Archive for novembre 2008
Posted by Simona Maggiorelli su novembre 28, 2008
A Genova un’antologica racconta la coerenza della ricerca dell’artista italo-argentino di Simona Maggiorelli
Il grande arabesco di luce della Triennale di Milano del 1951 accoglie il visitatore all’ingresso. Ma subito si precipita nel buio di pece di “concetti spaziali” ribollenti di riflessi. Per approdare poi ai fuochi di artificio di un rosa acceso, crivellato di buchi; un rosa impossibile da trovare in natura. Nelle prime stanze dell’appartamento del doge in Palazzo Ducale a Genova opposti mondi di colore introducono all’universo prismatico dell’arte di Lucio Fontana. Poi è la volta dell’oro caldo, materico e barocco, della stanza delle “Venezie” e del rosso vivo, pulsante, delle “Attese”, percorse dal dinamismo di tagli che cambiano al mutare del nostro sguardo e a seconda dell’incidenza della luce sulle zone d’ombra che si aprono all’interno della tela, là dove è stata lacerata dai fendenti ritmici e precisi dell’artista. Fino a che il respiro si blocca in una sala di un bianco “metafisico” inviolato. Al centro, la celebre tela ovale intitolata La fine di Dio, che Fontana realizzò nel 1963. Ogni sala, una scelta monocroma. Sono il colore e la luce, come questa mostra genovese dichiara fin dal titolo a scandire il percorso di questa antologica di Lucio Fontana (aperta fino al 15 febbraio, catalogo Skira, Lucio Fontana, luce e colore). Non una più prevedibile sequenza cronologica. Una buona parte delle 130 opere raccolte dai curatori Sergio Casoli e Elena Geuna in collaborazione con la Fondazione Lucio Fontana provengono da collezioni private, ma non è solo la rarità della loro esposizione al pubblico a rendere particolarmente interessante questa retrospettiva. In anni recenti e (finalmente) di grande fortuna critica dell’artista italo-argentino sono tantissimi gli eventi a lui dedicati.
Più volte ce ne siamo occupati anche in queste pagine. Dalla grande mostra al Centre Pompidou a quella dell’estate scorsa a Londra, è stato l’aspetto eclettico, imprevedibile, dissacrante, iconoclasta dell’arte di Fontana a essere portato in primo piano. Certo, i buchi di Fontana che fecero scandalo alla Biennale di Venezia del 1950 superavano in modo rivoluzionario e dirompente la bidimensionalità del quadro, sussumendo lo spazio reale in quello artistico. Mentre i successivi ambienti spaziali sembravano alludere a una tridimensionalità che non è soltanto fisica, ma anche interiore. Ma dalle prime sculture degli anni 30 ai buchi, ai tagli, alle ceramiche, fino alle originali riletture del mito dell’opera totale negli ambienti spaziali degli ultimi anni, un medesimo e rigorosissimo filo di ricerca sembra percorrere le intuizioni e le invenzioni di Fontana. La ricerca sulla luce e sul colore sono il filo rosso, come ci racconta la mostra genovese. Ma non solo. Fontana nasce scultore e, come suggerisce Enrico Crispolti nel libro Lucio Fontana, scultore (Electa), forse fu sempre e “soltanto” scultore. Nella ricerca di una nuova spazialità, che non si esplica meramente nella realtà materiale, ma presuppone uno spazio interiore da parte dell’artista, una sua fantasia interna e più profonda che non lo porta a scolpire solo degli oggetti.
