininterrotta e, benché appartata, sempre percorsa da un’intenzionalità e da una progettualità politica. Sia quando, nei fecondi anni Dieci, insegnava all’Università di Torino (e forse ebbe allievo Gramsci) sia dopo essersi rifugiato in Argentina per sfuggire alla persecuzioni delle leggi razziali fasciste. Lasciandoci una notevole messe di libri e articoli che, come ricostruisce Elisabetta Amalfitano in questo suo coltissimo e appassionato libro, Dalla parte dell’essere umano. Il socialismo di Rodolfo Mondolfo (L’Asino d’oro edizioni) non furono mai pensati per il chiuso dell’accademia, ma sempre tesi alla elaborazione di una filosofia della prassi capace di rispondere alla necessità di una rivoluzione pienamente umana.

Esigenza tanto più bruciante dopo l’orrore del nazismo e della Shoah , ma anche dopo il fallimento di rivoluzioni come quella leninista che aveva acceso e poi deluso le speranze di riscatto di grandi masse. Con lungimiranza, quando il giovane Gramsci plaudeva alla rivoluzione leninista, Mondolfo criticava un’idea di rivoluzione come strappo violento, come bisogno di fare tabula rasa, contrapponendo alla violenza distruttiva la forza di un cambiamento progressivo e profondo a partire dalla trasformazione interiore degli individui.

Riformista ateo, non violento, antidogmatico, marxista originale che – come scrive Bruno Accarino nella prefazione di questo libro vede il rischio che il marxismo resti schiacciato nella tenaglia di positivismo e idealismo – Mondolfo tentò di sviluppare l’umanesimo marxiano contaminandolo con gli aspetti più innovativi della riflessione filosofica di un pensatore anticristiano come Giordano Bruno e di un filosofo umanista come Russeau, con cui condivideva l’idea che l’essere umano vada considerato nella sua interezza, non scisso fra soggetto e prassi. Memore della lezione di Feuerbach, per il quale non è Dio che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea Dio, Mondolfo diversamente da molta parte degli intellettuali del Novecento non ha l’idea di un uomo originariamente cattivo perché segnato dal peccato originale e immutabile. Diversamente da molti intellettuali del suo tempo (come ad esempio Freud di Psicologia delle folle e analisi dell’io 1921). Mondolfo pur avendo attraversato due guerre non ha perso la fiducia nell’uomo, nelle sue capacità di evolvere, di avere un rapporto sano, non distruttivo, con la realtà e con i propri simili. Pensa un essere umano che non ha bisogno di essere eterodiretto da una morale religiosa che controlli il Caino che è in lui né da un partito “novello principe” che lo guidi verso l’orizzonte palingenetico della dittatura del proletariato.

Figura inaspettata e affascinante, dunque, questa di Rodolfo Mondolfo, così come emerge dalle pagine di questo bel libro di Elisabetta Amalfitano. Un libro (altri poi lo argomenteranno meglio di me) che oltre a colmare la vistosa lacuna negli studi che fin qui ha inspiegabilmente riguardato Mondolfo, ha il pregio di una scrittura limpida e originale intrecciando ricostruzione storica, narrazione, interviste a filosofi, politologi e scienziati, per formulare da ultimo una propria proposta politico filosofica incentrata su una innovativa idea di umanesimo scientifico.

Una proposta che entra attivamente nel vivo del dibattito politico attuale sbaragliando il campo dalle medievali proposte di un umanesimo cattolico che continuano a circolare dentro la sinistra e trovano oggi la più imbarazzante versione nella proposta addirittura ratzingheriana di MarioTronti, Pietro Barcellona e GiuseppeVacca ( vedi il volume di Barcellona Tronti, Sorbi, Vacca, Emergenza antropologica. Per una nuova alleanza tra credenti e non credenti, Guerini editore, 2012,) .

In questo momento così importante per la sinistra che, dopo il crollo delle grandi ideologie, ha assoluta necessità di ripensare la propria identità per uscire dall’orizzonte della sconfitta, trovo molto stimolante la proposta di Elisabetta Amalfitano che, attraverso Mondolfo, ci invita a pensare a un umanesimo ateo, diverso dall’umanesimo comunista che non sa vedere oltre la realtà anatomo fisiologica del corpo e si limita a parlare di soddisfazione dei bisogni, senza pensare alle esigenze di qualità della vita sociale, di rapporti umani, di conoscenza e formazione che è altrettanto insopprimibile oggi. Con questo libro insomma Elisabetta coraggiosamente ci invita a guardare oltre un materialismo che è erede di Platone e della scissione di Cartesio e a ripensare criticamente il pensiero di autori per i quali tutto ciò che non è materiale sarebbe spirituale. Approdando così ad un umanesimo finalmente capace di concepire che il pensiero umano nasce dalla biologia e capace di osare pensieri nuovi.

Originalità di riflessione rivolta al presente, dunque, ma anche originalità di un nuovo metodo di ricerca. Come quello che emerge da questo libro. In un momento in cui nei settori più avanzati delle scienze si sta andando verso un superamento si un approccio riduzionistico ( vedi la teoria della complessità di Prigogyne), in un momento in cui si assiste alla riunificazione del campo delle conoscenze relative alla realtà umana, fra psichiatria , biologia e persino alcune branche delle neuroscienze, mi sembra particolarmente interessante il metodo interdisciplinare che Elisabetta Amalfitano ci propone nel in questa monografia su Rodolfo Mondolfo, attivando un campo sinergico fra discipline differenti che tocca la filosofia, la politica, l’antropologia e la psicologia più profonda.

