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Archive for settembre 2010

Giulio Giorello: non posso che dirmi ateo

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 21, 2010

Dal 16 settembre in libreria il nuovo libro dell’eminente filosofo della scienza, Senza Dio,

di Simona Maggiorelli

giulio giorello

Viaggiando nelle sei contee dell’Ulster, la cosiddetta Irlanda del Nord, per raccontare la guerra sulle pagine del Corriere della Sera, una volta mi ritrovai a dover chiedere ospitalità per la notte presso una famiglia di campagna», racconta Giulio Giorello. «Stavo già sistemando il bagaglio – prosegue il filosofo – ed ecco la domanda: “cattolico o protestante”? Preso alla sprovvista, mi venne spontaneo dire: “Sono ateo”.  Un attimo di silenzio perplesso e il mio interlocutore rilancia: “Sì, ma ateo protestante o ateo cattolico?”».
Un episodio di vita che il docente di Filosofia della scienza dell’università Statale di Milano ama ricordare parlando di inveterate abitudini a credere («per non fare la fatica di pensare»), di insopportabili sudditanze alla religione e di vecchi e nuovi roghi. Lo ha richiamato anche sabato scorso dal palco del festival Con-vivere di Carrara (dove left l’ha incontrato) per spiegare “il caso Irlanda”. E usa ancora questo aneddoto rivelatore, a mo’ di grimaldello narrativo, nel nuovo libro Senza Dio, del buon uso dell’ateismo (Longanesi) che il professore ha presentato il 19 settembre nell’ambito del festival Pordenonelegge.
E riavvolgendo il filo della propria biografia, ricorda Giorello nel  saggio fresco di stampa, già sui banchi di scuola cominciava a fare sue posizioni agnostiche: grazie a pensatori come Bertrand Russell e al suo Perché non sono cristiano  pubblicato in Italia da Longanesi nel 1959 e letto quasi di contrabbando perché «allora appariva come un testo tragressivo, peggio di Lolita di Nabokov».
Ma anche “grazie” a don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione, che Giorello aveva come  insegnante di religione al liceo Berchet di Milano. Nel frattempo assorbiva enzimi di ateismo studiando l’evoluzionismo di Darwin. Ma anche filosofi ed economisti come John Stuart Mill. E perfino pensatori eccentrici come il francese Pierre Bayle. Nel Seicento sosteneva che nel mondo cosiddetto civile non c’era ancora «una società di atei» solo perché gli atei erano perseguitati dai fanatici religiosi tanto da dover vivere mascherati.   «Anche per constatazioni del genere, dirmi agnostico non mi bastava più», chiosa oggi Giorello.
Professore, cinque anni fa per Raffaello Cortina ha scritto il pamphlet Di nessuna chiesa. Ora intitola Senza Dio il suo nuovo saggio. Non basta criticare l’istituzione, serve una critica del pensiero religioso?
Sì e nella situazione attuale preferisco dichiararmi francamente ateo. Purché ateismo non significhi passare la vita a cercare prove della non esistenza di Dio. In questo mi stacco da vari amici e colleghi come Christopher Hitchens (autore di Dio non è grande, Einaudi, 2007, ndr). Per me ateo è chi reclama per sé il diritto di vivere senza Dio o, se si preferisce, di vivere contro Dio, cioè contro uno dei tanti dèi che i fondamentalisti del libro sacro ci sbattono davanti come punto di riferimento pretendendo  di irreggimentare anche la nostra vita. Perciò mi sento vicino a Bayle quando, contro l’opinione diffusa al suo tempo, sosteneva che fosse possibile una società di atei. E che non ci fosse bisogno di alcuna religione come cemento sociale.
Anche «una religione della libertà» in senso crociano è dannosa?
A mio avviso, non solo non c’è bisogno di una religione civile, tradizionale o meno. (Come il materialismo dialettico nel comunismo sovietico. Che poi fu il peggior servizio reso a Marx). Ma rivendico anche di non aver bisogno di una religione della libertà; voglio la libertà di non avere religione. Sono assai poco crociano. Parlare di religione della libertà è un po’ come dire Popolo della libertà. Sono allocuzioni come circolo quadrato. Da quando in qua si deve ragionare secondo il detto vox popoli vox dei? Ciò non vuol dire che non abbia fiducia nel sistema di consultazione e di rappresentanza popolare. Abbiamo talmente fiducia che vorremmo anche migliorarlo. Del resto Manzoni diceva già che il detto vox popoli vox dei copre ogni forma di demagogia e di tirannide. Insomma non c’è un popolo delle libertà, non c’è un Dio che elargisce la libertà, ce la prendiamo da soli. Non è un dono dall’alto, non dobbiamo ringraziare il cielo ma neanche pensare che la libertà sia una malattia. Non dobbiamo essere vaccinati. Perciò in questo libro un po’ idiosincratico che left presenta scrivo che il mio ateismo è “metodologico”, libertario. è un esercizio della libera scelta. La filosofia non  impone niente .
Ma usa le armi della critica corrosiva e dello sberleffo? Come Giordano Bruno. Oppure come Camus, «l’ateo ribelle».
L’arma del sarcasmo è legittima, quella del fuoco no. Il Corano, la Bibbia, e perfino le encicliche non sono testi da bruciare; sono documenti da leggere. Ma senza servilismo. è faticoso pensare, è molto più facile affidarsi a un pastore. Ecco, questa cosa della “pastorizia” mi innervosisce. Come diceva Mill, gli uomini e le donne non sono pecore. Mutatis mutandis, nel mio saggio non do risposte. Vorrei che la risposta venisse con persone desiderose di sforzarsi per la verità. Che è una ricerca continua, non un possesso. Mi piacerebbe venisse da un dialogo. Sto con Spinoza quando diceva che le religioni stabilite sono sistemi di menzogna, un grande «asilo dell’ignoranza».
Quello spinoziano, lei nota, era però «uno strano ateismo».
Era ambiguo. Se Dio è uguale alla natura, allora teniamoci la natura, disse de Sade ragionando in termini spinoziani. Qualcosa di analogo lo troviamo in Leopardi, che qualcuno tenta di far passare per spirito religioso: disinvolti tentativi cattolici. Potrebbero far santo anche Oliver Cromwell. Questi sono capaci di tutto.
Tanto da tentare, complice certa politica di destra, di far fuori Darwin dai programmi scolastici e, Oltreoceano, di imporre il “Disegno intelligente”. Al creazionismo però risponde la scienza con chiarezza parlando di processi di autoorganizzazione della materia vivente. Un’idea che trova sostenitori in Hawking e in Prigogine. Prendere atto che noi non nasciamo dal nulla e che la biologia nasce da altra biologia è la base dell’ateismo?
Sì. Io non sono d’accordo con quei filosofi che hanno liquidato le posizioni di Stephen Hawking come scientiste. penso, invece, che ponga un problema importante. Lei ha detto bene, la nostra biologia viene da altra biologia, la nostra fisica da altra fisica. «Creazione senza creatore», per dirla con Telmo Pievani. In Senza Dio riprendo una domanda: dove posa il mondo? Una storiella indiana dice che si trova sulla testa di una tartaruga. E questa dove posa? Sulla testa di un’altra tartaruga. E così via. Possiamo prospettare una sequenza infinita. Ma perché non chiuderla subito lì? Se uno vuole ancora parlare di Dio non deve cercarlo fra le particelle elementari o nella nostra biologia come tenta di fare Ratzinger pretendendo che il volto di Dio sia nel Dna o come faceva Pio XII quando parlava del «dito di Dio nel Big bang». Parliamo di uomini di primo piano della Chiesa come Ratzinger. Ma anche di intellettuali apparentemente dissidenti come il teologo Vito Mancuso, che alla fine trova sempre il dito di Dio da qualche parte. E chi legge l’evoluzionismo attribuendogli una forma di finalismo che Darwin non avrebbe mai giustificato. Basta leggere gli scritti di Darwin per rendersi conto che questa lettura provvidenzialistica non gli passava per la mente. Una teologia coraggiosa non dovrebbe cercare queste forme di compromesso, semmai dovrebbe avere il coraggio di “cercare Dio” dentro se stessi, nel proprio cuore, nella propria morale, nella propria vita. Aveva ragione Bruno: è inutile che cerchiamo Dio nei cieli adesso che sappiamo che la fisica dei cieli è la stessa di questa nostra terra, ma ricordiamoci «che egli è dentro di noi, più dentro di noi di quanto siamo noi a noi stessi». Lo scrisse ne La cena delle ceneri. Peccato che poi un libro così profondo sia finito in cenere nel senso tecnico del termine.