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Posted by Simona Maggiorelli su novembre 28, 2008
Con mezzi multimediali l’albanese Adrian Paci racconta l’odissea di chi è costretto a emigrare: un epos per immagini. Ad alto tasso di poesia di Simona Maggiorelli
La luce è quella accecante del deserto. Una fila di persone scruta l’orizzonte con speranza. Ma l’atmosfera è immobile. Nessun aereo solca quel tratto di cielo che le separa dal miraggio dell’Occidente. Cambio di scena. Un’imprecisata pista da atterraggio. Come se noi stessi fossimo dentro quel bramato aereo. Attraverso l’obiettivo della macchina da presa vediamo ragazzi, uomini e donne dalla pelle scura che aspettano di salire. Cogliamo ogni piccolo movimento, ogni espressione che si disegna sul loro volto. La fila lentamente avanza. Poi, d’un tratto, tutto si blocca. Il campo si allarga. Al centro della scena, un carrello aereo carico di gente. Ma il velivolo non c’è. Forse non c’è mai stato. Con questo video Centro di permanenza temporanea Adrian Paci ha vinto l’edizione 2008 della Quadriennale di Roma. Un premio che va ad aggiungersi a una lunga serie di riconoscimenti, da quando, appena trentenne, Paci debuttò sulla scena internazionale esponendo nel padiglione Albania della Biennale di Venezia del ’99. Poi sarebbero venute le altre mostre in Italia (vedi la bella monografia Adrian Paci edita da Charta), al MoMa e in giro per il mondo. L’ultima si è aperta il 25 novembre scorso a Tel Aviv. Mentre le sue foto che si fanno pitture e disegno, le sue sculture “viventi” e le sue struggenti opere di videoarte sono sempre più contese dalle gallerie. Dalla sua Adrian Paci ha una pluralità di linguaggi artistici che ha imparato a padroneggiare con destrezza già quando studiava in accademia in Albania. E una tessitura di immagini ricca di riferimenti colti alla storia dell’arte, non solo d’Occidente. Ma l’effetto finale è, spesso, di somma sprezzatura. Semplicità folgorante e una straordinaria intensità poetica sono le cifre del suo epos per immagini che ha per protagonisti i migranti di oggi.
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Posted by Simona Maggiorelli su novembre 21, 2008
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Dal 21 novembre 2008 una mostra al Guggenheim di Vercelli indaga i rapporti fra la pittura Usa degli anni 40 e il surrealismo europeo
di Simona Maggiorelli
Quasi fossero pagine del diario pittorico di Peggy Guggenheim, stralci da quella straordinaria avventura intellettuale che portò la giovane collezionista (figlia dell’industriale minerario Benjamin Guggenheim e nipote di Salomon, il fondatore del Museum of non objective painting) a innamorarsi della pittura europea e poi a dare le basi materiali alla giovane avanguardia americana. Luca Massimo Barbero ha strutturato con questa idea un trittico di mostre, concepito ad hoc per il museo Guggenheim di Vercelli. Dopo il primo “atto” dedicato agli anni europei di Peggy e all’incontro con la pittura surrealista, dal 21 novembre nelle sede lombarda del grande museo americano si squaderna il racconto della prima vera stagione moderna della pittura statunitense. A partire dagli anni Quaranta nutrita dal talento di artisti come Rothko, Gorky, de Kooning, Kline e da autori forse meno noti, ma certamente interessanti come Marca-Relli, Hofmann e Matta.
Tutti, o quasi, artisti di nascita europea e che si erano trovati a dover emigrare in circostanze più o meno tragiche nel corso del primo ventennio del Novecento. A loro si univa, tra gli altri, l’“autoctono” Jackson Pollock che Peggy Guggenheim conobbe quando lui era agli inizi della carriera e contribuendo a lanciarlo. Una parabola quella della nuova pittura americana che si compirà in un percorso fulminante. Breve e intensa quasi quanto l’attività oltreoceano di Peggy che nell’arco di sei anni, dal 1941 al 1947, portò in patria la pittura surrealista (con la complicità del marito Max Ernst) ed esportò in Europa la tendenza americana all’informale. In uno scambio biunivoco, di circolazione delle idee, interessante da seguire e che in parte spiega il transito, non sempre sano e positivo di idee e tematiche surrealiste in artisti per altri versi geniali come Rothko.
Curatore di molte importanti mostre al Guggenheim di Venezia e in procinto di trasferirsi a Roma per assumere la direzione del Macro (ma lui ridendo precisa «non ho ancora firmato alcun contratto») Luca Massimo Barbero ci fa da guida nella lettura di questo percorso delle avanguardie storiche e spiega: «In questo suo fare la spola fra i due continenti, Peggy riuscì a influenzare le avanguardie americane, fino al punto di riorientarne la direzione».
