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Il meglio della collezione #Gugghenheim a Firenze, last weeks

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 16, 2016

number 18 1950 by Jackson Pollock;

number 18 1950 by Jackson Pollock;

Una selezione del meglio che il Guggenheim di New York e di Venezia insieme possono offrire è in mostra, fino al 24 luglio, nelle sale di Palazzo Strozzi a Firenze con il titolo La grande arte dei Guggenheim, da Kandinsky a Pollock.

Curata da Luca Massimo Barbero (che, forte di una profonda conoscenza delle collezioni Guggenheim, ha già realizzato operazioni analoghe in passato) l’esposizione fiorentina permette di tuffarsi nelle avanguardie del Novecento, seguendo lo sviluppo dell’informale europeo e dell’action painting americana che prima e dopo la guerra si influenzarono a vicenda.

Rothko

Rothko, untiltled

Se fino agli anni Trenta Parigi era l’epicentro della ricerca, con la guerra molti artisti europei emigrarono negli Stati Uniti, a cominciare da Max Ernst, che sposò Peggy Guggenheim e divenne il tramite per la diffusione del Surrealismo oltreoceano. Influenzando anche Jackson Pollock allora giovanissimo protetto di Peggy e ancora alla ricerca di una propria identità. Come lasciano intuire alcune tele come La donna luna e una ampia selezione di opere grafiche in cui appaiono fantasmagorie mitologiche e figure mostruose, metà umane, metà animali.

Ma nella ampia sezione – quasi una mostra nella mostra – dedicata all’inventore dell’action painting compaiono anche opere celebri come Foresta incantata (1947), Senza titolo (argento verde del 1949 e Number 18 (1950) in cui la matassa di linee realizzata con il dripping, facendo colare direttamente il colore sulla tela, sembra percorsa da un movimento continuo che pare espandersi oltre i bordi della tela. È il momento più intenso e vitale della ricerca di Pollock che subito dopo sembra quasi diventare maniera, freddo esercizio di scrittura automatica.

Fanno eccezione nel 1951 alcune serigrafie in cui il contrasto fra bianco e nero diventa inaspettatamente netto e potente, in un gioco di forme astratte e fantastiche che appare come una danza. Altrettanto e forse ancor più suggestiva la sala dedicata a all’astrattismo lirico di Mark Rothko, una stanza scura, diversamente dalle altre, dove scenograficamente le macchie di colore rosso e viola emergono dal buio, quasi le tele fossero in movimento. Poi la mostra presenta ancora molte  altre sorprese quando incontriamo il confronto  fra la materia arsa e dolente di  Alberto Burri e ritmati e vitali tagli di Lucio  Fontana. E poi le sciabolate di nero con cui il più engagé dei maestri dell’astrazione, Emilio Vedova, rappresenta L’immagine del tempo (sbarramento) e un raffinato e lunare quadro di Adolph Gottlieb, quasi giappones,e dal titolo Foschia (1961). Ma questo non è che uno dei percorsi, il nostro, in questa mostra articolata e ricca come una selva fantastica. ( Simona Maggiorelli, left)

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Il fuoco vivo di #AlbertoBurri. Una grande retrospettiva al @Guggenheim di New York

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 27, 2015

Alberto Burri, combustione

Alberto Burri, combustione

Nel centenario della nascita il museo Guggenheim di New York, dal 9 ottobre, rende omaggio ad Alberto Burri (1915-1995) con una grande retrospettiva, la più completa dedicata all’artista umbro negli ultimi 35 anni in America.  Un evento che allarga lo sguardo internazionale sull’artista umbro, dopo l’importante convegno che si è tenuto il 26 e il 27 giugno a Città di Castello, città natale dell’artista, intitolato Au rendez-vous des amis:, organizzato dalla Fondazione Burri ,a cui  hanno partecipano direttori di musei italiani e stranieri, critici e artisti che hanno fatto la storia dell’arte degli ultimi cinquant’anni come Emilio Castellani e maestri dell’Arte povera come Janis Kounellis, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio, Eliseo Mattiacci e Hidetoshi Nagasawa con Ettore Spalletti. Ma anche star come Joseph Kosuth, insieme ad artisti già affermati delle generazioni più giovani.  Il Guggenheim offre dunque un’occasione storica per ricordare e conoscere più da vicino questo schivo artista che ha anticipato l’Arte povera e reinterpretato l’Informale, usando materiali umili come tela, cera e carbone per realizzare opere che denunciano la distruzione e gli abissali buchi neri causati dal nazismo. Fin dagli anni Quaranta, Burri ha saputo sviluppare un proprio percorso nell’astrattismo, senza mai perdere di vista l’umano. Anzi riuscendo a evocare dimensioni profonde con una pittura materica e inquieta, libera da ogni intento mimetico e figurativo.
«Burri nasce alla pittura, maturo», scrive Vittorio Brandi Rubiu nell’agile monografia Alberto Burri, (Castelvecchi, 2015), ricordando le circostanze estreme in cui divenne pittore. Accadde quando, medico e capitano che si rifiutava di collaborare, fu rinchiuso in un lager in Texas. «Burri era tutto d’un pezzo, gli americani lo trattavano come nemico. E lui si mise a dipingere».

Non lo fece iniziando dal disegno dal vero, ma usando carbone e sacchi di juta per rappresentare forme emerse dalla fantasia, ritorte, poi ribollenti e bituminose e fiammeggianti. Che ci parlano di una realtà umana lacerata ma non vinta, resistente nonostante le ferite che ha dentro. Pittura come riscatto dalla prigionia. Come passionale rifiuto della coartazione e della violenza. Forse per questo la tavolozza di Burri non ha colori piatti, eterei, dissanguati.

Il rosso e il nero primeggiano insieme ai colori caldi della terra. Come Fontana cercava una nuova dimensione spaziale, non solo fisica. Anche se il senso delle sue tele e cellophane è più drammatico. Come ha colto con una straordinaria sequenza Aurelio Amendola, che nel 1976 fotografò l’artista al lavoro, mentre realizzava una delle sue celebri combustioni, bruciando un pezzo di plastica, slabbrato, dai margini neri.

È possibile trovare maggiori informazioni sugli eventi legati alla celebrazione del centenario su http://www.burricentenario.com

(Simona Maggiorelli, left)

8 ottobre 2015  Presentazione della mostra di New York

Il Guggenheim di New York dedica una grande retrospettiva ad Alberto Burri dal 9 ottobre al 6 gennaio 2016. Per celebrare il centenario della nascita dell’artista umbro il museo nel cuore di Manhattan ne ripercorre tutta l’opera con la mostra The Trauma of Painting, organizzata da Emily Braun e realizzata con la collaborazione della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri che per questa occasione pubblica il catalogo completo delle opere di Burri in edizione bilingue.

L’intento, raccontano i curatori, è  “esplorare la bellezza e la complessità del processo creativo che sta alla base delle opere di Burri”, tornando – a 35 anni di distanza dall’ultima mostra newyorkese dedicata all’artista –   ad approfondire la  figura di questo protagonista della scena artistica del secondo dopoguerra,  nel quadro dei rapporti tra Stati Uniti e Europa negli anni Cinquanta e Sessanta.

E  prima ancora, a partire dalla dolorosa esperienza che Burri fece proprio negli Usa,  quando  l’artista, che era medico caporale, fu fatto prigioniero nel 1943 e venne portato dagli americani in un campo di concentramento a Hereford, in Texas.  In questo luogo di detenzione Burri, cercando di resistere in quella drammatica condizione, prese a disegnare e a creare utilizzando il carbone, lacerti di juta e altri materiali poverissimi.

La mostra al Guggenheim approfondisce poi la svolta che prese la ricerca di Burri al suo ritorno in Italia nel 1946 quando cominciò a creare quadri astratti caratterizzati da un sottile grafismo. Dal 1949, poi, ecco i Catrami, opere monocrome in cui” il colore viene ridotto alla sua funzione più semplice e perentoria e incisiva”, per dirla con le parole dello stesso Burri.  Era il primo passo verso un’attenzione alla materia che si sarebbe fatta, negli anni successivi, sempre più esclusiva. L’artista umbro aveva così sviluppato in modo originalissimo uno spunto che aveva colto nell’ambiente romano e in particolare nel lavoro di Enrico Prampolini che già nel periodo futurista aveva realizzato opere con parti di colore e di sabbie e che nel 1944 aveva pubblicato arte Polimaterica. Come il Museo Guggenheim mette bene in evidenza con la sua straordinaria collezione, questo era un filone di ricerca che più o meno negli stessi anni era stato sviluppato da Jackson Pollock che, invece, aveva tratto ispirazione dalle “pitture di sabbia” della tradizione indiana in America.