dal settimanale  left-avvenimenti 17-23 settembre 2010

I
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Sabra, un eccidio in nome di Dio

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 12, 2010

Esce in Italia Sabra zoo. Un esordio toccante. Per  ricordare il massacro di civili palestinesi a Sabra  e Shatila. Compiuto  da libanesi e israeliani

Malgrado il successo del film Un valzer con Bashir, oggi l’eccidio di Sabra e Shatila pare caduto nell’oblio. E pochi giovani sanno cosa accadde veramente tra il 16 e il 18 settembre di quel 1982 quando cristiani maroniti libanesi, controllati dall’esercito israeliano, massacrarono centinaia di civili palestinesi nei campi profughi. Anche per questo il giornalista Misha Hiller ha deciso di tornare a documentare quell’assassinio a freddo di persone inermi. Ricorrendo alla narrazione per arrivare a un più largo pubblico.

Salutato dalla critica di Oltreoceano come un importante esordio. il suo toccante Sabra Zoo esce il 16 settembre in Italia per Newton Compton con il titolo Fuga dall’inferno. «La spinta a scrivere è nata dal rendermi conto che nessuno aveva raccontato davvero questa storia. Di certo non in Occidente», racconta Hiller a left. «Ma anche dall’essermi accorto di quanto questa storia abbia conseguenze nel presente: se vogliamo capire che cosa sta accadendo in Occidente con tensioni e scontri fra culture dobbiamo aprire gli occhi su quanto sta accadendo nel mondo arabo e riconoscere le nostre responsabilità.
In Medio Oriente la memoria di Sabra è ancora viva?
Sì, fa parte della loro memoria collettiva. Anche se va detto che in Libano i giovani non sanno molto della propria storia.
Quanto i monoteismi hanno agito e agiscono da detonatore di violenza?
Tutte le religioni apparentemente predicano la pace. Di fatto tutte e tre i monoteismi abramitici hanno le mani sporche di sangue. Basta pensare alle crociate. Ma la loro storia, spacciata per un conflitto fra bene e male, non è mai stata raccontata in maniera corretta e veritiera in Occidente. I coloni israeliani, dal canto loro, invocano l’Antico testamento per giustificare la loro appropriazione di territori e i loro attacchi ai palestinesi. E posizioni fondamentaliste si riscontrano anche nell’islam. L’attacco alle Torri gemelle di New York docet. è evidente che le religioni, con tutta la loro retorica, non hanno rapporto con la sofferenza vera delle persone. E rendono più difficile il dialogo fra i popoli. Le persone deluse, che non hanno voce e non trovano chi le rappresenti in politica, con più facilità cadono nella trappola di chi millanta di avere la soluzione ai loro problemi. Ciò spiega la crescita di partiti a base religiosa. Che a mio avviso non potranno mai rispondere a istanze che riguardano i diritti umani e la giustizia. La religione ha causato sempre problemi incoraggiando una mentalità tribale e settaria.
Il conflitto israelopalestinese potrebbe trovare soluzione oggi?
Non ci sono segnali positivi, anche se i cosiddetti processi di pace vanno avanti. Temo falliranno come i precedenti, perché nulla è cambiato nella realtà concreta. è un balletto che ogni tanto ci viene riproposto per rassicurarci. Ma poi il balletto finisce e l’occupazione continua. Finché non si deciderà la fine dell’occupazione, è un can can senza senso.
Che ruolo gioca Obama?
Obama ha messo fine alla retorica guerrafondaia di Bush e ha fatto ben sperare. Anch’io speravo che fosse un buon amico di Israele. Che fa un amico quando vede il suo sodale che, ubriaco, picchia i bambini? Certo non lo giustifica dicendo che è depresso, che ha ferite aperte, cose da dimenticare. Un vero amico dice: stai distruggendo tutti intorno a te. Gli dice: in questo modo ti stai autodistruggendo. Perciò oggi c’è meno ottimismo riguardo al fatto che Obama abbia delle possibilità di incidere in questa annosa situazione. Non perché pensi che sia ingenuo, ma perché non ha il potere di realizzare ciò in cui crede.

