Roberto Saviano presenta il suo nuovo libro, Parole contro la camorra. E indaga i successi dei neomelodici ispirati alle “gesta” della mafia
di Simona Maggiorelli

Roberto Saviano
Da una manciata di giorni è in libreria un nuovo libro di Roberto Saviano, La parola contro la camorra (Einaudi). O meglio, un libro accoppiato a un dvd, che raccoglie, tra l’altro, la puntata speciale di “Che tempo che fa” che Fabio Fazio ha dedicato all’autore di Gomorra (Mondadori, 2006): il potente libro di denuncia dei sistemi criminali che operano in Campania, tradotto in molte lingue e che per primi i giovani si sono passati di mano in mano. Un piccolo grande miracolo editoriale nato da un lungo lavoro d’inchiesta fatto a rischio della propria pelle e che da tempo costringe Saviano a una vita blindata, sempre sotto scorta.
La parola contro la camorra non è l’atteso seguito letterario del bestseller, che fu tradotto sul grande schermo da Matteo Garrone, hanno sottolineato i soliti intellettuali snob da salotto. Di fatto in questa sua nuova uscita, Saviano (che invece non è snob) ha utilmente precipitato il succo di attente e infinite letture di articoli sulla mafia fatte negli ultimi anni. Un lavoro che a nostro modesto avviso dovrebbe essere adottato nelle scuole di giornalismo perché aiuta ad aprire gli occhi su come anche nelle più blasonate testate possa allignare una certa mentalità “mafiosa”, complice perché reticente, oppure palesemente violenta nel non saper (volere) distinguere fra vittime e carnefici.
Un lavoro, quello ultimamente uscito dalla penna di Saviano, che stigmatizza la superficialità e smaschera l’uso improprio e distorto delle parole. Che svela quei sottotesti, sottintesi e non detti che, giorno dopo giorno, “distrattamente”, rafforzano meccanismi mentali omertosi o di rassegnazione. Quello che Saviano propone qui è un incisivo metodo di lettura critica dei “discorsi” di affiliati e di criminali ma anche di chi fa loro “da spalla”, volontariamente o meno. Un metodo sviluppato da quando non può più andarsene in giro, gambe in spalla, a fare sue inchieste. Smessi forzatamente i panni da reporter sul campo, lo scrittore partenopeo è riuscito a cambiarsi in un acuto studioso di contesti culturali e subculturali della mafia. Anche quelli apparentemente più marginali, come potrebbe apparire quello dei cantanti neomelodici. Cosa si possa ricavare da giornate passate a vedere improbabili video di re e reucci della pirateria musicale, Saviano l’ha dimostrato in una serata all’Auditorium di Roma. In maniera sorprendente e del tutto inaspettata. Armato di computer portatile e a colpi di mouse. Con qualche intoppo tecnico e un tono via via sempre più visibilmente contento di poter stare e comunicare e scambiare emozioni e riflessioni, in presa diretta, con altre persone.

roberto saviano
Sul maxischermo, così, ecco scorrere clip di Lisa Castaldi, di Gianni Vezzosi, di Luigino Giuliano e di una ridda di altri divi dei quartieri spagnoli e che certo mai avrebbero immaginato di poter cantare, se pur virtualmente, sul palcoscenico del Parco della musica progettato da Renzo Piano. Eppure questi signor nessuno per il pubblico mediamente colto hanno un seguito popolare grandissimo. I video di canzoni dal titolo emblematico come “’O latitante”, ci spiega Saviano, hanno avuto in rete centinaia di migliaia di contatti. Che cosa cantano questi aedi di città e paesi della Campania dal vasto seguito popolare? Cantano il mare, la noia e la fatica del lavoro, i soliti miti di “soldi, macchine e femmine”, versione ruspante dell’intramontabile sesso droga e rock and roll d’Oltreoceano. Ma questi epigoni di Gigi d’Alessio mettono in musica ( perlopiù clonata da gruppi come i Ricchi e poveri o dalla disco anni Ottanta) soprattutto le gesta e la “durezza” della vita da killer.
