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Alle radici di piazza Tahrir, con il romanzo di Ala al-Aswani

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 28, 2015

Cairo, 1940

Cairo, 1940

«Siamo nati dalla sua fantasia e adesso siamo nella vita» dicono Kamel e Saliha allo scrittore ‘Ala al-Aswani cogliendolo di sorpresa. Comincia così, tra sogno e veglia, il nuovo libro del romanziere egiziano, Cairo Automobile Club (Feltrinelli).

Ambientato all’epoca di Re Farouk, è un potente affresco della società egiziana negli anni Quaranta, oppressa dal colonialismo inglese, mentre il re corrotto e connivente perpetuava, con i pascià, un sistema di dominio arcaico e “schiavista”. Al contempo, però, è anche un polifonico e vitale ritratto di persone “comuni” non più disposte a chinare la testa.

Giovani ribelli, studenti e perfino madri di famiglia che inconsciamente già preparavano la rivoluzione. «L’immaginazione a volte supera la realtà»: quella rivolta che ‘Ala al-Aswani immaginò nel 2008 iniziando a scrivere questo romanzo sarebbe esplosa nel 2011 invadendo pacificamente piazza Tahrir. “Costringendo” lo scrittore (e dentista) a uscire dal suo studio per unirsi alla protesta contro il regime di Mubarak.

cover«Per dirla con una formula, la narrativa è la realtà più l’immaginazione. Solo dal rapporto profondo con le persone nascono libri “vivi”», dice al-Aswani. E proprio dall’esperienza fortissima di quei giorni sono nate poi indirettamente alcune delle pagine più belle della seconda parte di questo romanzo, che al-Aswani ha presentato al Salone Off di Torino.

Un libro che in filigrana lascia intravedere nessi inediti fra gli anni Quaranta e il 2011. «Sicuramente c’è un parallelismo fra queste due epoche storiche- conferma lo scrittore – . In entrambi i periodi tutti pensavano che il regime fosse sul punto di cadere, ma nessuno sapeva cosa sarebbe successo dopo».

Cairo 1954

Cairo 1954

Forse, azzardando, si potrebbe notare che la storia dei due giovani protagonisti di Cairo Automobile Club sembra prefigurare quella di tanti ragazzi di piazza Tahrir anche per il ricorrere nei loro discorsi di parole come «libertà», «dignità», e per il rifiuto della violenza: dopo la morte del padre causata dal pestaggio da parte del datore di lavoro, Kemal e Saliha scelgono la rivolta, ma non si lasciano accecare dall’odio.

«La non violenza ha avuto un ruolo importante a piazza Tahir e l’ho voluto sottolineare nel libro», racconta ‘Ala al-Aswani. «Io credo che da questo punto di vista la rivoluzione egiziana abbia rappresentato un modello per altre venute dopo. In particolare Mubarak e il suo entourage avevano disseminato cecchini in città, che prendevano la mira con laser colorati. Era impossibile prevedere chi sarebbe morto. In piazza si vedevano questi tondini rossi e arancioni che viaggiavano sulla gente. Quando si fermavano sulla testa di qualcuno non c’era scampo. Ho vissuto di persona quei momenti – aggiunge lo scrittore – nonostante l’incertezza della vita e questa estrema precarietà, i manifestanti hanno sempre urlato la non violenza. In quel modo sono riusciti a rovesciare Mubarak».

Ala Al Aswani

Ala Al Aswani

Insieme alla non violenza, era anche l’aspetto cosmopolita della piazza e la quasi totale assenza di fondamentalismo religioso a colpire l’occhio dell’osservatore.

Nel racconto del Cairo anni Quaranta che ‘Ala al-Aswani ci offre pare di poterne scorgere alcuni prodromi: in primo piano ci sono i rapporti fra le persone, non questioni di fede. E incontriamo «gli sguardi torvi e pieni di odio» di alcuni fondamentalisti solo di sfuggita.

Passando dal romanzo alla storia, viene da chiedersi come dalla società egiziana sia potuto nascere un movimento oscurantista come quello wahabita. «Non dobbiamo dimenticare – spiega ‘Ala al-Aswani – che l’Egitto è musulmano da 15 secoli. Nei precedenti 35 è stato cosmopolita. Questo ha lasciato segni forti nella cultura degli egiziani,piuttosto laica. I rapporti sono basati su elementi molto più umani, c’è un rispetto profondo per la differenze. In Egitto vivono tanti greci, italiani, armeni».

Qual è allora la radice del fondamentalismo? «Il wahabismo era sempre stato una corrente minoritaria, ma ha avuto un boom grazie agli introiti della vendita del petrolio negli anni Settanta: miliardi di dollari. L’Europa non è esclusa da queste campagne di promozione foraggiate con i soldi del petrolio». Negli anni raccontati da questo romanzo, di tutto ciò, quasi non c’è traccia. Forse anche per questo brillano alcuni personaggi femminili, immagini vitali di ragazze non costrette a nascondersi. Come la musulmana Salhia, che Aisha prepara alla notte di nozze evitando con cura toni «da predica del venerdì».

Piazza Tahrir

Piazza Tahrir

E poi ecco affascinanti figure di donna in lotta contro i pregiudizi, come l’ebrea Odette, amante del britannico Wright. La sessualità e la dialettica fra uomo e donna è il filo rosso e forte che attraversa tutto il romanzo. «La letteratura è la vita scritta sulla carta» commenta al-Aswani. «Quello che leggiamo deve richiamare ciò che c’è di più significativo, profondo e bello nella vita reale. Come la sessualità. Non facciamo l’amore solo per piacere. Ma anche per cercare qualcosa nel rapporto con l’altra, per conoscere l’altro, perché vogliamo scoprire il nostro partner. Il sesso è uno degli aspetti più preziosi della nostra vita. E la letteratura non può assolutamente ignorare i lati più profondi della nostra personalità».

