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Archive for gennaio 2014

Evan Gorga e il sogno di un collezionista bohémien

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 26, 2014

frammento di marmo, collezione Gorga

frammento di marmo, collezione Gorga

Tre anni fa l’ex direttore della National Gallery di Londra Neil MacGregor ha scritto una sorprendente Storia del mondo in cento oggetti (in Italia edita da Adelphi). Riuscendo a tratteggiare affascinanti ritratti di epoche e culture lontane attraverso la “descrizione” di un centinaio di pezzi d’arte, scelti nelle vaste collezioni di arte antica del British Museum.

Dal pilastro indiano di Asshoka del 238 a.C. a una tazza cinese della dinastia Hann, dalla calligrafia turca di Solimano il Magnifico della metà del Cinquecento ad una quattrocentesca coppa di giada con drago proveniente dall’Asia centrale e oltre…

Per quanto MacGregor parli di opere diversissime, giunti alla fine delle sue settecento pagine, l’immagine che resta nella mente è quella di un saggio con un preciso metodo e stile, ma anche compatto e unitario. Come se quegli oggetti così differenti fra loro per tradizione, cultura, significato, estetica, alla fine, fossero perle cangianti di un’unica collana, tasselli che vanno a comporre un’opera nuova, da cui emerge nitida la personalità e l’identità dell’autore.

Gavalli in terracotta, collezione Gorga

Gavalli in terracotta, collezione Gorga

Il libro di MacGregor è, in certo modo, il prodotto alto e aggiornato di una lunga tradizione di collezionismo colto e curioso che dalla Wunderkammer, zeppa di oggetti esotici e rari, arriva fino al collezionismo di artisti di oggi , come Rauschenberg o Arienti, capaci di fare creazioni nuove a partire dall’assemblaggio di frammenti o di opere altrui e “citazioni”.

A metà strada fra l’assoluta bizzarria dello studiolo fiorentino di Francesco I e il museo immaginario di Malraux si situa la sterminata collezione del tenore Evan Gorga (1865-1957) entrato nella storia dello spettacolo come il Rodolfo della Bohème di Puccini diretta da Toscanini nel 1896. Ma anche come collezionista d’arte e di strumenti antichi.

Nell’epoca della grande esposizione universale e mentre i lavori per Roma capitale portavano alla luce infiniti tesori dal sottosuolo, Gorga divenne anche uno dei maggiori collezionisti di reperti archeologici. Non tanto di marmi e opere preziose quanto di raffinati oggetti antichi. Come racconta la mostra Evan Gorga, il collezionista, allestita nelle sale di Palazzo Altemps a Roma fino al 4 maggio 2014 (catalogo Electa), Gorga era attratto soprattutto da resti di manufatti, vetri, oggetti decorati, ma di uso quotidiano.

Evan Gorga

Evan Gorga

Nelle addensate teche allestite in Palazzo Altemps si scoprono così frammenti di decorazioni, stoviglie e lacerti di affreschi.

Pezzi minori, oseremmo dire, ma in sé straordinariamente suggestivi come un vetro levigato dal mare o una porcellana finemente lavorata; oggetti che si rivelano di grande valore oggi per lo studioso di storia materiale e quotidiana di tempi antichi, di cui questi 40mila pezzi sono un segno, una traccia, che aspetta di essere interrogata per rivelare la propria vicenda.  Gorga voleva dare vita a un “museo della storia universale”, ma i debiti fermarono il suo progetto utopistico. Che la mostra di Palazzo Altemps, curata da Alessandra Capodiferro direttrice del museo, invita a conoscere. Anche attraverso una serie di conferenze: il 19 gennaio l’archeologa Beatrice Palma ha ripercorso la storia che va dalla camera delle meraviglie al nascita del museo. Il 26 gennaio, lo scrittore Emanuele Trevi confronta differenti tipi di collezionista da Benjamin, a Chatwin a De Wall.  (Simona Maggiorelli)

dal settimanale Left-avvenimenti

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Daverio e i denti di Giotto

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 19, 2014

Giotto cappella degli Scrovegni

Giotto cappella degli Scrovegni

Tecnicamente sarebbero una serie di canovacci, semplici tracce usate dal critico Philippe Daverio per realizzare una serie di puntate del popolare programma televisivo Passepartout. Ma a leggerli pubblicati nel suo nuovo libro edito da Rizzoli ci si rende conto come questa serie di scritti d’occasione, fuori da ogni banale semplificazione, formino una collana di folgoranti ritratti di artisti – da Giotto a Botticelli, da Correggio a Caravaggio – e un originale viaggio nella storia dell’arte italiana, con uno sguardo comparativo al resto del panorama europeo.

