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Machiavelli tradito

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 26, 2013

09cinquecento anni dalla sua stesura il Principe di Machiavelli ha ancora molto da dire alla classe politica oggi. Machiavelli aveva una concezione alta della politica. Era la sua grande passione. Insieme alle donne. E non ha mai detto che il fine giustifica i mezzi. Fu la Controriforma ad attaccarlo e a mistificare il suo pensiero, come racconta Maurizio Viroli

di Simona Maggiorelli

Fiero repubblicano, Niccolò Machiavelli scrisse il Principe (1513) ma non abdicò mai alle proprie convinzioni. Da «realista con immaginazione» quale era cercava, anche attraverso questo trattato, di far passare la propria visione alta della politica. «Che non era affatto scissa dai valori etici» sottolinea lo studioso Maurizio Viroli che allo scrittore fiorentino ha dedicato molti libri, fino ai recentissimi Scegliere il principe. I consigli di Machiavelli al cittadino elettore e La redenzione d’Italia. Saggio sul Principe di Machiavelli usciti entrambi per Laterza. A cui si aggiunge Machiavelli filosofo delle libertà edito da Castelvecchi. E proprio dal significato che Machiavelli attribuiva alla parola libertà prende avvio la nostra intervista al professore emerito di teoria politica dell’University of Princeton, che ora insegna all’Università della Svizzera italiana e alla University of Texas.

«Libertà per Machiavelli significava vivere libero» dice Viroli che il 19 ottobre al Teatro Niccolini di San Casciano (Fi) ha aperto un ciclo di conferenze organizzato da Laterza per i cinquecento anni dalla stesura del Principe.

«Questa è un’espressione molto chiara che ricorre più volte negli scritti. E’ riferita a un popolo, a una città ma anche a un individuo che vive senza essere dipendente dalla volontà arbitraria di altri. Machiavelli ha della libertà la concezione che viene dal mondo romano. E’ libera la persona non sottoposta a dominio di altre persone che gli possano impedire di realizzarsi. Una città, diceva Machiavelli, in cui c’è anche un solo uomo al di sopra delle leggi non si può dire libera. L’Italia, ai suoi tempi, non era libera perché era alla mercé delle potenze d’Oltralpe.
MACHIAVELLIMachiavelli fu uno strenuo difensore della libertà repubblicana. Ma la sua ricerca della libertà non riguardava solo la sfera pubblica…
C’è anche una dimensione interiore della libertà. Come caratteristica dell’individuo. Se si vuole essere una persona libera, scriveva, per prima cosa bisogna essere se stessi. Essere liberi significa avere profonde convinzioni e avere il coraggio di esprimerle e difenderle anche quando vanno contro le opinioni dominanti. Machiavelli in questo era ammirevole: esprimeva consapevolmente concetti politici e morali che contestavano l’opinione comune del suo tempo. Sa come lo chiamavano i suoi sottoposti e collaboratori in Cancelleria che lui servì dal 1448 al 1512? Lo chiamavano “cheppia”dal nome di un pesce che dal mare risale contro corrente i fiumi per andare a depositare le uova.
Dal suo Machiavelli filosofo delle libertà emerge un ritratto a tutto tondo dello scrittore e dell’uomo, «cittadino di impeccabile onestà e rettitudine» che amava soprattutto la politica e le donne. Parlando di passioni Machiavelli, lei ricorda,scriveva all’amico Vettori «tanto mi paion or dolci, or leggieri, or gravi quelle catene e fanno un mescolo di sorte che io giudico non poter vivere contento senza quella qualità di vita»…
Per Machiavelli vivere liberi significava non rifiutare le passioni. Lasciarsi andare per esempio alla passione amorosa, alla bellezza, agli affetti, senza paura di incorrere nel biasimo dei benpensanti. Quando l’amico Francesco Vettori gli chiese un consiglio riguardo a una donna molto bella ma più giovane di cui si era innamorato, Machiavelli rispose:«chi vuol fare a modo d’altri non fa mai nulla”. È “meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi». Auree parole. Bisogna dire anche che amava la compagnia e il buon vino, le cene e bei vestiti. Anche se poi di buono ne aveva solo uno. Fautore della libertà repubblicana ammirava le libere città Svizzere e Tedesche, ma definiva la loro una rozza libertà. Avrebbe voluto una libertà più raffinata, e auspicava che L’Italia potesse conquistarla.

