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Se la scultura ritrova la sua aura

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 2, 2011

In Spagna e in Germania due nuove realizzazioni di Anish Kapoor, in un vitale incontro fra Oriente e Occidente di Simona Maggiorelli

anishkapoorUno specchio ibridato riflette un paesaggio rovesciato. Mettendo sottosopra cielo e terra. Dalla sua superficie concava inonda il paesaggio circostante di riflessi rossi, grigi e blu notte, che variano al mutare della luce e delle stagioni. Come un occhio aperto al centro del convento di Santa Clara, Islamic mirror dello scultore anglo-indiano Anish Kapoor offre uno sguardo inedito su questa possente struttura che si erge in mezzo a zone semidesertiche dell’Andalusia: sede di un califfato islamico, con l’arrivo dei conquistatori castigliani, divenne un convento. Ora che i lavori di restauro hanno riportato alla luce l’antica struttura islamica, fra chiostri, vasche e giardini, qui è nato un museo di arte islamica. E sotto i porticati della Sharq al-Andalus hall, Kapoor ha fatto incontrare le diverse tradizioni di Oriente e Occidente, realizzando questa nuova installazione che – come spesso è accaduto nel suo lavoro – vive di una vitale ibridazione fra culture diverse. Evocando con questa superficie specchiante, percorsa e ritmata da figure esagonali, la segretezza di antichi harem ma anche la violenza della segregazione claustrale. «In un momento in cui da più parti si agitano i fantasmi del fondamentalismo religioso e del terrorismo globale realizzare in un convento un’opera intitolata “Specchio islamico”, da qualcuno, potrebbe essere giudicata una provocazione – nota Rosa Martìnez, curatrice della mostra -. Ma una delle cose buone della globalizzazione è che ci costringe a essere assai cauti riguardo a un’idea unica e incontrovertibile di verità rivelata. Per me, per esempio, l’unica verità è il diritto degli esseri umani di vivere e lottare per la propria felicità e realizzazione». E poi  aggiunge: «Come trovare nuovi modi di vivere insieme, oggi questa è la domanda. Accettare la differenza e la dialettica è centrale. E in questo l’arte aiuta. Perché crea delle micro-trasformazioni». Come quella che Kapoor mette in atto sovvertendo la visuale di questo convento andaluso. Ma un cambiamento radicale è anche quello che avviene in questi giorni al Guggenheim di Berlino grazie alla suggestiva installazione di Kapoor dedicata alla memoria. E un analogo discorso si potrebbe fare anche per Cloud gate, la gigantesca scultura a forma di fagiolo, al centro del Millennium park di Chicago: con la sua superficie specchiante cattura l’immagine dei passanti all’interno dell’opera  rimodulando, così, tutto l’ambiente circostante.

a-kapoor-blood-solid-2000In trent’anni di lavoro l’intervento negli spazi pubblici è stato sempre una costante nel percorso di Kapoor, che negli anni 80 cominciò a disseminare per le capitali del mondo forme colorate e lucenti, che esplorano gli opposti luce-buio, pieno-vuoto, maschile- femminile. Evocando forme ancestrali come potrebbero essere sculture primitive, le opere di Kapoor si ergono come forme astratte, simboliche, magnetiche. Ma a differenza delle sculture dell’arte minimalista che hanno dominato la scena internazionale negli anni 80 e 90, appaiono come forme dinamiche, percorse da un movimento interno. Perfino quando si tratta di sfere perfette (ad esempio Turning the world inside out del 1995) la superficie della scultura appare percorsa da una tensione positiva, vibrante. Il fascino delle opere di Kapoor – pietre che rivelano segrete aperture, specchi concavi rosso sangue, cumuli di intenso colore che disegnano forme attraversando porte e spazi architettonici, sculture friabili di puro pigmento – forse sta proprio in questa “energia” che sembra promanare dall’interno.