Fu lei a portare anche materialmente la proposta surrealista negli Stati Uniti. Le nuove generazioni vedono i quadri di Max Ernst, di Man Ray e degli altri loro sodali e «la nuova pittura americana nasce proprio su questa base». E non sono solo le fantasmagorie di uomini-animali del primo Rothko a documentare questo travaso di temi e figurazioni surrealiste (dalle quali fortunatamente il pittore di origini russe si separò presto per esplorare le possibilità espressive del colore) ma ancor più i primi quadri di Pollock in cui campeggiano immagini che devono molto alla pittura surrealista francese degli anni Trenta e a Mirò. E un nesso si può cogliere anche fra gli esercizi di scrittura automatica con cui Breton pensava di poter far arte e il dripping, con il quale Pollock componeva sulla tela pitture automatiche. «Ghirigori – ricorda Barbero – era il termine scherzoso con cui venivano definiti da una critica nostrana che accoglieva non senza una certa ironia i primi esempi di Action painting». Di fatto quella di Pollock, come annotava già Harold Rosenberg, si presentava esplicitamente come «una arena in cui agire», piuttosto che come un nuovo spazio di espressione artistica. E proprio riprendendo il famoso The American Action del critico americano, lo stesso Barbero nel catalogo che accompagna la mostra vercellese ricorda che «il nuovo pensiero americano dell’arte nasce come atto compulsivo», mentre quell’intreccio di linee che animava la tela di Pollock «non era un’immagine ma un evento». Ma non solo. «Di surrealista nella nuova pittura americana degli anni Quaranta – prosegue Barbero – c’è molto di più di quello che uno possa sospettare, come sviluppo, come germinazione dei semi lanciati da Breton e gli altri».
Nel Guggenheim di Vercelli, che appare come uno scrigno per la quantità e la qualità delle opere esposte in poco spazio, la mostra La nuova pittura americana si apre con un disegno di Matta del 1941. «Un’opera a mio avviso emblematica di questo legame dall’Europa all’America, un quadro – sottolinea Barbero – che verosimilmente Matta realizzò appena arrivato a New York» e che Peggy acquistò da un altro migrante illustre, Pierre Matisse (figlio di Henri Matisse). «In casa di Peggy – racconta Barbero – Matta incontra giovani come Pollock, si confronta con loro, ma anche con un altro europeo eccellente, Arshile Gorky e con il giovane Mark Rothko» Ed è in questo contesto che nascono i primi esperimenti di pittura astratta. Un termine che forse non si addice pienamente alla pittura di Pollock che al tempo stesso subiva il fascino, tipicamente americano della figurazione naturale e che non rinunciò mai a una sua oscura e primordiale simbologia «mutuata – ricorda Barbero – dalla psicoanalisi junghiana».
da left- Avvenimenti 21 novembre 2008 |
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Posted by Simona Maggiorelli su novembre 21, 2008
Durante il ’68 la rivolta dei giovani fu inquinata da “maestri” come Foucault che proponeva Freud e Heidegger come se fossero dei progressisti. Il femminismo è caduto in questa trappola di Simona Maggiorelli
Nella cultura di fine 800, quando le donne finalmente cominciarono a emergere sul palcoscenico della storia, la sessualità caotica e indifferenziata del mondo greco-romano, condannata dal cattolicesimo (in nome di un ideale di astinenza che annullava il corpo e gli affetti), ritornava negli scritti freudiani e nella sua idea di inconscio che aveva in sé un fondo limaccioso di crimine e di tragedia. La pederastia di Laio e il suo impulso figlicida avevano consegnato Edipo a un destino di colpa per l’amore esclusivo della madre. Freud si identificò con Edipo. Ma soprattutto con Laio quando disse che i bambini vengono al mondo morti, cioè narcisisti, uccisi da quel pensiero che annulla la trasformazione che avviene alla nascita.
Non a caso nel famoso sogno di Irma, con l’immagine delle placche di pus in gola, Freud riattualizza nel linguaggio pseudoscientifico della psicoanalisi la condanna cattolica del desiderio ritenuto malattia organica e incurabile. Similmente nel caso Schreber Freud dice che la causa della psicosi era stata una «fantasia erotica femminile» mentre il «tenero impulso passivo» dell’Uomo dei lupi diventava un segno di perversione.
Lungo tutto il 900 le avanguardie dadaiste e surrealiste, che si illudevano di poter sfruttare a scopi creativi la dissociazione freudiana, esibivano una sessualità ambigua e indifferente non disdegnando, come nel caso di Duchamp, il travestitismo. Apparentemente amanti di belle donne, Man Ray e compagni fecero di Kiki de Montparnasse un’icona patinata e senza movimento “spingendola” nel suicidio di alcol e droghe. Durante il Sessantotto la rivolta dei giovani cercherà di portare alla luce quanto la psicoanalisi aveva sepolto nell’inconscio.
