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Archive for aprile 2013

Scandalosa Venere. Da Tiziano a Manet

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 27, 2013

Eduard Manet Olympia (1863)

Eduard Manet Olympia (1863)

La scandalosa Olympia (1863) di Manet è arrivata  a Venezia. Offrendo la straordinaria occasione di un confronto dal vivo con una delle sue fonti: La Venere di Urbino di Tiziano.

Grazie alla collaborazione fra il Museo d’Orsay con musei americani e britannici in Palazzo Ducale a Venezia, fino al primo settembre,  nella mostra

Manet, ritorno a Venezia si possono vedere ottanta opere di Édouard Manet (1832-1883), fra le quali Il balcone e Il pifferaio, in un percorso, espositivo curato da Stéphane Guégan, che punta ad indagare i rapporti fra il pittore francese e i maestri dell’arte italiana che furono un punto di riferimento forte nella sua formazione (insieme agli spagnoli Velàzquez e Goya).

Al centro della mostra veneziana, coprodotta da 24 Ore Cultura – come accennavamo – c’è l’incontro al vertice fra due capolavori assoluti del nudo come l’Olympia e la Venere che Tiziano dipinse nel 1538 per Guidobaldo II Della Rovere , due capolavori che, in epoche diverse, fecero aggrottare la fronte di molti benpensanti.

Quella di Manet per il piglio crudo e diretto con cui l’artista ritrasse la sua amante nella posa di una prostituta, in mezzo ad aggetti quotidiani e con un’espressione vagamente plebea, come ebbero a dire i curatori del Salone dei Rifiutati che nel 1863 rimandarono al mittente Le déjeuner sur l’herbe in cui Manet ricreava il Concerto campestre (1510) di Giorgione, rappresentando la sua amante e modella completamente nuda in primo piano, fra uomini vestiti di tutto punto. L’opera fu giudicata oltraggiosa e come l’Olympia scatenò una ridda di polemiche.

Tiziano, Venere di Urbino (1538)

Tiziano, Venere di Urbino (1538)

Certo il linguaggio pittorico di Manet era radicalmente innovativo, per il violento contrasto dei toni,  l’assenza di prospettiva, per la provocatoria quotidianità dei soggetti rappresentati, per la scelta di colori piatti e l’accentuazione dei contorni alla maniera antirealistica, tipica delle stampe giapponesi. Ma tutto questo non basta a giustificare il biasimo che l’Olympia valse al suo autore.

Pietra dello scandalo, a bene vedere, era il fatto che una modella, presenza normale e accettata anche nuda negli studi di artista, si facesse poi vedere a spasso con il suo mentore-artista.

In epoca ben diversa, in quel Cinquecento in cui su cui si allungava l’ombra della Controriforma, Tiziano fece un passo se possibile ancor più ardito scrivono Guy Cogeval e Isolde Pludermacher nel catalogo Skira che accompagna la mostra:   «La Venere di Tiziano è un capolavoro di erotismo – notano i due studiosi – la testa leggermente inclinata, lo sguardo insinuante, il corpo abbandonato tra i morbidi  cuscini, i capelli d’oro, la luce riflessa che sembra accarezzare la pelle nuda, fanno da scrigno all’improbabile gesto della mano sinistra.Tiziano rappresenta in realtà una donna che si tocca il sesso mentre ci guarda, un unicum nella storia del nudo femminile».

Edouard_Manet_016 Un gesto così inusitato e irraccontabile «che molti commentatori d’epoca, non ne parlano affatto. Glissano».

Il coraggio di Tiziano, va detto, si deve certo alla libertà che si era guadagnato con una fama che, grazie alla committenza dei sovrani di Spagna, dilagò a livello internazionale, ma si deve anche alla atmosfera di colta libertà che si respirava alla corte di  Urbino e al fatto che questa Venere arditissima fu commissionata a Tiziano dal duca Urbino, espressamente per la sua camera da letto nuziale. E a Manet che conosceva bene Venezia (fu in Italia nel 1853 e nel 1857) , certo sarebbe piaciuto vedere questo capolavoro di Tiziano ( che aveva copiato dal vivo agli Uffizi) vicino alla sua Olympia.

Così come il suo Il balcone accanto alle Due dame di Carpaccio che in Palazzo Ducale sembrano richiamarsi per la strana sognante fissità dei soggetti femminili rappresentati. Confronto altamente suggestivo anche se forse non supportato da riscontri filologici. Che fa risaltare il personalissimo e ispido modo di Manet nel dipingere i ritratti. Soprattutto quelli femminili. Improntati a una cerea distanza. Come ha raccontato la retrospettiva dedicata dalla Royal Accademy di Londra proprio alla ritrattistica del pittore francese , appena conclusa.