95kapoortrngthwrldinsdout-sDiversamente dalla gran parte della produzione artistica contemporanea improntata a un arido razionalismo, le sculture di Kapoor appaiono dotate di una speciale “aura”. Di un potere evocativo. Lo si avverte in particolare nelle opere degli anni 90 in cui l’artista, superate dicotomie e scissioni, riesce a evocare un sentire interno, ad aprire spazi di fantasia a partire dalla materia e dalla sensualità delle forme modellate dalle sue mani. Opere astratte, ma che non hanno nulla del freddo e rigido schematismo della minimal art di marca americana, da Serra a Judd allo stesso Morris. Forse proprio perché da artista Anish Kapoor non perde mai di vista l’umano. Per meglio dire, il corpo e l’immagine femminile sembra essere quell’invisibile che dà segretamente forma a molte delle sue opere. Sculture dalle linee morbide, dalla superficie levigata e “sensibile” come la pelle, indagata come diaframma che mette in relazione la realtà esterna e un sentire interno. Left 01/08

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Costantinopolitismo

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 10, 2010

di Simona Maggiorelli da Istanbul

Istanbul

Per una iniziativa partita dalla società civile un gruppo di intellettuali turchi nel 1999 perorò la causa di Istanbul capitale europea della cultura ricevendo un secco no dalla Ue dal momento che la Turchia non ne fa parte. Ma quella proposta partita dal basso, sul lungo periodo, ha dato i suoi frutti e il 16 gennaio Istanbul avrà la sua incoronazione ufficiale come capitale del 2010. La cultura in questo caso ha preceduto la politica. Dimostrandosi più sensibile e lungimirante nel preconizzare un allargamento dell’Europa che significherebbe anche riconoscerne le radici multiculturali e, dal punto di vista delle religioni, certamente non solo cattoliche ma anche islamiche e chissà – di questo passo, ci auguriamo – anche pagane. Da parte sua la capitale turca punta a festeggiare l’atteso evento con una ridda di appuntamenti internazionali di arte, letteratura, musica, danza e perfino di cucina e di moda.

Se ne è avuto qualche assaggio già durante le recenti festività, in una Istanbul che da alcune settimane insolitamente inonda di luci il mare scuro e profondo del Bosforo. Una Costantinopoli degli anni Duemila animata più che mai di locali, di feste e di concerti improvvisati a ogni angolo di strada, secondo la tradizione zingara più intima e seducente della città. Ma anche una capitale piena di cantieri aperti per restauro di monumenti simbolo come il Ponte di Galata sul Corno d’Oro e per la costruzione di nuovi centri culturali come il Museo dell’innocenza che il premio Nobel per la letteratura Ohran Pamuk ha fondato a pochi metri dalla sua casa-studio nello storico quartiere di Cihangir, traducendo in realtà una fantasia del protagonista del suo ultimo omonimo romanzo. E ancora per le centinaia di migliaia di turisti che durante le feste di capodanno hanno letteralmente preso “d’assalto” la metropoli (in tutto il 2009 sono stati 7,5 milioni e se ne attendono più di 10 milioni nel 2010) si aprono grandi mostre dedicate all’arte della Persia antica e ai rapporti fra Venezia e l’impero ottomano, mentre sfodera tutti i suoi gioielli lo storico Topkapi, che per secoli, con il suo dedalo di sale per consigli politici (divan), giardini con fontane, harem, ha fatto da palazzo pubblico e privato dei sultani ottomani. Intanto sul pontile di Galata pescatori di ogni età continuano a prendere all’amo pesci messi in fuga dal passaggio delle navi, per le strade del vecchio quartiere di Sultanahmet strillano i venditori di ciambelle, i gatti dormono sui tappeti in vetrina e la voce del muezzin continua a scandire le ore di preghiera in questa megalopoli (che dagli anni Cinquanta a oggi è passata da poco più di un milione di abitanti agli attuali 12 milioni) in cui da sempre convivono differenti culture e religioni e dove oggi fiere ragazze con la minigonna sfrecciano per le vie di Beyoglu accanto a donne velate. Una mescolanza singolare, non solo di culture turche, arabe, greche, armene, curde, come racconta la scrittrice turca Elif Shafak ne La bastarda di Istanbul (Rizzoli) e nel suo nuovo romanzo ma anche una particolarissima coesistenza di antico e moderno, di inerzia e movimento continuano a essere la cifra più vera di questa Bisanzio del nuovo millennio. Così il Museo di arte moderna, nato cinque anni fa, con il suo giardino di sculture in acciaio colorato si inserisce nello scosceso panorama di viuzze del quartiere di Cihangir (quello di Pamuk appunto), dominato da una svettante moschea. E in Santa Sofia una Madonna bizantina campeggia accanto a versetti del Corano.