La spinta verso una “rivoluzione sessuale”, la critica della famiglia presa da Reich, la rivolta affrontata senza identità e senza una valida teoria scientifica, libererà perversione e pazzia. Lo stesso epigono di Freud, Wilhelm Reich, finirà dietro le sbarre di un carcere. Un altro maestro del ’68, Foucault si fece apologeta della pedofilia e portò nella rivolta giovanile la mela avvelenata dell’«essere per la morte» di Heidegger. Mentre Deleuze, l’autore dell’Antiedipo e delle «macchine desideranti», finirà suicida. In questa congerie culturale la psicoanalisi (di cui la Sinistra fin lì poco si era interessata) fu spacciata per una pratica rivoluzionaria.
Marx veniva accostato a quel Freud che parlava di inconscio perverso, filogeneticamente ereditato, che negava ogni possibilità di trasformazione psichica. Di questa frode, purtroppo, furono vittime e insieme complici i movimenti femministi che nella psicoanalisi contaminata con le pratiche di autocoscienza cercavano una liberazione delle donne. Pensatrici e psicoanaliste come Julia Kristeva e Luce Irigaray sono state le teoriche di questo tipo di pensiero scrivendo, sulla scorta di Lacan, della impossibilità di vivere il desiderio e negando qualunque possibilità di rapporto fra donna e uomo. Vestali del dolore hanno rinchiuso le donne in una diversità irriducibile che rischia di diventare autistica.
In anni più recenti poi, una ulteriore e ancora più distruttiva deriva del femminismo: assumendo l’orizzonte che propone la statunitense Judith Butler in libri come La disfatta del genere (Meltemi) le femministe che si legano al movimento lesbico arrivano a proporre come liberazione delle donne l’annullamento della propria identità, frantumata e disciolta nel transgender. Forse nemmeno il logos occidentale e il Cristianesimo sono riusciti ad arrivare a tanto.
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Posted by Simona Maggiorelli su novembre 21, 2008
Eva Cantarella: «Virilità per l’uomo romano significava solo essere sessualmente attivo, con donne o ragazzi» di Simona Maggiorelli
Eros per i greci era un dio armato. La passione causata dalle sue frecce, era spesso mortale. «Eros, quel fabbro, con un grande maglio di nuovo mi ha colpito, nel torrente invernale mi ha tuffato» scriveva Anacreonte nei versi per un giovinetto di cui si era invaghito. La polis greca era fondata sulla pederastia. E dai maschi adulti era considerato addirittura un compito civile “forgiare” in questo modo i ragazzi dai 12 ai 17 anni. «Di un dodicenne mi godo il fiore, se ha 13 anni più forte il desiderio sento», scriveva ancora Stratone nel II secolo d.C.. La pedofilia era pratica “normale”. Fin dai tempi di Socrate e di Sofocle. Con buona pace di Santippe e Nicarete. Della superiorità dei rapporti con i ragazzi discettavano Teognide, Plutarco, Protogene e molti altri pensatori della Grecia antica. E rare erano le voci che si levavano contro. Fra queste quella di Dafneo ma solo perché avere rapporti con donne assicurava una stirpe, come scrive Eva Cantarella ne L’amore è un dio (Feltrinelli): «L’amore etero non finalizzato alla procreazione non veniva nemmeno preso in considerazione» e «il rapporto fra due persone dello stesso sesso non solo non era riprovato, ma era socialmente valorizzato». Così anche fra i Romani. Come in Grecia le mogli erano obbligate alla fedeltà, mentre i mariti si concedevano liberamente rapporti extraconiugali. Nella Pompei delle terme, dove affreschi, mosaici e iscrizioni sopravvissuti all’eruzione del 79 d.C. ci raccontano il mondo dell’eros e della prostituzione, i più ricercati e pagati dai Romani erano i ragazzi. «L’unica restrizione per loro era il rispetto rigoroso della regola dell’“attività”» nota Cantarella. Virilità per l’uomo romano significava assunzione di un ruolo sessualmente attivo, non importava se con donne o con uomini. Donne e ragazzi erano ugualmente considerati passivi. Di fatto l’identità maschile greco-romana era per stupro, per annullamento della diversità e dell’identità femminile. E se nei miti più antichi il femminile era individuato con l’ambiguità della Sfinge, metà uomo metà animale, mentre sibille e profetesse lasciano pensare a una non ancora completa messa al bando del mondo