di left-avvenimenti del 24 settembre

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Lo strano sorriso di Pol Pot

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 8, 2010

Ha raccolto testimonianze dai sopravvissuti al genocidio dei Khmer ricostruendo come funzionava la disumana Organizzazione messa in piedi da Pol Pot. Ma non solo. Il sorriso di Pol Pot, uscito a inizio settembre per Iperborea ricostruisce le responsabilità egli intellettuali occidentali di sinistra che sulla Kampuchea democratica non volleroaprire gli occhi

di Simona Maggiorelli

Angkor wat

Nell’agosto del 1978 una delegazione di svedesi ottiene il permesso dai khmer rossi di atterrare a Phnom Penh. Per conto di associazioni umanitarie di sinistra ha il compito di verificare le politiche del governo di Pol Pot. Fra loro c’è anche uno dei più influenti intellettuali svedesi: Jan Myrdal, figlio dei premi Nobel per la Pace Alva e Gunnar Myrdal. Sulla strada della costruzione dell’“uomo nuovo”, Pol Pot e i suoi, fra il 1975 e il ’79, hanno ucciso quasi due milioni di persone. Freddamente derubricate come «ostacoli» alla rivoluzione. In questo clima la spedizione svedese viaggia scortata per la Kampuchea democratica. Distese di campagne, contadini al lavoro, alla vista degli stranieri si fermano, salutano, parlano, si fanno fotografare. Nei suoi reportage Mydal ne racconta le magnifiche sorti e progressive. Non lo sfiora il dubbio che la realtà sia ben diversa. E ancora quando Peter Fröberg Idling, ex cooperante e giornalista svedese, lo cerca per un’intervista, a trent’anni di distanza, Mydal risponde che non ha nulla da aggiungere a ciò che scrisse allora. Negli anni Duemila, finalmente, anche se con molto ritardo, viene processato lo scrupoloso professore di matematica “Duch” che ha torturato e ucciso almeno 17mila persone nel centro di detenzione S-21. Con lui, alla sbarra, una manciata di altri feroci sodali di Pol Pot che, nel frattempo, è morto senza aver mai fatto i conti con la giustizia. Ma ancora oggi il comunista Mydal si dice suo sostenitore non pentito. L’ ideologia gli impedisce di vedere la violenza cieca del regime. Da questo episodio Idling è partito per questo suo toccante libro inchiesta, Il sorriso di Pol Pot, appena uscito per Iperborea. Nato nel 1972, quando i socialdemocratici svedesi guardavano con interesse a quella che credevano essere “una rivoluzione contadina”, Idling compone questo suo bruciante puzzle di storia con tasselli sfaccettati e preziosi: testimonianze inedite di scampati al genocidio raccolte percorrendo in un lungo e in largo la Cambogia (Idling parla khmer e ha vissuto nel Sudest Asiatico), filmati e documenti d’epoca cercando di leggere al di là delle veline di regime. E poi interviste a quei partecipanti alla spedizione svedese che hanno accettato di parlare. Ma anche frammenti di memoria di quando l’autore, ancora bambino, veniva portato nel passeggino dalla madre alle manifestazioni pro Cambogia. Tutto si mescola e si integra nella prosa d Idling. La cosa importante è non «finire nei numeri». Cercare di ridare un volto e una voce a chi è stato gettato nelle fosse comuni, cancellato dai documenti ufficiali.
Idling, che significatoassumono oggi i processi ai khmer rossi sopravvissuti?
A mio avviso sono molto importanti. Almeno da almeno due punti di vista. Purtroppo la giustizia ancora oggi in Cambogia è una farsa. Chi ha soldi e amicizie altolocate gode di assoluta impunità. E questi processi rappresentano uno stop, inseriscono almeno una discontinuità in questo modo di procedere. è il primo passo per ricostruire la fiducia della gente nella giustizia. E poi la gran parte dei cambogiani non sa perché ha vissuto quell’inferno. A scuola fin qui il capitolo khmer rossi non è mai stato affrontato nei programmi di storia perché ancora troppo angosciante e doloroso. La conoscenza e la consapevolezza di ciò che è accaduto nel Paese sono scarsissime. I processi trasmessi in tv e per radio possono dare il la a un processo di elaborazione collettiva.
Cosa pensa dei molti intellettuali di sinistra che in Europa hanno scelto di chiudere gli occhi di fronte al genocidio ?
Myrdal è un rivoluzionario di vecchia scuola, di quelli che dicono: bisogna rompere delle uova per fare una frittata. Sì, certo, in alcuni casi devi romperne proprio tante ma per quelli come Myrdal ne vale la pena se lo scopo è una società migliore.
Lei scrive che anche un intellettuale pacifista come  Noam Chomsky contribuì a mistificare la verità su Pol Pot. Come è accaduto?
Il caso di Chomsky è diverso da quello di Myrdal. Non si è fidato dei reportage che arrivavano dalla Cambogia perché in larga parte basati sul sentito dire. Di sicuro erano un esempio di cattivo giornalismo, ma nel corso del tempo è emerso che dicevano il vero.
Non crede che non aver creduto alle parole dei profughi che parlavano di genocidio sia stato un fatto gravissimo?
L’immagine della Kampuchea Democratica all’estero era stravolta. Il dramma è, però, che nel frattempo le violenze subite e la fame denunciate da quei pochi che riuscivano a fuggire dalla Cambogia, in Occidente venivano lette come esagerazioni per ottenere aiuti e uno status di rifugiati in Occidente.
Nel suo libro ricostruisce  la vicenda di Pol Pot fin dagli anni di formazione in Francia.  Che influenza ebbe su di lui quella cultura?
La Rivoluzione francese lo aveva colpito molto. Del resto anche andando a scuola nell’Indocina francese aveva studiato gli stessi programmi di storia di un suo coetano che fosse nato a Lione o a Nantes. Poi, nei primi anni Cinquanta, è andato all’università a Parigi, entrando in contatto con i comunisti francesi che erano molto vicini allo stalinismo. Ma a Parigi incontrò anche molti giovani provenienti dalle colonie francesi che volevano lottare per l’indipendenza dei propri Paesi di origine. E furono ancora più importanti nel suo percorso. In questa rete di rapporti diventò un comunista ma anche un ferreo nazionalista cambogiano.
Nel suo libro lei ricostruisce che da piccolo il futuro Pol Pot era «il timido Sar, la cui gentilezza sfiora l’autoannullamento». Ma anche Sar dallo strano sorriso seducente. Una maschera di normalità che nascondeva altro?
Io non saprei fare una diagnosi precisa, quello che ho ricavato dalle testimonianze che ho raccolto è che era una “charming person”, una persona che appariva piuttosto piacevole, addirittura seducente. Ma è un fatto che Pol Pot abbia costruito un sistema completamente pazzo, diventandone parte. Un sistema che univa una devastante incompetenza con una feroce brutalità.  Un sistema che in Cambogia era chiamato allora l’Organizzazione onnipotente e onnipresente quasi quanto la cospirazione antirivoluzionaria che Pol Pot vedeva ovunque. L’Organizzazione distorceva la percezione della società che Pol Pot aveva intorno e negava la reale sofferenza della gente.   Pol pot cercò di costruire una società razionale. Praticamente era il caos. Lui ci credeva ciecamente, ci aveva investito tutto se stesso, tanto da non poter più tornare indietro. Se qualcosa non funzionava cercava di farlo camminare a forza. I costi umani diventarono per lui del tutto secondari.  Certo, tutto questo può anche essere descritto come  pazzia.
In Italia il Pci non discusse mai veramente il caso Cambogia, dicendo che se Pol Pot era un pazzo, non per questo si poteva gettare l’idea di comunismo…
Non sono per niente d’accordo. C’è qualcosa di terribilmente sbagliato nel marxismo-leninismo. Ogni volta che si è cercato di metterlo in pratica si è finiti in un bagno di sangue. La sinistra più radicale deve assumersi la responsabilità di riflettere su ciò che è accaduto in Cambogia, in Cina, in Urss, in Albania, nella Corea del Nord… Non possiamo ripetere sempre gli stessi errori. Io mi considero una persona di sinistra ma dopo aver vissuto in Cambogia per me la parola comunismo è morta. Il comunismo sembra la risposta più razionale , la risposta più semplice a questioni complesse. Ma la realtà non può essere cambiata da un giorno all’altro. A meno che tu non sia disponibile a sacrificare un sacco di persone. E anche in questo caso, come Pol Pot, Stalin e Mao ci hanno dimostrato, non funziona lo stesso.