Istanbul by night

Compresenze di Oriente e di Occidente che fanno il fascino sottile di questa capitale della cultura che, unica al mondo, si stende su due continenti. Una città che sul versante occidentale come sul quello asiatico continua a crescere in orizzontale, disinvoltamente senza centro, come volesse procedere all’infinito. Nei quartieri della parte più europea, palazzoni di cemento e piccole case di legno si ergono fianco a fianco, giocandosela in solitario nel conquistare un proprio posto in uno skyline “creativo”, gaddianamente «patrufaziano». Istanbul – e questo è parte della sua magia – trova anche il modo di far convivere il razionalismo dell’edilizia anni Settanta con il romanticismo delle vecchie Yali in legno, residenze di villeggiatura sul Bosforo della buona borghesia turca. Alcune sopravvivono come se il tempo non fosse passato, altre anche in mezzo all’abitato appaiono drammaticamente spanciate e ridotte a macerie da incendi e terremoti. Come quello, devastante, che colpì Istanbul nel 1999 causando più di 30mila morti. La città turca, di fatto, sorge su una faglia simile a quella californiana senza mai essersi dotata di adeguata edilizia anti sismica. E come scrive lo stesso Pamuk nel libro Altri colori (Einaudi) non c’è cupola o minareto qui che, nei secoli, non sia stato ricostruito almeno una volta. «Compresi quelli che ai nostri occhi hanno sempre rappresentato la continuità ottomana nei secoli». Comprese anche le magnifiche moschee del più importante architetto ottomano, Sinan (1489-1588), che punteggiano la città di monumentali cupole finemente decorate all’interno con ceramiche dipinte e con un complesso lessico aniconico. I fondi che il governo di Ankara è riuscito a racimolare grazie al fatto che Istanbul sia stata riconosciuta capitale europea 2010 serviranno in larga parte proprio a questo, a fare lavori di restauro e di consolidamento dei molti tesori d’arte che Istanbul possiede. Ma la faccenda potrebbe in realtà essere più complicata. Sui giornali turchi, infatti, nei mesi scorsi si è accesa una violenta polemica sulla gestione delle celebrazioni da parte dell’agenzia turca Istanbul 2010 european capital of culture. Nell’ufficio del suo segretario generale Yilmaz Kurt sono passate più di duemila proposte di progetti culturali dei quali ne sono stati selezionati 467 da spalmare durante tutto l’arco dell’anno. Fra questi, il restauro di Santa Sophia e di Palazzo Topkapi, ma anche progetti di festival cinematografici e di concerti di rockstar come gli U2. Il tutto con un budget che si aggira sui 375 milioni di lire turche. Metin Karada, noto architetto e segretario dell’Ordine, in più di un’intervista ha detto che l’Agenzia ha una struttura caotica e la suddivisione dei fondi «non è trasparente».