irrazionale, la nascita del logos occidentale avvenne con un silenzioso assassinio del mondo interiore delle donne e dei bambini. Le tragedie classiche non a caso ci parlano del sacrificio di Ifigenia, la ragazzetta immolata dal padre agli dei. Ma ci dicono anche del desiderio cieco di Fedra che paga con la morte l’amore per il giovane Ippolito, bello e indifferente. A lui Euripide affida una delle più feroci invettive contro le donne: «Zeus perché hai messo tra gli uomini un ambiguo malanno portando le donne alla luce del sole… meglio sarebbe stato, per gli uomini, poter comprare il seme dei figli e poter vivere senza donne in libere case… possiate perire!». Ippolito si augura un mondo di tutti uomini, da tenere in piedi con le protesi della tecnica e del denaro. Se l’identità maschile è razionale e scissa, e annulla ogni dimensione affettiva, il bambino e la donna non sono più considerati esseri umani. E i neonati si potranno buttare giù dalla rupe di Sparta. Poi verranno gli anatemi di Paolo di Tarso a sancire la definitiva condanna della donna. E quella identità maschile solo razionale, che il pater familias agisce come controllo sulle donne, si salda con i dogmi della religione. Una religione cristiana che fa ammalare. In primis la donna, perché la vuole vergine e madre, espropriandola del corpo, degli affetti, avendola ridotta a icona esangue. Nella terribile morsa di fede e ratio, il desiderio femminile che si esprime nel movimento fluido del corpo diventa il Male, la seduzione demoniaca per antonomasia. Perché il desiderio la porterebbe a cercare un rapporto irrazionale con l’uomo. Un rapporto con il diverso da sé, necessariamente dialettico ma anche potenzialmente creativo, al di là del fare figli. Ma per la Chiesa realizzare a pieno la propria identità più profonda, diversissima di uomo e di donna, è il massimo peccato. Perché nel rapporto si realizza una trasformazione psichica che sgombra il campo da ogni trascendenza.
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Posted by Simona Maggiorelli su novembre 14, 2008
Il vero volto del sogno americano. In trent’anni di scatti la denuncia di Diane Arbus di Simona Maggiorelli

diane Arbus
Qualche anno fa la bella e algida Nicole Kidman si calò nei suoi panni. Diretta da Steven Shainberg, nel film Fur – Un ritratto immaginario di Diane Arbus, l’attrice australiana fece rivivere sul grande schermo la vicenda tormentata della fotografa polacca Diane Nemerov che, benché attanagliata dalla depressione, fu capace di vedere e raccontare da artista quel che di malato si celava nel fondo di certi miti americani. Dopo anni passati a lavorare per riviste di moda, la Nemerov (in arte Arbus), realizzò una serie di drammatici ritratti entrati a pieno titolo nella storia della fotografia del Novecento. Nella serie di scene in bianco e nero – che a 25 anni dalla loro prima pubblicazione ora tornano nella prima edizione italiana della monografia Diane Arbus. Una monografia Aperture (Photology) – coppie borghesi anni Sessanta e poi freak anni Settanta: dietro l’apparente armonia casalinga o dietro l’euforia della festa, un terribile vuoto. Dietro una galleria felliniana di ritratti da circo, la denuncia della feroce macchina dello spettacolo americana che riduce le persone a presenze caricaturali. Dentro i suoi ordinati interni borghesi, comici alberi di Natale dalla cima mozzata e ficcati a forza fra le pareti, insieme a un mondo di cartoline che tramutano paesaggi reali in scenari posticci, alla Disney. Ma fra tutte la foto che più colpisce è forse quella, celebre, delle due gemelline, da cui Stanley Kubrick prese ispirazione per il suo Shining. Inquietanti non per la somiglianza fisica, ma forse per quello sguardo che si fa da subito metafora della mostruosità di due menti gemelle che, come automi, si fanno specchio. C’è qualcosa di metallico nel loro sguardo come poi in quelle voci che Kubrick al cinema ci farà udire. E sono i momenti più ficcanti, più perspicaci, della Arbus nell’uso della fotografia. Poi, l’aspro desiderio di voler mettere a nudo la violenza, di denunciare la falsità del sogno Usa, quando la malattia avrà la meglio, la porterà a registrare solo corpi nudi, deformi, distrutti. Persa ogni vitalità