Un altro importante capitolo della mostra nel museo newyorkese  è dedicato ai  Gobbi con cui Burri cancellava ogni divisione fra scultura e pittura.  Il primo Gobbo nacque nel 1950  incastrando sul retro del quadro un frammento di legno che rende irregolare la superficie del dipinto.  In quello stesso anno Alberto Burri realizzò il primo Sacco, un quadro eseguito intelaiando un frammento di tela proveniente da un sacco usato con le cuciture e i rattoppi bene in vista. Negli anni successivi riprese certi effetti di sgocciolatura del colore già presenti nei Catrami e aggiunse ai frammenti  altri materiali di recupero, stracci, lembi di tessuto. Nello stesso tempo cominciò a servirsi d’altri residui, dalle carte alle lamiere, dai legni bruciati alla plastica. Nel 1954 la prima Combustione, il primo intervento con il fuoco su cellotex

Alberto Burri rompe decisamente con la tradizione facendo della materia la vera protagonista dell’opera, ma non si tratta di materia bruta e inerte, in quanto dopo il trauma della guerra, diventa materia viva, carne e sangue di chi era stato al fronte e in senso più universale di un’umanità non arresa di fronte alla distruzione e alla violenza.

 

Gibellina, completato il Grande Cretto di Burri. Sabato l’inaugurazione

Il Grande Cretto completato

Gibellina (Tp). Verrà inaugurato sabato 17 ottobre  alle 17  il Grande Cretto di Alberto Burri finalmente completato, a trent’anni dall’inizio dei lavori di realizzazione (1985-2015). Il cantiere di completamento si è chiuso a maggio, integrando i 66mila mq fino a raggiungere gli 86mila previsti nel progetto originario.
In occasione delle celebrazioni del centenario della nascita di Burri (1915; cfr il Focus sull’artista allegato a «Il Giornale dell’Arte» di ottobre) la Regione Sicilia, il Comune di Gibellina e la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri presenteranno l’opera completata, mentre la seconda parte dei lavori già finanziata e in attesa di imminente inizio, prevede il restauro completo.

Annunciata anche la realizzazione di una sede per accogliere i visitatori, punto informazioni e insieme presidio per preservare l’opera, oltre che la realizzazione di un’adeguata segnaletica.

Gibellina si prepara a celebrare l’evento con una serie di appuntamenti, tra cui, per la prima edizione del «Cretto Earth Fest», AUDIOGHOST 68 (h. 20.00), un’installazione visiva e sonora partecipata (realizzata dal Comune di Gibellina grazie al contributo della multinazionale energetica E.ON ) appositamente concepita per il Grande Cretto dall’artista britannico Robert Del Naja, del gruppo musicale Massive Attack, e da Giancarlo Neri. Tra le «vene» del Cretto mille attori-spettatori si muoveranno come lucciole percorrendo l’antico tracciato viario della cittadina distrutta dal terremoto, trasformata da Burri in opera d’arte, un grande spettacolo di luci e suoni diffusi da centinaia di piccole radio disseminate sulla sua superficie.

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Dopo 35 anni Burri si prende tutto il Guggenheim Per il centenario di Burri rinasce il Teatro Continuo e si restaura il Grande Cretto

di Giusi Diana, edizione online, 15 ottobre 2015

 

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Andar per mostre. La bella avventura di Azimut/h

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 24, 2014

Lucio Fontana Io (non) sono un santo

Lucio Fontana Io (non) sono un santo

E’ stata uno degli avamposti della ricerca internazionale e un fenomeno quasi del tutto inconsueto in Italia. Soprattutto per il modo alto in cui riusciva a far incontrare sperimentazione artistica, letteraria e scientifica. Stiamo parlando della rivista Azimut/h fondata insieme all’omonima galleria nel 1959 da Enrico Castellani e Piero Manzoni a Milano. Da due talenti fra loro diversissimi e che, anche per questo, riuscivano a coprire così ad ampio spettro ambiti d’avanguardia disparati.
Riservato e dedito a una ricerca sull’arte astratta rigorosissima il primo, Enrico Castellani, quanto il secondo, Piero Manzoni, era estroverso, capace di inventarsi performance e trovate che avevano l’aria della burla, mentre mandavano a gambe all’aria antichi luoghi comuni sull’arte e l’ispirazione. Basta pensare alla sua celeberrima Merda d’artista che rendeva d’un tratto ridicola ogni posa dannunziana o pretesa aura sacra dell’opera d’arte. Forse anche per questo insolito mix di caratteri e poetiche l’esperienza di Azimut/h ebbe vita breve, dal settembre del 1959 al luglio del 1960. Ma tanto bastò per entrare direttamente nella storia dell’arte del Novecento.

Piero Manzoni, merda d'artista

Piero Manzoni, merda d’artista

In quegli anni Milano era in pieno fermento, le gallerie erano attivissime, anche sul fronte della sperimentazione più avanzata, che guardava all’astrattismo, di livello internazionale. Tanto che nella galassia di Azimut/h, troviamo nomi di primo piano come Lucio Fontana e poi Alberto Burri e artisti americani già noti allora come Jasper Johns, Robert Rauschenberg e il francese Yves Klein, sodale di Piero Manzoni sul versante della performance dal vivo e della provocazione. Ma non solo. Intorno a Azimut/h gravitavano nomi interessanti, anche se meno noti al grande pubblico, come Jean Tinguely, Heinz Mack, Otto Piene e Günther Uecker. Una importante mostra al Guggenheim di Venezia, fino al 19 gennaio 2015, permette di conoscerli più da vicino, insieme agli altri protagonisti della folgorante stagione di Azimut/h.

Curato da Luca Massimo Barbero il percorso espositivo si sviluppa in sei sale. La prima presenta lavori di Rauschenberg, Johns, Tinguely, un monocromo blu di Klein e opere di Burri. Mentre nella seconda parte figurano lavori di Manzoni che raccontano il suo poliedrico talento, capace di spaziare da raffinati Achrome a provocatorie sculture viventi. Di Enrico Castellani sono esposte le superfici a sviluppo architettonico e alcune superfici nere che catturano la luce e sembrano rilanciarla in modo ritmico grazie a un gioco di estroflessioni e introflessioni della tela.
Ma di grande valore è anche il catalogo edito da Marsilio che accompagna la mostra Azimut/h continuità e nuovo: un volume di oltre seicento pagine che raccoglie contributi critici di Luca Massimo Barbero, Francesca Pola, Flaminio Gualdoni, Federico Sardella e di Antoon Melissen. E non solo. In questa ponderosa pubblicazione sono riprodotte tavole, contenuti di riviste e pagine della mitica rivista del gruppo dove furono pubblicati articoli di critici e artisti come Gillo Dorfles, Guido Ballo, Vincenzo Agnetti e Bruno Alfieri e ancora poesie di Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Elio Pagliarani, Leo Paolazzi ed altri protagonisti degli anni Cinquanta e Sessanta. A colpire lo spettatore oggi è proprio quella avanzatissima commistione di cultura e scienza, rarissima in un’Italia in cui ha sempre pesato l’impostazione crociana e gentiliana, idealistica e, in larga parte, nemica della cultura scientifica.
(Simona Maggiorelli, settimanale Left,  dicembre 2014)

I nuovissimi con Piero Manzoni

di Andrea Cortellessa ( da Alfabeta 2)

Piero Manzoni eNanni Balestrini divennero amici  a Brera, al bar Jamaica. Al tramite di Balestrini, con ogni probabilità, si deve comunque se il primo scritto critico che si registri su Manzoni sia in assoluto quello firmato da Luciano Anceschi: che di Balestrini era stato docente di filosofia al Liceo scientifico Vittorio Veneto e che due anni prima aveva fondato la nuova rivista il verri (alla cui redazione aveva chiamato come factotum, appunto, il ventunenne Nanni). Nel gennaio del ’58, alla Galleria Bergamo, Manzoni espone assieme a Fontana e Baj: una mostra che viene subito ripresa a Bologna e il cui testo introduttivo è scritto appunto da Anceschi (il quale nota la svolta dalle «superfici caotiche» degli esordi informali alle «allibite superfici di bianco assoluto, affidate alla sensibilità nel trattare la materia e rotte da rilievi plastici e dalle loro ombre»).

È intanto interessante che sino al ’60 di Manzoni abbiano scritto solo letterati: dopo Anceschi è la volta di Vincenzo Agnetti, Emilio Villa e Cesare Vivaldi. Ma ancora più significativo è che gli unici altri poeti che guarderanno con violenta fiducia a questo estremo matto dell’avanguardia (per usare le parole di Pagliarani) saranno proprio tre dei cinque che nel ’61 metteranno a rumore l’ambiente letterario italiano con l’antologia I Novissimi. Poesie per gli anni ’60: Leo Paolazzi, che di lì a poco prenderà il nome di Antonio Porta, appunto Balestrini ed Elio Pagliarani (che degli altri ha qualche anno in più, fa il giornalista alla redazione milanese dell’Avanti!, e già da un pezzo frequenta il giro degli artisti). Al giovanissimo Paolazzi nel ’59 viene affidato l’incarico di presentare il catalogo della mostra che Bonalumi Castellani e appunto Manzoni tengono a Roma, alla Galleria Appia Antica di Emilio Villa; mentre lo stesso anno, sul primo numero di Azimuth, vengono ospitati inserti in versi da Narcissus Pseudonarcissus di Pagliarani (componimento prelevato dalla sua prima raccolta, Cronache e altri versi, pubblicata da Schwarz nel ’54, e che figurerà poi per intero appunto sui Novissimi), il frammento Innumerevoli ma limitate di Balestrini (che nel ’63 confluirà nella sua raccolta Come si agisce) e tre strofe del poemetto Europa cavalca un toro nero di Paolazzi (che nel ’60 uscirà per intero nella plaquette, ormai a nome Porta, che s’intitola La palpebra rovesciata ed esce come primo e forse unico numero di una collana, stampata a Brescia, di «Quaderni di Azimuth»).