santralistanbul

Ma ci sono state anche altre accuse di corruzione e di mala gestione. Che a oggi però non sono state ancora provate. «Sull’Agenzia si sono fatte molte chiacchere – ha commentato il ministro della Cultura e del turismo Günay al quotidiano Daily News -. In realtà molti progetti sono stati rifiutati perché molto costosi oppure perché giudicati inadeguati, e questo ha generato malcontento fra chi li aveva avanzati». Di fatto, forte è stato lo scontento nel mondo dell’arte contemporanea per la selezione dei progetti. Un mondo che però a Istanbul vive da più di una decina di anni una stagione vivacissima. Basta dare uno sguardo a Santralistanbul (www.santralistanbul.com), uno straordinario reperto di archeologia industriale (si tratta della prima centrale elettrica dell’impero ottomano costruita nel 1911) trasformato da tre anni a questa parte in un cantiere internazionale d’arte dove si incontrano differenti linguaggi delle arti visive, della musica, della danza. Oppure al Museo di arte moderna o alla storia della lanciatissima Biennale di Istanbul, nata nel 1987. La vera movida di Istanbul abita qui. E continua a crescere da più di una decina di anni. er una iniziativa partita dalla società civile un gruppo di intellettuali turchi nel 1999 perorò la causa di Istanbul capitale europea della cultura ricevendo un secco no dalla Ue dal momento che la Turchia non ne fa parte. Ma quella proposta partita dal basso, sul lungo periodo, ha dato i suoi frutti e il 16 gennaio Istanbul avrà la sua incoronazione ufficiale come capitale del 2010. La cultura in questo caso ha preceduto la politica. Dimostrandosi più sensibile e lungimirante nel preconizzare un allargamento dell’Europa che significherebbe anche riconoscerne le radici multiculturali e, dal punto di vista delle religioni, certamente non solo cattoliche ma anche islamiche e chissà – di questo passo, ci auguriamo – anche pagane. Da parte sua la capitale turca punta a festeggiare l’atteso evento con una ridda di appuntamenti internazionali di arte, letteratura, musica, danza e perfino di cucina e di moda. Se ne è avuto qualche assaggio già durante le recenti festività, in una Istanbul che da alcune settimane insolitamente inonda di luci il mare scuro e profondo del Bosforo. Una Costantinopoli degli anni Duemila animata più che mai di locali, di feste e di concerti improvvisati a ogni angolo di strada, secondo la tradizione zingara più intima e seducente della città. Ma anche una capitale piena di cantieri aperti per restauro di monumenti simbolo come il Ponte di Galata sul Corno d’Oro e per la costruzione di nuovi centri culturali come il Museo dell’innocenza che il premio Nobel per la letteratura Ohran Pamuk ha fondato a pochi metri dalla sua casa-studio nello storico quartiere di Cihangir, traducendo in realtà una fantasia del protagonista del suo ultimo omonimo romanzo. E ancora per le centinaia di migliaia di turisti che durante le feste di capodanno hanno letteralmente preso “d’assalto” la metropoli (in tutto il 2009 sono stati 7,5 milioni e se ne attendono più di 10 milioni nel 2010) si aprono grandi mostre dedicate all’arte della Persia antica e ai rapporti fra Venezia e l’impero ottomano, mentre sfodera tutti i suoi gioielli lo storico Topkapi, che per secoli, con il suo dedalo di sale per consigli politici (divan), giardini con fontane, harem, ha fatto da palazzo pubblico e privato dei sultani ottomani. Intanto sul pontile di Galata pescatori di ogni età continuano a prendere all’amo pesci messi in fuga dal passaggio delle navi, per le strade del vecchio quartiere di Sultanahmet strillano i venditori di ciambelle, i gatti dormono sui tappeti in vetrina e la voce del muezzin continua a scandire le ore di preghiera in questa megalopoli (che dagli anni Cinquanta a oggi è passata da poco più di un milione di abitanti agli attuali 12 milioni) in cui da sempre convivono differenti culture e religioni e dove oggi fiere ragazze con la minigonna sfrecciano per le vie di Beyoglu accanto a donne velate. Una mescolanza singolare, non solo di culture turche, arabe, greche, armene, curde, come racconta la scrittrice turca Elif Shafak ne La bastarda di Istanbul (Rizzoli) e nel suo nuovo romanzo ma anche una particolarissima coesistenza di antico e moderno, di inerzia e movimento continuano