di sguardo, Arbus riuscirà a raccontarci solo una pesantezza fisica senza più darci tracce del vissuto interiore. Poi nel 1971, a 48 anni, quando era già una fotografa conosciuta e ammirata, il suicidio. «L’uso della macchina fotografica ci rende meno gentili di come siamo di solito – diceva Arbus in un’intervista proprio in quel 1971 -. È un po’ fredda, un po’ severa. Ora non sostengo che tutte le fotografie debbano essere spietate… tuttavia compiere questa analisi vuol dire, in un certo senso, non eludere la realtà dei fatti, non ignorare il vero aspetto delle cose». E aggiungeva: «Quello che cerco di spiegare è che è impossibile mettersi nei panni degli altri. Questo è più o meno tutto il senso del discorso. La tragedia degli altri non è mai uguale alla propria». Restano le sue foto, e in piccola parte le pagine della biografia che Patricia Bosworth le ha dedicato, a raccontarci invece del suo coraggio nello sfidare le convenzioni «sovvertendo il concetto di bello e brutto» ma anche innovando la fotografia.
dal settimanale Left 46/08
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Posted by Simona Maggiorelli su novembre 14, 2008
Censurato negli Usa, il libro sulla storia della sposa-bambina di Maometto, continua a far discutere. Ecco il punto di vista dell’autrice, Sherry Jones
Volevo far conoscere A’isha al pubblico occidentale. Perciò ho scritto A’isha, l’amata di Maometto, (Newton Compton). Mi offende che i libri di storia raccontino solo di battaglie, mentre il contributo delle donne alla storia è ignorato. Anche per questo mi sono appassionata alla vicenda di A’isha che, ragazzina, ha visto il suo destino scritto dal padre e poi da Maometto. Cresciuta per essere un leader politico forte, intelligente, esperta di teologia e di strategia militare, sapeva recitare più di mille poemi. Di lei mi è sempre piaciuta la franchezza, l’intelligenza con cui sfidava anche Maometto. Ho ammirato il suo coraggio, la determinazione nella lotta per ciò in cui credeva. Prima di scrivere ho letto una trentina di libri su Maometto e l’islam, sulle sue 12 mogli e concubine, sulla cultura araba medievale e molto altro. Mi ha fatto piacere che uno studioso come Stefan Weidner abbia trovato il mio libro estremamente accurato sotto il profilo storico, ma anche rispettoso della tradizione islamica. Secondo la studiosa marocchina Fatima Mernissi, Maometto è stato un campione dei diritti delle donne nei suoi primi giorni a Medina. Le donne dettero un contributo vitale alla vita della prima Umma, pregavano accanto agli uomini nella moschea e consigliavano Maometto. Lui fece riconoscere il loro diritto all’eredità; diritto che in America le donne non hanno avuto fino al XX secolo. Ma i suoi successori non apprezzarono questi cambiamenti. Preferivano un mondo dove gli uomini comandavano e le donne obbedivano. Maometto dovette scendere a compromessi. Dopo la sua morte i seguaci invasero l’impero bizantino e videro che le cristiane delle classi più alte vivevano recluse e con il volto velato, come nella Grecia antica. Molti aspetti della cultura bizantina e di quella persiana furono assimilati da quella islamica dopo queste invasioni e l’organizzazione più egualitaria inaugurata da Maometto fu obliata. L’abitudine al velo – le cui origini sono indagate nel romanzo – fu importata dai cristiani, come ha ricostruito anche la storica Karen Armstrong. La reclusione femminile o altre forme di oppressione, a mio avviso, non sono uno specifico islamico, ma un dato culturale più ampio. Il predominio maschile non è una novità. Resta il fatto che noi sappiamo di A’isha molto di più di quanto sappiamo, per esempio, di Maria, la madre di Gesù. A’isha ha una sua voce, è udibile nell’hadith. Maria non ha voce. Maria Maddalena è un’altra donna di cui sappiamo poco. Nell’antico testamento ci sono personalità femminili forti come la regina di Saba. Che le loro storie non vengano raccontate è un altro esempio di come la voce delle donne sia ostracizzata dal discorso maschile. Da parte mia non ho mai pensato di scrivere il libro “definitivo” su A’isha. Offro solo un’interpretazione della storia. Quelli che si sono infuriati scrivano la propria versione. Le leggerò tutte. Dalla controversia sul mio libro