 Presentazione del libro di Elisabetta Amalfitano, Dalla parte dell’essere umano, il socialismo di Rodolfo Mondolfo, L’Asino d’oro 2012. Firenze , 9 novembre 2012, Libreria IBS.Con l’autrice, i filosofi Bruno Accarino Unversità di Firenze e Salvatore Cingari, Università per stranieri di Perugia e la sottoscritta

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Nella fucina dell’Umanesimo

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 31, 2012

di Simona Maggiorelli

Paolo Uccello, La battaglia di San Romano, Uffizi

Una selva di lance spezzate e il bagliore delle armature. E poi il sangue, i soldati morti mentre i cavalli scalciano con vigore. Così rappresentava, con una prospettiva inedita e in scorci vertiginosi, la Battaglia di San Romano (1438-1440) il pittore Paolo Uccello.

La tela conservata agli Uffizi, dopo tre anni di restauro, ha recuperato ora una piena leggibilità. Brillano gli inserti d’oro e d’argento ma soprattutto emerge la raffinata pittura tonale che dà profondità alla scena, in cui anche lo spettatore è come risucchiato.

Quella che Paolo Uccello offre è una magnifica visone dello scontro fra senesi e fiorentini, una potente orchestrazione di «caos, clamore, urto, sventolio araldico e sonorità metalliche d’un estremo sogno cavalleresco», come annota la soprintendente al Polo Museale Fiorentino Cristina Acidini in un suo saggio pubblicato nel catalogo Giunti della mostra Bagliori dorati. Il gotico internazionale a Firenze

. Una rassegna aperta fino al 4 novembre nella Galleria degli Uffizi e che alla fine di un percorso di oltre cento opere culmina proprio con la Battaglia di San Romano, l’unica tavola del celebre trittico di Paolo Uccello rimasta in Italia. (Le altre  due tele , come è noto, sono alla National Gallery di Londra e al Louvre di Parigi).

Curata dal direttore degli Uffizi Antonio Natali, con Enrica Neri Lusanna e Angelo Tartuferi, questa mostra è l’ideale proseguimento di quella di un paio di anni fa intitolata L’eredità di Giotto, e che si fermava al 1375. La tesi scientifica di questa importante esposizione – che riunisce capolavori di Gentile di Fabriano come la Pala Strozzi e opere giovanili di Paolo Uccello come L’Annunciazione proveniente da Oxford o la Madonna di Antonio Veneziano conservata ad Hannover – è che il gotico internazionale, nelle sue varie declinazioni fosse già parte dell’Umanesimo, al pari del filone innovativo che va da Masaccio a Donatello e Brunelleschi.

La Battaglia di San Romano, da questo punto di vista, si presenta proprio come una sintesi potente della complessità intellettuale e creativa di quella speciale stagione dell’arte fiorentina che senza soluzione di continuità procede dal Trecento al secolo successivo e in cui, per dirla con Natali, «rigore matematico e sperticate fantasie convissero, intersecandosi talora».

Lorenzo Monaco, particolare

Tutto ciò è raccontato attraverso una scelta di opere realizzate tra 1375 e il 1440, fra cui dipinti di Angelo Gaddi, Beato Angelico, Lorenzo Monaco, ma anche di Masolino da Panicale, Antonio e Domenico Veneziano e altri artisti dai nomi meno noti al grande pubblico ma che testimoniano bene della ricchezza di stili e di sperimentazioni della Firenze protoumanista.

Dove un ruolo preminente aveva anche la scultura che doveva esprimere la magnificenza della città legittimandone il primato culturale e politico. Un aspetto indagato anche dallo storico dell’arte ungherese Miklós Boskovits scomparso un anno fa a Firenze. Fra i massimi studiosi del XIII-XV secolo, ai suoi lavori si deve la rilettura del Quattrocento fiorentino come fucina di innovazione in cui un raffinato gotico internazionale incontrava l’interesse per l’umano e lo studio della classici.

Una koinè che, come argomenta Michele Tomasi nel suo L’arte del Trecento in Europa (Einaudi), risulta incomprensibile se letta in contrapposizione con il Trecento e senza considerare il coevo contesto europeo.

da left-avvenimenti

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Fame di realtà

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2012

Il Manifesto del New Realism lanciato dal filosofo Maurizio Feraris sarà al centro di un convegno dal 26 al 28 marzo a Bonn. E l’addio al Postmoderno si fa sempre più internazionale

di Simona Maggiorelli

Maurizio Ferraris

Maurizio Ferraris

Annunciato sei mesi fa, scatenando da subito una appassionata discussione pubblica sui media (dai giornali alla radio, come raramente accade in Italia per questioni culturali), il Manifesto del nuovo realismo lanciato da Maurizio Ferraris diventa libro per Laterza e approda a una discussione internazionale. Dal 26 al 28 marzo a Bonn se ne discuterà in un convegno «a cui prenderanno parte filosofi analitici e continentali, di varie generazioni» anticipa a left il filosofo torinese. «Perché- spiega il professore – il ritorno del realismo non è una semplice questione accademica italiana, è un movimento filosofico ormai in corso da decenni. La filosofia e la vita, hanno fame di realtà, dopo decenni in cui si è ripetuto che non ci sono fatti, solo interpretazioni, che non c’è differenza tra realtà e finzione…».   Decenni durante i quali il postmodernismo è diventato egemonico  non solo nella cultura ma anche in certa parte della società e della politica. «Con i bei risultati che si sono visti – approfondisce Ferraris-, trionfi dei populismi mediatici, aumento delle diseguaglianze, e guerre scatenate sulla base di finte prove di armi di distruzione di massa».
E chi conosce un po’ il lavoro di Ferraris sa anche che per l’ex allievo di Derrida e oggi ordinario di filosofia teoretica all’Università di Torino non si tratta di una svolta improvvisa. «Per quello che mi riguarda la svolta risale a quasi vent’anni fa, quando ho visto che il postmoderno si stava trasformando in populismo mediatico», racconta. «In questo senso il mio Manifesto è anzitutto una ricapitolazione, il tentativo di argomentare, in modo piano, sperabilmente non dogmatico e non predicatorio, le ragioni del realismo». Con un metodo di pensiero affilato in tanti anni di critica e di decostruzione del logocentrismo su cui si basa la filosofia occidentale.