Dopo la traumatica scomparsa dell’artista, Pagliarani e Balestrini torneranno a scrivere di Manzoni quando nel ’67 Vanni Scheiwiller realizzerà la monografia commemorativa Piero Manzoni: il primo con la testimonianza intitolata Fino all’utopia (della quale siamo in grado di riprodurre anche il dattiloscritto originale, appartenente a una collezione privata, grazie alla cortesia di Lia Pagliarani; per tutte le altre riproduzioni si ringrazia la Fondazione Piero Manzoni), il secondo col lungo componimento dedicato «a Piero Manzoni» e intitolato La gioia di vivere (la cui vicenda editoriale a seguire, però – a partire da Ma noi facciamone un’altra, la raccolta del ’68 –, vedrà cadere la dedica all’artista). Pagliarani – come ricorda Dario Biagi – sarà poi fra coloro che testimonieranno a favore del vecchio amico quando nel ’71, in occasione della sua personale curata da Germano Celant alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, nei suoi confronti scoppieranno rumorosissime polemiche (assieme a lui interverranno, fra gli altri, Argan, Brandi, Calvesi, Agnetti e Capogrossi). Mentre Porta scriverà un componimento a posteriori, dedicato «a Piero e ai Manzoni», quando Maurizio Calvesi chiamerà un certo numero di poeti a confrontarsi con l’opera di uno degli artisti esposti alla Biennale del 1984 (nella sezione Poesia per Arte allo Specchio, alla lettura poetica conclusiva intervennero – oltre a Porta – Andrea Zanzotto, Giovanni Giudici, Edoardo Sanguineti, Giovanni Raboni, Maurizio Cucchi, Maurizio Brusa, Valerio Magrelli e Gian Ruggero Manzoni).

Per Porta, il rapporto con Manzoni deve aver contato anche più che per gli altri Novissimi. All’indomani della scomparsa dell’artista compone un poemetto visivo dal titolo – allusivo al punto da non ammettere ulteriori spiegazioni – Zero, che viene esposto alla Galleria Blu di Milano nell’ottobre del ’63 e viene pubblicato il mese seguente, in forma lineare, sul primo numero di «Marcatré». Un testo che così si conclude: «senza concezione, senza misura, senza forma | senza metro, senza progetto, senza costruzio | ne, senza matrice, senza materia, senza mat | eriale, senza spazio, senza vuoto» ecc. Invitato da Edoardo Sanguineti a spiegarne la genesi, sul numero successivo della medesima rivista Porta pubblica un testo in verità reticente, Il grado zero della poesia, che però è improntato a quel medesimo «senso del tragico» che Pagliarani, per parte sua, non esiterà ad associare alla vicenda di Manzoni nella propria testimonianza Fino all’utopia.

Proprio Sanguineti rappresenta l’anello mancante di questa storia (nonché quello che, allo stato attuale della mia ricerca, resta un piccolo mistero). Alla fine del ’58 Manzoni scrive all’amico Rinaldo Rossello – che fa da intermediario con un collezionista – di essere al lavoro su una pubblicazione in cui riproduzioni di sue opere verranno accompagnate da «un testo di Edoardo Sanguineti». Ma la pubblicazione non uscirà, e di questo testo non è stata finora trovata traccia (la notizia è contenuta nella monografia di Francesca Pola). Il che tanto più sorprende, perché il geniale paradigma antimetaforico del «Questo è questo» (da Sanguineti elaborato nel ’62 a proposito di Burri, poi applicato ad Antonio Bueno) calza a pennello – è il caso di dire – all’opera di Manzoni, piuttosto: il caposaldo della cui poetica, enunciato nel ’57 e a più riprese ribadito nei testi successivi (raccolti ora da Gaspare Luigi Marcone negli Scritti sull’arte), recita senza equivoci quanto segue: «l’immagine prende forma nella sua funzione vitale: essa non potrà valere per ciò che ricorda, spiega o esprime […] né voler essere o poter essere spiegata come allegoria di un processo fisico: essa vale solo in quanto è: essere».

Si arriva così al presente: Nanni Balestrini è fra i testimoni intervistati nel documentario Piero Manzoni artista, diretto da Andrea Bettinetti e prodotto da Sky Arte. A differenza di tanti altri artisti della sua generazione, nella cui bibliografia critica i nomi di poeti e letterati in genere abbondano, in quella di Piero Manzoni sono quelli qui citati gli unici scrittori ad essere presenti – ripresentandosi con costanza anno dopo anno e decennio dopo decennio. Che dire? Ognuno riconosce i suoi.

 

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Abbecedario Cattelan

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 6, 2014

Maurizio Cattelan

Maurizio Cattelan

Provocatorio, spiazzante, Maurizio Cattelan, l’artista italiano più noto all’estero, torna alla ribalta con Shit and die, un nuovo progetto per One Torino. E racconta la sua trentennale ricerca a caccia del significato nascosto delle immagini

 di Simona Maggiorelli

Dopo la grande mostra antologica al Guggenheim di New York, nel 2011 Maurizio Cattelan aveva annunciato il suo ritiro. Ma ora, a sorpresa, ricompare a Torino, dove sta preparando un nuovo progetto espositivo per Artissima, in programma dal 6 al 9 novembre 2014. Con il provocatorio titolo Shit and die (citazione ironica di un’opera di Bruce Nauman) questa nuova mostra allestita in Palazzo Cavour e aperta fino al 25 gennaio 2015 promette un insolito viaggio nella storia torinese, costruito attraverso oggetti insoliti, desueti, dimenticati. «Buone cose di pessimo gusto» di gozzaniana memoria, reperti di archeologia industriale, pezzi di avanguardia e ombre lombrosiane.

«Forse non le definirei ombre» precisa l’artista, senza rivelare troppo del progetto nel suo concreto. «Anche Lombroso era all’avanguardia su alcune cose. Oggi sappiamo che ha completamente sbagliato il tiro, ma era comunque un uomo di scienza. Per esempio- racconta Cattelan – il museo ha una collezione sterminata e meticolosissima di riproduzioni su carta dei tatuaggi dei detenuti, con tanto di legenda e racconto biografico di ogni prigioniero. Sono documenti davvero interessanti, solo su quello ci si potrebbe scrivere la sceneggiatura di un film».

Cattelan, la Nona ora

Cattelan, la Nona ora

Mentre Cattelan si diverte a frugare in polverosi archivi, mentre si occupa di storia locale e nel Museo Lombroso si dedica all’esame critico delle tassonomie di una psichiatria positivistica e al fondo razzista, dall’altra parte dell’Oceano, una grande mostra mercato vende le sue opere più famose per cifre che oscillano dai 30mila dollari e 20 milioni.

«Si tratta di una mostra di mercato secondario di cui so poco io stesso. Non più di quello che c’è scritto sui giornali», confessa l’artista. «Quando il lavoro è venduto una prima volta se ne perde il controllo. Fa parte del patto con se stessi. È come dare un figlio in adozione, poi non puoi pretendere di decidere cosa farà da grande». Certo, sembrano passati anni luce da quando Cattelan, lasciata Padova, si aggirava per New York senza un lavoro e senza sapere l’inglese. Riuscendo tuttavia a farsi strada nel mondo dell’arte. «New York è sicuramente cambiata, come il resto del mondo, ma ancora oggi – racconta – anche se stai chiuso in casa, puoi sentire l’energia della città. A soli due isolati di distanza puoi trovare 150 gallerie d’arte. 150 giovani teste che pensano, e basta una passeggiata per incontrarle. Sembra un cliché ma – sottolinea Cattelan – credo che New York possa essere un punto di svolta, come è stato per me anni fa».

Michelangelo Pistoletto dice che «ad un certo punto l’artista deve andare oltre il proprio ego e creare una costellazione». Con un atteggiamento maieutico verso i giovani talenti. Lei non ha mai fatto parte di gruppi, di movimenti precisi. Non ama le parrocchie?

Non amo le etichette, nemmeno quella di solitario: ho sempre sostenuto i giovani artisti nel modo che mi veniva più spontaneo, creando un dialogo, e lavorando in team; come in quest’ultimo caso, con Shit and die, una mostra collettiva in cui non mancano di certo i giovani artisti. Semplicemente non ho mai sentito l’esigenza di fondare una scuola, temo che avrei davvero poco da insegnare.