da left-avvenimenti del 3 settembre 2010

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ABO e i portatori di tempo

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 2, 2010

di Simona Maggiorelli

Picasso, disegni di luce

E’ dedicato a tutti i grandi «portatori del tempo» il nuovo progetto editoriale del curatore e critico d’arte Achille Bonito Oliva. Ovvero a tutti quegli artisti, scienziati, filosofi, registi, compositori e scrittori che nel corso del Novecento hanno inaugurato un modo nuovo di sperimentare la dimensione del tempo. Che per le avanguardie storiche, per esempio, diventò d’un tratto simultaneità, sinestesia, improvvisa connessione di senso, alla velocità fulminea dell’intuizione. E questo non solo nel dinamismo della pittura futurista e nei primi esperimenti cinematografici di Balla e Bragaglia. O nelle danzanti composizioni astratte di Kandinsky.

Ma anche in settori come la musica che, con la dodecafonia, rompe la linearità di una partitura classica iscritta in un movimento ritornante e prevedibile. Per non dire poi del romanzo che, da Kafka a Joyce, abbandona la grande narrazione descrittiva ottocentesca per aprirsi a improvvise epifanie, per farsi torrenziale racconto interiore (il cosiddetto stream of consciousness). E molto oltre.  Andando ancora più a fondo con la visionarietà potente di prose liriche che trascolorano i contorni intagliati e secchi della percezione razionale.

Proprio ricercando i segni di una diversa dimensione del tempo nelle arti del XX secolo,  Achille Bonito Oliva ha ideato per Electa una Enciclopedia delle arti contemporanee, di cui il 3 settembre al festival della mente di Sarzana presenta il primo libro, dedicato al tempo comico; un volume a più mani (tutta l’opera si avvale di un team di giovani esperti) sulla cui copertina campeggia il celebre telefono di Dalì con una rossa aragosta al posto della cornetta. Un lavoro letteralmente sconfinato dacché studia come sono mutate la letteratura, la musica, la pittura, l’architettura, la videoarte, il cinema, la musica, il teatro in base «all’incursione di una nuova temporalità nel processo creativo e nella fruizione dell’opera».