SHEEHAN 0609.qxpE qui veniamo al punto, Machiavelli non faceva “piccola politica”, pensava a una rinascita civile della patria, detestava servi, adulatori e cortigiani. Ma il Principe fu messo all’indice. E la sua immagine del libero pensatore fu gesuiticamente degradata a campione del machiavellismo, di un  tatticismo pronto a tutto. Come si spiega questo fraintendimento durato secoli?
Machiavelli pensava che la politica fosse la più nobile attività pratica dell’essere umano perché, se esercitata secondo le regole dell’arte, può costruire in terra delle opere di grande valore: fondare un vivere libero, emancipare un popolo, ridare dignità ad una nazione, liberare dalla corruzione. Solo la grande politica, che Machiavelli ha sempre teorizzato, difeso e praticato, può realizzare questi importanti obiettivi. Ma dalla Controriforma in poi Machiavelli è stato visto come il teorico del fine giustifica i mezzi, come il politico corrotto che vorrebbe essere giudicato diversamente dalle persone comuni. Tutte queste stupidaggini non stanno né in cielo né in terra. Non ci sono nei testi di Machiavelli. Sono nate – guardi un po’- dai pensatori politici della Controriforma che praticavano la politica come adattamento alla corruzione, esercizio del potere, soddisfazione delle peggiori ambizioni e il soffocamento delle libertà. Avevano bisogno di distruggere Niccolò Machiavelli nella sua grandezza per potere praticare un’idea di politica completamente diversa. Tattica raffinata che è stata usata spesso in Italia. Quando c’è un grande pensatore lo distruggi per continuare ad essere mediocre e per continuare ad agire indisturbato in maniera opposta.

Maurizio Viroli

Maurizio Viroli

Che lezione politica potremmo trarre da Machiavelli oggi?
Nel mio libro La libertà dei servi (Laterza) qualche anno fa ho usato molte idee di Machiavelli, in particolare quella che ho ricordato all’inizio, ovvero che una Repubblica non è più libera se esiste un uomo con un potere enorme. Questo è Machiavelli puro ed io l’ho applicato alla realtà italiana dove esisteva ( e in parte esiste ancora), un uomo con un potere enorme. Nemmeno i più detestabili cortigiani di Berlusconi sono stati in grado di confutare questa mia affermazione. Ma Machiavelli non ci insegna solo questo. Nel capitolo XXIV del Principe ci spiega perché l’Italia era ridotta allo stato penoso in cui si  trovava all’inizio del Cinquecento . La responsabilità, diceva, è dei nostri principi, capaci di scrivere una bella lettera (oggi diremmo un buon comunicato stampa), di imbastire qualche discorso di circostanza, essere bravissimi ad ordire inganni. In questo anche molti dei nostri politici sono invincibili. E soprattutto diceva  Machiavelli vogliono che le loro parole siano prese come verità assolute, come sentenze di oracoli. Infatti la forma che prediligono è la dichiarazione davanti a una selva di microfoni, perché non sono in grado di sostenere un vero contraddittorio. Cosa ci ha detto in sostanza Machiavelli? Che senza grandi politici una repubblica è condannata al declino, all’impoverimento sia materiale che morale, alla perdita della dignità e della libertà. Questa analisi sulla responsabilità dei principi che Machiavelli svolse agli inizi del Cinquecento può essere ripetuta con piccoli adattamenti alla realtà italiana. Ma Machiavelli ci ha anche detto come si fa a uscirne. Lo aveva capito, perché studiava la storia. Bisogna avere la fortuna che emerga da qualche parte  un politico, che abbia una grandezza straordinaria ma che soprattutto sia capace di suscitare in un popolo motivazioni e passioni di libertà. Ora nessuno è in grado di dire se e quando verrà un politico di questo tipo. Certo è che con i politici attuali l’Italia non avrà un riscatto morale, politico e civile.

Per riprendere un grande classico come Machiavelli e Guicciardini di Felix Gilbert ora ristampato da Einaudi, potremmo dire che la difesa del «particulare» ha prevalso in Italia?

Questo è vero. Ma bisogna anche dire che Guicciardini era un uomo che teneva molto al suo interesse, ma lo legava sempre alla dignità dell’Italia e di Firenze. Era un uomo attaccato alla propria ricchezza e al proprio status, ma fu anche un buon governatore di Modena e Reggio e rischiò la vita nella difesa di Parma. A me pare che oggi in Italia siano pochissimi i politici in grado d pronunciare parole come “io amo la Repubblica”, “amo il bene comune, il vivere libero”, ed essere credibili. Guicciardini, come Machiavelli, lo era.