Così ci permette di capire Saviano traducendo in presa diretta vorticosi ritornelli in dialetto, del tutto incomprensibili anche a un orecchio allenato alle canzoni di Pino Daniele. Nei testi dei neomelodici c’è tanta nostalgia della mamma, del Natale coi figli e nessuna pietà verso chi lascia la terra in un bagno di sangue. Machismo, familismo e una lucidità feroce. Confezionate come grotteschi b-movies sono le storie che un popolo di giovanissimi fans e amanti di telenovelas si ripassano ogni giorno. «Anche i narcos sudamericani hanno le loro narconovelas e i loro cantori; anche i clan mafiosi giamaicani hanno il culto del machismo più violento» ricostruisce Saviano tracciando nessi inediti fra subculture criminali d’oltreoceano e quelle che alimentano “’O sistema”. E a colpire e a far riflettere è anche e soprattutto il fatto che i neomelodici non siano perlopiù degli affiliati: cantano la vita quotidiana, di tutti, ciò che accade nelle terre di cammorra, «normalmente».
da left-avvenimenti, 2 aprile 2010
dal quotidiano la repubblica 17 aprile 2010
Presidente Silvio Berlusconi, le scrivo dopo che in una conferenza stampa tenuta da lei a Palazzo Chigi sono stato accusato, anzi il mio libro è stato accusato di essere responsabile di “supporto promozionale alle cosche”. Non sono accuse nuove. Mi vengono rivolte da anni: si fermi un momento a pensare a cosa le sue parole significano. A quanti cronisti, operatori sociali, a quanti avvocati, giudici, magistrati, a quanti narratori, registi, ma anche a quanti cittadini che da anni, in certe parti d’Italia, trovano la forza di raccontare, di esporsi, di opporsi, pensi a quanti hanno rischiato e stanno tutt’ora rischiando, eppure vengono accusati di essere fiancheggiatori delle organizzazioni criminali per il solo volerne parlare. Perché per lei è meglio non dire.
E’meglio la narrativa del silenzio. Del visto e taciuto. Del lasciar fare alle polizie ai tribunali come se le mafie fossero cosa loro. Affari loro. E le mafie vogliono esattamente che i loro affari siano cosa loro, Cosa nostra appunto è un’espressione ancor prima di divenire il nome di un’organizzazione.
Io credo che solo e unicamente la verità serva a dare dignità a un Paese. Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine o da chi commette il crimine?
Il ruolo della ‘ndrangheta, della camorra, di Cosa nostra è determinato dal suo volume d’affari – cento miliardi di euro all’anno di profitto – un volume d’affari che supera di gran lunga le più granitiche aziende italiane. Questo può non esser detto? Lei stesso ha presentato un dato che parla del sequestro alle mafie per un valore pari a dieci miliardi di euro. Questo significa che sono gli scrittori ad inventare? Ad esagerare? A commettere crimine con la loro parola? Perché? Michele Greco il boss di Cosa Nostra morto in carcere al processo contro di lui si difese dicendo che “era tutta colpa de Il Padrino” se in Sicilia venivano istruiti processi contro la mafia. Nicola Schiavone, il padre dei boss Francesco Schiavone e Walter Schiavone, dinanzi alle telecamere ha ribadito che la camorra era nella testa di chi scriveva di camorra, che il fenomeno era solo legato al crimine di strada e che io stesso ero il vero camorrista che scriveva di queste storie quando raccontava che la camorra era impresa, cemento, rifiuti, politica.
Per i clan che in questi anni si sono visti raccontare, la parola ha rappresentato sempre un affronto perché rendeva di tutti informazioni e comportamenti che volevano restassero di pochi. Perché quando la parola rende cittadinanza universale a quelli che prima erano considerati argomenti particolari, lontani, per pochi, è in quell’istante che sta chiamando un intervento di tutti, un impegno di molti, una decisione che non riguarda più solo addetti ai lavori e cronisti di nera. Le ricordo le parole di Paolo Borsellino in ricordo di Giovanni Falcone pronunciate poco prima che lui stesso fosse ammazzato. “La lotta alla mafia è il primo problema da risolvere … non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolga tutti e specialmente le giovani generazioni le spinga a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale della indifferenza della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo mi disse: la gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale dà al lavoro dei giudici, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze”.
Il silenzio è ciò che vogliono. Vogliono che tutto si riduca a un problema tra guardie e ladri. Ma non è così. E’ mostrando, facendo vedere, che si ha la possibilità di avere un contrasto. Lo stesso Piano Caserta che il suo governo ha attuato è partito perché è stata accesa la luce sull’organizzazione dei casalesi prima nota solo agli addetti ai lavori e a chi subiva i suoi ricatti.
