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Posts Tagged ‘Metamorfosi’

Sangue, religione e soldi. La logica bestiale delle mafie.

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 24, 2014

Claudia Cardinale, la ragazza con la valigia

Claudia Cardinale, la ragazza con la valigia

Intervista al prefetto #FrancoMusolino, autore del noir Operazione acqua di felce. Una storia d’amore e di forte denuncia  dell ‘ndrangheta. Scritta immaginando il punto di vista di una donna

di Simona Maggiorelli

Calabria alla fine degli anni Sessanta, A Villalba sull’Aspromonte, il figlio di un noto capo ‘ndranghetista viene ucciso. Il corpo viene ritrovato tra le felci in una radura, colpito alle spalle. E questo delitto che da subito si intuisce non essere stato compiuto dal clan rivale. Da qui prende le mosse il noir Operazione acqua di felce (Metamorfosi) di Franco Musolino, prefetto di Napoli, dopo aver diretto le prefetture di Crotone, Cosenza, Reggio Calabria e Genova. E l’uscita del suo romanzo diventa anche l’occasione per approfondire i temi brucianti che lo innervano.

In Operazione acqua di felce una donna spara, a freddo, uccide. Lo fa per la mancanza di rispetto subita. In una Italia in cui il delitto d’onore è sempre stato un delitto maschile. Un voluto ribaltamento?

Il delitto d’onore, o meglio “l’omicidio e la lesione personale a causa d’onore”, è stato certamente “pensato” al maschile; così come erano pensate al maschile anche altre norme: l’adulterio, previsto solo se commesso dalla moglie, e il concubinato, concepito possibile solo da parte del marito. Queste norme, vigenti all’epoca in cui si svolgono i fatti narrati, assoggettavano alla medesima conseguenza anche il “compagno o la compagna” del coniuge traditore (il correo dell’adultera / la concubina) o la persona che fosse in una “illegittima relazione con la moglie, figlia o sorella”. Era però, questa, una previsione secondaria e ben testimonia la disparità fra uomo e donna nella valutazione ordinamentale, e sociale. Proprio in quegli anni, però, il cinema cominciava già a mettere in discussione il ruolo sottomesso del genere femminile, anche con pellicole di tutto rispetto, come La ragazza con valigia (1961) e La ragazza con la pistola (1968) . Certo, non voglio dire che la protagonista abbia visto il film (oltretutto, a Villalba naturalmente non c’era il cinema), ma certe tensioni erano ormai evidenti già in quegli anni.

Il suo romanzo tratteggia in modo assai efficace una tendenza della società civile ad accettare come normale la violenza, la sopraffazione e la giustizia fai da te della ‘ndrangheta. Quanto c’è di finzione, quanto di realtà?

Non dimentichiamo che dai fatti narrati è trascorso più di mezzo secolo. Un approfondimento su quello che all’epoca poteva essere il comune sentire nei confronti della ‘ndrangheta ci porterebbe assai lontano. In sintesi possiamo dire che sì, in quegli anni era abbastanza “normale” convivere con le regole della criminalità organizzata, specie in piccoli paesi lontani dalle città. Perciò, pur essendo tutti frutti di fantasia, i fatti narrati sono verosimili e certamente si sarebbero potuti verificare davvero.

Racconta anche di una malavita organizzata in clan patriarcali, conservatori, religiosi, con propri codici interni. Tanto da far pensare che la storia si svolga in una società ancestrale che non ha conosciuto nessuna evoluzione, né alcuna crisi. Quale tipo di ideologia ha permesso a questo codice criminale di sopravvivere, di perpetuarsi e di infiltrarsi anche in alcune aree del nord?

Cinquant’anni fa, come dicevo, il contesto era quello, anche se occorre rimarcare che il concetto di religione cui si rifacevano i componenti dell’onorata società era del tutto improprio e radicalmente falsato dal loro agire. Crisi? Nessuna crisi, se non quella dei valori tradizionali che, via via, sono stati modificati. Evoluzione? È sotto gli occhi di tutti coloro che vogliano davvero usarli per osservare! Veda, in questi decenni si sono commessi alcuni errori formidabili, che hanno consentito alla ‘ndrangheta di collocarsi al vertice delle organizzazioni mafiose nazionali ed internazionali.

Per esempio?