Proprio questo tema della messa in discussione della supremazia del Logos, come phonè, voce, anima (che porta con sé l’annullamento di ciò che è materia, corpo, “gramma”) è al centro del libro di Ferraris L’anima e l’iPad edito da Guanda. Un saggio di cui il filosofo è tornato a parlare il 9 marzo, al Teatro studio dell’Auditorium, nell’ambito della rassegna romana “Libri Come”. La cultura occidentale, nota  Maurizio Ferraris in questo libro, per secoli si è basata sulla contrapposizione fra anima, spirito “autentico” e lettera inerte, morta. «San Paolo diceva che lo spirito vivifica e la lettera uccide. In linea con Platone e la sua condanna della scrittura». Così religione cristiana e Logos greco, alla fine, sono andati “a braccetto” nella condanna di ciò che nell’essere umano è biologia, corpo, psiche e non anima astratta.
«Sta anche alla filosofia (oltre che alla vita) ricordare che le cose non stanno esattamente così», commenta Ferraris, «che senza la lettera non ci sarebbe lo spirito, senza la materia non c’è niente. Tanto che perfino le religioni universali, le religioni dello spirito, come l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, sono tali essenzialmente perché sono religioni del libro, cioè della lettera. Non dobbiamo dimenticarlo e credo che proprio in questo consista il nocciolo vitale di ciò che Jacques Derrida ha chiamato decostruzione».
Accanto  alla   decostruzione, il postmoderno, come è noto, “ha prodotto” il cosiddetto pensiero debole. Il filosofo Gianni Vattimo ne è stato il teorico. Nel suo nuovo libro Della Realtà, appena uscito per Garzanti, Vattimo, torna a dirsi «catto-comunista» e rilancia l’idea di una ermeneutica nihilista. Contro ogni «tentazione di realismo». Un nihilismo del pensiero, che secondo Vattimo, andrebbe assunto «come vocazione anche in senso religioso nella nostra epoca e come una specifica chance di emancipazione».
Professor Ferraris, ma da professioni di fede e dal rifiuto di leggere la realtà può davvero nascere un progetto emancipatorio?
Questa è la convinzione di Vattimo, rispettabile e radicata, ma anche un dogma che non vuole mettere in discussione. Il che è singolare per un teorico del dialogo e del confronto. Mi limito perciò a due osservazioni. Non credo che il realismo sia una “tentazione”: la realtà ci circonda e ci sollecita in ogni istante, ci chiama a prese di posizione, a responsabilità, a decisioni. Può essere molto dura e molto impegnativa, ma è il piano su cui ci giochiamo tutto, sotto il profilo teorico, politico e morale. Proprio per questo può sorgere, casomai, la tentazione non già del realismo, ma dell’irrealismo: l’oblio, lo stordimento, la favola e l’illusione. È un processo vecchio come il mondo. Di qui la mia seconda osservazione. Se si rifiuta la realtà diventa strutturalmente impossibile qualunque progetto emancipatorio, per il semplice motivo che diventa impossibile stabilire se ci stiamo emancipando (e se stiamo emancipando qualcuno, perché non siamo soli al mondo), o se, al contrario, stiamo raccontando una favola in cui si parla di emancipazione. L’emancipazione è una bella cosa, ma senza esami di coscienza e senza principio di realtà è una vuota parola.
Per Gianni Vattimo il discorso nazista di Heidegger sarebbe liberatorio. Lo ribadisce nel nuovo libro. Mentre la verità è violenza e la realtà è dominio. Un pensiero progressista e coerente può avere premesse così “ossimoriche”?
La sua è una domanda retorica. Certo che no. Bisognerà, in futuro, scrivere una storia culturale che renda conto della stranissima circostanza per cui pensatori radicalmente di destra come Nietzsche e Heidegger hanno potuto venire considerati come gli ispiratori di una politica di sinistra. È un meccanismo che fu analizzato da Lukács: gli intellettuali sentono l’ingiustizia sociale e avvertono la necessità di un cambiamento, ma al tempo stesso non se la sentono di fare nulla di concreto, né di mettere in gioco la loro condizione e i loro privilegi. Per cui riforme e rivoluzioni avvengono in un cielo mitico.
«Non penso che si possa fare buona filosofia ignorando la scienza del proprio tempo», lei ha ribadito in una recente conferenza all’Istituto svizzero di Roma. Ma Foucault sosteneva che i malati di mente sono solo vittime di uno stigma sociale. Mentre l’affondo heideggeriano contro la tecnica porta i suoi epigoni anche in Italia a diffidare anche dello sviluppo delle biotecnologie. Da dove nasce questo attacco alla scienza?
Secondo me è un discorso molto antico e autoctono, che risale alla critica della scienza da parte del neoidealismo italiano. Il filosofo si sente non solo un umanista (nel che ovviamente non c’è niente di male), ma intende il proprio umanismo come una militanza contro la scienza (il che è assurdo). Ed è significativo che sia solo un discorso di facciata. Non conosco un solo filosofo critico della scienza che quando sta male non cerchi di essere curato dal migliore specialista.

da left-avvenimenti

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La bellezza incarnata

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 5, 2011

A Forlì una mostra invita a riscoprire Melozzo e i suoi «trovatori del cielo». Studiò a fondo la pittura di Piero della Francesca, umanizzandola

di Simona Maggiorelli

Melozzo da Forlì frammento di affresco

Un incontro di liuti, tamburi, mandolini. Un concerto di armonia di forme e di colori. Che suggerisce allo spettatore un’immagine idealizzata di vita a corte, fra poesia e musica. Non certo un orizzonte sacro e dottrinale che sa di morte.