Dal settimanale left -Avvenimenti del 19 ottobre 2013

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Oltre olo specchio di Venere

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 21, 2012

La ricerca di una vita, la passione per l’arte , gli incontri e gli amori di Diego Velazquez nella prima biografia italiana del grande pittore del Seicento spagnolo, edita da Cavallo di Ferro e firmata da Riccardo De Paolo. Fra storia e romanzo l’avventura di un autore di penetranti ritratti, di opere complesse come Las Meninas e di laici nudi femminili , in un’epoca di roghi feroci

di Simona Maggiorelli

Velazquez, Venere allo specchio (1650)

La narrazione comincia dalla fine: dalla lettera che il pittore Diego Velàzquez, ormai sul letto di morte, invia nel 1660 all’amico Juan de Còrdoba. Lasciando che sulla pagina affiorino memorie di vita, di incontri, di amori ma anche la passione di una intera vita, quella per l’arte («Volevo spingermi nell’arte dove nessuno si era ancora spinto»).

Con quella fierezza di hidalgo che lo caratterizzava fin da giovane, ma soprattutto con la consapevolezza di una esistenza pienamente riuscita, Diego Rodriguez de Silva y Velàzquez, cavaliere dell’Ordine di Santiago, si appresta ad uscire di scena.

«La nostra vita è solo una goccia nel mare del tempo; e non sono così stolto – o privo d’immaginazione – da poter escludere che questo nostro stato non sia soltanto una temporanea finzione. Ricordatene se un giorno, oppresso dai ricordi, o da qualche bicchiere di troppo, ti verrà voglia di piangere», scrive all’amico in questa lettera immaginata da Riccardo De Palo ad incipit de Il ritratto di Venere, la vita segreta di Diego Velàzquez (Cavallo di Ferro), la prima biografia italiana del grande pittore del Seicento spagnolo.

In forma di romanzo, ma puntuale nella ricostruzione storica e soprattutto generosa di approfondimenti sulla poetica, originalissima, di questo autore di penetranti ritratti (basta pensare al suo celebre nano di corte), di opere complesse come Las Meninas e di morbidi nudi femminili come la Venere allo specchio conservata alla National Gallery di Londra: un’opera luminosamente laica in un’epoca di feroci roghi controriformisti.

In questo romanzo storico De Palo ne rintraccia il vero volto nella bella ventenne Marta di cui il già maturo pittore si innamorò perdutamente durante un soggiorno romano. E più indietro nel tempo l’autore ci porta a rintracciare l’origine della calda tavolozza di ocra, rossi e terre tipica di Velàzquez in quella libera e arabizzante Siviglia in cui  era nato nel 1599 e aveva trascorso la giovinezza, «rimirando i fregi intarsiati di quelle che un tempo erano moschee», fra botteghe che vendevano di ogni tipo di mercanzia e strade piene di gente.

Nella cosmopolita Siviglia Velàzquez entrò giovanissimo a bottega del colto Pacheco (di cui sposerà la figlia Juana) assorbendone la lezione improntata al naturalismo fiammingo e, attraverso stampe e riproduzioni, facendo proprio il drammatico chiaro-scuro dei caravaggisti. Poi la decisione di trasferirsi a Madrid, per tentare la carriera a corte, riuscendo a diventare l’artista preferito del re Filippo IV e amico di Rubens da cui il pittore andaluso apprezzava la libertà dai moralismi religiosi e il coraggio nel portare avanti progetti personali e lungimiranti in barba alle meschinerie e alle trame di corte.

Seguendone le orme, ricostruisce Riccardo De Palo, Velàzquez ebbe incarichi ufficiali per acquistare all’estero opere per la collezione imperiale. Ma divenne anche testimone privilegiato del Siglo de oro, frequentando Francisco de Quevedo, Luis de Gòngora, Calderòn de la Barca, Lope de Vega e altri importanti intellettuali del tempo. Avendo anche la possibilità di un diretto  confronto con i maestri dell’arte italiana, grazie a una serie di viaggi nella penisola dove poté studiare le opere di Michelangelo, di Raffaello, di Tiziano, di Veronese e di Tintoretto.