ho capito una cosa: le persone vedono quello che vogliono vedere e credono quello che vogliono credere… Mi fa male vedere che c’è chi usa il mio lavoro per giustificare le proprie posizioni fondate sull’odio. E questo vale per tutti, non solo per i musulmani. Alcuni di loro reagiscono con rabbia al mio libro prima di averlo letto. Li sconvolge che un’occidentale, non musulmana, abbia scritto questa storia. Ecco un’altra forma di razzismo. In questi giorni abbiamo letto la storia di un’altra A’isha barbaramente lapidata in Somalia. Quando gli uomini creano dio a loro immagine e somiglianza, le donne sono automaticamente declassate a esseri inferiori. Lo dico sempre a mia figlia che i prepotenti, i violenti stanno male dentro. La terribile storia di A’isha in Somalia ecco che cosa può accadere se gli uomini negano e distruggono dentro loro stessi tutto ciò che è femminile. (testo raccolto da Simona Maggiorelli)
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Posted by Simona Maggiorelli su novembre 7, 2008
Critico, curatore ma anche direttore della più grande Fiera del contemporaneo. Da New York a Torino. L’irresistibile ascesa di un ex enfant prodige in controtendenza con la “fuga di cervelli” di Simona Maggiorelli

Andrea Bellini
Nell’Italia della diaspora dei cervelli, ma anche dei talenti (visto il numero crescente di giovani artisti e curatori “in fuga” a New York o a Londra) quella di Andrea Bellini è una storia contro corrente. Dopo il lavoro nella Grande Mela come editor di Flash art e anni trascorsi a studiare e a scrivere in giro per il mondo, Cina compresa, il trentasettenne, ex enfant prodige della critica ha accettato la scommessa del rientro in Italia. E con profitto, si direbbe. Dal momento che, dal 7 al 9 novembre, firma la sua seconda edizione di Artissima, la più importante fiera italiana del contemporaneo, mentre si parla di lui come probabile nuovo direttore del Castello di Rivoli, al posto di una curatrice di rango come Ida Gianelli, giunta a fine mandato. Due lavori, quello di critico-curatore e quello di direttore di una mostra mercato, di fatto agli antipodi. Ma Bellini giura, non inconciliabili. «Io concepisco Artissima come un’avventura intellettuale – racconta -. Le fiere d’arte sono diventate ormai degli eventi complessi. Con un pubblico di artisti, critici d’arte, curatori, direttori di musei, giornalisti e semplici appassionati, non solo di collezionisti. Una fiera di alto livello ha una capacità informativa senza uguali per l’arte contemporanea. A Torino, per esempio, ospitiamo oltre 130 galleristi da diversi continenti: un centinaio di grandi esperti d’arte che perlustrano il mondo di oggi alla ricerca dei migliori talenti. In Fiera il pubblico entra in contatto con l’arte nel suo farsi, con un processo culturale in atto. Insomma, non ho mai pensato di dover abbandonare qualcosa del mio giudizio critico o dell’aspetto culturale del mio lavoro. Anzi. Nella gestione di Artissima cerco di attingere a tutte le mie competenze e a tutta la mia creatività per trasformare la Fiera in un luogo di scoperta e di sorpresa.
Achille Bonito Oliva dice che i curatori sono diventati dei “camerieri” al servizio delle attese del pubblico e della spettacolarizzazione, abbandonando l’impegno critico. Come ci si salva da questa deriva in tempi di “mostrite” ovvero d’inflazione di mostre a scarso contenuto scientifico?
Guardi, i curatori sono i veri protagonisti del sistema dell’arte, altro che camerieri delle aspettative del pubblico. Quando si costruisce una mostra non si abbandona affatto l’impegno critico. Al contrario, una buona mostra dovrebbe rappresentare proprio uno “statement” in termini di critica d’arte. Se per abbandono del giudizio critico lei intende l’abbandono di un certo tipo di scrittura saggistica, falsamente colta e pseudo-creativa, penso che sia un bene che stia sparendo. Per quanto riguarda la “mostrite” (ecco un caso di spettacolarizzazione del linguaggio) non dimentichiamo che il sistema dell’arte è almeno cento volte più grande che negli anni Sessanta. Ovviamente ci sono oggi più artisti, più opere, più fiere, più curatori e più mostre, ma dov’è il problema? Chi può decidere a priori la grandezza ideale del sistema dell’arte?