(Simona Maggiorelli)

 dal settimanale left-avvenimenti

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Trubbiani, il miglior fabbro

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 24, 2013

l'allestimento della mostra di Trubbiani ad Ancona

l’allestimento della mostra di Trubbiani ad Ancona

Strano e affascinante personaggio Valeriano Trubbiani che dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso porta avanti una sua ricerca personalissima nell’ambito dell’arte, infischiandosene delle mode e delle correnti, di ciò che si muove nel panorama internazionale ma anche in casa nostra. Nelle sue appartate terre marchigiane  – prima a Macerata e poi ad Ancona – l’anarchico e provocatorio Trubbiani coltiva con appassionata ostinazione un proprio universo immaginifico, animato da bizzarre creature, figure fantastiche, lucenti animali fusi in bronzo con grande maestria artigianale, ancestrali segni e simboli di popoli scomparsi o forse esistiti solo nella sua mente.

Un universo che da oltre un cinquantennio sembra vivere di vita propria, slegato dalla realtà. Ma che a uno sguardo più attento rivela una inquieta e sferzante critica alla società e alla cultura in cui viviamo. I suoi vessilli di potere medievale ridotti a grotteschi totem, le sue selvagge invasioni di «topacci» (come li chiamava Fellini), le sue macchine agricole trasformate in monumenti ci raccontano di un indomito spirito d’artista, riottoso ai concitati ritmi della vita contemporanea e irridente verso i suoi idola.

Con piglio corrosivo, che nasconde un fondo di pessimismo leopardiano, Trubbiani si presenta come moderno erede degli artisti rococò e barocchi nel costruire mirabilia scintillanti di metalli nobili oppure, all’opposto, ricavati da materiali poveri come il legno. Come la portentosa macchina scenica che – con la complicità degli architetti Massimo Di Matteo e Mauro Tarsetti – Trubbiani ha realizzato nel ventre della Mole Vanvitelliana. Nell’imponente costruzione realizzata al porto di Ancona dall’architetto Luigi Vanvitelli tra il 1733 e il 1738, l’artista marchigiano presenta sculture, ambientazioni, disegni realizzati tra il 1965 e il 2008 e che in questo straordinario spazio acquistano un fortissimo impatto scenografico: capace di coinvolgere un pubblico anche molto lontano dalla sua estetica vagamente retrò.

Trubbiani, Macchine belliche

Trubbiani, Macchine belliche

Prova ne è il fatto che questa mostra intitolata De Rerum Fabula, aperta dallo scorso ottobre, a grande richiesta, è stata prorogata fino al 5 maggio. Curata da Enrico Crispolti, l’esposizione presenta 160 opere, fra le quali la serie di uccelli imbracati e appesi a testa in giù, la selva di barbariche aste di Stato d’assedio (1971-72), surreali marchingegni da artigiano. Antiretorica e irridente verso ogni gigantismo, la scultura di Trubbiani si fa beffe della scultura commemorativa e allegorica e abolisce ogni sudditanza verso la committenza, cercando anche quando si tratta di opere per spazi pubblici di onorare la scultura come creazione autonoma, imprevista e straniante.

Ma non si tratta di solo ribellismo. «La scultura di Trubbiani contribuisce a costruire il fondamento di una questione di “alternativa resistenziale” italiana lungo il XX secolo ed oltre» sostiene il critico d’arte Enrico Crispolti nel catalogo edito da Silvana Editoriale che accompagna questa rassegna, perché lavora su «nessi antropologici e sociali» e di «profondità memoriale». Ma se è vero che nell’opera di Trubbiani affiorano ricreate in forme del tutto nuove e inaspettate memorie d’infanzia trascorsa a Villapotenza, narrazioni per immagini che evocano la vita di paese nelle botteghe, non sempre – ci permetteremmo di  dire – questa trasfigurazione riesce: talora l’accento sulla bizzarria sembra sovrastare tutti gli altri e in quel caso la scultura rischia di scadere a mero oggetto curioso.

(Simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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Mondolfo, Gramsci e la crisi della sinistra oggi

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 21, 2013

Luciano Canfora, Elisabetta Amalfitano, Simona  Maggiorelli. Ernesto Longobardi

Luciano Canfora, Elisabetta Amalfitano, Simona Maggiorelli. Ernesto Longobardi

di Simona Maggiorelli

Il libro della filosofa Elisabetta Amalfitano Dalla parte dell’essere umano, il socialismo di Rodolfo Mondolfo ( L’Asino d’oro edizioni) ha il merito di riproporci una figura di intellettuale piuttosto rara in Italia e ingiustamente trascurata dagli studi. Una figura di raffinato studioso della filosofia antica che nei suoi 99 anni di vita (Mondolfo era nato a Senigallia nel 1877 e morì nel 1976 a Buenos Aires) non separò mai studi accademici dall’impegno civile, portando avanti la propria ricerca come forma di resistenza antifascista perché tutta volta- basta vedere i suoi scritti sulla pedagogia – a risvegliare il senso critico, a dare strumenti di lettura della storia e del presente ai suoi studenti. Fra i quali a Torino forse ci fu anche Gramsci.

Un lavoro di insegnamento che Rodolfo Mondolfo svolse con grande coerenza, senza soluzione di continuità, prima nelle scuole superiori e poi all’Università di Torino, di Padova (1907) e di Bologna (1913-38), fin quando – dopo aver promosso e firmato il Manifesto degli intellettuali contro il fascismo – nel 1938 fu costretto dalle leggi razziali a cercare riparo a Buenos Aires.

Rodolfo Mondolfo intellettuale dal profilo non comune nel panorama italiano, dicevamo. Anche perché profondamente laico. Un aspetto indigesto all’establishment politico in Italia. Ancora oggi. Basta vedere il desolante mancato sostegno alla candidatura di Rodotà da parte del Pd  Alle giornate della Repubblica delle idee che, proprio qui a Bari, mentre parliano pretendono di mettere insieme scienza e fede.Oppure al neoconfessionalismo dei marxisti ratzingeriani, ovvero Pietro Barcellona e Mario Tronti, intellettuali organici del Pci e che oggi, dopo il crollo delle ideologie, sono diventati organici al Vaticano.

Luciano canfora, Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli

Luciano canfora, Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli

Rodolfo Mondolfo no. Da socialista e illuminista si oppose sempre a ogni forma di oscurantismo. Andando a spigolare validi anticorpi nel pensieri di filosofi come Giordano Bruno, Feuerbach, e Marx. Del quale – scrive Elisabetta Amalfitano- Mondolfo seppe dare una lettura originale, coniugandolo con Rousseau nel tentativo di superare la scissione cartesiana (fra corpo e mente, fra teoria e prassi). Il tentativo era quello di mettere al centro della propria riflession l’essere umano nella sua interezza, nella sua complessità di bisogni ed esigenze, che riguardano l’alimentazione, il lavoro, la salute, ma anche la formazione, la conoscenza, la qualità dei rapporti dei rapporti umani, la creatività. In questa chiave , ricostruisce Elisabetta , Mondolfo, lavorò all’ipotesi di una via riformista al socialismo, prendendo le distanze da ogni forma di materialismo metafisico e deterministico. E prendendo esplicitamente le distanze per esempio dalla proposta di Antonio Labriola: “Il suo materialismo dimentica che nella storia la realtà vera ed essenziale sono gli uomini”.

La libertà per Mondolfo era importante quanto l’uguaglianza e cercò per tutta la vita di elaborare una filosofia della prassi che riuscisse a coniugare questi elementi. Tacciato di moderatismo dai giovani Gramsci e Gobetti presi dal fuoco della rivoluzione bolscevica, il pensiero di Mondolfo apparve del tutto inattuale ai giovani del ’68 e ai fautori di una lettura strutturalista del marxismo quando, proprio nel ’68, pubblicò Umanesimo di Marx. Ma come ho avuto il piacere di dire anche in un’altra occasione a me pare che – superata quella fase storica – oggi il pensiero di Mondolfo offra invece molti spunti interessanti di riflessione a questa sinistra che ha urgente bisogno di ripensare e rilanciare la propria identità. Elisabetta Amalfitano, in questo suo appassionato libro, ne squaderna molti.

A cominciare dall’idea che la trasformazione sociale che per Mondolfo parte dalla trasformazione interiore degli individui. E dal rifiuto della violenza, in nome invece di una forza della praxis che significa anche resistenza, capacità di reagire, di proporre un pensiero. E ancora.

Lontanissimo dall’essere per la morte heideggeriano, Mondolfo – potremmo dire parafrasando quello che il professor Luciano Canfora ha scritto a proposito di di Arthur Rosenberg ne l’inquietante mestiere dello storico (Ll’uso politico dei paradigmi storici, Laterza) invita alla lotta, con i mezzi della ricerca storica e filologica, contro l’ideologia a base razzistica andata al potere nelle università tedesche nel 1933 e veleno che dilagava anche in Italia.