Nelle prime pagine di questo Guardar lontano, veder vicino (che fa seguito al best seller Il museo immaginato uscito nel 2011 e al più recente Il secolo della modernità) Daverio promette un racconto non conformista di alcuni dei più noti capolavori dell’arte italiana. E fino all’ultima pagina dedicata alla drammatica Resurrezione di Lazzaro di Caravaggio, non tradisce la promessa mantenendo uno sguardo fresco e curioso su opere sulle quali si è depositata la polvere di decine e decine di manuali scolastici.

Giotto, Cappella degli Scrovegni, particolare

Giotto, Cappella degli Scrovegni, particolare

Così ecco la Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto raccontata dal critico lombardo-alsaziano come la scoperta di una nuova oggettualità attraverso dettagli mai prima rappresentati in un affresco sacro, come i denti e le bocche spalancate dei frati, i peli e il sesso dei dannati e la trasformazione degli angeli, che liberati dalla rigidità bizantina, non appaiono più come i «carabinieri del Signore».

E’ la scoperta dell’espressività dei volti e il primo tentativo di rappresentare gli affetti umani in pittura che Daverio aiuta a cogliere nei capolavori di Giotto a Padova e ad Assisi, con un linguaggio spigliato che avvicina il lettore meno attrezzato ma che – bisogna riconoscere – non rinuncia mai all’approfondimento. Né a nessi suggestivi come quando mette a confronto il primitivismo del medievale Cimabue con quello del cubista Picasso raccontando la complessità di una poetica che dietro alla scabra essenzialità delle forme, cela una ricerca artistica raffinatissima. In questo breve spazio possiamo solo offrire qualche suggestione di questa multiforme “Daveriologia” lasciando al lettore il gusto di scoprire molto altro.

Ma prima di chiudere vorremmo almeno spendere qualche parola per raccomandare in particolare la lettura dei capitoli sul Rinascimento in cui la proposta fiorentina di Botticelli, intrisa di astratto neoplatonismo, viene messa a confronto con la scoperta della realtà che caratterizzava invece la coeva pittura fiamminga e con la nuova luce che la pittura ad olio regalava ai quadri di Van Eyck, che i traffici commerciali e bancari fra la signoria medicea e le repubbliche anseatiche, del resto, avevano reso ben noti nella penisola.

Non solo in Toscana, ma anche in quella Messina in cui nacque e si formò Antonello e che nel Quattrocento non era affatto una città di periferia, ma uno dei porti più importanti del Mediterraneo che metteva in connessione diretta la Sicilia con Venezia e con Anversa.

daverio_guardar_fascetta-660x911Per non dire poi del capitolo dedicato a Leonardo da Vinci che Daverio tratteggia come un giovane anarchico e “alternativo”, capace di mettere a soqquadro le ferree leggi del disegno tosco-emiliano scegliendo la via di  una laica «sperienza».  Nella Firenze medicea era il neoplatonismo  di Ficino a dettare i programmi iconografici ma il giovane pittore non poteva accettare che il disegno partisse da un’idea astratta. Leonardo, come giustamente Daverio ci ricorda qui, non poteva rinunciare allo spirito di ricerca, e  si fece notimista, anatomista, osservatore del continuo fluire degli elementi naturali. Più assonante in questo con il giovane Albrecht Dürer che con il concittadino Botticelli.

E leggendo queste pagine dedicate  al genio da Vinci  e alla sua affascinante quanto evanescente Ultima Cena torna alla mente  quella sequenza di Passepartout in cui Daverio per fare percepire allo spettatore per quale punto di vista Leonardo avesse pensato l’affresco,  nella sala del refettorio di Santa Maria Maggiore a Milano puntò due telecamere una contro l’altra evidenziando così quello spazio vuoto che un tempo era occupato dal tavolo dove i frati mangiavano: piccolo particolare domestico, ma che in tv metteva in nuova luce questo straordinario quanto enigmatico capolavoro leonardiano.  Anche per sequenze come questa ci dispiace  molto che la Rai non abbia voluto rinnovare a Daverio l’incarico per una nuova serie di trasmissioni.  Le vecchie puntate, per chi se le fosse perse, si possono rivedere su Rai 5.     (Simona Maggiorelli)

Dal settimanale Left-avvenimenti

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Mantegna, il pittore filosofo che anticipò il Rinascimento

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 7, 2014

Andrea Mantegna. La presentazione al tempio

Andrea Mantegna. La presentazione al tempio

Quando si parla di Rinascimento, di solito, si pensa alla grande tradizione fiorentina e toscana. Di fatto, però, quella veneta non fu meno importante, quanto a inventiva e sperimentalismo. Due aspetti che connotano fortemente la pittura di Andrea Mantegna (1431-1506), straordinaria figura di “artista-filosofo”, anticipatore di quel modo di studiare l’antico (con pieno senso della distanza storica) che avrebbe poi caratterizzato Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

Ma anche maestro di una pittura in cui la nettezza quasi crudele della visione fiamminga è riscaldata da un forte pathos. Basta pensare ad un capolavoro come il Cristo morto (1480) che la Pinacoteca di Brera ha presentato di recente in un nuovo scenografico e discusso allestimento curato dal regista Ermanno Olmi che tuttavia ne mette bene  in risalto l’assoluta originalità,  attraverso un confronto con la Pietà (1460) di Giovanni Bellini.

