Questo non è un mestiere per cinici, diceva un grande reporter come Ryszard Kapuscinski. «I cattivi, i furbetti, i cinici non possono essere buoni giornalisti».
Perché manca loro quella umanità profonda che è essenziale per entrare in risonanza con le persone, qualunque sia la loro lingua e cultura, e saperne poi davvero raccontare le storie. La biografia stessa del giornalista, scrittore e fotografo polacco Kapuscinski (1932-2007) ne è la prova, come documentano Beata Nowacka e Zygmunt Ziatek nel libro Ryszard Kapuscinski. Biografia di uno scrittore (Forum editrice). Senza una grande fiducia negli esseri umani e un profondo interesse per i propri simili, del resto, non sarebbe stato possibile sostenere l’impegno fisico e mentale di raccontare una trentina di conflitti in Africa e in altre parti del mondo, come Kapuscinski è riuscito a fare in modo magistrale. Già prima di diventare un inviato di fama internazionale, lavorando per la grigia agenzia di Stato polacca PAP per la quale doveva stilare dispacci di poche righe. Lui che non aveva l’indole del giornalista stanziale, che non stava al sicuro in albergo (come invece faceva la maggior parte suoi colleghi) ma voleva vedere e conoscere tutto di persona, anche per svolgere quel compito da ragioniere della notizia, non si risparmiava proprio. Fino al punto – anche se non era un Indiana Jones – di trovarsi in situazioni pericolose e di rischiare la vita. Come gli è accaduto più di una volta in Africa pur di raccontare dal di dentro le lotte di liberazione fra la fine degli anni Cinquanta e Sessanta. Sperando che il grande continente nero fosse in grado di risollevarsi, di liberarsi dal giogo del colonialismo, ma anche dalla subalternità introiettata verso l’Occidente. «Lui ci credeva profondamente. Da militante. Anche se non era in linea con il granitico partito comunista polacco», racconta lo scrittore Francesco M. Cataluccio, mentore della pubblicazione in Italia delle opere di Kapuscinski per Feltrinelli e che, negli anni, ha avuto modo di frequentarlo e di conoscerlo da vicino. «Quando leggeva di rivolte e moti di liberazione in qualche regione africana era davvero felice. Pensava potessero portare un miglioramento reale nelle condizioni di vita della gente».
Un punto di vista attivo e partecipe trapela dalle pagine di uno dei suoi libri più conosciuti, Ebano (1998), ma anche dalla raccolta di reportage intitolata programmaticamente Se tutta l’Africa (1969) che in questi giorni Feltrinelli pubblica in nuova edizione con una postfazione di Jan J. Milewski. «Kapuscinski amava parlare di politica, era una sua passione», ricorda Cataluccio. «Mi sorprendeva sempre la sua straordinaria conoscenza delle complesse vicende africane. Ogni volta che apriva un giornale e leggeva una notizia su qualche sperduto angolo africano sapeva esattamente chi lo governava, quali gruppi erano in lizza, conosceva personalmente le frange rivoluzionare».
La sua formazione di storico, idealmente cresciuto alla scuola di Bloch e Braudel, quando scriveva si fondeva con l’efficacia del cronista e il gusto di fare ricerca sul campo, secondo l’insegnamento dell’antropologo polacco Malinowski, di cui Kapuscinski era un profondo conoscitore. «Era un uomo molto colto, ma aveva anche una eccezionale memoria», prosegue Francesco Cataluccio che al reporter polacco ha dedicato un capitolo del suo libro Vado a vedere se di là è meglio: quasi un breviario mitteleuropeo (Sellerio) . «Il suo originale talento aveva radici nel fatto che lui amava mescolarsi alla gente, conoscere le persone, condividendo tutto», continua lo scrittore fiorentino. Non di rado, anche la povertà. E non perché avesse lo spirito del missionario. Ma perché sapeva che solo così poteva stabilire rapporti superando la diffidenza africana verso lo straniero dalla pelle bianca. Anche per questo, forse, a più di quarant’anni dalla sua prima edizione Se tutta l’Africa resta un libro freschissimo e una lettura appassionante. Qui sono pubblicati i reportage apparsi tra il 1962 e il 1966 sul settimanale polacco Polityka: una preziosa testimonianza storica dei processi di decolonizzazione fra il 1955 e il 1966. Ma non solo.