a essere la cifra più vera di questa Bisanzio del nuovo millennio. Così il Museo di arte moderna, nato cinque anni fa, con il suo giardino di sculture in acciaio colorato si inserisce nello scosceso panorama di viuzze del quartiere di Cihangir (quello di Pamuk appunto), dominato da una svettante moschea. E in Santa Sofia una Madonna bizantina campeggia accanto a versetti del Corano. Compresenze di Oriente e di Occidente che fanno il fascino sottile di questa capitale della cultura che, unica al mondo, si stende su due continenti. Una città che sul versante occidentale come sul quello asiatico continua a crescere in orizzontale, disinvoltamente senza centro, come volesse procedere all’infinito. Nei quartieri della parte più europea, palazzoni di cemento e piccole case di legno si ergono fianco a fianco, giocandosela in solitario nel conquistare un proprio posto in uno skyline “creativo”, gaddianamente «patrufaziano». Istanbul – e questo è parte della sua magia – trova anche il modo di far convivere il razionalismo dell’edilizia anni Settanta con il romanticismo delle vecchie Yali in legno, residenze di villeggiatura sul Bosforo della buona borghesia turca. Alcune sopravvivono come se il tempo non fosse passato, altre anche in mezzo all’abitato appaiono drammaticamente spanciate e ridotte a macerie da incendi e terremoti. Come quello, devastante, che colpì Istanbul nel 1999 causando più di 30mila morti. La città turca, di fatto, sorge su una faglia simile a quella californiana senza mai essersi dotata di adeguata edilizia anti sismica. E come scrive lo stesso Pamuk nel libro Altri colori (Einaudi) non c’è cupola o minareto qui che, nei secoli, non sia stato ricostruito almeno una volta. «Compresi quelli che ai nostri occhi hanno sempre rappresentato la continuità ottomana nei secoli». Comprese anche le magnifiche moschee del più importante architetto ottomano, Sinan (1489-1588), che punteggiano la città di monumentali cupole finemente decorate all’interno con ceramiche dipinte e con un complesso lessico aniconico. I fondi che il governo di Ankara è riuscito a racimolare grazie al fatto che Istanbul sia stata riconosciuta capitale europea 2010 serviranno in larga parte proprio a questo, a fare lavori di restauro e di consolidamento dei molti tesori d’arte che Istanbul possiede. Ma la faccenda potrebbe in realtà essere più complicata. Sui giornali turchi, infatti, nei mesi scorsi si è accesa una violenta polemica sulla gestione delle celebrazioni da parte dell’agenzia turca Istanbul 2010 european capital of culture. Nell’ufficio del suo segretario generale Yilmaz Kurt sono passate più di duemila proposte di progetti culturali dei quali ne sono stati selezionati 467 da spalmare durante tutto l’arco dell’anno. Fra questi, il restauro di Santa Sophia e di Palazzo Topkapi, ma anche progetti di festival cinematografici e di concerti di rockstar come gli U2. Il tutto con un budget che si aggira sui 375 milioni di lire turche. Metin Karada, noto architetto e segretario dell’Ordine, in più di un’intervista ha detto che l’Agenzia ha una struttura caotica e la suddivisione dei fondi «non è trasparente». Ma ci sono state anche altre accuse di corruzione e di mala gestione. Che a oggi però non sono state ancora provate. «Sull’Agenzia si sono fatte molte chiacchere – ha commentato il ministro della Cultura e del turismo Günay al quotidiano Daily News -. In realtà molti progetti sono stati rifiutati perché molto costosi oppure perché giudicati inadeguati, e questo ha generato malcontento fra chi li aveva avanzati». Di fatto, forte è stato lo scontento nel mondo dell’arte contemporanea per la selezione dei progetti. Un mondo che però a Istanbul vive da più di una decina di anni una stagione vivacissima. Basta dare uno sguardo a Santralistanbul (www.santralistanbul.com), uno straordinario reperto di archeologia industriale (si tratta della prima centrale elettrica dell’impero ottomano costruita nel 1911) trasformato da tre anni a questa parte in un cantiere internazionale d’arte dove si incontrano differenti linguaggi delle arti visive, della musica, della danza. Oppure al Museo di arte moderna o alla storia della lanciatissima Biennale di Istanbul, nata nel 1987. La vera movida di Istanbul abita qui. E continua a crescere da più di una decina di anni.