Ma non è un’enciclopedia di tutto lo scibile, mette le mani avanti ABO. «Piuttosto è un progetto direzionato – dice – concepito seguendo il filo di un pensiero elaborato in vent’anni di studi che mi hanno fatto rendere conto di quanto il tempo sia il “frullatore” di ogni specificità linguistica, producendo una rivoluzione non solo linguistica, direi proprio antropologica nel contemporaneo». A questo si intreccia l’analisi dei cambiamenti apportati dallo sviluppo delle tecniche e delle tecnologie nel Novecento e che, nelle mani degli artisti, sono diventate mezzi per dilatare e accorciare la sensazione del tempo. E più in generale strumenti per allargare le potenzialità espressive «facilitando – ricorda ABO – l’avvicinamento fra discipline umanistiche e scientifiche ma anche esperimenti di commistione dei linguaggi».

Fra le sue declinazioni della temporalità spicca «il tempo interiore» affermato da alcuni artisti, ribelli alla mimesi. Picasso ne fu “il campione”?
Certamente ma anche alcuni surrealisti hanno esplorato questo ambito, evocando una fantasia che promana dal profondo. Ma nel caso di Picasso senz’altro ci troviamo davanti a una soggettività molto forte. In lui c’è quasi un furor, una straordinaria capacità scompositiva e compositiva – pensi al periodo del cubismo analitico -. Il suo è un modo personalissimo di rappresentare il tempo interiore.

Un modo di rappresentare che obbliga lo spettatore a un cambiamento?
L’irruzione del tempo interiore elimina ogni elemento di contemplazione, spinge al movimento, favorisce “una guardata curva”. C’è una voluta incompiutezza nell’arte contemporanea. Che non ha nulla a che vedere con il non finito di Michelangelo (dovuto al pensiero che l’uomo è un demiurgo terreno che non ha la forza del divino). L’arte contemporanea chiede allo spettatore una partecipazione attiva, nel creare  la sua visione completa.

Per questo primo volume sul tempo comico dice di aver preso spunto da Nietzsche.  In che modo?
Nietzsche parlava di un tempo comico come tempo dell’irrilevanza, della fine del valore della cosa in sé, come tempo della vita immediata, opposto allo spirito assoluto. Da qui ho ricavato lo spunto per l’esplorazione di alcune figure del tempo comico.

Cita anche Giordano Bruno come anticipatore di molti di questi temi.
Tornando a leggerlo mi sono reso conto che, pur nella sua concezione neoplatonica, dà importanza alla vita. C’è un forte privilegio della materia. è una strana figura Bruno, di santo e di eversore. Il suo linguaggio ha una nota di erotismo. Ama trasfigurare. E poi Bruno è caparbio. Finì al rogo per non voler dire una parolina che Galileo, invece, si lasciò sfuggire subito. Bruno ricorre alla follia per uscire dal logos occidentale.

Alla follia dell’arte, intesa come coraggio creativo, lei dedica una mostra a Ravello. In questo sistema globalizzato dell’arte dominato da un’estetica occidentale che lei stigmatizza come «puritana, razionale, asettica» c’è ancora spazio per chi fa ricerca?
Sì, ma a prezzo di una inevitabile solitudine. In questo senso parlo di follia. Come capacità di un artista di prodursi in nuove forme che intercettano e bucano l’immaginario collettivo, oggi, sempre più anestetizzato, votato a una sensibilità superficiale. Viviamo ancora in tempi di post modernità. Sono cadute le vecchie ideologie ma domina il sistema dell’arte delle sette sorelle (il circuito che va dal MoMa alla Tate, al Centre Pompidou ndr). E tutti aspirano ad andare a esporre in quei sancta sanctorum, secondo quegli standard. Con le mostre, con questa enciclopedia, da parte mia, non smetterò di massaggiare i muscoli  atrofizzati della sensibilità del pubblico.

da left-avvenimenti del 26 agosto 2010

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Sculture da abitare. Le scelte poetiche di Sejima

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 2, 2010

People meet in architecture a Venezia. Alla Biennale di architettura progetti giovani e innovativi. Ma soprattutto a misura d’uomo

di Simona Maggiorelli

amateur architecture

Linee morbide, vivibili. E un generoso ritorno ai materiali naturali come il legno. E poi grande aperture di luce e di fantasia. Sono questi se dovessimo riassumerli in estrema sintesi i segni che rendono riconoscibile questa seducente Biennale architettura 2010, aperta alle arti e incomparbilmente più vitale della Biennale arte vista l’anno scorso ( firmata da Daniel Birnbaum era un bilancio politically correct dell’agonia dell’arte contemporanea internazionale).

Padiglione Malesya Biennale di Venezia

Non vuole che si dica che  che quella che apre domenica 29 agosto 2010 è una Biennale dal segno decisamente femminile. L’architetto giapponese Kazuyo Sejima non ne fa una questione di genere, piuttosto di idee, di contenuti.

Ma non pare del tutto casuale che la prima Biennale di architettura diretta in laguna da una donna faccia d’un tratto piazza pulita dei colossali progetti da archistar per lasciare spazio a nomi giovani o emergenti (in tutto quarantasei, da ogni parte del mondo) con proposte che guardano alla qualità della vita, a un incontro armonico fra costruzione e ambiente e, soprattutto, a soluzioni abitative che facilitino le persone a incontrarsi oppure, perché no?, a vivere momenti di solitudine creativa.

Così, con la sua People meet in architecture ( aperta fino a  novembre, catalogo in due volumi edito da Marsilio) la schiva ed elegante Sejima rompe gli steccati fra le discipline e lascia che il linguaggio necessariamente rigoroso dell’architettura s’incontri con quello meno prevedibile della scultura, dell’installazione e perfino della performance.