Luciano Canfora , Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli,

Luciano Canfora , Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli,

Per misurare tutta la distanza di Mondolfo dal pensiero conservatore basta leggere le pagine che Elisabetta dedica alla sua concezione delle masse che nel XXI secolo si sono affacciate da protagoniste sul palcoscenico della storia. Una concezione lontanissima da quella di Lombroso, ma anche da quella di Freud, che sulla scorta di Le Bon, in Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921 libro molto amato da Mussolini) parlava delle masse come reviviscenza dell’orda primordiale e distruttiva, come lacrima di Batavia che basta che sia colpita in un punto perché finisca in mille schegge, una massa lavoratrice che secondo Freud ha sempre bisogno di un capo carismatico che le dia coesione. E di leggi che permettano la convivenza civile impedendo il fratricidio. Rodolfo Mondolfo, scrive Elisabetta Amalfitano, non aveva questa concezione pessimistica della massa. E per questo rifiutava anche l’idea della necessità di un partito novello principe che imponga dall’alto il cambiamento. Ma qui mi fermo, perché con noi c’è Il professor Luciano Canfora che molto di più può dirci sul rapporto fra Gramsci e Mondolfo.

Intervento introduttivo alla presentazione del libro di Elisabetta Amalfitano Dalla parte dell’essere umano, il socialismo di Rodolfo Mondolfo ( L’Asino d’oro edizioni), alla libreria Laterza di Bari, il 20 aprile 2013, con Luciano Canfora, Ernesto Longobardi, Maria Laterza e l’autrice

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La regista cinese Emily Tang sfida la censura.

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 14, 2013

Perfect life

Perfect life

Nel pluripremiato film Perfect life – che nel 2008 a Venezia l’ha fatta conoscere anche al pubblico italiano – la regista cinese Emily Tang raccontava due personaggi femminili agli antipodi: una contadina delle campagne più povere della Cina che lotta per sopravvivere e una giovane che si vende come modella e accompagnatrice a Hong Kong, in cambio di una vita agiata. In questo piccolo capolavoro cinematografico  le discrasie della Cina post maoista sono riassunte in una sintesi potente e suggestiva. E la censura cinese non glielo ha mai perdonato. Ma da Hong Kong Emily Tang è riuscita a continuare il suo lavoro, che mette a fuoco le contraddizioni più brucianti della Cina di oggi.

«Nei decenni passati la rapida crescita economica ha portato moltissimi cambiamenti», racconta Emily, fra gli ospiti dell’Asian Film Festival che si è svolto dal 6 all’11 aprile a Reggio Emilia. «I cinesi erano abituati a vivere in un sistema sociale stagnante, conservatore, autocentrato. Affrontare questi repentini cambiamenti, correre per recuperare il ritardo, cercare di adattarsi alla nuova situazione, per molti è difficile. Ci si scopre passivi, non si ha chiaro lo scopo di questi sconvolgimenti».

Quali sono gli anelli più deboli della società in questa corsa?
Le donne soffrono molto questa accelerazione. Tradizionalmente erano loro a occuparsi della casa, dei figli, della cucina. Poi, negli anni Ottanta del secolo scorso, milioni di donne hanno lasciato le terre d’origine per cercare lavoro altrove. Proprio come le due protagoniste di Perfect life. Dalla misera campagna alle città ricche, pagandone il prezzo e le difficoltà. Con il rischio di idealizzare il passato come “ vita perfetta” . Un posto come Shenzhen, vicino ad Hong Kong, per molti è stato il miraggio da inseguire. Perciò ho girato lì la sparatoria finale del mio film. Oggi Shenzen ha una popolazione di 12 milioni di persone. Più di 10 sono immigrati da aree poverissime e il 70 per cento di loro sono donne. Senza questa immensa forza lavoro Shenzen non sarebbe mai passata, in pochi decenni, da villaggio di pescatori a megalopoli. Tutto il merito è andato alla politica di apertura di Deng Xiaoping e nessuno parla di queste lavoratrici. Lasciano i loro figli al Paese, soffrono la solitudine e lottano per sopravvivere in una città caotica. Con la telecamera ho cercato di cogliere il loro mondo interiore, ignorato da tutti. Sono orgogliosa che siano diventate le “eroine” del mio film».

All Apologies

All Apologies

Nel suo nuovo film All Apologies racconta il dramma di Yunzhen, maltrattata dal marito per aver perso un figlio. Un nuovo capitolo della ricerca sull’identità femminile?
Per trent’anni la Cina ha sostenuto la politica del figlio unico, per controllare la crescita della popolazione. Ma  i problemi più seri sono sorti per il modo spesso disumano con cui la polizia ha costretto le donne ad abortire e a farsi sterilizzare. Yunzhen rappresenta queste vittime: vive da sola con un figlio, senza il marito al fianco per lunghi periodi. Mentre lui è via, subisce un intervento di sterilizzazione. Ma la tragedia scoppia quando muore il figlio, che era tutto per lei. Il marito, tornato a casa, scopre che lei non può più partorire e reagisce con violenza. Più dell’intervento subito, sono i valori tradizionali e  una cultura retrograda a mandarla in pezzi.