Nella rappresentazione che Mantegna ci offre di questa scena sacra non c’è traccia di idealizzazione né di agiografia.

Lo scorcio vertiginoso lascia in primo piano il dettaglio dei piedi di Gesù. Mentre il dolore deforma il volto invecchiato di Maria che si affaccia da un lato, come sbucando da una quinta teatrale. Costruzione ardita e potenza immaginifica. Descrizione della realtà umana anche negli aspetti più concreti ed, insieme, invenzione di immagine. Perché qui non si tratta di pittura dal vero.

Se Mantegna avesse riprodotto la visione retinica della realtà, allora i piedi del Cristo sarebbero dovuti essere più grandi e la testa più piccola, secondo i canoni della prospettiva, come nota giustamente Marco Lucco nella sua interessante analisi del quadro contenuta nel volume Mantegna, appena pubblicato da 24 Ore Cultura: una importante monografia che ricostruisce minuziosamente la vita e l’opera del pittore padovano, che fece della provinciale Mantova una delle corti più illustri dal punto di vista artistico in un cinquantennale sodalizio con i Gonzaga, offuscato solo dalle pretese di Isabella d’Este, che l’artista, giudicava alquanto fatue e superficiali.

Spirito indipendente e rigoroso, Mantegna intendeva la pittura come studio e ricerca. Cercava la naturalezza, l’incisività e la freschezza restituendo allo spettatore, scrive Lucco, «la sensazione vitale di una realtà intensificata». E dava grande importanza alla coerenza del racconto figurativo. Tanto che, aggiunge lo storico dell’arte, «non c’è centimetro della sua pittura che non sia pensato».

Eppure non è mai cerebrale, mai freddo. Distaccandosi nettamente dal giudizio di Roberto Longhi che, con un certo disprezzo parlava di Mantegna come del pittore «di pietre fredde e acidamente venate», Lucco mette bene in luce la dinamica degli affetti che rende vive e vibranti in particolare le opere dell’ultimo Mantegna, realizzate negli anni Ottanta. E che a noi pare ravvisabile già in opere di disarmante bellezza come la Madonna Butler (1460) o come la Presentazione al tempio (1455) conservata alla Gemäldegalerie di Berlino, in cui spicca una bionda Madonna, fragile e femminile, che Lucco ipotizza essere un ritratto di Nicolosia, la figlia del pittore veneziano Jacopo Bellini che Mantegna sposò giovanissima. (Simona Maggiorelli)

dal settimanale Left-Avvenimenti

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Il coraggio di Benedetta Tobagi

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 2, 2014

Benedetta Tobagi

Benedetta Tobagi

“L’’Italia delle stragi mi fa pensare a una famiglia borghese che nasconde segreti innominabili come un abuso, un incesto o altri crimini vergognosi. Se anche il segreto viene alla luce e il velo d’ipocrisia si squarcia per un momento, ben presto lo schermo si ricompatta… Bisogna salvare la famiglia, le apparenze, il buon nome delle istituzioni, la ragion di Stato», scrive Benedetta Tobagi nelle prime pagine del suo nuovo libro Una stella incoronata di buio  pubblicato da Einaudi.

Un libro inchiesta che ha la prosa viva e bruciante di un’autobiografia. E in cui l’autrice tenacemente riesamina documenti, fotografie d’epoca, video, andando alla ricerca di quella verità che per anni è stata coperta e occultata e ancora fatica ad emergere.

Fondendo ricostruzione puntuale e partecipazione emotiva Benedetta Tobagi (in foto) ripercorre la storia della strage di piazza Fontana e poi di quella di Brescia, riesaminando i fatti senza mai perdere di vista le vittime e i loro affetti.

Benedetta Tobagi, Einaudi

Benedetta Tobagi, Einaudi

Il 28 maggio 1974, quando scoppiò la bomba in piazza della Loggia, a Brescia, lei non era ancora nata. E aveva appena tre anni quando, il 28 maggio 1980, i brigatisti uccisero suo padre, il giornalista Walter Tobagi. Un dramma che Benedetta ha rievocato in Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi, 2009), straordinario llbro-testimonianza che ha ricevuto numerosi riconoscimenti, fra i quali il Premio Pozzale Luigi Russo nel 2010.