Tanto che Smiljan Radic e Marcela Correa, da una pietra del terremoto del Cile hanno ricavato un pensatoio per una persona alla volta che incontrimo ad incipit delaa mostra. A ispirarli, hanno detto i due sudamericani, è stato il disegno Il bambino nascosto in un pesce dell’artista David Hockey, figurazione scarna e sottile, di un pesce ancora indefinito nella pancia, ma rosseggiante i di sogni e di nuove nascite.

E l’installazione- scultura di Radic e Correa si può davvero leggere come un esergo di una edizione della Biennale ricca di aperture visionarie e futuribili. Su tutto domina l’idea di rete, di stabilire possibilità di contatto fra individi, fra esterno e interno, fra paesaggio e costruzioni e  anche fra i differenti vani di una stessa abitazione. Ma sfuggendo alla logica minimalista dell’open space.  In questa chiave nascono le pareti porose e  a groviera di Toyo Ito che aboliscono la classica divisione dentro-fuori . Ma anche le  calde strutture mobili, componibili, di Studio Mumbai in continua trasformazione alla ricerca di un’osmosi fra architettura e natura.

Biennale di Venezia 2010 Malesya

E se i progetti che arrivano dal Giappone e della Cina colpiscono soprattutto per la leggerezza e il tono poetico ( farfalle trasparenti che calano dal soffitto nel Padiglione Cina mentre nella mostra di Sejima  più progetti riprendono l’antica tecnica di costruzione cinese di strutture che non gravano sul terreno)  è nei  padiglioni del Sudest Asiatico- e in quello Malesia e di Singapore in particolare, che s’ncontrano i progetti più immaginifici. Alcuni arrivando a ridisegnare completamente il volto di intere aree urbane.  E sono grattacieli che salgono ad altezze vertiginose seguendo curve e linee flessuose, palazzi dalla facciata che evoca l’immagine stilizzata delle valve di una conchiglia oppure le forme eleganti di un liberty anni Dumila.  Forme cangianti,  come in divenire, ma  che- anche perché pensate per stretti lembi di terra- hanno in comune l’altezza, la compattezza e la brillantezza di un tripudio di luci.

Ed è proprio l’uso della luce, anche utilizzata per cambiare la percezione degli spazi, il tema che fa da filo rosso a questa Biennale 2010, dalle luci verde acido del progetto dello studio francese R&Sie(n)  di Parigi che evoca cicli biologici all’uso prezioso di specchi d’acqua nel padiglione iraniano in Palazzo Malipiero dove sono esposti progetti di architetti iraniani che rileggono la tradizione dei giardini persiani. E ancor più la luce è elemento guida di installazioni d’arte che facendone un uso teatrale reiventano gli ambienti. Come accade nella spettacolare installazione di Olafur Eliasson per People meet in architecture che nel buio fa crepitare  getti d’acqua illuminati, come saette, da luci stroboscopicheche.

E se Eliasson usa la luce, un’altra artista ben nota a chi segue l’arte d’avanguardia, Janet Cardiff usa  il suono e il canto in una installazione che all’Arsenale ricrea una delle sue perfomance che invitano lo spettatore a entrare in scena per sperimentare le diverse vibrazioni dei suoni  lungo un percorso. E’ un invito a sentire, a guardare dentro se stessi, ma anche fuori di noi, per apprezzare ciò che ci circonda ritma tutta questa Biennale architettura 2010, in cui molti progetti prefigurano strutture mobili, che non segnano il paesaggio, ma anche cercano di valorizzarne il volto. Strutture componibili e scomponibili per uscite all’aperto, ma anche teeatri mobili, montabili e smontabili si trovano fra le proposte degli architetti invitati in Biennale da Sejima ma anche in alcuni padiglioni nazionali, organizzati autonomamente. Come quello del Regno del Bahrain alle Artiglierie che trasforma i capanni dei pescatori in proposte di case-palafitte con vista sul mare in tante varianti quanti sono le culture che s’incontrano in quel paese, da quella cinese a quella araba. Sono piccoli e suggestivi mondi a parte ai quali si accede salendo su passarelle di legno. Alla maniera asiatica e mediorientale: dopo essersi tolti le scarpe in segno di rispetto.

Ma c’è anche chi, alla ricerca di luoghi speciali e di prospettive che cambiano il proprio punto di vista, osa  ancora di più. Come Transsolar con la sua già famosa nuvola creata a tre metri da terra. E dotata di scala, per chi vuole ficcarci la testa dentro. Dall’Oriente, invece,  arriva il rendering del giovane studio giapponese Ishigami +Associates che tenta di disegnare l’infinito.

«L’architettura oggi deve essere capace di comunicare nuovi valori, di anticipare sogni e direzioni di una società in movimento». Parola di Kazuyo Sejima.

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Progettare al femminile

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 2, 2010

Presentata a Roma la dodicesima edizione della Biennale architettura di Venezia, People meet in architetture, affidata alla giapponese Kazuyo Sejima

di Simona Maggiorelli

Sejima, casa a Tokyo

Per la prima volta nella storia della Biennale architettura la direzione, quest’anno, è stata affidata a una donna. La giapponese Kazuyo Sejima ha bucato il cosiddetto soffitto di cristallo e la sua Biennale porterà un segno “femminile” fin dal titolo People meet in architetture legando la qualità dell’architettura alla sua vivibilità e alle relazioni umane che la abitano. Ma chi è questa signora cinquantaquattrenne che ha dedicato la sua vita a una progettazione futuribile e insieme rigorosa ma che il pubblico italiano perlopiù ha imparato a conoscere solo dopo la sua nomina in Laguna? Definita dalla stampa specializzata una delle menti creative di primo piano degli anni Duemila, Kazuyo Sejima si è formata nello studio di Toyo Ito (che di lei dice: «sa usare la massima semplicità per collegare il materiale e l’astratta.