Il primo, fondamentale, è stato ritenere che le mafie in generale riguardassero solo il meridione d’Italia e che fossero dei fenomeni gravi, sì, ma in definitiva legati ad aspetti quasi folcloristici di una parte arretrata del Paese dove accadeva ciò che accadeva per un malinteso senso dell’onore più che peraltro; il secondo, di sottovalutare drammaticamente la ‘ndrangheta a motivo della sua capacità di mimetizzarsi, di lavorare sotto traccia, di scivolare come acqua quieta tra i ciottoli, senza minarne la stabilità. Non è un caso che sino ad una decina di anni addietro -vado a memoria- essa non era neppure indicata nominativamente nel corpo delle leggi antimafia, dove veniva ricompresa nei termini di “altri fenomeni similari”.

La logica del clan funzionava e funziona ancora da collante?

La ‘ndrangheta ha certamente nel vincolo di consanguineità dei suoi adepti uno dei principali punti di forza, verosimilmente il più importante, ma credo che analogo livello di responsabilità nello sviluppo (più che nella sopravvivenza) di questo codice criminale vada ascritta proprio a questa sottovalutazione, e all’idea che vi possa quasi essere una ragione genetica alla base della ‘ndrangheta. Altro collante, insieme con la consanguineità dei suoi membri, era certo anche un malinteso senso dell’onore, oggi decisamente rimpiazzato dalla ricerca del profitto ogni costo, inseguito da tempo anche lontano dal meridione d’Italia, sin oltre i confini nazionali. Lo provano risultanze giudiziarie chiare. Eppure molti ancora, specie nelle aree settentrionali del Paese, continuano a guardare alla ‘ndrangheta come a qualcosa che non interessa direttamente, quasi che un’infezione al piede -se proprio solo al piede volessimo ritenerla limitata- possa lasciare indifferente il resto del corpo.

La modalità del noir negli ultimi anni è stata scelta da giornalisti per veicolare contenuti di inchiesta, un genere di giornalismo, purtroppo, in estinzione sui media. Oltre all’esigenza espressiva quale è stata la motivazione profonda che l’ha portata a scrivere a questo romanzo?

Quando ho cominciato a scrivere non avevo altro fine che fissare una storia con l’inchiostro. Se vogliamo ricercare una motivazione più profonda, potremmo forse indirizzarci verso l’ammirazione nei confronti dell’universo femminile, che, in positivo ed in negativo, ritengo generalmente più “colorato” del maschile, e nel quale si sviluppano sensibilità, intelligenze e passioni normalmente nell’uomo più appannate. A ben guardare -ma è una riflessione che faccio solo ora- l’unico protagonista maschile del romanzo è circondato da più personaggi femminili che non sono solo comparse.

Sono tanti anche i magistrati che si sono scoperti letterati (fra questi anche autori popolari come De Cataldo a Carofiglio) un caso? Vi si può leggere in filigrana una ricerca di un modo, più emotivamente coinvolgente, per comunicare con la società civile, con i cittadini?

Credo che chiunque scriva lo faccia per comunicare qualcosa e, certamente, si può comunicare solo ciò che ci appartiene. Non ho il piacere di conoscere gli scrittori che cita, ed ai quali non mi sento di accostarmi. Credo, però, che chi esercita responsabilità istituzionali, o le abbia a lungo esercitate, anche nello scrivere inconsapevolmente continui a dar voce alla passione civile che l’ha spinto verso quel tipo di impegno professionale. Certamente il contrasto alle mafie, e con esse anche alla ‘ndrangheta, non è lavoro che si possa dare in appalto solo a magistratura e forze di polizia. Occorre una forte impegno comune, di istituzioni e cittadini insieme: di tutti e di ciascuno.

da Globalist-Babylonpost

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Giorgione, tra realtà e mito

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 10, 2009

di Simona Maggiorelli

giorgione, tempesta

Di lui non esiste firma riconosciuta come autografa e i documenti ufficiali che lo riguardano sono pochissimi. Tanto che se non fossero stati ritrovati quelli relativi a un’opera (andata perduta) che gli fu commissionata nel 1507 per Palazzo Ducale o i contratti che riguardano gli affreschi del Fondaco dei Tedeschi di cui La nuda è uno dei pochi lacerti superstiti, «Giorgione potrebbe tranquillamente non esser mai esistito».