Tanto che nella sua storia dell’arte italiana del 1913 Adolfo Venturi aveva definito gli angeli di Melozzo da Forlì «trovatori del cielo». Così, con tocco immediato e fresco, evitando l’ombra claustrale ed infida, l’architetto e pittore Melozzo di Giuliano degli Ambrosi (1438- 1494) fa vivere queste sue creature celesti in piena luce, lasciando che un sole radiante riscaldi i suoi quadri.

In pieno Quattrocento, in un’area romagnola ancora artisticamente attardata rispetto a quanto stava accadendo per esempio in Toscana, Melozzo riuscì a voltare i diktat della committenza ecclesiastica a favore di una limpida poetica inneggiante alla vita e all’arte. Distillando un proprio stile originale a partire dallo studio della pittura di Piero della Francesca. Leggendo in profondità l’arte del pittore aretino e umanizzandola. Facendo della bellezza enigmatica e mistica delle Madonne di Piero una bellezza incarnata e presente.

Pier della Francesca madonna Senigallia

Una preziosa summa della pittura di Melozzo è offerta fino al 12 giugno dalla mostra Melozzo da Forlì. L’umana bellezza tra Piero della Francesca e Raffaello (catalogo Silvana editoriale). Una monografica di grande valore scientifico anche perché il direttore dei musei Vaticani Antonio Paolucci, con i curatori Mauro Natale e Davide Benati, è riuscito a ricostruire nei Musei di San Domenico a Forlì una buona parte del complesso programma di pitture che Melozzo realizzò nel 1480 nell’abside della chiesa dei Santi Apostoli: un grande affresco dedicato all’Ascensione di Cristo e tradotto visivamente dal maestro forlivese in una dinamica sequenza di scorci, di punti di vista, di salti, tanto da far sembrare l’insieme una danza. Il colpo d’occhio finale, per quanto frammentario (l’affresco fu ridotto in 14 frammenti nel 1711) lascia l’impressione di una affascinante macchina teatrale, precorritrice delle invenzioni visive di Correggio e di Veronese. Ma l’aver radunato a Forlì una dozzina di dipinti di Melozzo non è l’unico merito di questa mostra che squaderna una sessantina di opere di altri artisti di area romagnola, ricostruendo così quella temperie culturale in cui poi si sarebbe formato Raffaello. Ma non solo. In mostra a Forlì s’incontra anche un capolavoro da poco restaurato come la Madonna Senigallia di Piero della Francesca (che Melozzo aveva conosciuto tra il 1465 e il 1475 a Urbino). Proprio nella colta corte urbinate, come ci ricordano i curatori, l’artista conobbe anche la pittura di fiamminghi e spagnoli come Giusto de Gand e Pedro Berruguete e approfondì quegli studi sulla prospettiva che, tra il 1475 il 1484, gli avrebbero permesso di conquistare la fiducia papale.

da left-avvenimenti 2011

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Bronzino, in nuova luce

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 12, 2010

Per la prima volta a Firenze è riunito gran parte del corpus delle opere del pittore manierista. Un inedito naturalismo emerge
da alcuni suoi ritratti intimi e poco noti

di Simona Maggiorelli

Bronzino, Ritratto di donna 1530

Tornando a Firenze per l’antologica che Palazzo Strozzi dedica fino al 23 gennaio a Bronzino (1503-1572) pensavamo di andare a ritrovare l’arte raffinata e un po’ esangue di questo pittore che fu allievo e amico di quell’«omo fantastico e solitario» che era il Pontormo nella testimonianza di Vasari. Diversamente dal suo orgoglioso e introverso maestro, si sa, Agnolo di Cosimo detto Bronzino mise da parte gli ardori repubblicani per mettersi al servizio della committenza medicea, quando, finito il sogno della seconda Repubblica fiorentina, con la salita al potere di Cosimo I Medici nel 1540, se ne presentò necessità. Così con Bronzino, e più ancora con la “seconda maniera” di Daniele da Volterra, Vasari e Salviati, anche a Firenze la retorica di corte prese il posto dell’originalità inquieta e dell’irriverenza di Pontormo e di Rosso. La statica bellezza di cera di Eleonora da Toledo, ritratta da Bronzino nel 1545, sembra campeggiare al centro di Palazzo Strozzi proprio per ricordarcelo. Circondata com’è da tante scene mitologiche che, su indicazione degli intellettuali dell’Accademia di Ficino, Bronzino riempì di simboli neoplatonici e di figure scultoree, algide e smaltate, recuperate dall’antico. Grandi tele come Venere, Amore e satiro (1553) della Galleria Colonna ci appaiono qui ormai lontanissime dalla vibrante rappresentazione di Pigmalione e Galatea con cui in anni giovanili Bronzino alludeva alla liberazione di Firenze.