In realtà è dalla collaborazione con Ryue Nishizawa (sotto il marchio SANAA) che sono nate alcune delle sue opere di architettura più conosciute, dal New Museum di New York al Serpentine Pavilion di Londra, al 21st Century museum of contemporary art di Kanazawa, premiato nel 2004 proprio con il Leone d’Oro a Venezia. Dovendo sintetizzare lo stile Sejima lo si potrebbe definire minimalista, ma con un tocco di “follia”, di imprevista fantasia. Di fatto il suo modo di progettare rompe con ogni tradizione codificata. Anche perché per lei l’architettura del nuovo millennio deve sapere incidere positivamente sulla qualità della vita , rispettare e interpretare le esigenze degli individui e al tempo stesso rappresentare un’idea di società e di Res publica. Obiettivi alti e una concezione originale dell’architettura che ritroviamo concretamente declinati in questa Biennale numero 12 che aprirà i battenti il 29 agosto. Presentando ieri alla stampa People meet in architetture Sejima ha ribadito la sua idea di trasformare questa dodicesima Biennale un luogo di incontro lanciando da Venezia un «forum nuovo e attivo per le idee contemporanee». Anche per questo non saranno invitati a partecipare soltanto architetti, ma anche artisti e ingegneri, aprendo il dialogo fra le diverse discipline. «Ogni protagonista della prossima Biennale – ha spiegato Sejima – sarà curatore di se stesso». E i progetti avranno una cifra di spiccata originalità. Così ecco una grande pietra del terremoto del Cile trasformata in una grotta abitabile ad usum di chi voglia stare un po’ da solo. Ed ecco una vera e propria nuvola formarsi e librarsi a tre metri dal suolo, ecco progetti di architetti e “designer” di paesaggi, e staccionate in bambù disegnare gli spazi interni di un edificio, ma anche architetture di luce, suggestive quanto impalpabili che agiscono sullo spazio cambiandone l’atmosfera e il nostro modo di percepirlo. Dal punto di vista organizzativo accanto alle consuete partecipazioni nazionali, con mostre nei Padiglioni ai Giardini e nel centro storico di Venezia, la Biennale 2010 sarà caratterizzata da una ridda di eventi collaterali (in dettaglio sul sitio www.labiennale.org) e da una lunga serie di incontri pubblici con i protagonisti dell’architettura degli ultimi anni. «Se al centro vogliamo davvero mettere la qualità dell’architettura – sottolinea Sejima – allora è importante approfondire la conoscenza di quelle personalità che della qualità hanno fatto una vocazione personale». Da qui l’idea dei sabati dell’architettura dedicati in primis ai direttori delle precedenti edizioni della Biennale dagli italiani Vittorio Gregotti Paolo Portoghesi e Francesco Dal Co , Massimiliano Fuksas alle archistar straniere Hans Hollein, Deyan Sudjic , Kurt W. Forster, Richard Burdett, Aaron Betsky. Una collana di appuntamenti che proseguirà fino allachiusura della Biennale il 21 novembre.

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Ignazio Marino: lenti nuove per la sinistra

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 1, 2010

Il senatore del Pd e chirur racconta al settimanale Left-avvenimenti le priorità della politica in Italia, in un impietoso confronto con l’America di Obama: la svolta Usa sulle staminali. E le ricadute sociali della ricerca. Di fronte al progresso della scienza la politica non può chiudere gli occhi. E anche nel Pd serve una svolta

di Simona Maggiorelli

Ignazio Marino

Sembrava fatta. Barack Obama pareva riuscito a far digerire a cristiani e conservatori quella che il senatore Pd Ignazio Marino definisce «una svolta epocale». Ovvero un forte investimento pubblico su un promettente settore scientifico come la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Ma per tentare di fermare i test clinici appena avviati con l’ok della Food and drug administration, le lobbies religiose Usa si sono rivolte ai tribunali. E con una sentenza di 15 pagine un giudice distrettuale, pochi giorni fa, ha disposto il blocco dei finanziamenti federali alla ricerca con embrionali, perché in contrasto con una legge del 1996 contro «la distruzione di embrioni umani».

Una sentenza che, secondo Irving Weissman, direttore dello Stanford institute for stem cell biology and rigenerative medicine, intervistato dal Los Angeles Times rischia di imporre un nuovo, duro, stop alla ricerca Usa. Di fatto il presidente Obama, che dopo la sentenza ha ribadito di non voler abbandonare questo ambito di ricerca al privato, ora ha di fronte due strade: o ricorrere in appello o rivedere le linee guida.