Letteratura e vita hanno un rapporto profondo, dunque, da ultimo, passando dalla pagina scritta alla realtà, che cosa sta accadendo in Egitto con il governo di al-Sisi e cosa ne è della rivoluzione? «Occorre una premessa – risponde lo scrittore – la rivoluzione è un cambiamento umano e come tale ha bisogno di tempo per raggiungere i suoi scopi. Non è una partita di calcio che dura 90 minuti per cui al 91esimo si può già sapere chi ha vinto o perso, è un processo in continuo divenire e quando si è messo in moto non si può più fermare. Prendiamo la Rivoluzione francese, per esempio, dopo tre anni non aveva ottenuto nulla di specifico, nulla di quello che avrebbero voluto i rivoluzionari. Però il processo è ancora in corso. E ha portato un forte cambiamento culturale nella mentalità delle persone» ( Simona Maggiorelli)

dal settimanale Left

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Gli scritti partigiani di Luciano Bianciardi

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 26, 2015

Luciano Bianciardi

Luciano Bianciardi

Non solo un intellettuale contro. Ma un “uomo libero” che scriveva con l’intento civile di far aprire gli occhi ai lettori. Così Gian Paolo Serino racconta lo scrittore grossetano in un’agile antologia

E’ una piccola, preziosa, summa del “Bianciardi pensiero” quella distillata da Gian Paolo Serino per le Edizioni Clichy di Firenze. Ripercorrendo l’intero corpus delle opere dello scrittore grossetano il direttore editoriale della rivista Satisfiction ne ha tratto tasselli per tracciare uno sfaccettato ritratto dello scrittore grossetano e una mappa della sua Milano bianciardiana: ovvero quella dei quartieri popolari, delle osterie, di bar ritrovo di intellettuali male in arnese e di artisti allora emergenti come Enzo Jannacci, di cui fu mentore e amico.

Una parte della città a cui Luciano Bianciardi, arrivato nel 1954 dalla Maremma per lavorare come traduttore alla Feltrinelli, contrapponeva quella delle banche, degli uffici dirigenziali, della burocrazia asburgica, degli scempi edilizi. Ma dall’agile volume Luciano Bianciardi, il precario esistenziale composto da Serino non emerge solo lo scrittore che, prima del boom e con altri accenti rispetto a Pasolini, smascherava il mito del benessere legato ai consumi, che ha inventato la critica televisiva elogiando (ironicamente) la schietta, lampante, mediocrità di Mike, prototipo dell’italiano medio e demistificando la tv del dolore usata per indottrinare.

Bianciardi non si limitava a stigmatizzare l’uso della tv come strumento di distrazione di massa e a denunciare i meccanismi di un mercato editoriale che già puntava al profitto senza badare alla qualità dei contenuti. Seguendo un ritmo narrativo e una «cronologia emotiva» nella scelta dei brani, Serino sa far emergere «la passione di un intellettuale che si pone contro certi comportamenti dominanti non con un atteggiamento anticonformista di maniera, ma per cercare di aprire gli occhi ai lettori».
Da questi estratti da Il lavoro culturale (Feltrinelli) e da articoli usciti su riviste e giornali (ABC, L’Avanti!, Notizie letterarie, Guerin Sportivo ecc.) emerge anche il tentativo bianciardiano di ripensare il ruolo degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra e di darsi un compito politico e civile.

Anche per questo, uscendo dagli uffici sotto vuoto della Feltrinelli frequentati da intellettuali precari come lui, si “perdeva” nella metropoli raccontandone le strade lunghe e scure, la vita dentro grigi palazzi popolari, dove i bambini crescono al chiuso senza aver mai scorrazzato per i campi o visto una mucca.
Gli operai sono invisibili in questa «Milano che non produce nulla, ma vende e baratta». Che pullula di ragionieri con i manicotti e di “colletti bianchi”, disposti «a scriversi in fronte “carogna”» e a prendere a calci i lavoratori. Del resto l’anarchico Bianciardi, che era stato liberal-socialista quando studiava alla Normale di Pisa (improntata allo «spirito risorgimentale, laicizzante di Carducci») e poi azionista, aveva capito molto presto da che parte stare.

Come racconta la figlia Luciana, curatrice dei due volumi dell’Antimeridiano (Isbn e Ex-Cogita) che contiene tutta l’opera dello scrittore scomparso nel 1971, già quando era al ginnasio Luciano Bianciardi prese le distanze dal padre accusandolo di non essersi schierato apertamente contro il fascismo. Perciò decise di fare due anni in uno per fare l’esame di maturità prima possibile e potersene andare da casa.

Serino_ bianciardi

Serino_ bianciardi

«Non è stato difficile, nella provincia in cui sono nato e cresciuto, capire abbastanza chiaramente, pur senza la scelta di un partito politico, come stanno le cose in Italia, chi ha ragione e chi ha torto», scriveva in “Lettera da Milano” apparsa su Il Contemporaneo nel febbraio del ’55. «Basta muoversi appena un poco, vedere come questa gente vive (e muore) e la scelta viene da sé. Sui libri poi si troverà, semmai, la conferma di quel che si è visto e di quel che si è deciso e si stabilirà da quel momento in avanti, di servirsi dei libri per aiutare chi ha ragione ad averla nei fatti, oltreché nei diritti. Non c’è dubbio». Una testimonianza analoga si trova in un testo tratto da Belfagor e antologizzato nel libro di Serino, critico e direttore di Satisfiction.
Lettore appassionato di Gramsci, vicino al sindacalista Di Vittorio, non prese mai la tessera del Pci, ma fu sempre scrittore militante. Basta pensare all’inchiesta-reportage scritta con Carlo Cassola sui minatori in Maremma e a pagine toccanti come “Ira e lacrime a Ribolla”: articolo uscito nel 1954 su Il Contemporaneo, dopo l’esplosione in una miniera in cui morirono 43 lavoratori del gruppo Montecatini. ( Simona Maggiorelli)

dal settimanale Left

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All’ombra di un sogno. Quando erano i tedeschi ad emigrare

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 23, 2015

Heimat di Edgar Reitz

Heimat di Edgar Reitz

Nell’Ottocento il Brasile fu miraggio per tanti tedeschi, costretti a partire. Il regista Edgar Reitz ne racconta la storia nell’Altra Heimat. Evocando i migranti di oggi.