Ad affermarlo, non troppo provocatoriamente, è il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci nel catalogo Skira che accompagna la mostra Giorgione. Dipinti e misteri di un genio (dal 12 dicembre all’11 aprile nel Museo Casa di Giorgione a Castelfranco Veneto). Ricordandoci che anche la morte prematura del pittore, a poco più di trent’anni a causa della peste che colpì Venezia nel 1510, è riportata solo da una lettera di Isabella d’Este a un suo faccendiere attraverso il quale aveva sperato di ottenere una a noi sconosciuta «pictura de una nocte» del geniale artista.

Ma per amore verso la straordinaria arte di Giorgione e volendo dare un po’ di fiducia ai cronisti del Cinquecento (Vasari compreso), ripercorriamo qui anche la tradizione che vuole Giorgio Zorzi da Castelfranco nato nel 1477 (o al più un anno dopo) da una famiglia povera e presto andato a farsi le ossa nella bottega di un pittore affermato come Giovanni Bellini. Tra le fonti che riportano questi scarni dati biografici, il Ridolfi, in particolare, sostiene che dopo un breve apprendistato Giorgione scelse di non legarsi a una bottega precisa ma di darsi le possibilità che apre l’essere “mobile” e indipendente.

Giovane, di bell’aspetto, abile nella musica, il pittore che avrebbe rivoluzionato il modo di dipingere  aprendo la strada alla pittura tonale, non ebbe difficoltà a inserirsi nella vivace vita culturale delle élite veneziane. Lungo questa via, Lionello Puppi che – assieme a Paolucci e a Enrico Maria Dal Pozzolo – ha curato la grande mostra di Castelfranco Veneto, ricostruisce nel catalogo Skira lo “spregiudicato” milieu culturale in cui Giorgione operò, stimolato da committenti provenienti dalla ricca e laica borghesia mercantile di Venezia e dalla comunità tedesca che viveva nella città lagunare (da qui il fertile contatto che l’artista ebbe con la grafica nordica e l’inquieta pittura di Dürer).

Giorgione, autoritratto

Senza dimenticare, fra i committenti che si rivelarono importanti per il lavoro di Giorgione, anche figure come il cardinal Domenico Grimani che con ogni probabilità gli fece conoscere alcune opere di Leonardo. E che la geniale ricerca leonardiana sullo sfumato avesse profondamente colpito il giovane pittore, tanto da spingerlo lungo quella strada a trovare una propria originale cifra stilistica, ne è prova evidente un capolavoro come La tempesta. Dipinto criptico quanto affascinante, eccezionalmente prestato (vista la sua fragilità) dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia per questa rassegna che, in occasione dei cinquecento  anni dalla morte del maestro di Castelfranco, raduna gran parte dell’esiguo corpus delle sue opere giunto fino a noi.

In questo quadro, come del resto nel cosiddetto Tramonto proveniente dalla National Gallery di Londra, si coglie tutta la portata della rivoluzione coloristica che il pittore veneto realizzò adottando un atteggiamento sperimentale verso la natura analogo a quello di Leonardo: il movimento continuo degli elementi, la fusione atmosferica delle forme e la potenza espressiva del colore ne La tempesta fanno sì che la natura stessa diventi protagonista, restituendo il vissuto emotivo dei personaggi e indirettamente quello dell’autore. Tanto da spingere lo spettatore a “tuffarsi “in questo paesaggio inquieto e vibrante distogliendolo dalla decifrazione razionale dell’episodio qui rappresentato.

E sul quale, tuttavia, sono stati versati fiumi d’inchiostro. Senza che la critica d’arte e gli studi di iconologia siano mai arrivati di fatto a una lettura certa e definitiva. Nei secoli si è parlato di allegoria alchemica, di idillio bucolico, di ermetico gioco mitologico. E più in dettaglio di raffigurazione di episodi delle Metamorfosi di Ovidio oppure della Tebaide di Stazio. E se Marcantonio Michiel nel Cinqeucento aveva parlato de «la zingara e il soldato», secondo Schrey agli inizi del Novecento i due protagonisti del quadro erano i progenitori dell’umanità scampati dal diluvio universale. Per arrivare poi a Salvatore Settis che nel celebre saggio La tempesta interpretata (Einaudi) legge le due figure come Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden.