Le due signore del Mediterraneo

Istanbul e Venezia, un rapporto lungo secoli

interno moschea, Istanbul

Centoventisei opere provenienti dai Musei civici veneziani e quarantacinque dai musei di Istanbul documentano in una grande mostra al museo Sakip Sabanci la lunga trama di rapporti che le due città ebbero nei secoli. Con il titolo Venezia e Istanbul in epoca ottomana (fino al 28 febbraio, catalogo Electa) questa rassegna, ideata per Istanbul capitale europea della cultura 2010, si concentra in particolare sul periodo che va dalla caduta di Costantinopoli nel 1453 alla battaglia di Lepanto del 1571 vinta dai cristiani (anche se, come è noto, si trattò di una data molto più simbolica che risolutiva in termini di egemonia). Arrivando poi fino al 1718, l’anno in cui i rapporti fra la Repubblica marciana e la Sublime Porta si conclusero definitivamente. (Vedi in proposito quanto scrive Ennio Concina nel libro Venezia e Istanbul, incontri, confronti e scambi, Forum). Dunque un lungo percorso con molte testimonianze di arte bizantina, di arte veneta protorinascimentale e rinascimentale, per arrivare all’orientalismo dell’arte ottocentesca. E se come ci ha insegnato lo storico dell’arte Otto Demus in libri come L’arte bizantina e l’Occidente (Einaudi) il ruolo svolto dall’arte bizantina nell’evoluzione dell’arte occidentale è stato fondamentale, con tanto di artisti bizantini usati come maestri e maldestri tentativi occidentali di imitazione, non meno trascurabile è stata l’influenza dell’arte turco-ottomana e, attraverso i traffici commerciali e i rapporti diplomatici con Istanbul, quella proveniente dai Paesi arabi. Le due signore del Mediterraneo La mostra al Sakip Sabanci, dunque, racconta di un ricco scambio biunivoco fra le due differenti culture, che da parte “europea” vide protagonista assoluta l’arte di Gentile Bellini con il suo potente ritratto del doge Giovanni Mocenigo (in mostra a Istanbul) ma anche con il suo celeberrimo Ritratto del sultano Mehmed II del 1480 conservato alla Nataional gallery di Londra. Un quadro che il pittore veneziano – primo artista occidentale a lavorare direttamente su committenza ottomana – realizzò vivendo per un periodo presso la corte del sultano. E non è certo un caso che si trattasse di un pittore che aveva bottega a Venezia. La Repubblica nei primi tre secoli di conflitti con i turchi aveva mostrato una certa condiscendenza sprezzante verso i rivali, cavalieri delle steppe abili nell’arte equestre ma nuovi all’arte nautica. Ma poi, vista l’esiguità del proprio apparato militare e per non offrire vantaggi alla rivale Genova, pensò bene di optare per una politica neutrale verso i turchi. Una politica che si tradusse in fitti scambi commerciali e qualche volta perfino in alleanze militari.

Lorenzo Lotto carpet

Testimonianze del secolare rapporto di Venezia con la cultura ottomana, anche per questo, si trovano nelle tele commissionate da ricchi committenti veneziani ai pittori più importanti tra fine Quattrocento e fine Cinquecento. Basta pensare alla precisa raffigurazione di tappeti turchi in alcune opere di Lorenzo Lotto. Oppure alla foggia di vestiti con turbante e alla presenza di minareti sullo sfondo di alcune tele di Carpaccio e in molta pittura “orientalista” che si sviluppò a Venezia dal XV al XVII secolo. Senza contare che determinante per la nascita del cosiddetto colorismo veneto (di cui furono protagonisti Tiziano, Veronese, Tintoretto e poi Tiepolo) fu l’impiego di particolari pigmenti usati dai miniaturisti persiani e ottomani e l’uso di polvere di pietre preziose nell’amalgama dei colori. E se prestiti orientali quasi non si contano nelle lacche veneziane e nelle rilegature di libri veneziani del XVI secolo, così come nella lavorazione di metalli ageminati, nei tessuti e nei velluti, colpisce a livello meno patente la penetrazione di certe suggestioni della cultura islamica contenute in capolavori come I tre filosofi (1504-08) di Giorgione in cui l’artista dà particolare rilievo e fierezza alla figura che secondo la lettura di Michael Barry (in Venezia e l’islam 828-1797, Marsilio) andrebbe letta come ritratto del filosofo Averroè.