di Simona Maggiorelli

L’opera di Edgar Reitz è un unicum nella storia del cinema: attraverso la vicenda della famiglia Simon, seguita nel corso di trent’anni con la trilogia Heimat che si dipana per quasi sessanta ore, tratteggia un affresco di storia tedesca in un arco di tempo che va dal 1919 al 1982. Un unicum per durata, coerenza, rigore, ma soprattutto per la forza poetica di questo straordinario racconto cinematografico. Per trovare un’impresa paragonabile a quella del maestro del Nuovo Cinema Tedesco, oggi ottantatreenne, bisogna forse guardare alla letteratura. Non tanto ad autori come Proust spesso accostatogli, quanto all’epos, alle antiche saghe in cui i cavalieri cadetti andavano alla queste, alla ricerca di un’immagine di donna ideale e fortuna. A suggerire questo paragone è il respiro epico del cinema di Reitz, la sua capacità di cogliere il senso umano e universale che si cela dietro le avventure e disavventure dei singoli personaggi che, come Jakob, protagonista del suo nuovo film L’altra Heimat, cronaca di un sogno, spesso sono dei sognatori, dei visionari. Persone mosse dalla capacità d’immaginare un mondo diverso, sempre in cerca di spazi nuovi, anche interiori. Perché, come dice il maestro, «prendersi dei rischi per cercare uno spazio vitale appartiene alla natura umana».
All’inizio di questo appassionante capitolo della saga dei Simon (coprodotto da Ripley’s film, Viggo e Nexo digital) il regista ci mostra il giovane a lume di candela mentre di notte divora libri sulle popolazioni indigene del Sud America, tentando di imparare la loro lingua, nella speranza di poter lasciare la fredda e povera Germania dell’Ottocento per andare a stare con gli indiani. Qui, la parola tedesca Heimat, che evoca la casa e il posto del cuore, assume i contorni del Brasile fantasticato da Jakob quando, sfuggendo al lavoro di fabbro e alle botte per le sue continue assenze, solo sulla collina si immerge nella lettura mettendosi una penna in testa. Un Brasile abitato da uccelli giganti, colorati, meravigliosi, come confida alla ragazzina di cui è innamorato. Così una storia di fame e di emigrazione diventa storia d’amore e di apertura verso orizzonti sconosciuti. Nonostante l’impossibilità di partire davvero, nonostante l’amata si dia ad altro e nonostante la durezza della vita a Schabbach, villaggio immaginario dell’Hunsrück, regione d’origine del regista. Che è tornato in Italia per parlare di questa sua ultima impresa, presentata al Festival del cinema di Venezia nel 2013.

Heimat, cronaca di un sogno

Heimat, cronaca di un sogno

Il film esce nelle sale italiane a più di trent’anni dall’esordio della serie Heimat, dopo Heimat 2, cronaca di una giovinezza (1992) e Heimat 3, cronaca di una svolta epocale (2004). Di fatto, mentre la ricca Germania attuale, guidata dalla intransigente Angela Merkel, è diventata la meta più ambita dai migranti che partono dal sud del mondo, quella raccontata da Reitz in questo nuovo Die Andere Heimat è la Germania del XIX secolo devastata da guerre, carestie ed epidemie, da cui tanti tedeschi furono costretti a scappare. E se la vicenda dell’adolescente Jokob s’iscrive nella migliore tradizione tedesca del Bildungsroman, il romanzo di formazione), del tutto nuovo è invece il senso della storia che Reitz intende far emergere dalla sua rilettura di ciò che accadeva circa 160 anni fa. Come lui stesso ci ha detto in un incontro a Roma.
Edgar Reitz, i tedeschi come gl’italiani, si sono dimenticati di quando erano costretti a emigrare?
Sono ormai pochi gli europei che si ‘ricordano’ le ondate migratorie del XIX secolo. È interessante vedere che oggi molti discendenti degli immigrati di allora in America del Sud e del Nord, iniziano a interessarsi alle loro radici europee e cercano contatto con la loro terra di provenienza.
Ricostruire quel periodo permette di leggere più in profondità ciò che sta accadendo oggi riguardo all’immigrazione?
È molto difficile riuscire a trasmettere la comprensione per le migrazioni attuali. Posso solo sperare che il mio film dia un piccolo contributo in questo senso.
Perché ha scelto per l’altra Heimat il 1843 e quel preciso periodo storico?
Molte sfaccettature del nostro modo di vedere e comprendere la libertà sono nate nel XIX secolo, quando gli europei erano ancora costretti a combattere per la pura sopravvivenza.
Per leggere lo Zeitgeist e comprendere ciò che è accaduto, la cronaca non basta?
È proprio questa per me una delle ragioni del fare cinema: cercare di andare più a fondo di quanto non possano fare le cronache o certi libri di storia.
Da dove nasce la scelta del bianco e nero?
Viviamo oggi, circondati da milioni di immagini a colori che ci perseguitano in ogni circostanza del quotidiano. Persino nella propria casa attraverso gli schermi del computer e della televisione. Non volevo aggiungere altre immagini colorate a questa inflazione cromatica. La scelta del bianco e nero deriva anche da tutto questo.
L’immaginazione letteraria quanto conta nel suo lavoro?
Il protagonista del mio film con la sua passione per i libri rappresenta un’eccezione nel piccolo paese dal quale viene. La sua visione di una vita migliore – come tutte le utopie – non è trasportabile nella vita reale. Jakob, il sognatore, è proprio colui che alla fine finisce per rimanere a casa mentre gli altri, realisti come suo fratello Gustav, sono coloro che veramente abbandonano la loro terra. È questa la storia che racconto ne L’altra Heimat.

(simona Maggiorelli -dal settimanale Left)

Edgar Reitz

Edgar Reitz

Edgar Reitz, Haben die Deutschen  ( und generell die Europäer) ihre eigene Auswanderung vergessen? Erlaubt die. Rekonstruktion dieser Zeit ein tieferes Verständnis für das was aktuell mit der Migration passiert?