Da dove trae ispirazione per le sue opere? Come sono nate opere come La nona ora (1999) con papa Wojtyla o Him (2001) che mostra Hitler devoto, che prega?

Cattelam, Him

Cattelam, Him

Qualcuno ha detto che per avere delle idee ci vuole una buona immaginazione e un mucchio di spazzatura: probabilmente non ho abbastanza immaginazione, ma di sicuro ho un sacco di spazzatura! Scherzi a parte, credo che avere idee sia una questione di permettere alla propria mente di distrarsi a sufficienza dall’ovvio: si tratta di un compito rischioso, perché si possono scoprire cose su se stessi che forse era meglio non scoprire.

Mentre il Postmoderno produceva architetture impazzite e gadget, usando quello stesso linguaggio pubblicitario, lei denunciava il vuoto e la violenza di un certo modo di vivere metropolitano (Bidibidodidiboo 1996), additava la cultura che crocifigge la donna (Untitled 2007) e impicca la fantasia dei bambini (Untitled 2004), smascherava ideologia o religione (Ave Maria, 2007). Però non si è mai definito artista politico. Perché?

Non mi sono mai posto la questione in questi termini perché non mi ha mai interessato definirmi a priori, o prendere impegni che non potevo mantenere. Quello che ho fatto è semplicemente ricercare immagini che, in mezzo alla montagna di informazioni inutili da cui siamo sommersi ogni giorno, suscitassero una reazione a livello dello stomaco. Penso che possa essere un ottimo modo per portare in superficie la rabbia, privata della violenza.

«Il mio lavoro è sempre stato quello di prendere i pensieri miei degli altri e di farli vedere a tutti», lei dice nell’Autobiografia non autorizzata (Mondadori, 2011) firmata da Bonami. E poco prima: «Facevo l’incorniciatore di sentimenti, di stati d’animo». Rivelare il lato latente, invisibile, può essere rivoluzionario?

Nessun discorso è neutrale, l’arte non fa eccezione. Ognuno di noi è “impegnato” e rivoluzionario a modo suo, e non è detto che dichiararlo a voce alta lo renda più vero. Il mio impegno è creare immagini che rimangano impresse per più di due secondi… le assicuro che se non è “impegnato” è comunque molto impegnativo.

Cattelan Untitled 2008

Cattelan Untitled 2008

Nel 1993 lei debuttò in Biennale con Bonami. Più di recente è tornato a Venezia con una installazione che ricreava Tourists (1997). Guardando i piccioni impagliati dal sotto in su, standosene lì a naso per aria, ci si sentiva “piccionescamente” complici di un mercato che spaccia per arte qualunque cosa. Una pizzicotto al pubblico perché apra gli occhi?

Credo che ogni commento e ogni interpretazione siano legittimi, ma non penso che stia a me realizzarli. Credo che non si dovrebbe pensare a chi si sta rivolgendo: nel momento in cui un lavoro viene presentato attraverso i media diventa di patrimonio pubblico e se ne perde inevitabilmente il controllo. Questo accade sia dentro sia fuori dall’istituzione: io ho sempre preferito perdere il controllo da subito, è molto più semplice che dover accettare a posteriori di averlo perso.

Al MoMa, al Pompidou, alla Tate ma anche alla Biennale di Istanbul s’incontrano quasi gli stessi artisti, una medesima estetica e modo di concepire le arti visive. Il mercato internazionale dell’arte nell’ultima ventina di anni ha imposto una sorta di pensiero unico? C’è spazio per chi voglia proporre una diversa ricerca?

Le mostre, le istituzioni e il mercato dell’arte e anche la ricerca sono inevitabilmente collegati tra loro, in quanto costituiscono una catena indissolubile che permette al meccanismo di andare avanti. Sono tutti lati di una stessa medaglia, che non credo possano essere separati. Per quanto riguarda me, ho sempre avuto bisogno di progetti paralleli su cui lavorare, un tempo erano degli intermezzi dal solito lavoro. Adesso una rivista come Toiletpaper, o curare una mostra come Shit and die, o qualsiasi altro progetto futuro sono un buon modo per continuare a lavorare. Il problema è che ci illudiamo di avere tempo e invece non ne abbiamo poi così tanto: qualsiasi cosa verrà dopo, farò del mio meglio perché non sia tempo sprecato.

dal settimnale left  primo -7 novembre

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L’attimo fuggente degli Impressionisti.

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 30, 2013

Signac, Venezia

Signac, Venezia

Rivoluzionari in pantofole e autori di quadri piacevolmente inoffensivi oppure artisti radicali che cambiarono profondamente l’estetica di fine Ottocento? Mentre Renoir a Torino e Verso Monet a Verona  fanno il pieno di visitatori, un nuovo libro di Will Gompertz e una mostra al Guggenheim di Venezia mettono in luce gli aspetti più vitali del movimento impressionista nella Francia di fine Ottocento

di Simona Maggiorelli

Al botteghino le retrospettive dedicate agli impressionisti vanno fortissimo, come è noto. E c’è chi storce il naso davanti al successo da blockbuster di mostre come Verso Monet (fino 9 febbraio 2014, a Verona). I quadri dei pittori impressionisti? «Dipinti chiari, bellissimi e piacevolmente inoffensivi», scrive il critico della Bbc Will Gompertz nel libro E questa la chiami arte? (Electa), un manuale spigliato ma di alta divulgazione che ripercorre 150 di anni storia dell’arte «in un batter d’occhio», come fosse un romanzo.

A ben vedere, però, precisa Gompertz, artisti come Monet, Pissarro, Renoir, Degas, e Sisley misero fine alla pittura accademica, uscendo dal chiuso degli atelier, per andare a mescolarsi fra la gente nella metropoli parigina. Gli impressionisti raccontarono la modernità. E dettero luce e respiro alla pittura di paesaggio dipingendo en plein air. «Per il pubblico di fine Ottocento furono il gruppo più radicale, ribelle e rivoluzionario» scrive Gompertz , ricordando lo scandalo che generarono i nudi di Manet.

Maximilien Luce, Parigi, sera

Maximilien Luce, Parigi, sera

«La Parigi di fine XIX secolo fu teatro di scompigli politici e trasformazioni culturali» sottolinea anche Vivien Green, curatrice della mostra Le avanguardie nella Parigi fin de siècle aperta fino al 6 gennaio al Guggenheim di Venezia. Nella Parigi di allora, prosegue la specialista di storia dell’arte ottocentesca «nascono correnti artistiche fra loro correlate, filosofie insurrezionaliste, i primi accenni di gruppi politici di sinistra e le conseguenti reazioni conservatrici». E gli impressionisti riuscirono a dare espressione a quel fermento culturale nell’ambito pittorico. fondando una nuova estetica. Che studiava e faceva tesoro dei cambiamenti di luce, che rivendicava l’importanza della visione sulla descrizione razionale della realtà: gli scorci di Parigi di Maximilien Luce esposti al Guggenheim non cercano la verità fotografica ma esprimono la visione dell’artista e la sua emozione di fronte al crepuscolo sulla Senna o all’alba in campagna. Il paesaggio viene panteisticamente reinterpretato. E il bagliore che inonda i pini sul mare dipinti da Hippolyte Petitjean evoca una dimensione interiore, non è banale cronaca di un giorno d’estate. Ma la mostra del Guggenheim non presenta solo il volto più noto e lirico della pittura di fine Ottocento. Merito di questa rassegna è anche sondare le correnti più inquiete che percorrono la stagione che precede il grande salto di inizio Novecento e la rivoluzione cubista. Particolarmente interessante nelle sale di Palazzo Venier dei Leoni è la scelta di opere del simbolista Odilon Redon, che rappresentano il volto notturno e misterioso dell’arte parigina fin de siècle. Le vele dorate della sua Barca (1894) si offrono come un onirico controcanto alle brillanti marine di Paul Signac Mentre I fantini di Henri de Toulouse-Lautrec, due affascinanti apparizioni nel buio, evocano personaggi di racconti fantastici. Per finire poi con un’ampia sezione dedicata ai Nabis, forse i più caustici nel rappresentare quella borghesia che animava la rutilante Parigi ottocentesca ma che faceva una vita claustrofobica nel chiuso di ricchi salotti e nel vuoto degli affetti.

dal settimanale Left-Avvenimenti

SignacWho were the Impressionists?Just revolutionaries in slippers? Authors of paintings pleasantly inoffensive? Or radical artists who profoundly changed the aesthetics of the late nineteenth century ? While Renoir’s retrospective  in Torino and the exhibition  Towards Monet in Verona are full of visitors, a new book by Will Gompertz , and an exhibition at the Venice Guggenheim highlight the most vital aspects of the Impressionist movement in France in the late nineteenth century.

by Simona Maggiorelli

Retrospectives dedicated to the Impressionists are very successfull at box office , as we know. And someone stares withs suspicion at the  blockbuster success of exhibitions such as Towards Monet (up to 9 February  2014 in Verona ) .