Il suo fiammeggiante Innocenzo X  resta un debito aperto con quel Tiziano di cui a Venezia ebbe modo di apprezzare la grande libertà creativa e  la rappresentazione dell’umano piena e immanente. A tutto questo, specie nella ritrattistica, Velàzquez seppe aggiungere una straordinaria capacità di cogliere in un guizzo, in un’espressione, in una smorfia imprevista, ciò che più profondamente si agita nell’animo umano, raccontandone i tormenti interiori, riuscendo a fermare la realtà vibrante sotto il suo pennello.

da left-avvenimenti

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Tintoretto, il teatro delle passioni

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 23, 2012

Tintoretto, autoritratto 1548

Artista dal segno inquieto e nervoso, nel secondo Cinquecento aprì una nuova stagione nella pittura emancipata dal razionalismo della propspettiva rinascimentale. Una importante antologica ne ripercorre l’opera alle Scuderie del Quirinale. Colmando una lacuna. Basta dire che l’ultima mostra di Tintoretto in Italia  risale al 1937

di Simona Maggiorelli

Bellezza, esattezza, armonia non abitano più qui. Nell’ultimo scorcio di Cinquecento è finita la stagione della aurea classicità raffaellesca.

Lo splendore del colorismo veneto, sotto il vento rigido della Riforma, già si smorza in una tavolozza terrea e austera. Mentre i sensuali impasti di colore e la pagana celebrazione delle forme femminili, nell’ultimo intenso atto dell’arte di Tiziano, lasciano il posto a inquieti notturni

Anche attraverso le maglie strette della fiera indipendenza veneziana, ora che la Serenissima ha perso il primato di porta d’Oriente e di regina del mare, comincia a filtrare tetra l’ombra della Controriforma spalleggiata dal dominio spagnolo.

Così dai vasti orizzonti e dai paesaggi lirici di Bellini, Giorgione e Tiziano (di cui ora racconta la mostra Tiziano e la nascita del paesaggio moderno in Palazzo Reale a Milano) quasi d’un tratto si precipitin una catacomba, in quell’antro oscuro e misterioso dove Tintoretto accende la scena del Ritrovamento del corpo di San Marco. Sotto una fuga di archi appena rischiarati dalle torce, nella tensione che segna i gesti nervosi e concitati dei protagonisti di quest’opera dipinta nel 1563-64 si compie simbolicamente un radicale passaggio di stile e di visione pittorica: dall’armonia e dalla morbidezza di linee del Rinascimento agli scorci arditi, alle contorsioni e ai drammatici chiaro-scuri di un Manierismo che nell’arte di Jacopo Robusti detto Tintoretto (1519-1594) già precipita nel Barocco.

Tintoretto, Il ritrovaento del corpo di San Marco

Per questo è difficile non dar ragione a Vittorio Sgarbi quando dice che in questa sua importante antologica di Tintoretto che si apre il 25 febbraio alle Scuderie del Quirinale (la prima, in Italia dal 1937!) non poteva mancare quest’opera chiave. Che invece Brera non ha voluto concedere. In compenso però, sfidando l’idea che le opere del Robusti risultino poco comprensibili fuori dal loro originario contesto veneziano, Sgarbi ha organizzato un percorso che comprende una quarantina di dipinti di Tintoretto, punteggiato di veri capolavori.

A cominciare dal visionario Trafugamento del corpo di San Marco fino alla poetica e suggestiva Santa Maria Egiziaca. Un percorso e un lavoro di elaborazione critica ( nel catalogo edito da Skira) da cui emerge con forza l’originalità del segno pittorico di Tintoretto, inquieto, dinamico, libero e fugace nel tratteggiare ciò che è essenziale. In modo ficcante e sintetico senza preoccuparsi delle rifiniture. Ma da questa attesa mostra romana emerge anche il suo essere stato un ritrattista ”spietato” nel cogliere la verità più profonda sui volti. E il suo ardito sperimentare scorci, prospettive inusuali e persino vorticose, come nella luminosa ricreazione della leggenda di San Giorgio e il drago con l’eroe retrocesso sullo sfondo e in primo piano una principessa in fuga che sembra precipitarsi verso di noi, fuori dal quadro.

Tintoretto, il trafugamento del corpo di San Marco

Per non dire poi delle grandi macchine teatrali, dei grandi telieri come il Miracolo dello schiavo dove l’episodio sacro è tramutato in dramma umanissimo mentre il punto di vista dello spettatore è lo stesso  degli astanti assiepati intorno allo schiavo: una straordinaria summa della capacità di Tintoretto di creare scene dinamiche, in movimento, che sembrano accendersi d’un tratto e altrettanto presto svanire.