Es sind nur noch Einzelne Europäer, die sich an die Auswanderungswellen des 19.Jhs erinnern. Interessant ist,

dass viele Nachkommen der damaligen Auswanderer in Nord- und Südamerika beginnen, sich für ihre

europäischen Wurzeln zu interessieren und Kontakt zur ehemaligen Heimat suchen. Das Verständnis für die

aktuellen Migrationen ist allerdings schwer zu vermitteln. Ich kann nur hoffen, dass mein Film einen Beitrag

dazu liefert.

Warum ist es gerade heute so wichtig über die Zeit von 1843 zu sprechen?

Viele unserer heutigen Vorstellungen von Freiheit und Gerechtigkeit sind im 19. Jahrhundert entstanden als

die Europäer noch um das nackte Überleben kämpfen mussten.

 Wie wichtig ist es den Zeitgeist lesen zu können um zu einem Verständnis des Geschehens zu gelangen? Oft

erlaubt die reine Faktenrekonstruktion nicht ein tieferes Verständnis der Ereignisse? Erlaubt in diesem Sinn

der Film einen größeren Tiefgang als die aktuelle  Chronik?

Ja. Dies ist einer der Gründe, Filme zu machen.

Sì. È una delle ragioni per fare cinema.

Warum die Wahl des S/W  in einem Werk, dass sich über viele Stunden seit Heimat 1 entwickelt hat… Kann

man bei Ihrem Kino von Epos sprechen, auch auf Grund der poetischen Kraft welche die filmische Erzählung

entwickelt?

Wir leben heute umgeben von Millionen von bunten bewegten Bildern, die uns in allen Situationen des

Alltags verfolgen, auch zu Hause auf den Fernseh- und Computerbildschirmen. Ich wollte dieser Bilder-

Inflation nicht noch weitere bunte Bilder hinzufügen. Deswegen entscheide ich mich seit vielen Jahren für

den Schwarzweiß-Film und die damit verbundene Einfachheit und Schönheit einer Bildsprache, mit der die

Filmgeschichte angefangen und wunderbare Werke hervorgebracht hat.

Die Auswanderer von DIE ANDERE HEIMAT träumen indem sie über Südamerika lesen. Was ist die wahre

Kraft der Literatur? Wie sehr inspiriert sie Ihre Arbeit?

Der Protagonist meines Films ist mit seiner Liebe zu den Büchern eine Ausnahmeerscheinung in seiner

dörflichen Umgebung. Seine Vision eines besseren Lebens ist – wie alle Utopien – nicht in die Realität

transponierbar. Jakob, der Träumer, ist am Ende derjenige, der zu Hause bleibt, während die anderen,

Realisten wie sein Bruder Gustav, das Land tatsächlich verlassen. Der Träumer ist eben nicht der

Auswanderer. Das ist die wahre Geschichte, die in DIE ANDERE HEIMAT erzählt wird.

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Uno scatto di libertà. La storia di Samìa.#stragemigranti

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 22, 2015

Samìa

Samìa

«Una piccola guerriera che corre per la libertà». Così il padre di Samìa Yusuf Omar, con orgoglio, raccontava sua figlia. La più piccola di sei fratelli, in una famiglia molto povera di Mogadiscio. Ma «nata con un talento: andava più veloce degli altri». Già da bambina Samia correva per gioco, ma anche per scappare dai pericoli della guerra in Somalia. E poi da adolescente, anche per sfuggire al destino di “reclusione” in casa riservato alle donne in un Paese così fondamentalista. Testarda e tenace, Samia inseguiva un sogno: partecipare alle Olimpiadi. Riuscendo ad allenarsi anche in una città in cui lo stadio era utilizzato come parcheggio di armamenti e mezzi da guerra. Fino ad essere davvero selezionata per rappresentare la Somalia alle Olimpiadi di Pechino del 2008.

Come racconta lo scrittore Giuseppe Catozzella nel romanzo Non dirmi che hai paura (Feltrinelli. Premio Strega giovani 2014), rievocando quel giorno straordinario in cui Samìa si trovò ai blocchi di partenza dei 200 metri accanto a campionesse di tutto il mondo. Lei esile, delicata, senza l’attrezzatura adatta, accanto ad atlete che, al confronto, sembravano delle culturiste.

non_dirmi_che_hai_pauraAnche se poi non bastò per vincere la gara, Samia decise di correre senza velo, per non esserne rallentata. E quella scelta, d’un tratto, ne fece «il punto di riferimento delle donne che lottano per i propri diritti , ma anche il bersaglio dei fondamentalisti nel mondo musulmano», ricorda Catozzella che ha ricostruito con passione la storia di questa ragazza, purtroppo finita tragicamente il 21 agosto del 2012, a largo di Lampedusa mentre, con altri migranti, tentava di raggiungere l’Italia. «Per 18 mesi aveva attraversato a piedi le aree desertiche della Libia per potersi imbarcare. Seguendo le orme della sorella maggiore, Hodan, che vive in Finlandia, come rifugiata», dice lo scrittore. Proprio grazie a Hodan, che dopo molte esitazioni, generosamente, gli ha permesso di leggere le lettere e i diari di Samia, Catozzella è riuscito a trovare dentro di sé una voce femminile, per raccontare in modo emotivamente forte, coinvolgente, tutta la vicenda.

La protagonista e voce narrante di Non dirmi che hai paura non è un’eroina tragica, ma una ragazzina viva e vitale che come tanti altri migranti cerca di realizzare un sogno, un progetto di vita, spinta da esigenze insopprimibili di libertà e di realizzazione umana. «Mi ero imbattuto nella sua storia per caso, nel 2012, mentre mi trovavo nelle isole Lamu per fare ricerche sui campi Taliban in vista di un nuovo libro», racconta il romanziere e ambasciatore Onu per i rifugiati, che il 4 ottobre 2014 ha  partecipato ai “Dialoghi mediterranei” organizzati dal Festival Sabir a Lampedusa.

catozzella«Quando ho saputo di Samia ho avvertito un istantaneo e, per certi versi inspiegabile, senso di responsabilità, proprio in quanto italiano. Io ero arrivato a casa sua, a Mogadiscio, comodamente a bordo di un aereo. E lei invece voleva arrivare a casa mia e non c’è mai arrivata. Al contempo la sua storia mi ha comunicato da subito una fortissima carica di coraggio e di libertà. Alle spalle avevo un libro sulla mafia al Nord. Dentro di me cercavo fortemente una storia che parlasse di coraggio. Mi volevo liberare in qualche modo da quei racconti così neri».