Però alla fine del film Yunzhen trova il coraggio di chiedere il divorzio…
Mentre giravo questa parte del film ero emozionatissima, mi sentivo partecipe, sapevo quanto fosse difficile per Yunzhen prendere quella decisione, ma speravo che il mio personaggio avrebbe trovato il coraggio di dire addio alla tristezza e allo sfruttamento.

In una società atea come quella cinese lontana dalla condanna cristiana del desiderio femminile, il rapporto fra uomo e donna è più libero e paritetico?
La cultura cinese è priva di un fondo religioso, ma ha subìto per più di due millenni un sistema feudale e patriarcale. Se una donna restava vedova non poteva risposarsi. Anche se questa usanza è scomparsa il sessismo è ancora dilagante. Ora è tempo che le donne prendano in mano il proprio destino. Questo è il messaggio che ho voluto dare nei miei film.

La regista Emily Tang

La regista Emily Tang

Il suo stile è fantasioso, evocativo. E conserva un forte rapporto con la realtà. Come ha trovato questa un cifra così originale?
Fare film è sempre stato il mio sogno. Sul set seguo il mio istinto, senza esitazioni. Diversamente dalla maggior parte dei miei colleghi non esco da una scuola di cinema. Mi sento libera da fardelli teorici. E ammiro maestri come Edward Yang, Antonioni e Angelopoulos.

Perché la censura cinese teme i suoi film?

Non mi curo molto della censura. Se hai un’idea, se hai qualcosa da dire, alla fine nessuno ti può fermare. Dieci anni fa girai Conjugation sentendo l’urgenza di farlo, ed è questa esigenza di esprimermi che conta, anche se in Cina quel film è ancora all’indice. Con All Apologies la faccenda è più complicata. Non possiedo i diritti. Per farlo uscire ho dovuto modificare un paio di frasi nei dialoghi.
Il Premio Nobel Mo Yan ha detto che la censura, alla fine, è stata l’occasione per sviluppare il proprio talento…
Ciascuno ha il suo modo di trattare con la censura. Ma non mi piace la condotta di Mo Yan. È inevitabile fare i conti con le limitazioni imposte dal potere. Ma non non si può certo dire che sia la condizione ideale.
Un artista come Ai Weiwei, intanto. continua a denunciare la violazione dei diritti umani in Cina. Che ne pensa?
Lo apprezzo moltissimo.

E’ già alle prese con una nuova opera?
Ho appena finito di girare un docudrama che parla dell’unica concessione commerciale italiana in Estremo Oriente, quella di Tianjin, che è rimasta in vigore tra il 1900 e il 1947. Per lunghi anni è stato una sorta di tabù parlare di come vivevano in queste aree i ricchi occidentali mentre noi eravamo poveri. L’unica parola che usavamo per descrivere  quella situazione era imperialismo. Ora, dopo aver vissuto uno sviluppo “ad alta velocità”, la Cina non è più umile come una volta. Ed è pronta a rivedere la propria storia in una prospettiva più ampia.

da left-avvenimenti

Chinese filmaker Emily Tang against censorship

Perfect life

Perfect life

In Perfect life you “compared” the stories of two very different women, who have many problems of identity and autonomy unresolved. In recent years something has changed for women in China? And in Hong Kong?

 

In the past decades, the rapid economic growth of China has brought a lot of changes to people’s way of living. Chinese people used to live in a stagnated, conservative and self-sufficient social system for such a long period of time. While facing such rapid changes, many peoples find it difficult to adapt to new situation. In the middle of the process, we may be consciously trying to catch up with all these changes, but finally we find out that we are actually in a very passive position, we even confused the purpose of all these changes, or is it worth the pursuit on the origin of our departure.I believe Chinese women suffer even more under such social changes. In the past, their natural duties would be farming, give birth, cooking and housework. In the 1980’s, millions of women left their land and went out for jobs, just like the two women characters in my film PERFECT LIFE. You can treat them as one person, working hard to fight for a better life, but eventually they no longer recognize their own meaning. Move from the poor area to an expensive city, they have to pay the cost and endure the pain. They have to keep struggle without turn back to seek for a imagined “perfect life”. A place called Shenzhen conveys such common dream. It is the shooting place of my film’s ending, near Hong Kong, which is referred as the world’s factory. It has a population of twelve million, over 10 million of them are the migrant workers from the poor area over the big country, and among all these workers nearly 70 percent are women. Without this huge work force, Shenzhen is impossible to change from a small fishing village into a megacity in a few decades. All the glory and merit belongs to the success of opening policy implemented by leader Deng Xiaoping, but who really care about the women workers. They leave their children in the poor countryside, endure loneliness and struggle to survive in a messy city. I attempt to use my camera and capture their inner world being ignored. I am very pleased that they become the hero in my film.