Ma uno dei maggiori meriti di questa bella antologica curata da Carlo Falciani e dal direttore degli Uffizi Antonio Natali è proprio questo: aver per la prima volta ricostruito a tutto raggio la parabola di Bronzino attraverso un eccezionale percorso di una sessantina di opere autografe: prestiti dei maggiori musei del mondo ma anche pezzi provenienti da collezioni private e inaccessibili. Un percorso che, con l’aggiunta di tre inediti (fra cui un’inaspettata crocifissione di recente attribuzione) permette ora di vedere chiaramente quanto ricca e poliedrica fosse la ricerca di questo pittore fiorentino del Cinquecento.

Bronzino, Lucrezia Pucci Panciatichi

Come era già accaduto nel 1996, quando con l’indimenticabile mostra L’officina della maniera Natali riaprì la discussione critica sul manierismo, con Bronzino pittore e poeta alla corte dei Medici (catalogo Mandragora) lo studioso toscano adesso sgombra ulteriormente il campo dal deja vu. Lo fa squadernando importanti inediti, come si diceva, ma anche ricontestualizzando filologicamente il lavoro di Bronzino nel dibattito cinquecentesco percorso da correnti carsiche di umanesimo esoterico ma anche da istanze riformiste (che lambirono anche la corte di Cosimo I). Una complessa koiné culturale di cui Bronzino ci ha lasciato testimonianza indiretta attraverso una serie di ritratti intimi e personali. Come quello velato di malinconia di Lucrezia Pucci finita sotto processo per eresia. O come quello che ci mostra un’anonima, ma quanto mai viva, figura di donna stagliarsi dal fondo rosso di un quadro dipinto nel 1530 e appartenente alla collezione della regina Elisabetta II.

Smessi i panni di pittore di corte, sembra di poter dire, Bronzino smetteva anche la bizzarria, il capriccio e il cifrato allegorismo, per lasciarsi andare a una ricerca sull’umanità dei soggetti rappresentati in chiave di sensibile naturalismo. Alla luce di questa nuova interpretazione (che trova sostegno in alcune pagine di Longhi) i due curatori ci invitano così a scorgere una segreta angoscia negli occhi sgranati e nello sguardo perso nel vuoto del giovane Lorenzo Lenzi, dodicenne “amato” e cantato dal Varchi. Similmente il profilo tagliente della poetessa Laura Battiferri, moglie dell’Ammannati e compagna di dispute poetiche dello stesso Bronzino, ci lascia intuire qualcosa di più di quella «anima di ferro» che le cronache del tempo  le attribuivano.

da left-avvenimenti del 5 novembre 2010

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Un enigmatico Leonardo

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 26, 2009

A Milano è in mostra il San Giovanni del Louvre. Con nuove ipotesi sulla sua genesi e storia

di Simona Maggiorelli

Leonardo, San Giovanni Battista Louvre

Lo sguardo magnetico che richiama quello della Sant’Anna nel celebre cartone di Londra. E il sorriso enigmatico che contrasta visibilmente con il gesto della mano, tradizionalmente utilizzato nella pittura sacra per indicare l’Altissimo. Ma che nella concezione umanistica di Leonardo potrebbe anche alludere a una nuova umanità futura.

Gli studiosi per secoli si sono rotti la testa per interpretare questa criptica rappresentazione che Leonardo fece del Battista. E lungamente incerta è rimasta anche la genesi di questa opera conservata al Louvre insieme alla Gioconda, alla Belle ferronnière e a una delle due versioni della Madonna delle rocce, dove un San Giovanni ancora bambino richiama il gesto di questo San Giovanni Battista che, invece, ha l’aria di un giovane Ganimede o di un Bacco pagano (per la pelle di pantera che ha addosso).

Dal 27 novembre al 27 dicembre, eccezionalmente, l’opera sarà esposta in Palazzo Marino a Milano. Le storiche dell’arte Valeria Merlini e Daniela Storti le hanno dedicato una mostra dal titolo Leonardo a Milano.Esposizione straordinaria del San Giovanni Battista di Leonardo da Vinci, che offe l’occasione per fare il punto sugli ultimi trent’anni di studi leonardeschi.

Ne emerge che il quadro probabilmente fu iniziato a Firenze, come ha sostenuto fin dal 1977 Jean Rudel, il quale, studiando le prime radiografie del quadro, rilevava: «L’effetto generale di monocromo scuro, reso più ampio dal fondo unito, rafforza l’impressione di un avvolgimento d’ombra, ancora accresciuto dall’invecchiamento delle vernici superficiali: ciò aumenta il senso di mistero, velando alcune indiscutibili imperfezioni, rese meno percepibili, a prima vista, da una superficie spesso riflettente». Uno strato di pittura retrostante, con effetti di morbido e avvolgente chiaroscuro, contribuiva, secondo l’autrice di Leonardo. La pittura (Giunti), a rendere chiara l’autografia dell’opera. Che lungo la sua tribolata storia, fra sparizioni e riapparizioni in collezioni private, più volte era stata messa in discussione. Così, mentre avanzava fin dalla fine degli anni Settanta l’ipotesi di un’anticipazione della datazione del dipinto ai primi anni del Cinquecento – come ricostruisce Pietro Marani nel saggio pubblicato nel catalogo Skira che accompagna la mostra milanese – Rudel aveva aperto la strada al lavoro fondamentale di Martin Kemp.

In Leonardo da Vinci e mirabili operazioni della natura e dell’uomo (Phaidon e ora Mondadori) lo studioso inglese ha suggerito un’ipotesi affascinante, ovvero che il vero tema del dipinto fosse la luce. Servendosi del chiaroscuro Leonardo cercava «di inserire il rilievo nella superficie dipinta» e al tempo stesso di dare movimento alla figura, con una rotazione dai «mutamenti, potenzialmente infiniti».