Un dinamismo che fa sembrare immediatamente ingessate e inerti molte pale di Raffaello e di altri maestri del Rinascimento. Stigmatizzato da Vasari e dai contemporanei come frettolosità, imperizia o addirittura furore fu proprio quel tratto individuale e originalissimo dello stile di Tintoretto, in seguito, ad accendere l’interesse di molte generazioni di pittori. Guadagnandogli la simpatia e l’interesse di El Greco e di Velazquez, dei Romantici e oltre, arrivando fino alle avanguardie della pittura astratta e all’informale. Non è un caso che un pittore tutto sommato poco attento alla tradizione pittorica come Pollock, giovanissimo, studiò a lungo riproduzioni di opere di Tintoretto interessandosi soprattutto a opere tarde come il Paradiso che sembra realizzata quasi soltanto con filamenti di luce. Un uso della luce (e dell’ombra) che l’artista veneziano emancipò completamente dalla prospettiva rinascimentale. Basta pensare al biancheggiare delle quinte architettoniche nel Trafugamento del corpo di San Marco in vivo contrasto con il cadavere del santo che appare immerso nell’ombra, benché sia in primissimo piano. Un uso completamente irrazionale della luce che, come è stato notato, aprì la strada alla rivoluzione di Caravaggio.

Ma profondamente innovativa fu anche la sua concezione dello spazio. Nell’Ultima cena, per esempio, il tavolo posto di sbieco sembra risucchiare lo spettatore verso la profondità della tela. Liberando la spazialità dalla rigida griglia prospettica, Tintoretto inglobava l’ambiente fuori dal quadro cancellando ogni soluzione di continuità fra spazio della rappresentazione e spazio della fruizione dell’opera. Con un’intuizione che sarebbe piaciuta molto a Lucio Fontana. Così come la forma aperta della sua pittura con molti elementi appena accennati e che stimolano  la fantasia dello spettatore.Come tante porte invisibili che chi guarda desidera aprire.

da left-avvenimenti

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Lorenzo Lotto, l’anticlassico

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 25, 2011

Dal 2 marzo alle Scuderie del Quirinale una importante antologica dedicata al maestro veneto che allo splendore del colorismo di Tiziano preferiva l’inquietudine di Antonello da Messina

di Simona Maggiorelli

Lorenzo Lotto, Annunciazione

Quella giovane Madonna di Lorenzo Lotto che, qui e ora, in un movimento assolutamente contemporaneo a noi che guardiamo il quadro, si rincantuccia mostrando tutta la sua umanissima paura di fronte all’Arcangelo, non potrebbe essere più lontana dalla protagonista dell’Annunciazione (1522) di Tiziano che accoglie il messaggero divino con modi pacati ed eleganti da gran signora. Lo stesso soggetto, la stessa scena sacra. Entrambi i pittori conoscono alla perfezione la tradizione pittorica e padroneggiano al massimo la tecnica. Ma la resa iconografica dell’Annunciazione, per i due maestri del Cinquecento, non potrebbe essere più divergente.

Così se Tiziano rende quasi profana la scena ambientandola in un aristocratico palazzo, Lotto sembra fare del dipinto di Recanati (1534) un manifesto di una  pittura popolare, concreta, quasi protestataria. Certamente segna uno scarto dalla norma quel modo di narrare per immagini, anticlassico e vivace, che caratterizza la tela di Recanati, dal 2 marzo al 12 giugno al centro della mostra Lorenzo Lotto (catalogo Silvana editoriale) curata da Giovanni Carlo Federico Villa alle Scuderie del Quirinale; una antologica che riunisce a Roma un ampio nucleo di opere dell’artista veneto, fra pale di altare, opere a tema sacro e una serie di eccezionali ritratti.

Ma forse si può dire di più: L’Annunciazione di Lotto rappresenta una vera e propria invenzione di immagine. Anche rispetto agli esempi di turbatio della Madonna dipinti da Ambrogio Lorenzetti e altri, ben noti a Lotto (come ha documentato Settis in Iconografia dell’arte italiana, Einaudi). Precedenti molto decorosi e composti che ben poco hanno a che fare con il ruspante scompiglio di questa Annunciazione, dipinta in colori freschi e accesi. Ma anche la Natività (1530), da poco restaurata e in primo piano alle Scuderie, ci racconta che Lotto non era un pittore naif: nel bel mezzo di una scena intima e quasi naturalistica qui l’autore sapientemente cala due fredde ali azzurrine, una nota divina e straniante, già pienamente manierista.