 

All apologies

All apologies

Your new film All Apologies tells the drama of Yunzhen. Is It a new chapter in your cinematographic research on the identity of women?

 

China has implemented the one-child policy for three decades in order to control population growth. This is a matter of last resort. But serious problem arise due to the inhuman way in executing the policy, the officers very often against the will of women, forced them to receive abortion or sterilization. Yunzhen is a representative of victims, I am concerned about the kind of women she lived with her child in the hometown without the presence of husband for long period of time. In accordance with the policy, she has a boy and loses the right to give birth another child. Forced ligation surgery will be implemented to her by the village officers. The two men (a husband and a son) in the family become her everything. But her world collapsed after the son died, especially when the husband learnt that she cannot give birth anymore. Although it is a tragedy caused by a traffic accident, but then we see that the traditional values and demand upon her is the actual force to tease her apart. I have deep sympathy for the character Yunzhen, at the end of the movie, Yunzhen sent a text message to her husband and ask for a divorce. While writing this scene, I was very excited. In accordance with the logic of the character, it must be very difficult for her to make this decision, but I hope my character will say goodbye to sadness and exploitation. In fact, the role of Qiaoyu is most crucial in the film to reveal inequality problem. After the traffic accident, when Yonggui broke into her room and rape her to reproduce a new life to him, she made a seemingly only the oriental women can do under such social context: the surrogate. It is also become the solution for her in order to have the money to pay for the surgery she simply cannot afford for her injured husband. This is a game that I imagined most distorted, the most painful, but the most well-intentioned fertility; or simply a woman to borrow her body for the salvation of others. Some might say that this is not necessary, why not ask for help from law enforcement bodies to protect themselves? I have to say, in China, the laws usually protect bigwigs. If you are the one without much education, struggling at the bottom of society, you don’t have much option after you are in trouble or badly ill. After Qiaoyu’s husband learnt that she give birth a son for Yonggui, he make a decision to take away their only daughter as her lifetime punishment. The scenes are act perfectly and with convinced most Chinese audience. I am hoping to express that in a male-dominated society, men’s selfishness and narrow-mindedness will come out without much constraint.

 

 Monotheistic religions for centuries have oppressed women, painting them like the devil. We imagine that Chinese culture, more secular, offers the possibility of a free and equal relationship between man and woman . Is that right? Wich are the problems in China?

Chinese cultural context is in lack of the sense of religion like Christianity. China built up a rigid feudal system for over two thousand years. The ethics of feudal society has always been patriarchal, for instance, in the past after the man die, his wife cannot remarried. Although this kind of practice is no longer retained, but sexist value still exist and commonly practice in every aspect of our society. Women should take over their own fate, this is the underlying theme in all my past films.

 

 Your way of making films is both poetic and attentive to the reality. How did you find your own way? Did you have some directors, some models, that inspired you?

 

I always comply with my heart to make films, seems like a voice telling me I should make this film and should handle the subject matters this way. I make use of my impulse and basic instincts without hesitation. Unlike most of the film directors in China, I am not professionally trained as filmmaker in film school. I did not study any film genre or theory seriously. Start from the very beginning, I am free of burden. I admire Edward Yang, Antonioni and Angelopoulos.

 

 What Chinese censorship feared about your films?

 

I do not take China’s censorship system seriously. If there is a story or an ideas that you really want to make it into film, I don’t think anyone can stop you. The authority never stop us from shooting a film. I made my first film CONJUGATION ten years ago impelled by strong passion, now it is still black-listed by the authority and cannot be public release in China. ALL AP OLOGIES is a bit complicated, unlike the past films I made, I did not own the copyrights. In order to release the film, I made one modifications: two dialogue lines of Yunzhen were redubbed in order to blur her passiveness for receiving forced ligation surgery.

 

Il premio Nobel Mo Yan

Il premio Nobel Mo Yan

Recently, the Nobel Prize Mo Yan said that the censorship forced him to find a more complex, allusive, fantastic styke in writing. What do you think?