What can we say about Impressionists’ paintings? ” They are just clear , beautiful and pleasantly harmless paintings “, wrote the BBC’s critic Will Gompertz in his book What are you looking art? (Penguin, 2012, Electa 2013 ) , a breezy manual of high disclosure that traces 150 years of history of art ” in the blink of an eye,” as if it were a novel.

On closer inspection, however ,  Gompertz states , artists such as Monet, Pissarro , Renoir , Degas, Sisley  put to an end the academic painting , leaving the closed atelier , to go to mingle among the people in the Parisian metropolis . The Impressionists told about modernity. They gave light and breath to landscape painting working en plein air . ” For the late  Nineteenth  century audience they were the most radical group , rebellious and revolutionary” Gompertz writes , recalling the scandal that generated by Manet’s Le déjeuner sur l’herbe (1862-63) .

“In the  late nineteenth century Paris was the scene of political upheavals and cultural transformations ” emphasizes Vivien Green , curator of the exhibition The avant-garde in Paris fin de siècle open until January 6 at the Guggenheim in Venice. In Paris at the time , says the specialist of the history of nineteenth-century ” born artistic inter-related trends , philosophies insurgency , the first hints of leftist political groups and  conservative reactions” . The Impressionists were able to give expression to those cultural ferment with their paintings. They founded a new aesthetic. Studying  light changes , and using it to express their feeelings they claimed the importance of inner vision rejecting rational description of reality: the views of Paris by Maximilien Luce exhibited you can see now in Guggenheim do not seek thecamera  truth but express the artist’s vision and emotion watching the Seine at dusk or dawn in the countryside.

The landscape is pantheistically reinterpreted by the Impressionists . And the glow that bathes the pine trees on the sea painted by Hippolyte Petitjean evokes an inner dimension: it is quite the opposite of  a trivial chronicle of a summer day. But the exhibition of the Guggenheim presents not only the most recognized face of the Impressionists and not only the  lyrical painting of the late nineteenth century . Merit of this exhibition is also probing the restless currents that run through the season that precedes the big jump at the beginning of the twentieth century and the Cubist revolution . Particularly interesting in the Palazzo Venier dei Leoni is the choice of works by Symbolist Odilon Redon , who represent the face of Parisian night and mysterious fin de siècle. The golden sails of his Boat (1894) are offered as a counterpoint to the brilliant dream marine by Paul Signac. While The jockeys by Henri de Toulouse- Lautrec ( two fascinating appearances in the dark)  evoke characters from fairy tales . Lust but not least the  large section devoted to the Nabis , perhaps the most caustic group in representing the bourgeoisie that animated nineteenth-century Paris closed in a domestic claustrophobic life and  in a vacuum of affection .

Left magazine

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Pollock e l’America ribelle

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 3, 2012

Negli anni Quaranta l’arte americana conobbe un rinnovamento totale con la nuova stagione dell’astrattismo avviata dalla Scuola di New York. Rohtko e Gottlieb furono protagonisti di quella svolta. Insieme a un più  solitario Jackson Pollock. Dal  7 febbraio una mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma ripercorre quella avventura con la mostra Il Guggenheim. L’avanguardia americana 1945-1980. Con uno speciale focus dedicato all’iniziatore dell’action painting, nel centenario della nascita

di Simona Maggiorelli

Pollock green silver

L’immaginifica spirale progettata dall’architetto Frank Lloyd Wright è stata per più di mezzo secolo l’epicentro dell’arte. E da questo tempio del modernismo nel cuore di Manhattan proviene gran parte del corpus di opere esposte al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 7 febbraio nella mostra Il Guggenheim. L’avanguardia americana 1945-1980 (fino al 6 maggio, catalogo Skira). Mentre un’altra significativa selezione di opere viene dai musei Guggenheim di Venezia e di Vercelli, già teatri negli anni scorsi di importanti retrospettive sulla collezione costruita con spirito illuminato dagli industriali Guggenheim.

La più nota fu Peggy che, dopo aver sposato il pittore Max Ernst, si fece mentore del surrealismo negli Stati Uniti e poi della nuova arte astratta americana, sostenendo, anche economicamente, un ancora sconosciuto Jackson Pollock (che le era stato segnalato da Piet Mondrian). E poi, dal 1942, organizzando personali dell’iniziatore dell’action painting, ma anche di Mark Rohtko e di Robert Motherwell nella galleria Art of this century sulla 57th strada di New York.

Nella cupa congiuntura della crisi economica degli anni Trenta e Quaranta, e poi in tempo di guerra, fiorì del tutto inaspettata una nuova pittura, forte, matura, dal segno – per la prima volta nella storia americana – decisamente originale. Grazie al contributo di artisti immigrati e cosmopoliti come l’ebreo Rothko e l’armeno Gorky che, nell’ambito della pittura astratta, avendo rifiutato le fredde geometrie del costruttivismo, seppero rileggere in chiave lirica e profonda le novità dell’espressionismo orfico di Kandinsky. Ma fondamentale fu anche la ricerca di artisti “autoctoni” come Barnett Newman, come Adolph Gottlieb e come Jackson Pollock che, affascinati da Picasso e dalla sua ricerca sull’arte primitiva e preistorica, ingaggiarono a loro volta ricerche personali. Newman, in particolare, dedicandosi a studi sulle origini dirompenti della creatività umana nel paleolitico, Gottlieb aprendosi all’arte orientale e ma anche facendo viaggi nei deserti dell’Arizona andando in cerca di scritture rupestri e Pollock- come abbiamo già raccontato in altre occasioni – riscoprendo i miti, le sculture di sabbia e le danze rituali degli indiani Navajo.

Mark Rohtko,Da questo incontro di differenti personalità e percorsi prese vita in America, un’arte “non oggettiva” , nata da un netto rifiuto dell’accademismo della pittura figurativa e da cavalletto. Parliamo di una pittura fortemente segnica e gestuale, che pur approdando a stili differenti – quanto possono esserlo gli inestricabili grovigli di linee di Pollock e le vibranti epifanie di colore di Rothko – si faceva inquieta sperimentazione, ricerca sull’ignoto, ma anche tormentata arena di conflitti interiori. Legati da questo comun denominatore (anche se forse mai del tutto esplicitato) Rothko e Gottlieb lanciarono il celebre manifesto della scuola di New York, i muralisti come Diego Rivera e David A.Siqueiros cominciarono a discutere di una nuova pittura sociale, che rompeva la prospettiva spaziale dell’affresco. Mentre de Kooning sviluppò uno stile personale nell’alveo già consolidato dell’espressionismo astratto di marca europea. Parallelamente, un artista anarchico e sempre di spigolo con la vita come Jackson Pollock avviò una ricerca solitaria, ma non meno dirompente. Abbandonate presto le «serate automatiche» in cui con altri artisti sperimentava le tecniche di scrittura automatica surrealista, Pollock prese a isolarsi, evitando il lavoro di gruppo e i rapporti non facili con i colleghi, per cercare, fuori dai ritmi metropolitani, un rapporto più diretto con la natura, con le vaste praterie della sua terra o con l’oceano.

Intanto, Pollock cominciava a preferire materiali grezzi o inusuali con cui ingaggiare un corpo a corpo per la realizzazione di opere da segno imprevisto e nuovo. Un corpo a corpo che, quando prese a stendere quadri di grandi dimensioni per terra, divenne una danza, intorno e all’interno dello spazio pittorico, lasciando alla fluidità del gesto, irriflesso e inconsapevole, il compito di tracciare linee curve, ingarbugliate, fluttuanti. Mentre il colore colato direttamente sulla tela, senza la mediazione del pennello, si addensava in grumi e concrezioni stratificate senza disperdersi in rivoli come avrebbe fatto se la tela fosse fissata al muro. Quasi a voler fermare il tempo nell’istante magico della creazione dell’opera. In un intreccio ritmico di linee e colori. Che in opere come Green Silver del 1949, ora a Roma, si ha la sensazione possa proseguire all’infinito, al di là dei limiti fisici del quadro, evocando spazi infiniti, e un orizzonte atemporale.

Pollock, Number 18

E’ un tentativo di immedesimazione totale dell’artista con la sua opera quella che ci propongono potenti esempi di dripping come Number 18 del 1950 e come il più inquietante Ocean Greyness (grigiore dell’oceano), uno degli ultimi quadri di Pollock datato 1953. Nel centenario della nascita del pittore nato a Cody, 28 gennaio 1912 (e morto in un incidente stradale a Long Island nell’agosto del 1956) questo nucleo di sei opere di Pollock si legge quasi come una mostra nella mostra.