Oltre a distinguere i danni reali che maldestri tentativi di restauro nei secoli hanno causato al quadro (che si era andato progressivamente scurendo), Kemp ha avuto anche il merito di fissare definitivamente la datazione del dipinto attorno al 1510, cogliendo il nesso con le ricerche sulle velature atmosferiche che Leonardo fece proprio in quegli anni.

Riguardo alle rocambolesche vicissitudini del quadro – che dopo la morte dell’artista in Francia “sparì” per tornare alla ribalta solo nel 1630 – nuovi studi ipotizzano che la tela sia rimasta sempre a Firenze. Leonardo non l’avrebbe portata con sé a Milano come si pensava. E neanche nella residenza francese Clos Lucé a Cloux nella quale visse gli ultimi due anni della sua vita.

da Left-Avvenimenti del  27 novembre 2009

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Ignazio Marino: “Io non mi arrendo”

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 21, 2009

marino-lapresseTra fughe a destra di Rutelli e rinunce sugli emendamenti, la battaglia parlamentare sul testamento biologico per l’opposizione è durissima. Ma il senatore e medico del Pd che lotta dal 2006 per una legge laica e condivisa, non si tira indietro. “Il ddl del centrodestra attacca i diritti delle persone sanciti dalla Carta” di Simona Maggiorelli

Una standing ovation ha accolto sabato scorso al Teatro Eliseo il senatore del Pd e noto medico trapiantista Ignazio Marino durante l’assemblea convocata dai Radicali e da left su Verità e menzogna sul caso Coscioni, Welby, Englaro. Un lunghissimo applauso, non solo per la coerente battaglia di Marino dal 2006 a oggi per una giusta legge sul testamento biologico, ma anche in protesta della sua repentina e immotivata cacciata da capogruppo in commissione Sanità del Senato. Il Pd, come è noto, gli ha preferito Dorina Bianchi, già relatrice della legge 40/2004 e che già stigmatizza come “un grave errore” l’ipotesi ventilata da Marino di un referendum popolare contro la legge proposta dal centrodestra sul testamento biologico. Il 20 febbraio è la data di stop a ogni possibilità di emendamenti al testo di legge che porta in primis la firma di Calabrò. Da lunedì comincia la discussione in aula e lo stesso senatore e chirurgo Ignazio Marino promette non si tirerà indietro. Lo raggiungiamo altelefono dell’Aula, tardissimo di sera, mentre alcuni senatori andandosene gli chiedono se andrà a cena con la Binetti. Lui scherza, ribatte, ride, ma non commenta le affermazioni della senatrice teodem che minaccia di lasciare il Pd se prevarrà la linea Marino. Parliamo di cose più importanti, sembra dirci fra le righe.

Senatore Marino l’articolo 32 della Costituzione parla di diritto alla salute e di rispetto della dignità della persona umana. Colpisce la lungimiranza dell’assemblea costituente. Nel 1947 non c’era ancora il respiratore automatico né tanto meno l’alimentazione artificiale che, come lei ha notato, sarebbe stata messa a punto negli anni 70. Al di là dello stato della tecnica da parte di chi ha scritto la Carta c’era un’intuizione più profonda su ciò che è l’identità umana?

Sicuramente c’è stato un lavoro affascinante. Da chirurgo non conoscevo approfonditamente i termini del dibattito che ha portato alla stesura dell’articolo 32 della Costituzione. Li ho letti in questo periodo della mia vita in cui, accanto al lavoro medico, ho un impegno da legislatore. E, devo ammettere, sono rimasto davvero ammirato per l’altezza della discussione che a un certo punto si è conclusa su un elemento unificante: il fatto che nello scrivere un articolo che riguardasse la salute bisognava tentare di includere tutti i cittadini, non di escluderne qualcuno. In questa chiave è scritto questo articolo che afferma il principio del diritto alla salute per tutti i cittadini. E qui non si parla solo di cittadini, ma di tutti gli individui che qui si trovano a vivere in Italia. E questo mi pare molto attuale.

Un’attualità della Carta che appare chiarissima se pensiamo a quanto propone la Lega ai medici, ovvero di farsi spie e delatori dei clandestini che chiedano di essere curati.

In questo come in altri casi insisto: non servono nuovi vessatori cavilli, ma mezzi di legge che consentano di attualizzare quanto già è contenuto nella Carta e che va in senso opposto a quanto sostenuto dalla Lega.

In questi giorni abbiamo sentito sui media le cose più contraddittorie sul caso di Eluana. E’ stato detto che sorrideva, che mangiava yogurt che faceva passeggiate in giardino e, addirittura – cercando di “ingentilire” le affermazioni del premier – che avrebbe potuto provare desiderio per un uomo e decidere di avere un figlio. Da medico cosa si sentirebbe di dire per fare chiarezza?ENGLARO ELUANA 1

Evidentemente chi ha avuto espressioni così infelici come quella in cui si affermava che Eluana era in grado di passeggiare nel giardino e anche che era in grado di essere nutrita attraverso la bocca non aveva mai visto Eluana, che io ho potuto visitare. Posso dire che era in uno stato vegetativo persistente. Non aveva nessuna relazione con il mondo esterno. Non era in grado di controllare meccanismi come la deglutizione. Se le fosse stato dato del cibo le sarebbe finito nella trachea e nei polmoni, causandole una particolare polmonite tipica di questi casi, che è mortale.