 

All Chinese authors and creators have their thought and have their own way to deal with censorship. I do not appreciate the attitude of Mo Yan. Although all of us have to face the same censorship issue, we cannot think the situation now is as it should be.

 

 Ai Weiwei never gets tired of denouncing the situation of human rights in China . Which is your point of view?

 

I respect him a lot.

 

 Is Art an universal language that allows you to communicate strong contents beyond national barriers?

 

Yes, this is one of the reason I was obsessed with Art. An interesting experience is that I travelled a lot to many difference places due to shooting or presenting my films, in turn, it expanded how I watch the world and myself, and then influenced my films.

 

 Are you working to a new film project?

 

I just finish shooting a docudrama and now in postproduction status. It is about the past Italian concession in Tianjin, China. That concession was setup from 1900 until 1947, the only concession in the Far East in Italy’s history. For many years, it is a taboo for the Chinese people to talk about the details of how Westerners lived in the concessions during that humble period. We only imply a term “imperialism” to describe the whole. While experienced such high-speed economic development, China is not humble anymore, I think it is time for us to review the history with a broader scope. (Simona Maggiorelli)

From the italian weekly magazine Left-avvenimenti

 

 

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Il Sindaco che cercava la Battaglia di Anghiari

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 6, 2013

Matteo Renzi alla ricerca della Battaglia di Anghiari

Matteo Renzi alla ricerca della Battaglia di Anghiari

Una legislatura vissuta pericolosamente. Dalla scuola, dall’università ma anche e soprattutto dal patrimonio d’arte.

Così Tomaso Montanari racconta, con lingua viva e tagliente, ciò che è accaduto in Italia sotto l’egida del ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi «l’unico ministro incompetente di un governo tecnico», che, per giunta «ha moltiplicato intorno a sé l’incompetenza come fossero pani e pesci» scrive lo storico dell’arte dell’università di Napoli nel suo nuovo libro Le pietre e il popolo, restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane (Minimum Fax).

Un volume che stigmatizza il vuoto culturale e la mancanza di strategie che ha connotato il governo Monti. Che ha finito per proseguire sulla strada dello smantellamento del bene comune perpetrata dal governo Berlusconi e dalla “finanza creativa” di Tremonti con famigerate cartolarizzazioni (per far cassa), scandalosi condoni e svendite di interi pezzi di patrimonio pubblico.

Ne Le pietre e il popolo Montanari ci mostra come questo tipo di scellerata politica che attacca l’articolo 9 della Costituzione e il Codice dei beni culturali sia stata praticata anche dal governo tecnico, in doppio petto e nascosto sotto il credito internazionale.

Un esempio per tutti. Il ministro Ornaghi nel 2012 nomina direttore della Girolamini di Napoli tal Marino Massimo De Caro, con alle spalle molteplici lavori fra cui anche l’aver gestito una libreria antiquaria a Verona e intimo amico di Marcello Dell’Utri. Nel capitolo “La danza macabra di Napoli”, Montanari tratteggia il suo incontro con l’improbabile direttore preposto alla tutela della biblioteca dove andava a studiare Vico: fra cani che si aggiravano con ossi in bocca fra rari incunaboli e bionde presenze sgattaiolate al suo arrivo.

Biblioteca Girolamini

Biblioteca Girolamini

Ma soprattutto racconta come a poco a poco il suo lavoro di storico dell’arte sia diventato quello di un giornalista d’inchiesta che riesce abilmente a mettere insieme tutti i pezzi del puzzle della clamorosa truffa che, poche settimane fa, ha portato alla condanna di De Caro a sette anni di carcere per aver sottratto duemila libri alla Girolamini.

L’appassionato lavoro di difesa del patrimonio d’arte e del suo valore civico che Montanari svolge da diversi anni parallelamente alla sua attività accademica e di studioso del Seicento si concretizza, in questo  libro, anche in ficcanti pagine di denuncia delle privatizzazioni mascherate che passano, per esempio, attraverso la creazioni di Fondazioni (vedi il caso del  museo Egizio di Torino e il rischio che corre Brera).

524788_491969040852542_1202966870_nE da questo punto di vista va detto che la vena più caustica e corrosiva di Montanari si appunta sull’amministrazione della sua Firenze. In pagine che non esiteremmo a definire esilaranti, se non fosse tragico il senso che ci trasmettono.