In mezzo alle sciabolate nere di Franz Kline, fra i cifrari orientaleggianti di Gottlieb e la grazia fragile dei wrintings di Tobey, appaiono magnetiche le estemporanee e tese composizioni di Pollock, A cui idealmente si aggiunge la foresta di liane dell’olio Number 9, dipinta da Pollock nel ‘49 e in mostra fino al 3 giugno a San Marino, nell’ambito di una rassegna quasi gemella a questa di Roma e intitolata Da Hopper a Warhol. Pittura americana del XX secolo. Ma lo sguardo corre anche a quella primitiva fantasmagoria di donna che campeggia al Palaexpo con La donna luna, (1942) tentativo dichiarato di ricreare un’opera di Picasso e che ancora risente pesantemente dell’estetica surrealista. Ma nella quale è già leggibile una pittura aggressiva, densa, dai forti contorni neri. Segni neri che in questa prima fase, secondo Francesco Tedeschi «servono a Pollock per segnare le figure in uno spazio che risolve le tensioni cubiste e picassiane in un approfondimento dell’interiorità».

Quello che a noi appare evidente guardando al percorso dell’artista americano nel suo insieme è che solo quando in lui scattò il rifiuto di Picasso, e smise di emularlo, riuscì ad essere davvero originale. Lasciandosi andare al ritmo interno ininterrotto di linee e colori, che non formano figure, ma – quando l’opera riesce – rivelano una speciale armonia latente. «Quando sono nel quadro non sono cosciente di ciò che faccio» diceva Pollock. Parole in cui leggiamo un suo coraggioso e affascinante andare a fondo.

Pollock, Grigiore dell'oceano

Al contempo, almeno per chi scrive, resta il mistero del talento di questo straordinario innovatore non solo di tecniche, schiacciato si direbbe da una lotta titanica contro un’inerzia mortale che lo bloccava davanti alla tela bianca e che talora si tramutava in cieca distruttività. E che andò aumentando negli anni forse anche a causa di lunghi anni di analisi junghiana a cui succedettero ricoveri. E allora non furono solo distruzioni di sculture di colleghi passandoci sopra con l’auto, ma anche tentativi di assassinio, come quella volta che giovani artisti e amici dovettero intervenire per impedirgli di strangolare Siqueiros o come quando, in un tragico finale di partita, ubriaco si mise al volante , suicidandosi e uccidendo una giovane amica. Dopo la sua morte Robert Motherwell ricordava che Pollock non era stato un uomo d’azione come farebbe pensare l’espressione action painting, «ma un uomo passivo che a volte, pagando un prezzo altissimo, si faceva artista capace di un’attività creativa convulsa». «Il prezzo umano del suo conflitto interiore era troppo pesante probabilmente – diceva Motherwell -. E Pollock ha voluto distruggere se stesso». Non credendo nell’usurato binomio di genio e pazzia, noi siamo ancora alla ricerca di una risposta più profonda.

da left-avvenimenti 3 febbraio 2012

Questo articolo è stato segnalato il 3 febbraio da Vittorio Giacopini nella rassegna delle pagine culturali Pagina 3 di Radiotre

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Creatività nel vortice

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 6, 2011

Al Museo Guggenheim di Venezia la prima mostra ampia sul Vorticismo, il movimento inglese ispirato da Ezra Pound. Una avanguardia dalla vita breve ma che aprì la pittura inglese all’astrattismo

di Simona Maggiorelli

Dorothy Shakespear senza titolo

Con questa iniziativa della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia si colma finalmente una lacuna scientifica. Fin qui non si era mai vista in Italia una mostra sufficientemente completa sul Vorticismo, movimento inglese dalla parabola fulminante (1913- 1915) e che ebbe molti addentellati con il Futurismo italiano. A unirli, in primis, una parallela ricerca sul dinamismo, sulla  rappresentazione della velocità, sullo studio delle figure in movimento.

Analogamente a quanto andavano sperimentando da noi Bragaglia e Balla, Alvin Langdon Coburn, per esempio, realizzò con le sue vortografie una interessante serie di fotografie astratte, cercando di cogliere non solo lo spostamento del corpo nello spazio, ma anche il movimento umano nello scorrere del tempo. E ancora. Composizioni astratte di linee in movimento e forme a vortice per rappresentare forza e energia campeggiano nei quadri del primo Futurismo e di Boccioni in modo particolare. E diventano soggetto pressoché univoco delle elaborazioni pittoriche e grafiche che in Inghilterra si svilupparono nel “laboratorio” della rivista Blast, a review of the Great English Vortex, fondata da Ezra Pound con Wyndham Lewis dichiarando apertamente il proprio debito con Umberto Boccioni che aveva parlato del suo fare arte come «risultato finale di un vortice di emozioni».

Gaudier Brzeska

Ma come ci racconta questa importante mostra al Guggenheim di Venezia,  I vorticisti (fino al 15 maggio) e nata dalla collaborazione con molteplici istituzioni internazionali fra cui anche la Tate Britain di Londra, il Vorticismo non fu solo la versione più spiritualistica e letteraria del Futurismo ma -come ben evidenziano i due curatori Mark Antliff e Vivien Greene – fu anche un movimento aperto a quanto di più rivoluzionario aveva portato il Cubismo in Francia ma anche il Blaue Reiter in Germania. Basta dire che il nesso fra suono e colore indagato da Kandinskij. come del resto il suo scritto Lo spirituale nell’arte, esercitarono una grande attrazione su vorticisti inglesi come l’artista-letterato-poeta Wyndham Lewis, autore del manifesto del movimento.

Mentre il dinamismo plastico e la ricerca di forme “primitive” di Picabia e di Picasso  influenzarono fortemente la scultura del vorticista Henri Gaudier Brzeska, noto soprattutto per un totemico ritratto (in legno scolpito) del poeta Pound. Legandosi alle intuizioni più brillanti delle avanguardie i vorticisti d’Oltremanica cercarono di uscire dall’inerzia culturale del periodo edoardiano (1901-1910), ma non solo. In una Inghilterra in tumulto, in una società dinamizzata dalle lotte operaie, ma anche piena di contraddizioni, i Vorticisti cercarono di interpretare in termini artistici queste istanze di cambiamento. Purtroppo – alcuni di loro – finendo per restare impigliati in un inquieto e ambiguo esoterismo.

Da Left-Avvenimenti

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Gottlieb sulla via di Rohtko

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 1, 2010

Amico e sodale del maestro della scuola di New York, cercò di emularne la ricerca sul coloreal Guggenheim di Venezia la prima retrospettiva italiana. Fino al 9 gennaio 2011.

di Simona Maggiorelli

Adolph Gottlieb, Guggenheim

Albe rosseggianti e paesaggi azzurri e lunari che nei colori e nei grafismi d’inchiostro nero ricordano l’arte delle stampe giapponesi. Mentre gli aloni sfrangiati e la tessitura rada di certi soli evanescenti al tramonto sembrano suggeriti dalle sperimentazioni di Mark Rothko con il puro colore.

Con il più creativo dei pittori della scuola di New York, del resto, Adolph Gottlieb (1903-1974) – a cui fino al 9 gennaio il Guggenheim di Venezia dedica la prima retrospettiva italiana – condivise gran parte delle scelte artistiche e programmatiche. Insieme scrissero, tra l’altro, il breve saggio Il ritratto e l’artista moderno (di recente riproposto in Mark Rothko, Scritti d’arte, Donzelli) ma anche la celebre lettera del 1943 al New York Times in cui, su invito del direttore, stilavano un manifesto della nuova pittura astratta americana, cercando al contempo di difendersi dalle accuse della critica.

«Gentile dott. Jewell – scrivevano Rothko e Gottlieb – per l’artista l’attività di uno spirito critico fa parte dei misteri della vita. è per questo, crediamo, che il rammarico dell’artista di essere frainteso è diventato un chiaccherato luogo comune. è pertanto un evento quando la situazione si capovolge e il critico del Times confessa il suo “sconcerto”. Ci rallegriamo di questa onestà, della reazione verso i nostri dipinti “oscuri”, perché in altri circoli critici abbiamo l’impressione di aver suscitato uno scompiglio isterico».

Lo “scandalo” era esploso quando i due artisti avevano esposto opere di tema mitologico alla Federation show: sperimentazioni mutuate dalla cultura antica e che ancora non abbandonavano la figurazione tradizionale. La retrospettiva dedicata a Rothko al Palaxpo di Roma nel 2007 offriva l’occasione per vedere dal vivo alcuni di questi suoi lavori, a dire il vero, non fra i suoi più felici. E ora qui a Venezia idealmente si possono confrontare con quelli di Gottlieb, notando quanto entrambi in quella fase risentissero dell’armamentario surrealista di immagini fintamente oniriche e grottesche.

Per fortuna, per entrambi, si trattò solo di un periodo. Poi si tuffarono nelle sperimentazioni astratte con il puro colore. Convinti – come scrivevano nella lettera per il New York Times – che «l’arte è un’avventura in un mondo sconosciuto, che possono esplorare solo quanti siano decisi ad assumersene i rischi». Rischi che Mark Rothko si prese totalmente realizzando alcune delle sue opere più geniali; alle quali, però, seguì una grave crisi personale fino al suicidio nel 1970.