In tempi di crisi economica quali scenari intravede?
La crisi si farà sentire presto anche sul mercato dell’arte, ovviamente con delle differenze. Le fiere che hanno costruito parte del loro successo sul denaro degli speculatori di borsa ne risentiranno maggiormente. Non è il caso di Artissima, perché è sostenuta da collezionisti – tra cui molti italiani – che magari non investono cifre enormi sull’arte ma possono farlo con costanza. Si tratta di professionisti o anche di piccoli e medi imprenditori, veri conoscitori d’arte contemporanea.
Quali differenze ci sono fra il sistema dell’arte italiano e quello internazionale?
Fondamentalmente c’è una differenza di dimensioni e quindi di complessità.
In Italia gli studenti denunciano un sistema scolastico al collasso che impedisce una formazione adeguata. E intanto 1.300 milioni di euro saranno sottratti dalla Finanziaria alla cultura. Che ricadute ci saranno?
Ricadute pesanti. Questo governo ci preoccupa molto, esprime un atteggiamento nei confronti della cultura da Repubblica delle banane.
Che cosa ha significato per lei lavorare, da giovanissimo, nella redazione di Flash Art a New York?
Essere redattore di un’importante rivista d’arte a New York per diversi anni mi ha dato la possibilità di confrontarmi con decine di critici, curatori e artisti, e poi di visitare centinaia di mostre al mese, un’esperienza intellettuale e visiva veramente straordinaria. Direi che ho imparato tutto in quella fase.
Dopo la laurea in filosofia si è dedicato allo studio dell’arte, anche preistorica. Che cosa l’ha affascinata?
Sono interessato a tutta la cultura visiva dell’umanità: sono convinto esista una strettissima relazione tra lo sviluppo cognitivo della specie e la parallela creazione di immagini. Studiare archeologia preistorica e la cosiddetta “arte preistorica” mi ha aiutato a capire meglio il senso della nostra presenza nel mondo.
La grande arte ha tempi interni di sedimentazione, va oltre il presente, che cosa resterà negli anni a venire del lavoro di personaggi come Damien Hirst e dei suoi animali in formalina, che anche fisicamente si stanno già squagliando?
Damien Hirst è già nella storia dell’arte. Ha realizzato lavori fondamentali legati ai temi eterni dell’umanità: la morte, la felicità, la bellezza e forse anche la speranza.
Tra ricerca e mercato, per lei, non c’è nessuna discrasia?
La ricerca ha sempre un mercato. Da sempre le opere più importanti esprimono un valore per la comunità culturale, e quindi hanno un prezzo. Giotto nella Firenze del 1300 era un artista di successo, ricco e rispettato. Come oggi Damien Hirst. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a due artisti che hanno fatto ricerca, sono entrati nella storia dell’arte e sono stati contesi dai collezionisti (dai grandi committenti religiosi nel caso di Giotto).
Cinema e videoarte aprono nuove frontiere nell’arte contemporanea?
L’arte va in tutte le direzioni e utilizza tutti i media possibili, quindi li rinnova costantemente: non esistono in questo senso barriere o linguaggi esauribili.
Il predominio sulla scena internazionale dei musei americani e anglosassoni sembra andare di pari passo con il predominio internazionale di un’arte iperrazionalista, analitica, tecnologica, “puritana” e insieme iperrealista come la cloaca di Wim Delvoye. Nel sistema del contemporaneo sono rare le tracce di una fantasia più profonda?
Guardi io non sono affatto d’accordo. Il sistema dell’arte su scala mondiale è molto complesso, e al momento sono molto importanti anche spazi espositivi a Parigi e Berlino solo per fare qualche esempio. Poi non è assolutamente vero che nel sistema contemporaneo non ci sono tracce di una fantasia più profonda: le assicuro che – per quanto riguarda l’arte – questo è uno dei momenti più straordinari e interessanti che l’umanità abbia mai vissuto. Basta aprire gli occhi e le orecchie.
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