Ma forse, con Antonio Paolucci oggi potremmo finalmente dire che è il temporale il vero protagonista della tela e non inteso come mera descrizione di un banale evento atmosferico. Quello che vediamo, scrive il curatore della mostra castellana «è un temporale d’estate nella campagna intorno a Castelfranco, con le nuvole nero-grigio-viola che ruotano nel cielo fattosi improvvisamente buio, con il vento che squassa le chiome degli alberi e il fulmine che tocca di una luce livida e spettrale le mura del borgo» Una natura che è sì «vero visibile» ma che nelle sue epifanie e metamorfosi qui sembra evocare piuttosto “una tempesta emotiva”, o meglio l’inquieto vissuto emotivo che l’autore regala ai due enigmatici protagonisti. «Un temporale d’estate protagonista del quadro, come molti secoli dopo lo sarà la montagna Sainte Victoire per Cézanne o  come saranno le Ninfee per Monet. Con questo – precisa Paolucci – non si vuol dire che Giorgione è precursore dell’impressionismo. Si vuol dire semplicemente che la modernità nelle arti visuali incomincia anche con La tempesta». Certo è che in questa opera, come nel Tramonto o come accadeva già nella Pala di Castelfranco, Giorgione supera completamente la prospettiva rinascimentale che costruiva il paesaggio in modo architettonico. E in quell’impasto sfocato e nella tessitura continua della pittura senza disegno come è quella di Giorgione (diversamente da quella di Leonardo) si legge un’immagine latente mutevole e viva, diversissima dalla durezza smaltata della pittura quattrocentesca che prima di lui era ancora dominante nell’area veneta. La pittura tonale di Tiziano, Veronese e Tintoretto sarebbe venuta dopo.

da left-Avvenimenti 11 dicembre 2009

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La vis imaginativa di un maestro

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 5, 2009


Due saggi indagano il non finito in Michelangelo e la potenza del suo “occhio interiore”

di Simona Maggiorelli

Michelangelo,_battaglia_dei_centauri,_casa_buonarroti

Michelangelo, Centauromachia

La potenza dei Prigioni di Michelangelo che sembrano emergere dalla pietra grezza con uno sforzo sovrumano è al centro del nuovo lavoro Isabelle Miller Capolavori incompiuti, da poco uscito in Italia per l’editore Angelo Colla. Un saggio in cui si analizza il fascino dell’imperfetto e quel certo modo di fare arte che lascia trasparire la tensione creativa piuttosto che il dettaglio analitico e le rifiniture.

Nei bozzetti di Canova, nelle sculture incompiute di Rodin oppure nei bassorilievi in creta di Lucio Fontana si percepisce il divenire dell’opera, quasi potesse restare aperta a ulteriori significati e assorbire col tempo nuove sfumature attraversando temperie culturali diverse. Una qualità del “non finito” di durare e “ricrearsi” nella storia che Michelangelo intuì giovanissimo. Facendone la chiave della sua Centauromachia, conservata in Casa Buonarroti a Firenze.  Un bassorilievo che gli studiosi hanno spesso considerato immaturo per certi “difetti”, che farebbero sospettare una non perfetta padronanza delle proporzioni nell’anatomia dei corpi e della prospettiva geometrica. Del resto, come ricorda Forcellino in Michelangelo. Una vita inquieta (Laterza), quando riprese il tema della lotta dei centauri da fonti dantesche e, su suggerimento del Poliziano, dalle Metamorfosi di Ovidio era un diciassettenne che si era appena affrancato dalla bottega del Ghirlandaio grazie a Lorenzo de’ Medici che, intuendone il talento, l’aveva voluto fra gli intellettuali umanisti che frequentavano il suo giardino di corte. Sta di fatto, però, come notano Sergio Risaliti e Francesco Vossilla in Michelangelo. La zuffa dei centauri (Electa), «un lunare e nascosto Michelangelo intervenne più volte con gli scalpelli a perfezionare quell’immagine di tumulto», senza che il rilievo ricevesse mai l’ultima mano. Secondo la tesi dei due autori, l’artista era ben consapevole del valore di quel lavoro e con gli scalpelli, e poi, settantenne con l’aiuto del biografo ufficiale, Ascanio Condivi, «riuscì in un’altra impresa: far credere che la Zuffa dei centauri fosse perfetta prima del 1492». Come opera di un talento precoce e geniale. Ma a ben vedere Michelangelo non aveva bisogno di apologia.