Alla sbarra c’è l’improvvida politica di valorizzazione dei beni culturali ridotta a mero marketing da parte del sindaco Matteo Renzi, che oltre ad aver bucherellato gli affreschi di Vasari alla ricerca di lacerti Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci e ad aver pensato di sostituirsi a Michelangelo nel completare la facciata di San Lorenzo, ha affidato il suo pensum, sui beni culturali «petrolio d’Italia» a un imbarazzante libro come il suo Stil Novo, soprattutto ha eletto a suo Ganimede il vicesindaco Dario Nardella che, come ci ricorda Montanari, «dal 2003 caldeggia la cessione degli Uffizi a una fondazione». (Simona Maggiorelli)

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Leonardo da Vinci LIII lettura vinciana di/by Marco Biffi

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 6, 2013

Lettura vinciana

Lettura vinciana

Ingegneria linguistica tra Francesco di Giorgio e Leonardo / Linguistic engineering from Francesco di Giorgio to Leonardo

di / by Marco Biffi
Sabato 13 aprile 2013, ore 10.30 / Saturday 13 April 2013, 10.30am.
Vinci, Biblioteca Leonardiana

Nella Toscana della seconda metà del Quattrocento giunge a piena maturazione il processo di formazione della figura dell’“ingegnario”. Non letterato, e quindi senza una base culturale latina di partenza, ma formato in un fertile terreno volgare, l’“ingegnario” appartiene a quello che è stato definito da Carlo Maccagni lo “strato culturale intermedio”, intersecato strettamente con le arti e con alcuni settori tecnici della società che da medievale si avviava a diventare rinascimentale. Così le artes mechanicae diventano progressivamente liberales, mutando forma e metodo, acquisendo un solido fondamento nella scrittura di trattati e maturando nel corso del tempo una lingua specialistica appropriata. Questo processo affonda le sue radici nella tradizione classica, con una progressiva acquisizione della conoscenza della lingua latina che porterà molti degli “ingegnari” a volte semplicemente a consultare, altre a compulsare e persino a tradurre testi fondamentali (come ad esempio il De architectura di Vitruvio). Ma ha anche collegamenti con il presente delle botteghe artistiche e artigiane, e si lancia verso il futuro attraverso nuovi metodi, che prevedono il confronto con il dato reale e l’osservazione della natura. Due settori particolarmente vivaci e interessanti da questo punto di vista sono l’architettura e la meccanica: con la prima, attraverso il confronto sistematico con Vitruvio, si arriverà alla precoce nascita di una trattatistica portavoce del canone classico fino all’Ottocento; la seconda passerà progressivamente dai classici all’osservazione diretta dei fenomeni, si staccherà dalle cose per avviarsi alla moderna meccanica teorica passando da Leonardo e arrivando a Galileo Galilei. Lo sviluppo metodologico passa anche attraverso la conquista di una lingua tecnica e scientifica, caratterizzata quindi dalla necessità di una precisione univoca della parola che si fa termine. Tra Quattrocento e Cinquecento quest’operazione non è facile per discipline che da secoli hanno di fatto solo una lingua orale in un’Italia che non ha una lingua unitaria e che quindi, soprattutto in ambito tecnico, mostra evidenti differenziazioni locali; non facile ma affrontata con successo da Francesco di Giorgio e da Leonardo.

In Tuscany in the second half of the fifteenth century, the figure of the ingegnario gradually became fully delineated. The ingegnario was not a man of letters, and so did not have a cultural grounding in Latin. Instead, he sprang from a fertile vernacular terrain, belonging to what has been described by Carlo Maccagni as an “intermediate cultural layer”, closely intertwined with the arts and with some technical spheres of a society that was moving from the medieval towards the renaissance. The artes mechanicae thus became progressively liberales, changing form and method, acquiring a solid foundation in the writing of treatises and building up, over the course of time, an appropriate specialist language. This process was rooted in classical tradition, and marked by a growing familiarity with Latin, which would enable many of the ingegnari either simply to consult, or to carefully examine, or even to translate key texts (for example, Vitruvius’s De architectura). But it also had ties with the present reality of the artists’ and craftsmen’s workshops, and looked to the future through new methods that grappled with real data and involved the observation of nature.
Two particularly lively and interesting sectors from this point of view were architecture and mechanics: in the first, systematic engagement with Vitruvius led to the precocious growth of a body of treatises that would give voice to the classic canon until the nineteenth century; in the second, there was a gradual shift away from the classics towards direct observation of phenomena, and then a detachment from things with the move towards modern theoretical mechanics, from Leonardo through to Galileo Galilei. The development of methodology also involved the acquisition of a technical and scientific language, due to the need for unambiguity in the meaning of words, which thus became terms. In the late 1400s and early 1500s this was not easy to achieve in disciplines which, for centuries, had effectively only had an oral language, in an Italy that did not have a unitary language and which, especially in the technical field, displayed evident local differentiations. Not easy, but tackled with success by Francesco di Giorgio and Leonardo.

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