C’era anche l’urgenza di dare una rappresentazione dei migranti diversa da quella che offrono per lo più le cronache dei giornali? «Sì, ma questa è stata una presa di coscienza un po’ secondaria», risponde Catozzella. «Certo, questa storia permetteva di ascoltare e raccontare dall’interno l’epica dei migranti. Di ridare loro un volto, una voce. Arrivando a far immedesimare il lettore nel personaggio di un migrante. Quasi che alla fine della lettura si potesse sentire, egli stesso, un po’ un migrante. Questa è stata la scommessa che ho voluto tentare». Scommessa riuscita diremmo anche per le numerose scuole che hanno adottato questo testo, già tradotto in venti Paesi (e che presto diventerà anche un film).

Sfidando la fatuità di certa letteratura pop che va per la maggiore sui media, Catozzella non teme l’espressione «Letteratura civile». Citando fra i suoi modelli Beppe Fenoglio, l’autore di Una questione privata, «inarrivabile, per limpidezza del linguaggio. Il suo modo di raccontare è acuminato, doloroso, verissimo. Quando leggi Partigiano Johnny “vivi” quel periodo straordinario che fu la Resistenza». Catozzella è ancora romanticamente convinto che la letteratura (la bellezza) possa cambiare il mondo? «Credo che possa smuovere profondamente le menti, e aiutare anche piccoli cambiamenti concreti. Quando sono stato nominato ambasciatore Unhcr ho strappato una promessa: che l’Onu faccia in modo che la famiglia di Samia possa ricongiungersi insieme a Hodan, a Helsinki. È un piccolo gesto generato, alla fine, dalla letteratura. Più in generale – prosegue lo scrittore milanese – penso che la letteratura abbia il potere di accendere consapevolezze nuove, discorsi nuovi, fare addirittura rivelazioni. Se un romanzo è riuscito, comunica attraverso l’emozione, attraverso un contatto profondo con il lettore, che talora assume una consapevolezza nuova. La cronaca non ha questo “potere”». A volte è troppo piatta e, nell’aderenza assoluta alla realtà, finisce per tradirne il senso? «Esattamente. La letteratura invece confronta la realtà spiccia con l’universale. In questo modo cerca di renderla infinita, imperitura. Bisogna sempre puntare al massimo, poi si tratta di vedere se ci si riesce. La cronaca però non ci riesce mai, perché genera saturazione. Si occupa principalmente di quantità. All’opposto la letteratura si dovrebbe occupare di qualità e della stoffa della vita. La cronaca non entra nella vita, si occupa di tutto il contorno.

di Simona Maggiorelli, dal settimanale Left, luglio 2014



migranti, nel Mediterraneo

migranti, nel Mediterraneo

Non chiamatela fatale tragedia

Vergogna e responsabilità. Sono le sole due parole con cui posso commentare questo ennesimo naufragio di migranti», dice Giuseppe Catozzella, che nel libro Non dirmi che hai paura (Feltrinelli, Premio Strega) ha raccontato la storia di Samìa, l’atleta somala che partecipò alle olimpiadi di Pechino del 2008 e che sognava di raggiungere Lampedusa per andare in Finlandia. «Provo vergogna, in quanto italiano e europeo. E mi sento responsabile per queste morti» aggiunge lo scrittore e ambasciatore dell’Agenzia Onu per i rifugiati. «Spero che un giorno le generazioni future si chiedano come sia stato possibile che noi restassimo solo a guardare. Come noi ce lo siamo chiesto dei nostri nonni di fronte all’Olocausto. Tutti sapevano. Tutta Europa sapeva. Eppure è accaduto lo stesso. La nostra è una doppia responsabilità. Nostra e dei governanti a cui abbiamo demandato il compito di prendere decisioni». Come quelle che hanno generato chiusure e politiche razziste. «Dobbiamo essere onesti e dire che le guerre in Africa le abbiamo sempre cercate e alimentate noi. Così come i vari fondamentalismi, da cui è nato l’Isis. Che è oggi una delle ragioni per cui così tanti ragazzi e ragazze scappano dall’Africa e dal Medio Oriente. Generiamo e alimentiamo conflitti e quando chi fugge dalle bombe viene da noi, lo respingiamo e lo facciamo morire».
Tragedia è la parola che si legge più spesso. Come se queste morti fossero ineluttabili, un destino, dovuto al fato. E non una strage che ha cause e responsabilità.
Il linguaggio usato dai media è perlopiù banalizzante e semplificatorio. Rientra nella logica giornalistica puntare tutto sulla notizia. Gli approfondimenti sono rari. Dello stillicidio di morti quotidiane di migranti non si parla. Bisogna aspettare che anneghino almeno centinaia di persone. Oggi come nell’ottobre 2013. Il linguaggio usato da giornali e tv è del tutto auto assolutorio. Si parla di tragedia, appunto. E questi ragazzi vengono comunemente definiti clandestini, illegali. Invece sono giovani costretti a scappare da distruzioni, carestie, persecuzioni. Non si riesce a vivere in un Paese che è in guerra da quando sei nato. Perché la guerra ti toglie ogni futuro. Se vuoi guardare avanti devi partire. Sai che con questi barconi potresti non arrivare mai. Ma sei forzato a farlo lo stesso.
Queste stragi di migranti sono il fallimento dell’Europa, rivelano ignoranza e mancanza di una visione dei rapporti fra nord e sud del mondo?
Sono il segno del fallimento dei valori a cui l’Europa dice di ispirarsi. Noi saremmo quelli che portano la democrazia nel mondo meno civilizzato. Qual è il vero volto della nostra democrazia? Quello di chi alimenta conflitti per il proprio tornaconto e poi non accoglie chi tenta di salvarsi? Se la nostra civiltà è questa, che valore ha? La verità, purtroppo, è che l’Europa crede che la morte sia il miglior deterrente possibile. Pensa che facendo morire questi ragazzi si sparga la voce e smettano di partire. Questa è una visione assolutamente miope e stupida. Nella storia ci siamo sempre spostati. Le migrazioni sono più forti della morte. E nessuno è mai riuscito a fermarle.
Parlare di accoglienza, come carità, non rischia di essere un altro modo per negare l’identità di queste persone che vengono per lavorare, che pagano le tasse, portando una ricchezza anche e soprattutto culturale?
Tutto questo viene assolutamente negato. Ciò che prevale è una visione miope, senza prospettiva. Manca uno sguardo a lungo termine. Come accade in alcune piccole aziende. Quando c’è crisi e gli affari vanno male, tendono a tagliare, per conservare un piccolo spazio. Può funzionare nell’immediato, ma lentamente porta al tracollo. La possibilità di circolare, di fare incontri, di avviare nuove iniziative è un fattore di crescita. Non solo dal punto di vista del capitale umano. Questi ragazzi sono disponibili a fare lavori che noi non facciamo più. Ma non è solo questo. Fanno anche nascere interessanti scambi fra Stati. La comunità somala o congolese, quella tunisina o egiziana, per esempio, stimolano rapporti fra il nostro e il loro Paese che altrimenti non esisterebbero. Sono potenziali scambi economici. Ma viene sottovalutato. Questi rapporti sono elementi di crescita culturale. Ma tutto questo viene cancellato.
Con il suo libro, 100mila copie vendute in Italia e tradotto in 22 Paesi, continua a viaggiare la storia di Samìa?
Sì, sono tantissime le persone che hanno risposto; è veramente incredibile come la storia silenziosa di una migrante sia riuscita ad arrivare a così tanta gente. Generando piccoli miracoli come la corsa annuale, in suo nome, promossa dall’Onu a Mogadiscio. La prima edizione si è tenuta lo scorso agosto. Abbiamo corso mentre si sentivano le granate e i colpi di kalashnikov. Abbiamo corso per la libertà e il sogno dei migranti. E per la prima volta Samìa è stata ricordata pubblicamente nel suo Paese da rappresentanti del governo. (Simona Maggiorelli) dal settimanale Left , aprile 2015