L’arresto cardiocircolatorio è arrivato rapidamente per Eluana. Il fatto che la sua corteccia cerebrale fosse danneggiata da 17 anni di stato vegetativo può aver determinato una minore resistenza dell’organismo dal punto di vista dei parametri biologici?

Bisogna considerare che Eluana aveva dei danni importanti della corteccia ma anche che segni vitali come la respirazione, l’apertura degli occhi con la luce, eccetera sono funzioni legate al tronco dell’encefalo, non alla corteccia. Si parla di due strutture separate che hanno funzioni separate. Quello che possiamo dire con assoluta certezza è che Eluana era priva di ogni capacità di relazione con il mondo esterno, perché è legata proprio all’attività della corteccia.

Perché il caso di Eluana ha suscitato tante discussioni? Come è stato notato nel caso di Welby ci potevano essere maggiori margini di discussione. Detto altrimenti, quella di Eluana era solo vita biologica, non così per Welby.

Certamente il caso di Eluana è stato amplificato dai media e utilizzato dalla destra per creare una grande emotività confondendo i termini delle questioni. Specie quando si è detto che si privava Eluana del pane e dell’acqua, Eluana da 17 anni non prendeva né pane né acqua. Le venivano somministrate sostanze prodotte dalle case farmaceutiche con una infusione somministrata attraverso una sonda inserita nello stomaco. Insomma una vera terapia medica.

Quella proposta dal centrodestra è una legge inaccettabile, lei ha detto in più occasioni…

La proposta firmata da Calabrò, al contrario di quella che avevo presentato, non contiene interventi a sostegno dei disabilii e delle loro famiglie. Non ci sono misure a favore degli hospice, delle cure palliative e del dolore. In più c’è un’eccessiva burocratizzazione del testamento biologico che, cosi’ scritto, potrebbe arrivare a costringere ogni medico di famiglia ad andare dal notaio centinaia di volte l’anno, perché il documento andrebbe rinnovato ogni tre anni”. Per giunta ogni notaio doverebbe prestare servizio gratis e senza che poi le notazioni registrate risultino vincolanti.

Nel ddl del centrodestra si dice:”L’attività medica in quanto esclusivamente finalizzata alla tutela della vita” non può in nessun caso provocare la morte del paziente. Che significa?

Significa che se un paziente come Welby, cosciente e in grado di comunicare, dice che non vuole più continuare una terapia, un medico non può più sospenderla perché non può disattivare mezzi sanitari che non consentono la morte del paziente. Quindi questa legge contiene di fatto un passo indietro sostanziale rispetto ai diritti delle persone. Qui addirittura si arriva a toccare i diritti di scelta delle persone che sono in sé e si possono esprimere.

Ancora nel testo di legge del centrodestra sul testamento biologico si legge che la vita è un bene indisponibile. Si può accettare che in una legge dello Stato e nella ricerca medica che il pensiero religioso neghi l’evidenza scientifica?

Come chirurgo sono noto perché cerco sempre di utilizzare tutti i mezzi che posso per salvare una vita umana. Alcune volte sono criticato dai miei collaboratori medici e infermieri che mi dicono : “Ignazio lascialo andare”. Io non mi arrendo ma al contempo penso che le indicazioni di un paziente o di una famiglia sulle terapie da fare o da non fare debbano essere prevalenti. Non deve prevalere l’idolatria di una tecnica ma l’umanesimo e la volontà delle persone.

da left-Avvenimenti 20 febbraio 2009

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Quando fioriva il Comune

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 23, 2005

Arnolfo di Cambio, dopo settecento anni a Perugia. Ricostruita la fonte del Grifo e del Leone, l’opera monumentale voluta dalla capitale umbra, influenzata da Nicola Pisano, e distrutta dopo soli venti anni. I cinque marmi che restano parlano un linguaggio nuovo per il Medioevo, anticipatore dell’Umanesimo. Nella mostra anche Cimabue, Duccio, Giotto. Da aprile Arnolfo tornerà nella sua Firenze.

di Simona Maggiorelli

L'assetata di Arnolfo di Cambio

L'assetata di Arnolfo di Cambio

A settecento anni dalla morte di Arnolfo di Cambio (Colle Val d’Elsa tra il 1240 e il 1245 – Firenze, intorno al 1302), dopo la bella mole di mostre e di convegni che la sua terra di nascita gli ha dedicato un paio di anni fa, l’Umbria prosegue il cammino di studi organizzando intorno al periodo umbro di questo maestro della scultura e dell’architettura tardomedievale: un doppio percorso espositivo, giocato fra Perugia e Orvieto e che ha anche il sapore di un invito alla scoperta della cosiddetta Umbria “minore”, disseminata di abbazie, di chiese e palazzi e castelli duecenteschi fra Assisi, Spello e Bevagna, Giano dell’Umbria, Massa Martana, Todi, Titignano e Prodo .
La mostra, Arnolfo di Cambio, una rinascita nell’Umbria medievale, curata da Vittoria Garibaldi e Bruno Toscano, ha un pregio innanzitutto: quello di ricostruire un importantissimo pezzo perduto del repertorio di Arnolfo di Cambio, la sua fonte del Grifo e del Leone, detta anche degli Assetati, l’opera monumentale, e divenuta poi quasi leggendaria, che realizzò su commissione del comune di Perugia e in cui – come documentano i pochi pezzi superstiti – fortissima era l’influenza del maestro Nicola Pisano, lo scultore toscano che aveva coinvolto Arnolfo nei lavori per il Duomo di Siena e nella realizzazione dei rilievi dell’Arca per San Domenico Maggiore a Bologna, e che gli aveva trasmesso un senso più leggero, più mosso ed espressivo delle figure scolpite.