Gottlieb, invece, non rischiò affatto, preferendo veleggiare verso il successo commerciale con opere dai colori sgargianti, popolate da “creature” fantastiche alla Mirò, come Imaginary landscape del 1969 o Three discs on chrome ground ora esposte al Guggenheim di Venezia assieme a tele bistrate che rielaborano in geometriche scacchiere suggestioni di Klee e di Picasso. Un finale che tuttavia, come suggerisce il curatore Luca Massimo Barbero nel catalogo Giunti che accompagna la mostra, non deve farci dimenticare alcuni suoi paesaggi immaginari che rievocavano tradizioni e miti dei nativi americani, o la serie dei burst di cui parlavamo all’inizio e che rappresentavano una consapevole via d’uscita dall’action painting. «Contro la ricerca sterile del puro evento gestuale Gottlieb si definiva un image maker e non smise mai di pensare la pittura come creazione di immagine».

da left-avvenimenti del 22 ottobre 2010

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Alle radici dell’avanguardia americana

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 1, 2010

Dal 21 novembre una mostra al Guggenheim di Vercelli indaga i rapporti fra la pittura Usa degli anni 40 e il surrealismo europeo di Simona Maggiorelli

Quasi fossero pagine del diario pittorico di Peggy Guggenheim, stralci da quella straordinaria avventura intellettuale che portò la giovane collezionista (figlia dell’industriale minerario Benjamin Guggenheim e nipote di Salomon, il fondatore del Museum of non objective painting) a innamorarsi della pittura europea e poi a dare le basi materiali alla giovane avanguardia americana. Luca Massimo Barbero ha strutturato con questa idea un trittico di mostre, concepito ad hoc per il museo Guggenheim di Vercelli. Dopo il primo “atto” dedicato agli anni europei di Peggy e all’incontro con la pittura surrealista, dal 21 novembre nelle sede lombarda del grande museo americano si squaderna il racconto della prima vera stagione moderna della pittura statunitense. A partire dagli anni Quaranta nutrita dal talento di artisti come Rothko, Gorky, de Kooning, Kline e da autori forse meno noti, ma certamente interessanti come Marca-Relli, Hofmann e Matta.

Tutti, o quasi, artisti di nascita europea e che si erano trovati a dover emigrare in circostanze più o meno tragiche nel corso del primo ventennio del Novecento. A loro si univa, tra gli altri, l’“autoctono” Jackson Pollock che Peggy Guggenheim conobbe quando lui era agli inizi della carriera e contribuendo a lanciarlo. Una parabola quella della nuova pittura americana che si compirà in un percorso fulminante. Breve e intensa quasi quanto l’attività oltreoceano di Peggy che nell’arco di sei anni, dal 1941 al 1947, portò in patria la pittura surrealista (con la complicità del marito Max Ernst) ed esportò in Europa la tendenza americana all’informale. In uno scambio biunivoco, di circolazione delle idee, interessante da seguire e che in parte spiega il transito, non sempre sano e positivo di idee e tematiche surrealiste in artisti per altri versi geniali come Rothko. Curatore di molte importanti mostre al Guggenheim di Venezia e in procinto di trasferirsi a Roma per assumere la direzione del Macro (ma lui ridendo precisa «non ho ancora firmato alcun contratto») Luca Massimo Barbero ci fa da guida nella lettura di questo percorso delle avanguardie storiche e spiega: «In questo suo fare la spola fra i due continenti, Peggy riuscì a influenzare le avanguardie americane, fino al punto di riorientarne la direzione».

Fu lei a portare anche materialmente la proposta surrealista negli Stati Uniti. Le nuove generazioni vedono i quadri di Max Ernst, di Man Ray e degli altri loro sodali e «la nuova pittura americana nasce proprio su questa base». E non sono solo le fantasmagorie di uomini-animali del primo Rothko a documentare questo travaso di temi e figurazioni surrealiste (dalle quali fortunatamente il pittore di origini russe si separò presto per esplorare le possibilità espressive del colore) ma ancor più i primi quadri di Pollock in cui campeggiano immagini che devono molto alla pittura surrealista francese degli anni Trenta e a Mirò. E un nesso si può cogliere anche fra gli esercizi di scrittura automatica con cui Breton pensava di poter far arte e il dripping, con il quale Pollock componeva sulla tela pitture automatiche. «Ghirigori – ricorda Barbero – era il termine scherzoso con cui venivano definiti da una critica nostrana che accoglieva non senza una certa ironia i primi esempi di Action painting». Di fatto quella di Pollock, come annotava già Harold Rosenberg, si presentava esplicitamente come «una arena in cui agire», piuttosto che come un nuovo spazio di espressione artistica. E proprio riprendendo il famoso The American Action del critico americano, lo stesso Barbero nel catalogo che accompagna la mostra vercellese ricorda che «il nuovo pensiero americano dell’arte nasce come atto compulsivo», mentre quell’intreccio di linee che animava la tela di Pollock «non era un’immagine ma un evento». Ma non solo. «Di surrealista nella nuova pittura americana degli anni Quaranta – prosegue Barbero – c’è molto di più di quello che uno possa sospettare, come sviluppo, come germinazione dei semi lanciati da Breton e gli altri».

Nel Guggenheim di Vercelli, che appare come uno scrigno per la quantità e la qualità delle opere esposte in poco spazio, la mostra La nuova pittura americana si apre con un disegno di Matta del 1941. «Un’opera a mio avviso emblematica di questo legame dall’Europa all’America, un quadro – sottolinea Barbero – che verosimilmente Matta realizzò appena arrivato a New York» e che Peggy acquistò da un altro migrante illustre, Pierre Matisse (figlio di Henri Matisse). «In casa di Peggy – racconta Barbero – Matta incontra giovani come Pollock, si confronta con loro, ma anche con un altro europeo eccellente, Arshile Gorky e con il giovane Mark Rothko» Ed è in questo contesto che nascono i primi esperimenti di pittura astratta. Un termine che forse non si addice pienamente alla pittura di Pollock che al tempo stesso subiva il fascino, tipicamente americano della figurazione naturale e che non rinunciò mai a una sua oscura e primordiale simbologia «mutuata – ricorda Barbero – dalla psicoanalisi junghiana»

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Il mondo dell’arte nel 2010: ritorno alla ricerca

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 15, 2010

Mentre Parigi e Londra puntano sulla cultura per battere la crisi, il Belpaese resta al palo. Nonostante l’apertura del MaXXI e alcune mostre di pregio. Ecco lo scenario che si prospetta per il nuovo anno

di Simona Maggiorelli

Kandinsky

Lasciati alle spalle gli anni zero dell’euforia dei mercati internazionali dell’arte e, specie per quanto riguarda l’Italia, gli anni di “mostrite” acuta (che nell’ultimo decennio ha prodotto una ridda di mostre già finite nel dimenticatoio) l’anno nuovo si apre all’insegna di esposizioni che tornano ad esplorare le avanguardie storiche e l’opera dei maestri che hanno segnato importanti svolte nei due secoli passati: da Goya a Van Gogh, da Gauguin a Kandinsky a Picasso. Ma il 2010 dell’arte, in molta parte d’Europa, si annuncia anche all’insegna di un concetto chiave come la valorizzazione dei beni culturali. Solo per fare un esempio basta dire che il presidente francese Sarkozy, anche per reagire alla crisi economica, nell’anno che si è appena aperto ha in programma di realizzare un grosso processo di riforma e di rilancio del Grand Palais e della Rmn (Réunion des musée nationaux) con l’obiettivo di “fare di Parigi una delle prime sedi di mostre a livello internazionale”. E mentre Londra, con un forte rilancio delle due sedi della Tate e con il ricco programma di esposizioni dedicate alle civiltà antiche della National gallery e del British punta a scippare a Berlino il primato di capitale dell’arte contemporanea e dell’archeologia, Barcellona e Amsterdam, investono su mostre scientifiche di studio e di approfondimento dell’opera di Picasso e Van Gogh.

E nel Belpaese?

Quanto a valorizzazione del patrimonio tutto procede, purtroppo, in ben altra direzione. Dopo un anno di fortissimi tagli al Fus alla tutela e alle soprintentendenze il responsabile della neonata direzione generale della valorizzazione dei beni culturali, il super manager ex Mc Donald’s Mario Resca ha appena varato una campagna pubblicitaria in cui il Colosseo appare smontato pezzo dopo pezzo mentre il David di Michelangelo, imbracato, si invola in cielo. Sotto scorre una minacciosa scritta: “se non lo visitate lo portiamo via”. Chi ha avuto modo di viaggiare durante queste festività ha visto senz’altro modo di notare questa geniale sortita del nostro ministero dei Beni culturali che circola on line nel circuito tv dei più importanti aeroporti nostrani. Ma tant’è. Continuando a sperare che gli italiani prima o poi si decidano a dare il ben servito a questa classe politica di centrodestra che, fra le altre pensate, ha concepito anche una Spa per la cartolarizzazione e la vendita di importanti pezzi del patrimonio nazionale, nell’anno che si apre gli amanti dell’arte antica e contemporanea avranno alcuni appuntamenti per rinfrancarsi, almeno un po’. Appuntamenti dovuti- è quasi pleonastico dirlo- alla tenacia di singoli studiosi non certo alle “ politiche” di questo governo.