Convinto sostenitore di Obama, ilsenatore Marino che da chirurgo ha lavorato a lungo negli Usa, commenta: «C’era da aspettarsi una reazione negativa della parte più conservatrice del Paese. E l’eco che sta avendo sui giornali oltreoceano prova quanto là le questioni di scienza tocchino la società e facciano discutere pubblicamente». Dunque non teme una retromarcia? «Non ho elementi per dirlo, ed è tutto da valutare quanto questa sentenza di tribunale possa incidere davvero. Ma soprattutto – sottolinea Marino – c’è ancora molto da riflettere sulla straordinaria svolta avviata il 9 marzo 2009 dalla decisione di Obama di eliminare le restrizioni sulla ricerca sulle staminali embrionali, fin lì esclusa dai finanziamenti pubblici. Una decisione presa in forte discontinuità con Bush, e nata anche per non far perdere agli Usa il ruolo di leader nella ricerca »
Intanto Berlusconi millantava: batteremo il cancro!
Lo ha scritto addirittura nel suo programma di governo. Obama firmando l’atto esecutivo pronunciò ben altre parole: «Non possiamo assicurare con certezza che troveremo le cure che cerchiamo». Nessuna promessa fallace, pur avendo la consapevolezza che bisogna cercare nuove cure con urgenza per quei malati che non hanno speranza. Con decisione e senso di responsabilità dobbiamo percorrere le acque “senza mappa” della ricerca.
La ricerca con embrionali a che punto è negli Stati Uniti?
In California la Geron corporation ha fatto molti test su roditori. Ma perlopiù avevano dato risultati negativi: si erano formate come delle cisti nei punti in cui erano state iniettate staminali embrionali. Poi questa complicanza è stata superata. Da ambienti scientifici americani so che queste cellule sembrerebbero trasformarsi in cellule di supporto neurale, ovvero cellule che servono per la continuità del nostro sistema nervoso. Iniettate in giovani pazienti costretti su sedie a rotelle da un trauma alla spina dorsale dovrebbero riuscire a ripristinare la comunicazione tra i nervi. Dovrebbero permettere, cioè, il percorso del segnale nervoso attraverso il midollo spinale e dunque portare al miglioramento quando non proprio alla guarigione.
Queste ricerche hanno ricadute sociali che la politica non può eludere?
All’assemblea nazionale del Pd il 21 maggio scorso ho cercato di dirlo: un partito moderno, come forza intellettuale e di pensiero, dovrebbe avere un’attenzione specifica ai drivers del futuro, scientifici e tecnologici. Scoperte o percorsi scientifici come questo di cui stiamo parlando devono interrogarci. Così come ci devono stimolare domande e progetti come la cellula artificiale di Craig Venter. L’ho incontrato di recente, sta lavorando con l’obiettivo ambiziosissimo di costruire nuove forme di vita biologica, in particolare microrganismi capaci di metabolizzare sostanze tossiche come quelle diffuse, per esempio, da una dispersione di petrolio. E ancora: come politici in Italia dovremmo domandarci quale è la decisione giusta da prendere sulle migliaia di embrioni congelati che si trovano nelle cliniche d’infertilità e che non verranno mai utilizzati per far nascere bambini.
Che fine ha fatto la costosa biobanca per embrioni congelati dell’ex ministro della Salute, Sirchia?
Quella biobanca ebbe un finanziamento importante e doveva raccogliere a mo’ di anagrafe tutti gli embrioni congelati sparsi nelle varie cliniche. Il finanziamento  fu varato ma il progetto è rimasto sulla carta. C’è da chiedersi: è più logico, intelligente o morale lasciarli così a perdere ogni vitalità o prelevarne cellule che potrebbero, forse, permettere a pazienti oggi immobilizzati di alzarsi? è sciocco far finta che tutto questo non esista. O pensare che si tratti di un dibattito fra Washinghton e Manhattan. Sono  temi di un dibattito con caratteristiche globali, epocale. Non si potrà impedire che migliaia di malati riprendano a sperare in una cura. E sarà difficile biasimare chi vorrà continuare a lottare contro la sua malattia cercando scientificamente una terapia.
In Italia non c’è una legge che proibisca la ricerca con embrionali ma i finanziamenti pubblici vanno solo a progetti con  staminali adulte...
è una situazione  paradossale: la legge 40 impedisce agli scienziati che si occupano di embrionali di prelevarle da embrioni. Ma non gli impedisce di importarne dall’estero. è incredibile l’ipocrisia di chi ha voluto la legge 40. E lascia sbigottiti il modo di procedere del governo Berlusconi. Perché un atto o è immorale e allora non si può chiedere a un altro di compierlo per te, oppure è un atto lecito e allora deve essere consentito. Io ho cercato di dare un contributo. Ma in questa estate di occhi puntati sulle liti interne al Pdl, è passato sotto traccia. Nella legge Gelmini siamo riusciti a inserire un articolo a mia firma che permetterà di assegnare fondi pubblici alla ricerca non più su base discrezionale ma con il meccanismo internazionale della peer review. Significa che non saranno più ministri o altri a distribuire a piacimento i soldi. Le ricerche saranno valutate in base a un giudizio “fra pari”. Le commissioni giudicheranno anonimamente i progetti. Inoltre il 30 per cento dei “giudici” saranno scienziati stranieri. Insomma, la peer review porta un criterio di trasparenza che impedirà che si verifichino situazioni in cui, su base personale o ideologica, un governo o un ministero decide a chi dare o non dare i finanziamenti.
Come è accaduto in Italia.
Il Comitato nazionale di bioetica (Cnb) raccomanda di inserire la bioetica nelle scuole superiori. Ma che tipo di
insegnamento passerebbe?

Sono sbigottito di questa proposta. Il Cnb è un organismo di nomina politica, designato dal governo in carica. La laicità contenuta nella nostra Costituzione  dovrebbe essere la nostra stella polare… non vorrei che nelle scuole, viste le politiche di questo governo, si spacciassero per nozioni scientifiche giudizi di natura etica. Sarebbe sbagliato, in ogni caso, indipendentemente da chi è al governo. Al contrario è fondamentale che siano finanziati programmi che diano agli studenti la possibilità di conoscere le scoperte scientifiche, come funzionano i laboratori di ricerca e i centri avanzati che esistono in Italia nonostante i feroci tagli ai finanziamenti.  E invece ecco cosa vorrebbe finanziare il governo di centrodestra, con una legge a primo firmatario La Russa, con Meloni e Tremonti: hanno chiesto fondi per 20 milioni di euro per aumentare il contatto dei nostri giovani con le caserme, perché vi trascorrano una settimana per imparare a sparare con la pistola.
E l’opposizione?
Ecco, noi di sinistra dovremmo dire che tipo di visione immaginiamo. Io immagino un tipo di società che usi la scienza per aiutare le persone che soffrono per malattia, per rispondere a chi si trova in difficoltà sociale, per offrire energia pulita…
Insomma, a sinistra serve una decisa svolta culturale?
Una sinistra che lavora e legge il nostro pianeta con le lenti e il dizionario del secolo passato è una cultura destinata a fallire. Abbiamo bisogno di lenti nuove e forse anche di dirigenti nuovi.

da left- avvenimenti del 27 agost0 2010

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