Ora, provando a fare un passo ulteriore, Benedetta Tobagi riallaccia i fili della storia indagando gli anni che precedono l’assassinio di suo padre; a ritroso arrivando fino al’attentato in piazza della Loggia del 28 maggio 1974, «Una strage impunita», come recita il sottotitolo di Una stella incoronata di buio. In cui i veri protagonisti si chiamano Manlio e Livia. E poi Clem e Alberto. Sono i nomi di operai, studenti, insegnanti che, insieme ad altri, persero la vita in quella tragica mattina in cui si erano dati appuntamento in piazza per manifestare il proprio impegno antifascista. (Simona  Maggiorelli, dal settimanale left-avvenimenti)

Benedetta Tobagi è la figlia minore del giornalista Walter Tobagi assassinato dalla Brigata XXVIII marzo  il 28 maggio 1980.Laureata in filosofia, ha lavorato alcuni anni nella produzione audiovisiva, occupandosi in particolare di documentari , e in campo editoriale. Collabora con il quotidiano La Repubblica. Segue le attività di associazioni e centri di documentazione dedicati ai terrorismi e alle mafie (Rete degli archivi per non dimenticare).Il 5 luglio 2012 è stata nominata, in quota Pd al consiglio di amministrazione della RAI.

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Il pensiero di Goya. Il libro di Todorov e una mostra a Parigi

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 1, 2014

Goya, la lampada del diavolo

Goya, la lampada del diavolo

Francisco Goya (1746 -1828), testimone del suo tempo e straordinario interprete della modernità. Così la Pinacothèque de Paris racconta il maestro spagnolo, con una mostra (aperta fino al 16 marzo 2014) che scardina  molti di quei vecchi luoghi comuni che hanno rinchiuso l’autore della Quinta del sordo nello stereotipo del misantropo solitario, immerso in visioni allucinate e inquietanti.

Con il titolo Goya e la modernità l’esposizione parigina propone un percorso che prende le mosse dai celebri ritratti dei reali di Spagna (in cui immaginazione e spietato realismo si mescolano in modo formidabile) per arrivare alle caustiche incisioni dei Capricci, pubblicati nel 1799, in cui Goya mette a segno una acuminata critica del clero e della religione, stigmatizzata come ciarpame oscurantista e ostacolo ad ogni progresso. Per arrivare poi alla serie i Disastri della guerra (1820) cui il pittore spagnolo denunciava l’oppressione dell’occupazione napoleonica iniziata nel 1808, approfittando di conflitti locali.

In questa serie di acqueforti Goya attua un totale ribaltamento dell’estetica riguardo alla guerra. Che nelle sue opere non è più glorificata come un atto di eroismo. Anzi vi appare rappresentata in tutta la sua brutalità, come insensata violenza, che non può avere mai una giustificazione politica.Con grande passione civile nei Disastri della guerra, Goya si fa cronista per raccontare la coraggiosa resistenza spagnola, che si batteva in nome di ideali umani e politici. Ed è anche nella schietta incisività di questa opera grafica che Tzvetan Todorov legge la straordinaria attenzione che Goya aveva per il suo tempo. Nel suo importante saggio, Goya, appena pubblicato in Italia da Garzanti, lo studioso bulgaro-francese traccia una biografia intellettuale del pittore raccontandolo come uno dei «pensatori più profondi» della sua epoca, «paragonabile in questo al contemporaneo Goethe o più tardi a Dostoevskij.

TodorovSulla traccia del poeta Yves Bonnefoy che alcuni anni fa scriveva del «pensiero figurale» di Goya, Todorov – esaminando dipinti, disegni e incisioni – riesce a far emergere i nuclei forti del pensiero dell’artista. Che era massimamente pensiero per immagini.«L’immagine è pensiero non diversamente da quello espresso con le parole e rappresenta sempre una riflessione sul mondo e sugli uomini», rileva acutamente Todorov. Di più: «L’immagine rivela quelle sensazioni che non richiedono parole». Riuscendo a rappresentare un pensiero che va al di là del discorso cosciente. È con questa potenza di immagine (che è pensiero profondo) che Goya riesce a farci arrivare emotivamente il suo rifiuto del disumano, sia che si manifesti in un’esecuzione sommaria, in un medievale esorcismo o in una predica che tenta di seminare terrore. «La rivoluzione pittorica di Goya appartiene ad un movimento che vede l’ascesa dell’illuminismo, la progressiva secolarizzazione dei paesi europei, la rivoluzione francese e la crescente popolarità dei valori democratici», scrive Todorov in questa sua affascinante monografia. Ma vi si iscrive senza consegnarsi all’aridità che hanno quei pensieri che hanno perso il rapporto con le immagini della notte e della fantasia.  (Simona Maggiorelli, dal settimanale left-avvenimenti)

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