Con la fonte del Grifo e del Leone siamo nel pieno periodo della fioritura comunale, in quella parte del XIII secolo quando il governo di molte città medievali si fece più democratico e popolare, anche attraverso la creazione della figura del capitano del popolo.
In quell’ultimo scorcio di Medioevo, insomma, in cui le istituzioni pubbliche e civili cominciavano a “investire” in opere architettoniche e d’arte, concorrendo con la committenza ecclesiastica (che in Umbria era fortissima, per la presenza papale, ma anche grazie a diffusi e ramificati ordini mendicanti) attraendo artisti e maestranze, fra le migliori su piazza, come quella di Arnolfo, la cui fama si legava alla fabbrica di Santa Maria del Fiore a Firenze, ma anche alle commissioni papali che, nel corso della sua vita, lo portarono più volte a Roma. In questo quadro, dopo che il governo comunale aveva dato il via alla costruzione del grande acquedotto che avrebbe portato in città l’acqua pulita del contado, fra il 1278 e il 1281, Arnolfo scolpì la sua portentosa fonte, in origine collocata in piazza Grande, dal lato opposto della fontana Maggiore, dove rimase fino agli inizi del Trecento quando, durante un periodo di forte crisi della città, andò distrutta. Un’opera dalla vita breve, anzi brevissima, durata appena vent’anni, ma che ha lasciato un segno fortissimo nella storia dell’arte italiana.

Oggi ne restano solo cinque marmi con figure scolpite di grande intensità espressiva e che testimoniano il linguaggio colto e raffinato, nuovissimo per il Duecento, con cui Arnolfo di Cambio in qualche modo anticipò la svolta culturale dell’Umanesimo.
Fino all’8 gennaio 2006, per tutta la durata della mostra, nella galleria nazionale di Perugia, i cinque marmi scolpiti tornano a ricomporsi nell’originario progetto architettonico concepito dall’artista toscano, con le grandi statue bronzee del grifo e del leone reinserite nell’originaria struttura monumentale della fonte.

Ma accanto alle testimonianze della scultura arnolfiana in Umbria la doppia mostra curata da Garibaldi e Toscano, offre anche la possibilità di uno sguardo sinottico sulle conquiste dell’arte dell’Italia centrale nel Duecento, con una serie di opere di Cimabue, Duccio di Boninsegna e Giotto. A catalizzare l’attenzione, in questo caso, sono sopratutto gli affreschi staccati provenienti dalla Basilica di S. Francesco di Assisi: il grande Angelo di Cimabue, (rimosso dalla tribuna della chiesa superiore per una ricerca sul suo stato di conservazione), e una figura allegorica di Giotto, staccata dall’abside della chiesa inferiore, e che viene dal Museo delle Belle Arti di Budapest.
E se a Perugia, nella sala Podiani della Galleria Nazionale, un’intera sezione è dedicata alla ricostruzione del contesto storico e politico in cui Arnolfo di Cambio visse, tra XIII e XIV secolo, un periodo, come si diceva, caratterizzato da grandi trasformazioni culturali, sociali e urbanistiche, legate alla presenza delle residenze papali nelle due città umbre, nella chiesa di Sant’Agostino, a Orvieto, si possono ripercorrere tutte le fasi della costruzione della grande macchina del nuovo Duomo: il cantiere trecentesco, cosmopolita, variegato, crocevia della scultura gotica internazionale, a cui Arnolfo di Cambio partecipò con il progetto del monumento funebre al Cardinal de Braye.
Anche in questo caso un’opera in parte andata distrutta e poi ricostruita filologicamente dagli studiosi.

Da quello che resta – ovvero il cardinale rappresentato disteso sul letto funebre, con ai lati due chierici che chiudono le cortine e il feretro sormontato dalle statue della Madonna con Bambino. San Domenico e San Marco – si percepisce che l’opera era un esempio di quella geniale fusione di architettura e scultura che Arnolfo di Cambio introdusse nella storia dell’arte italiana. Anche qui, però, come nel caso della fonte di Perugia, molte sono le lacune. Sulla nascita, sulla fortuna e sulla distruzione della fontana, ampio spazio è dato nel catalogo edito da Silvana che accompagna la mostra umbra con contributi di Maria Rita Silvestrelli, Attilio Bartoli Langeli, Clara Cutini, oltre a quelli dei due curatori. Ma il mistero dell’assoluta modernità dell’opera di Arnolfo di Cambio, così come le sue origini, ancora oggi in parte incerte, invitano a continuare il lavoro di conoscenza di questo straordinario artista. Dal prossimo 25 dicembre (e fino al 21 aprile 2006) il testimone passerà a Firenze con la mostra Arnolfo alle origini del Rinascimento fiorentino, allestita al Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. In mostra una novantina di sculture in marmo e legno attribuite all’artista toscano, tra cui l’Annunciazione del Victoria and Albert Museum di Londra, e la Madonna Loese di Palazzo Vecchio a Firenze. A completare il contesto – per dare un quadro artistico complessivo di Firenze all’epoca di Arnolfo – saranno esposte anche sculture, pitture e oreficerie del tardo Duecento fiorentino.
La sfida che si sono dati i curatori di questa mostra fiorentina è alta: fare un confronto tra le opere arnolfiane giunte fino a noi e di tentare finalmente una ragionata ricomposizione della perduta facciata di Santa Maria del Fiore, capolavoro incompiuto di Arnolfo, smembrato e disperso alla fine del Cinquecento.

da Europa del 23 luglio 2005

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