Man Ray nudo di Meter Hoppenheim

Fra i vari eventi pensiamo in modo particolare dalla mostra ideata da Claudio Strinati per i quattrocento anni dalla morte di Caravaggio alle Scuderie del Quirinale a Roma, ma anche della duplice rassegna dedicata a Giotto e Assisi (marzo-settembre 2010) e al cantiere della Basilica e all’arte umbra tra il Duecento e il Trecento. Ma parliamo anche e soprattutto, della definitiva apertura del MaXXI, il museo del XXI secolo disegnato da Zaha Hadid, che dopo 11 anni di gestazione e 6 di costruzione aprirà a maggio con cinque mostre: da Spazio! dedicata alle collezioni permanenti di arte e architettura alla antologica dedicata a Gino De Dominicis curata da Bonito Oliva. Per il resto in Italia si produce poco e si importa molto. Seppur non di rado con profitto, come nel caso della grande mostra dedicata ai maestri dell’arte astratta che approderà al Guggenheim di Vercelli dal 20 febbraio sotto l’egida del curatore (nonché direttore del Macro di Roma) Luca Massimo Barbero. O anche come nel caso della mostra Utopia matters, che dal primo maggio, a cura di Vivien Greene, inaugura la nuova ala museale del museo Peggy Guggenheim di Venezia.Ma pensiamo anche alla mostra Goya e al mondo moderno che si aprirà il 5 marzo al palazzo Reale di Milano con la collaborazione di Skira. In questo quadro di collaborazione fra l’editore di origini svizzere e Palazzo Reale preceduta dalla rassegna Schiele e il suo tempo che si aprirà il 25 febbraio.

Su e giù per lo stivale

Mentre a Villa Manin a Passariano di Codroipo (Udine) prosegue con successo di pubblico fino al 7 marzo la mostra L’età di Courbet e Monet. La diffusione del realismo e dell’impressionismo nell’Europa centrale e orientale il prolifico e, comunque sia, bravissimo Marco Goldin con Linea d’ombra annuncia già la mostra Munch e lo spirito del Nord, in programma sempre a Villa Manin: 40 dipinti del pittore norvegese intercalati ad altri 80 dipinti che raccontano della pittura in Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca nel secondo Ottocento.

dalla mostra aristocratic

E ancora a Parma, dal 16 gennaio Novecento arte fotografia moda design, una grande mostra che indaga il secolo passato inseguendone tutti i rivoli, grazie alle molte donazioni che gli artisti stessi hanno fatto al centro di documentazione creato da Arturo Carlo Quintavalle e Gloria Bianchino. In mostra opere di Schifano, Burri, Boetti, Fabro, Ceroli, Guttuso, Fontana, Sironi e molti altri.

Hong Kong tradional trandy

E ancora celebrando il Novecento, a Venaria reale e al museo del cinema di Torino la mostra 400 anni di Cinema: dal film paint alle lanterne magiche, in co-produzione con la Cinémathèque frainçaise di Parigi. Per quanto riguarda la fotografia, dal 29 gennaio al 5 febbraio 2010, in veste di evento off di ArteFiera 2010 di Bologna segnaliamo la proposta della rassegna Aristocratic The new experience. Una mostra che racconta un’esperienza caratterizzata da un forte desiderio di interagire con la realtà e che tuttavia porta a una trasformazione delle immagini in chiave assolutamente personale, anche attraverso la sperimentazione di nuove tecniche, strumenti e materiali.

Spagna. Dal genio di Picasso in poi

Al museo Picasso di Barcellona si indaga l’influenza cruciale che l’artista catalano Santiago Rusiñol esercitò sul giovane Picasso comparando l’opera dei due artisti dal punto di vista biografico e iconografico. Dal 15 ottobre al 16 gennaio 2011 poi il museo Picasso di Barcellona organizzerà una mostra che esplora i rapporti fra Picasso e Degas affidandola alla cura di una delle maggiori studiose dell’artista spagnolo Elizabeth Cowling dell’ University of Edinburgh. Un confronto basato sul fascino che Degas esercitò su Picasso e sul diverso uso che i due artisti fecero di pastelli pittura, scultura stampe e fotografia. Una mostra che punta a esplorare le risposte esplicite di Picasso a Degas ma anche i nessi concettuali più nascosti fra i due artisti. Al Prado,invece, nel 2010 approderà la mostra dedicata all’esplorazione della luce del romantico Turner,già passata per il Grand Palais e che mette a confronto i suggestivi paesaggi del pittore inglese con opere del XVI e XVII firmate da Brill, Carracci, Lorraine e Poussin. Intanto si lavora già a una importante mostra dedicata all’ultimo Raffaello e che sarà esposta al Prado e al Louvre nel 2012. Nell’anno che si apre ricchissimo è anche il programma del museo Guggenheim di Bilbao dove per dicembre è attesa una retrospettiva del pittore americano Robert Rauschenberg scomparso nel 2008.Ma anche e soprattutto una importante antologica dell’artista indiano Anish Kapoor,una delle personalità più sensibili e interessanti della scultura contemporanea. La mostra ricalca in parte quella organizzata dalla Royal Academy of Arts di Londra lo scorso anno e che ha avuto un notevolissimo successo di pubblico e di critica.

La grande Francia

L’anno francese si apre all’insegna di una grande rassegna dedicata alle icone sacre dei territori della Russia cristiana (dal 3 maggio al Louvre) con una mostra che scandaglia la tradizione che va dal IX al XVIII secolo.Al Centre Pompidou, da aprile a luglio Attraversando nazioni e generazioni Crossing nations and generations, Promises from the past con cinquanta artisti dall’Europa centrale e dell’Est , a più di vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino cercando di individuare continuità e punti di rottura nel lavoro delle generazioni di artisti più giovani.

E ancora, per quanto riguarda l’archeologia, in primavera al Louvre, Meroë, impero sul Nilo. Di fatto si tratta della prima mostra dedicata esclusivamente alla capitale egizia, con più di duecento reperti che raccontano dell’influenza africana egizia e greco romana che si intrecciò in questa area di 200 chilomentri a nord dell’attuale Khartoum. La capitale reale Meroë è diventata famosa nei secoli per le piramidi dei re e delel regine che dominarono la regione tra il 270 a.C e 350 d.C. Un tema quello dell’esplorazione delle civiltà antiche che ritroviamo al centro anche della mostra Strade verso l’Arabia. Tesori archeologi dall’Arabia saudita. Una mostra che permette di conoscere più da vicino la storia artistica di questo paese che a causa del regime fondamentalista che lo governa rende difficile l’accesso agli occidentali.

Sua maestà la ricerca scientifica

Senza perdere troppo tempo con gli eventi da cassetta la National Gallery punta sulla ricerca scientifica ed il restauro. Così tra le mostre più interessanti proposte dai musei inglesi per il 2010 c’è a partire da fine giugno la rassegna dedicata alle recenti scoperte riguardo ad attribuzioni e nuovi studi su opere di grandi maestri conservate alla National Gallery. Un esempio abbastanza emblematico: nel 1845, il quadro dal titolo Uomo con teschio fu attribuito a Hans Holbein. Una recente analisi dell’opera con mezzi aggiornati e scientifici ha dimostrato che l’opera risale e a un periodo successivo alla morte dell’artista.

Esplorando un altro ambito poco sotto i riflettori come quello del disegnoo antico, dal 22 aprile, sempre alla National Gallery si apre una grande mostra dedicata al disegno rinascimentale italiano, da Verrocchio a Leonardo a Michelangelo e Raffaello. Per quanto riguarda le civiltà antiche e l’arte di altri continenti, dal 4 marzo, la National ospita una grande retrospettiva dedicata alla scultura africana nigeriana che conobbe una particolare fioritura tra il XII e il XV secolo. E poi con un salto di molti secoli ancora dando uno sguardo alla fitta programmazione della Tate si segnalano nel 2010 la mostra dedicata all’avanguardia europea di Theo van Doesburg (1883-1931) protagonista del movimento olandese di artisti, architetti e designers De Stijl. Ma anche e soprattutto la retrospettiva di Arshile Gorky (1904-1948) dal 10 febbraio, in un confronto serrato con la diversa ricerca di Rothko, Pollock e de Kooning. E ancora dal 30 settembre l’antologica dedicata a Gauguin con un centinaio di opere da collezioni pubbliche e private del mondo per uno sguardo nuovo su questo maestro della modernità.

dal quotidiano Terra del 2 gennaio 2010

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