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Una tv confessionale?

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 14, 2015

CAn9LD4WQAIMoNsLa presenza del Vaticano e della religione cattolica in tv è diventata più pervasiva che nella Prima  Repubblica. E senza contradditorio. La ricerca di Critica liberale, commentata su left dal filosofo Carlo Alberto Viano. L’indagine stilata da Valeria Ferro è stata presentata il 13 aprile al Centro convegni Stelline in una serata organizzata dal Circolo Rosselli di Milano, con Gigliola Toniollo della Cglil nuovi diritti, Enzo Marzo, direttore di Critica Liberale, il professor  Marco Marzano e  il giurista Giulio Vigevani. (Presto sarà online la registrazione di Radio Radicale).

di Simona Maggiorelli
La tv pubblica trasmette la Messa e altre funzioni cattoliche tramite Rai Vaticano che collabora direttamente con il Centro tv Vaticano. La Rai manda in onda trasmissioni devozionali (tipo Una voce per Padre Pio) e fa dottrina con A sua immagine. Inoltre riporta ciò che dice il Papa quotidianamente nei telegiornali, offrendogli un posto di primo piano nella gerarchia delle notizie. Presenta “approfondimenti” molto orientati in senso religioso come La grande storia che lo scorso agosto ha dedicato una puntata a Medjugorje.

Contemporaneamente la Rai produce sempre più fiction con preti e santi e infarcisce talk show e format pomeridiani come La vita in diretta di presenze confessionali e di soubrette neo convertite. Esemplare il caso di Claudia Koll che, con la fede, ha trovato una nuova visibilità, insieme alla miracolata Sandra Milo. Quanto a Porta a Porta quest’anno ha addirittura aumentato le puntate a tema cattolico, arrivando a 15, dando ampio spazio al prete che tenne a battesimo il ministro  Maria Elena Boschi e a fans di Papa Bergoglio come Eugenio Scalfari e Vittorino Andreoli ( che ha una rubrica fissa su Avvenire), spacciati per laici.

Ma potremmo fare anche tanti altri esempi della capillare presenza cattolica in Rai e nelle tv private continuando ad attingere alla ampia indagine di Critica Liberale, pubblicata sul nuovo numero della rivista. Il senso però non cambierebbe: prendendo in esame la stagione tv 2013-2014 il dossier evidenzia una presenza assolutamente dominante dei cattolici sui media nostrani. Pari al 99 per cento, confermando un trend in atto da tempo, secondo le stime della Uaar che, sulla base di questo IV Rapporto su confessioni religiose e tv, ha fatto un esposto al Agcom, ottenendo dall’organo di vigilanza una risposta a dir poco evasiva, che invita gli esclusi a rivolgersi ai programmi dell’accesso. «Una risposta indecente, significa che l’Agcom non conosce la parola pluralismo – chiosa Enzo Marzo, direttore di Critica Liberale -.E allora perché la ripresa della Messa non viene relegata in quello spazio?».

I miracoli della tv intanto sono stati smascherati con un’analisi rigorosa. «La nostra ricerca ha preso in esame 7 reti generaliste italiane, dividendo i programmi religiosi per genere, produzioni, film, documentari, programmi di informazione riscontrando che raramente si danno informazioni sulle religioni, ma vengono prediletti gli aspetti più folkloristici di figure confessionali, in particolare di Papa Francesco e circostanze stupefacenti, come i miracoli. Con una modalità che non prevede dibattiti ma solo l’esposizione del fenomeno», spiega Valeria Ferro che ha lavorato al dossier. Quanto allo sbandierato successo di serie tv come Don Matteo «deve la sua fortuna a Terence Hill che indossa l’abito talare o la divisa di guardia forestale con la stessa prestazione recitativa, ottenendo la medesima reazione favorevole del suo pubblico», risponde l’esperta, specificando che la presenza in tv è determinante nella costruzione del successo di qualunque personaggio. «Vale per i politici, gente di spettacolo e per i religiosi», dice Ferro sottolineando che da questo punto di vista «il Papa gode di un’esposizione eccezionale» e che «la narrazione di Bergoglio in tv è sempre positiva e popolare». Anche quando la tv rilancia i suoi anatemi contro l’aborto, l’eutanasia e le coppie di fatto. «I diritti civili nelle tv nostrane hanno sempre avuto un’attenzione assai ridotta», rileva Valeria Ferro. «La Chiesa cattolica ha invece potuto contare sul favore dell’emittenza pubblica e di gran parte di quella privata. Non c’è informazione, solo propaganda». Nonostante atei e agnostici in Italia siano circa il 10 per cento. Una fetta del Paese che non ha voce in tv, denuncia la Uaar. «Le rare volte che si parla degli atei lo si fa in termini negativi. Un esempio? Nell’edizione serale del Tg1 del 7 aprile 2013 gli atei sono stati definiti «disabili del cuore».