La genialità dell’opera stava già nel fatto che avesse ripreso il tema caro all’Umanesimo liberamente, senza lasciarsi imbrigliare dal valore allegorico di vittoria della ragione sugli istinti. Al «bulicame» dei centauri di dantesca memoria sostituì figure dalla bellezza quasi greca (aspetto che accentuerà dopo il ritrovamento del Laocoonte). E non ebbe timore di usare quelle deformazioni che, in una visione di insieme, gli permisero di rendere il senso di un corpo umano in movimento nello spazio. Con la Centauromachia era già fuori dalla perfezione bidimensionale di Botticelli. Inoltre, come suggeriscono Risaliti e Vossilla in questo loro breve e affascinante saggio, Michelangelo rilegge la lezione leonardiana dello sfumato in chiave plastica, riuscendo a dare profondità e ombre al bassorilievo. Al tempo stesso, abbandonando lo schema di piani parelleli tipico dello stiacciato di Donatello, riesce a costruire una molteplicità di punti di vista che nel non finito lasciano aperta la porta della fantasia. Per dare una spazialità interna all’opera, poi, non usa la cauta raspa, ma la grandina e lo scalpello fino alla pelle del marmo, sapendosi fermare prima della rottura. «La capacità molto precoce di Michelangelo – scrive Forcellino – era quella di vedere il marmo nella sua tridimensionalità, indipendentemente dal disegno che si può tracciare sulla sua superficie». Il marchigiano Condivi già scriveva nel 1553 della «potentissima vis imaginativa» del maestro. La forza espressiva della Centauromachia era già tutta nell’immagine interiore dell’artista. La rappresentazione così emergeva dalla pietra viva e reale, nelle sue linee essenziali. E non c’era alcun bisogno di completare le parti scabre.

da left-avvenimenti 4 settembre 2009

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Le metamorfosi nella fantasia di Klinger

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 30, 2003

di Simona Maggiorelli

Sirena di Max Klinger

Una natura idealizzata e possente. Scene di passione sulla spiaggia. Di amanti senza nome. Nell’abbraccio, la donna rivela una sfuggente natura da sirena. Sono le figure immaginifiche, fantastiche, spesso mutuate dall’epos e dal mito, della pittura di Max Klinger, l’artista che contrassegnato con un proprio segno originale il passaggio dalla pittura romantica a quella simbolista nell’orizzonte europeo.

In un periodo in cui le varie discipline erano sempre più compartimentizzate, Klinger lavora a fondere i confini tra i generi inseguendo un’idea di arte totale in cui disegno e pittura non rinunciano a un effetto plastico e visionario. Allievo di Boecklin, soprattutto nel regalare sensualità alle figure, sciogliendo il rigido rigore della pittura tedesca.

Instancabile sperimentatore fra pittura, scultura e grafica, Klinger nasce a Lipsia nel 1857 e muore a Grossjena nel 1920. Dopo la prima importante antologica italiana che gli dedicò sei anni fa Ferrara in palazzo de’ Diamanti, ora una grossa scelta dalle sue opere – circa un centinaio fra olii, incisioni, a cqueforti, bulini e litografie – è in mostra a Trento, in palazzo delle Albere fino al 25 settembre . La curatrice Alessandra Tiddia, per rendere accessibile da subito il percorso della mostra, ha scelto di partire dall’opera più popolare di Klinger, il ciclo Parafrasi sul ritrovamento di un guanto, dove a dare il la alla pittura è un episodio di cronaca, in parte vero, in parte inventato. Nel quadro più famoso della serie, intitolato L’Azione (che piacque molto ai surrealisti) Klinger ritrae un uomo su una pista di pattinaggio, mentre si china per raccogliere il guanto che una pattinatrice ha lasciato cadere. Il pittore tedesco raccontò di aver vissuto davvero questo piccolo episodio e di essersi portato a casa quel guanto. Klinger lasciava intendere di averlo messo sul cuscino, generando un sogno in cui l’oggetto si animava di vita propria diventando protagonista di infinite avventure romanzesche e trasformazioni, fonte di ispirazione per altrettante opere su tela e su carta. Uno dei testi più cari a Klinger fu non, a caso, la favola di Apuleio. Da Amore e Psiche e dalle Metamorfosi, il pittore tedesco ricavò un ciclo di quadri che contenevano il movimento di una perenne trasmutazione degli elementi. Passaggio che poi troverà il suo apice ne Le fantasie per Brahms del 1894, la tela in cui Klinger tenta di dare musicalità silenziosa alle immagini. Brahms stesso, si dice, apprezzò moltissimo l’esperimento.

Da Europa quotidiano, 2003

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