Kapuscinski non si limita a descrivere i fatti, ma intuisce e anticipa le sfide e le difficoltà che di lì a poco si sarebbero trovati davanti i giovani Stati africani, fra rigurgiti di lotte fra clan e i primi segni di corruzione delle nuove élite governative. In queste pagine è in azione il cronista di razza e, ancora una volta, lo storico che raccontando la Nigeria nei giorni del colpo di Stato oppure una seduta in Parlamento in Tanganica esercita una attenta critica delle fonti di informazione e legge in filigrana, anche nei fatti spiccioli i processi di lunga durata.
«Kapuscinski sapeva vedere la storia a due velocità, il molto piccolo e il molto grande», spiega Cataluccio suggrendo che il giornalista polacco fu a suo modo anche un anticipatore della tendenza “glocal”, poiché sapeva dare valore alle storie locali mettendole in connessione con l’orizzonte ampio di un mondo che cambia in continuazione e sempre più precipitosamente nel quadro della globalizzazione del secondo millennio.
Sono autenticamente glocal i suoi reportage dall’America Latina, dove inizialmente accettò di andare come ripiego dopo essersi preso tutta una serie di terribili malattie in Africa (compresa la tubercolosi celebrale). E ancor più lo sono i suoi reportage censurati dalla Polonia più profonda, in cui raccontando le condizioni di estrema miseria in cui vivono gli operai, osava una critica serrata al socialismo reale. Kapuscinski aveva il dono di saper intuire le direzioni che la storia stava prendendo tra le pieghe.
Esemplare in questo il suo Shah-in-Shah (1979) frutto di un anno passato in Iran quando l’ayatollah Khomeini prese il potere. «Fu il primo a capire l’importanza e il senso più profondo della rivoluzione iraniana», conferma Cataluccio. «Comprese che tragicamente segnava il ritorno nella storia del Novecento della componente religiosa, come strumento di controllo e di potere». Qui Kapuscinsky approfondisce il racconto dei fatti, li filtra attraverso la propria personalità, per arrivare a fondere i singoli articoli in un libro sfaccettato e complesso.
Questa sua capacità letteraria di costruzione del testo emerge in modo decisivo anche in un altro lavoro di Kapuscinski, Il Negus Splendori e miserie di un autocrate, «forse il suo libro più difficile e ambizioso» sottolinea Cataluccio. «Anche per la scelta linguistica. Kapuscinski lo scrisse ricreando il polacco del Seicento, volendo dare alla vicenda della caduta dell’ultimo imperatore d’Etiopia, Hailé Selassié (deposto da un colpo di stato nel 1974, ndr) una coloritura da tragedia shakesperiana».
E qui si apre un altro grande capitolo della vicenda di Kapuscinki, ovvero quello del suo intento letterario e della storicizzazione della sua opera che sfugge alle categorie e alle regole delle cronaca e, non di rado, ha un andamento lirico e suggestivo. Nella sua monumentale biografia La vera vita di Kapuscinski reporter o narratore? Fazi editore, 2011) Artur Domoslawski ha sollevato la questione criticando il lavoro di Kapuscinski per le licenze poetiche che talora si prendeva, volendo essere fedele più al senso profondo degli eventi che andava raccontando che alla descrizione analitica dei dettagli. «Domoslawski era stato allievo di Kapuscinski – rivela Cataluccio – e la biografia che ha scritto sembra quasi configurare un tentativo di uccisione del padre».
Ma se l’intenzione di Domoslawski era quella di demistificare la figura del maestro in quanto giornalista, alla fine riesce a mostrarcene involontariamente il vero volto di scrittore. «Una volta, per curiosità chiesi a Kapuscinski, cosa avrebbe voluto fosse scritto sulla sua tomba», ricorda Cataluccio. «Kapuscinski giornalista? Fotografo? Storico? “Kapuscinski, poeta”, mi disse con mia sorpresa». Una risposta a dire il vero non del tutto inattesa, dacché Cataluccio conosce e conosceva bene gli esperimenti giovanili che il giornalista aveva fatto misurandosi con lo scrivere versi, secondo una tradizione molto forte in Polonia. Negli anni della propaganda rivoluzionaria «divenni vittima di Majakovski», raccontava di sé lo stesso Kapuscinski. «Le mie prove di allora, il mio majakovskismo, erano deludenti anche per me», ammetteva. «Volevo scrollarmelo di dosso, ma non avevo più il tempo di cercare un’altra strada. Cominciai a lavorare come giornalista e passai alla prosa, al reportage». E fu non di rado prosa lirica . Simona Maggiorelli
dal settimanale Left-avvenimenti