«L’invadenza dei cattolici in Tv è molto cresciuta perfino rispetto alla Prima Repubblica e al predominio democristiano che la caratterizzava» dichiara il filosofo Carlo Alberto Viano, autore di libri come Laici in ginocchio (Laterza) e membro arte del comitato scientifico di Critica Liberale. «Le fiction popolate da preti e suore ne sono il segno. Ettore Bernabei non è più il patron cattolico della Rai ma continua a essere presente con le sue produzioni. Santi e miracoli sono poi pane quotidiano». Contribuendo a un vero e proprio caso Italia. «Certamente cose così non rientrano nei modelli di tv ai quali tutti, a parole, si rifanno, in primo luogo la Bbc», nota Viano. E poi aggiunge: «Ciò che non approvo è non tanto la presenza di voci cattoliche in tv, quanto l’assenza di voci almeno estranee, se non critiche. La colpa è anche della cultura laica, perché, accanto ai miracoli, dilagano i misteri, e nessuno che si faccia avanti a dire che si tratta di mistificazioni. Le poche volte in cui sono stato invitato in tv c’era sempre chi mi mi esortava a essere prudente, perché i mostri sacri hanno un’arma segreta: provocare il silenzio intorno a chi ne infrange il culto. Infine bisogna ammettere – nota il professore con rammarico – che tanta parte della cultura laica guarda con indulgenza a quella cattolica, in cui trova complicità nel respingere il sapere e le scomode demistificazioni delle ideologie vecchie e nuove».

Una complicità che diventa addirittura agiografia di Papa Francesco, perfino su giornali che si dicono laici come Repubblica. «Intorno ai papi si sono sempre creati miti – ricorda Viano -.Quanto c’è voluto per parlare delle simpatie tedesche e reticenze di Pacelli? Chi ricorda mai che Roncalli è stato un fascista? Per non dire delle mistificazioni di Giovanni Paolo II». Ma l’ unilaterale esaltazione di Papa Francesco non rischia di ricacciare nell’ombra crimini come la pedofilia clericale e scandali come i soldi riciclati dallo Ior? «Se il Papa correggesse gli abusi sessuali e finanziari della Chiesa sarebbe ora – risponde Viano -. Ma non vedo perché debba diventare un modello per laici che hanno sempre denunciato quegli scandali nella Chiesa e altrove. Non capisco gli entusiasmi di molti “laici”: nel suo appello alla carità ci sono faciloneria, concessioni alle superstizioni carismatiche e populismo di stile argentino. Molti si fanno incantare da invettive contro banche e denaro e diventano ciechi nei confronti delle esplicite imposture della predicazione papale». Nonostante tutto questo, però, il tasso di secolarizzazione della società italiana continua a crescere, come documenta di anno in anno il Rapporto stilato da Critica Liberale con la Cgil nuovi diritti. «La secolarizzazione ha fatto grandi passi anche da noi. Molti italiani non sanno nulla di religione o non le danno importanza, ma soprattutto non rispettano le condotte prescritte dalla Chiesa. Ci sono però insidie nove. L’Islam ha grande forza come strumento per mantenere la soggezione delle donne. E il cattolicesimo come espressione delle “radici”, indipendentemente da dogmi e tabù, potrebbe trovare in questo parte della forza perduta». Ma se la società è sempre più laica non lo è la classe di governo in Italia. Il Papa interviene di continuo su decisioni che spettano al Parlamento e una politica genuflessa ha prodotto norme come la legge 40 e, negli ultimi giorni, anche il divieto di adozione per i single e l’obbligo di test e ricetta per la pillola dei 5 giorni dopo.
«E’ insopportabile il modo in cui il Papa entra nei dettagli dello Stato italiano, essendo a capo di una Chiesa che ha voluto fare del proprio sommo sacerdote un capo di Stato. E spesso Bergoglio, che esibisce umiltà – sottolinea Viano – non mostra riguardo per chi non si riconosce nella Chiesa. Ha proposto di trattare con pietà i peccatori, ma dichiara che la morale cattolica non si cambia. Chi si sente peccatore potrà apprezzare di essere trattato con pietà, ma chi non accetta il codice della Chiesa esige rispetto. Realisticamente non c’è da aspettarsi riserbo da parte della Chiesa, di nessuna Chiesa, ma in un Paese laico non starebbe male un risposta adeguata alle aggressioni ecclesiastiche e sarebbe tenuto al rispetto della laicità chi lavora in istituzioni pubbliche. Ma -ribadisce Viano – è la cultura laica a essere poco reattiva e Papa Francesco ha fatto perdere la testa a molti: Scalfari pretende di interpretare il pensiero papale in interviste imbarazzanti per il Vaticano e per molti laici. Così spesso la discussione si è spostata sulla morale. I laici ne hanno una? «Indignati, hanno replicato di averne una, e pubblica. Poi – conclude il filosofo torinese -, alcuni hanno anche rivendicato una religione civile. Io francamente con la religione civile andrei cauto, anche con la morale, perché quando ne parlano i laici sembrano succubi della religione. Certe intemerate sul relativismo etico le lascerei ai preti».

dal settimanale left,  marzo 2015

Un anno dopo marzo 2016, il nuovo rapporto:

Varicano tv

Il primato Vaticano sulla Rai  altre tv italiane

Non è più solo il prezioso rapporto sulla secolarizzazione in Italia redatto da Critica liberale a documentare, di anno in anno, la progressiva disaffezione degli italiani verso la religione cattolica e i suoi riti.  Comincia ad essere una realtà ben presente anche nelle ricerche del Censis, dell’Istat e di altri istituti di indagine. In particolare la progressiva secolarizzazione del Bel Paese emerge in modo lampante da una ricerca Istat (diffusa dal quotidiano La Stampa). Questo in sintesi: mentre dieci anni fa una persona su tre ( il 33,4%) dichiarava di frequentare luoghi di culto almeno una volta alla settimana, la percentuale oggi è scesa al 29%.  Le persone che dichiarano di non frequentare mai luoghi di culto sono passate dal 17,2 al 21,4%. Ma c’è un altro dato interessante da sottolineare: che non sono solo i ventenni italiani a perdere la fede, ma anzi  – rispetto al 2006 – oggi sono anche le persone tra i 55 e i 59 anni a disertare i luoghi di culto, che  hanno perso il 30% di fedeli all’interno di quella fascia di età. Ma anche fra i 60-64enni  si registra un calo pare al 25%.

Nonostante tutto questo. O forse proprio per questo, ovvero perché la Chiesa sta perdendo rapidamente terreno in Italia, l’offensiva vaticana si fa più massiccia in tv. Anche sulle reti pubbliche italiane, complice un servizio pubblico genuflesso.  Basti dire che – come documenta il V rapporto sulle confessioni religiose e tv redatto da Critica Liberale (con la collaborazione di una agenzia che ha fatto un lavoro scientifico analizzando 7 tv lungo tutto l’anno) – le trasmissioni dedicate ad argomenti religiosi hanno subito un incremento da 355 a 380 ore. Appuntamenti fissi  continuano ad essere trasmissioni settimanali di taglio agiografico fin dal titolo: “A sua immagine”, “Sulla via di Damasco”, “Le frontiere dello spirito”. Senza contare che la tv pubblica  fa a gara con quella privata in Italia per trasmettere l’Angelus, messe di Natale e non solo.

Di tutte le trasmissioni a tema religioso prese in esame dalla studiosa Valeria Ferro nell’ultimo anno emerge che « l’11,5%  ha analizzato la figura di Papa Francesco e solo l’1,7% (pari ad un’ora nell’anno) ha trattato le vicende relative agli scan­dali vaticani, dai casi di pedofilia e agli illeciti finanziari». I soggetti confessio­nali invitati in tv «hanno privilegiato i temi legati alle questioni religiose (25%), alla figura del Papa (17%) e per il 12,5% si sono occupati di miracoli».  Paghiamo il canone anche per vedere «trasmissioni che spesso si occupano di fenomeni straordinari legati alla fede cattolica, raccontando – sottolinea Valeria Ferro –  di guarigioni inspiega­bili, di apparizioni e di altri eventi prodigiosi, come fa, ad esempio, “Storie vere”, a dispetto del titolo!».  Il problema dunque non sono solo le fiction che raccontano i santi o le serie tv in stile Don Matteo che in un anno sono raddoppiate (da 311 a 603) sulle reti generaliste, ma anche i programmi di intrattenimento che si spacciano per programmi di informazione. Un esempio per tutti per quanto riguarda la Rai:  Porta a Porta. Il programma di Bruno Vespa su Raiuno ha aumentato consi­derevolmente le puntate in cui si è oc­cupata di questioni religiose. «Si è pas­sati, infatti dalle 13 del 2012­ 13 e le 15 della scorsa stagione alle 34 dell’anno in esame», rileva Ferro nel saggio che  apre l’ampio dossier annuale pubblicato dal trimetrale Critica Liberale diretto da Enzo Marzo «Ai temi religiosi sono state dedicate 11 ore e mezza nel 2012­ 13, 7 ore lo scorso anno e 15 ore e 40 minuti nell’ultima stagione. I soggetti confes­sionali ospitati nel salotto buono di Raiuno sono stati 142 nel 2012­ 13, 67 durante la scorsa stagione».

Insomma la stagione televisiva 2014­ 2015 ha confermato la centralità della reli­ gione cattolica sia nei programmi di informazione sia in quelli di fiction. «Un elemento nuovo, rispetto alle sta­gioni precedenti, è costituito dalla maggiore presenza di soggetti confes­sionali e di temi legati all’Islam nelle trasmissioni di approfondimento», ma fa notare Valeria Ferro, soprattutto « nel contesto di terrorismo e di crisi internazionali».  E se da una parte  l’Islam viene criminalizzato collegandolo tout court al terrorismo, dall’altra le tv pubbliche si fanno megafono delle campagne di propoaganda cattolica messe in atto dal Vaticano di papa Francesco, omettendo di dire che il Giubileo è stato un totale flop.

« I dati contenuti in questo quinto rapporto sono veramenta scandalosi e mostrano quanti programmi di propaganda cattolica ci siano in Tv in Italia», ha denunciato Enzo Marzo direttore di Critica liberale e componente della società Pannunzio per la libertà di informazione presentando la ricerca alla Camera.«Quello che noto è che più aumenta la secolarizzazione,  più aumenta l’invasione mediatica del Vaticano che condiziona il mondo politico italiano. L’ insipienza e incapacità politica del mondo non clericale nel reagire mi pare però altrettanto evidente. Le vittime dovrebbero rispondere. Dobbiamo assolutamente cercare di fermare questa deriva».

« Bene ha fatto la Uaar a fare un esposto all’Agcom sulla base di questi dati; i cittadini devono cominciare a organizzarsi, visto che manca la volontà politica di intervenire. Bisogna cominciare a fare dei ricorsi- ha detto Andrea Maestri di Sel -. Ciò che emerge da questo quadro è che vengono violati i principi della pluralità e il principio della laicità dello Stato, che è un cardine. La laicità dello Stato è un principio ribadito di recente anche da una bella sentenza del Tar di Bologna quando ha invalidato  l’autorizzazione alla benedizione pasquale di aule scolastiche. Dobbiamo farci sentire come cittadini per far valere questi principi e diritti fondamentali». ( dal settimanale Left- marzo 2016)

@simonamaggiorel

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