Che Lorenzo Lotto (1480-1556) non fosse affatto un artista minore nel quadro della pittura veneta del Cinquecento, del resto, lo aveva già notato Bernard Berenson dedicandoli nel 1895 la prima monografia (ripubblicata nel 2008 da Abscondita). E lo hanno ribadito nel secolo scorso studiosi come Venturi e Longhi ispiratori della importante antologica veneziana degli anni Cinquanta.

Giovane rivale di un ben più acclamato Tiziano e coetaneo di un artista raffinato come Giorgione, Lotto per necessità e non solo scelse la provincia come ambito in cui vivere e operare, legandosi ad una committenza diversissima da quella laica, colta e nobile che sosteneva i suoi due più famosi colleghi. Sempre controcorrente, solo, di spigolo alle cose e fuori dalla rete dei rapporti che contano, così raccontano l’uomo Lorenzo Lotto le trentasei lettere autografe indirizzate al Consorzio della Misericordia. Ma un profilo aspro e schivo emerge anche dal Libro di spese diverse, una specie di diario in cui dal 1538-1556 il pittore annotò tutte le commissioni ricevute ma anche il fallimento della vendita all’asta di quarantasei opere, da cui nel 1550 sperava d ottenere almeno quattrocento scudi riuscendo a cavarne solo quaranta. Prova ulteriore che la sua arte, al tempo stesso “antica” e in anticipo sui tempi (basta pensare alla penetrazione psicologica di certi ritratti), era del tutto fuori sincrono rispetto alle mode del tempo. Più che dallo splendore del colorismo veneto e dai suoi classici maestri come Giovanni Bellini, Lotto si sentiva attratto dalla vena inquieta di Antonello da Messina (dal quale mutuò il drammatico fondo nero della bellissima cimasa del Cristo morto) ma anche da certo naturalismo tedesco e fiammingo che ebbe modo di conoscere da vicino attraverso Albrecht Dürer a Venezia nel 1505. Già a quell’epoca il venticinquenne Lotto dimostrava una sua personalità perfettamente formata. Come si può evincere dal sanguigno ritratto del vescovo Bernardo de’Rossi realizzato proprio quell’anno e ora esposto a Roma.

Lorenzo Lotto, ritratto di giovane uomo

Insieme alla cultura figurativa, dall’area nordica Lotto aveva appreso alcune istanze di rivolta evangelica.  E anche a causa di un ritratto andato perduto di Martin Lutero con la moglie si tramanda che il pittore avesse imboccato la strada dell’eterodossia. Strada quando mai rischiosa in tempi in cui si cominciavano ad accendere i roghi della Controriforma. Dall’appassionante indagine che Massimo Firpo scrisse qualche anno fa sulla controversa ortodossia di Lotto (Artisti, gioiellieri, eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma, Laterza) si sa, per esempio, di una Venezia, snodo cruciale dei traffici tra l’ Oriente e l’Europa, ma anche «Porta della Riforma», dove fu stampata  la prima traduzione italiana del Corano ma anche la  Bibbia in volgare illustrata da Lotto, insieme a  testi in odore di eresia, opere criptoriformate e libri eretici. E nel tollerante clima politico lagunare, oasi momentanea in un’Europa di grandi sconvolgimenti politici e martoriata dalla peste, sostiene Firpo, Lorenzo Lotto si lasciò affascinare da istanze dissidenti rispetto alla dottrina dal papato romano, con il quale aveva avuto un breve contatto nel 1509 quando era stato chiamato da Giulio II per affrescare le Stanze. Dalla corte papale, come noto, Lotto quasi scappò e da allora per lunghi anni, spinto da ragioni economiche  ma anche, chissà, forse incalzato dalla montante Controriforma, peregrinò per l’area lombardo veneta e nelle Marche. E se la tesi di Firpo ora trova ulteriore conferma nella serrata indagine storiografica compiuta da Diarmaid MacCulluch nel poderoso volume Riforma da poco uscito per Carocci (uno studio di oltre mille pagine  in cui lo storico inglese, tra l’altro, ricostruisce tutta la mappa delle amicizie veneziane di Juan de Valdes) più cauto sulla vexata quaestio della devianza lottesca è invece il curatore della mostra alle Scuderie del Quirinale : «Lotto fu un uomo dall’animo profondamente religioso – dice – mantenne sempre uno stretto rapporto con i domenicani, che volevano una Chiesa vicina ai ceti più poveri. Anche per questo – conclude Villa- la sua pittura anticipò alcuni temi della Controriforma»

da left-avvenimenti  25 febbraio 2011

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