Eppure la sua non è un’accusa nuova. Anche molte personalità del centrosinistra campano, quando uscì il libro, dissero che avevo diffamato il rinascimento napoletano, che mi ero fatto pubblicità, che la mia era semplicemente un’insana voglia di apparire. Quando c’è un incendio si lascia fuggire chi ha appiccato le fiamme e si dà la colpa a chi ha dato l’allarme? Guardando a chi ha pagato con la vita la lotta per la verità, trovo assurdo e sconfortante pensare che il silenzio sia l’unica strada raccomandabile. Eppure, Presidente, avrebbe potuto dire molte cose per dimostrare l’impegno antimafia degli italiani. Avrebbe potuto raccontare che l’Italia è il paese con la migliore legislazione antimafia del mondo. Avrebbe potuto ricordare di come noi italiani offriamo il know-how dell’antimafia a mezzo mondo. Le organizzazioni criminali in questa fase di crisi generalizzata si stanno infiltrando nei sistemi finanziari ed economici dell’occidente e oggi gli esperti italiani vengono chiamati a dare informazioni per aiutare i governi a combattere le organizzazioni criminali di ogni genealogia. E’ drammatico – e ne siamo consapevoli in molti – essere etichettati mafiosi ogni volta che un italiano supera i confini della sua terra. Certo che lo è. Ma non è con il silenzio che mostriamo di essere diversi e migliori.
Diffondendo il valore della responsabilità, del coraggio del dire, del valore della denuncia, della forza dell’accusa, possiamo cambiare le cose.
Accusare chi racconta il potere della criminalità organizzata di fare cattiva pubblicità al paese non è un modo per migliorare l’immagine italiana quanto piuttosto per isolare chi lo fa. Raccontare è il modo per innescare il cambiamento. Questa è l’unica strada per dimostrare che siamo il paese di Giovanni Falcone, di Don Peppe Diana, e non il paese di Totò Riina e di Schiavone Sandokan. Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare. Credo semplicemente che ci sia un movimento culturale e morale al quale aspirare. Io continuerò a parlare a tutti, qualunque sarà il credo politico, anche e soprattutto ai suoi elettori, Presidente: molti di loro, credo, saranno rimasti sbigottiti ed indignati dalle sue parole. Chiedo ai suoi elettori, chiedo agli elettori del Pdl di aiutarla a smentire le sue parole. E’ l’unico modo per ridare la giusta direzione alla lotta alla mafia. Chiederei di porgere le sue scuse non a me – che ormai ci sono abituato – ma ai parenti delle vittime di tutti coloro che sono caduti raccontando. Io sono un autore che ha pubblicato i suoi libri per Mondadori e Einaudi, entrambe case editrici di proprietà della sua famiglia. Ho sempre pensato che la storia partita da molto lontano della Mondadori fosse pienamente in linea per accettare un tipo di narrazione come la mia, pensavo che avesse gli strumenti per convalidare anche posizioni forti, correnti di pensiero diverse. Dopo le sue parole non so se sarà più così. E non so se lo sarà per tutti gli autori che si sono occupati di mafie esponendo loro stessi e che Mondadori e Einaudi in questi anni hanno pubblicato. La cosa che farò sarà incontrare le persone nella casa editrice che in questi anni hanno lavorato con me, donne e uomini che hanno creduto nelle mie parole e sono riuscite a far arrivare le mie storie al grande pubblico. Persone che hanno spesso dovuto difendersi dall’accusa di essere editor, uffici stampa, dirigenti, “comprati”. E che invece fino ad ora hanno svolto un grande lavoro. E’ da loro che voglio risposte.
Una cosa è certa: io, come molti altri, continueremo a raccontare. Userò la parola come un modo per condividere, per aggiustare il mondo, per capire. Sono nato, caro Presidente, in una terra meravigliosa e purtroppo devastata, la cui bellezza però continua a darmi forza per sognare la possibilità di una Italia diversa. Una Italia che può cambiare solo se il sud può cambiare. Lo giuro Presidente, anche a nome degli italiani che considerano i propri morti tutti coloro che sono caduti combattendo le organizzazioni criminali, che non ci sarà giorno in cui taceremo. Questo lo prometto. A voce alta.
©2010 Roberto Saviano/
Agenzia Santachiara
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