Vermeer spleeping maid

Ma se i prestiti della cultura turco-ottomana all’arte italiana sono ancora materia per specialisti e, purtroppo, non compaiono sui manuali di scuola, spostandoci dal museo Sakip Sabanci al ricchissimo Museo di arte turca e islamica nei pressi della Moschea blu non si può non restare colpiti dal sistema di catalogazione delle opere e dei reperti. Questi ultimi per lo più sono schedati con il nome dell’archeologo occidentale che li ha riportati alla luce. Mentre per indicare le diverse e complesse grafie dei tappeti turchi vengono comunemente usati i nomi dei pittori italiani e olandesi (Bellini, Lotto, Holbein ecc) che dipinsero quelle tipologie di tappeto nei loro quadri. Tristemente, quasi fosse lo sguardo dell’Occidente a definirne il valore.

La pazzia del sultano, il tarlo ottomano

I loro antenati erano i turcomanni del III millennio a.C. Ma il potere ottomano non fu strutturato solo sulla potenza “equestre”. La chiave del lungo successo dell’impero, racconta Jason Goodwin ne I signori degli orizzonti (Einaudi), risiedeva in un complesso sistema militare e di governo. «Tra il 1320 e il 1390 gli Ottomani travolsero come un’onda impetuosa le secche del potere bizantino che aveva dominato per più di mille anni» scrive lo storico inglese. Nel 1326 gli Ottomani conquistarono Bursa facendone la loro capitale, poi a poco a poco si impadronirono della Grecia settentrionale, della Macedonia, della Bulgaria e quindi della Tracia e di Adrianopoli che, ribattezzata Edirne, divenne nel 1366 la loro capitale sul suolo europeo. La travolgente avanzata ottomana fu temporaneamente arrestata da Timur nel 1402 nella battaglia di Ankara. Nel 1453 però i turchi conquistarono Istanbul (gli occidentali la registrarono come la caduta di Costantinopoli). E l’avanzata ottomana riprese con forza fino ad arrivare poi a Vienna, nel cuore dell’Europa. Ma l’impero significò anche la costruzione di un’importante rete di istituzioni culturali e islamiche che permisero di presidiare il territorio conquistato: ovvero moschee, madrasse, biblioteche ma anche caravanserragli, bazar, ponti, acquedotti, ospedali e ospizi. Se gli Ottomani, insomma, non andavano tanto per il sottile quando erano in guerra, usavano il guanto di velluto quando si trattava poi di governare, lasciando che i popoli conservassero le loro tradizioni e credenze religiose. Ma quell’impero ottomano, che con il cosiddetto tributo dei ragazzi aveva congegnato un sistema di cooptazione della classe militare e della burocrazia facendo fuori ogni privilegio di sangue e ogni infida aristocrazia, aveva nella legge fratricida il proprio tallone di Achille. Con questa legge (che fu abolita solo nel 1603) i fratelli e i parenti del sultano venivano uccisi o rinchiusi in prigione perché non potessero tramare contro di lui. Ma la pratica invalidante di imprigionare i principi nelle gabbie finì per creare dinastie di disadattati. Osman III, per esempio, aveva passato cinquanta anni in una gabbia con sordomuti quando fu ripescato per prendere il posto del sultano che nel frattempo era morto. «Molti sultani – scrive Goodwin – erano mentalmente disturbati, un fatto che non può essere attribuito ai pericoli dei matrimoni tra consanguinei ma si spiega con le atroci condizioni in cui venivano allevati». s.m.

L’altra Istanbul. Uno scenario underground

C’è voluto il lungometraggio del turco tedesco Fatih Akin “Crossing the Bridge: il sound di Istanbul”, nel 2005, perché si cominciasse a parlare della Istanbul underground. Sezen Aksu, dalla band neo psichedelica Baba Zula alla cantante tradizionale curda Aynur Dogan, il mondo sotterraneo che gravita dal ponte di Galata a Istiklal Caddesi, sul lato occidentale di Costantinopoli, trovava finalmente diffusione. Istanbul è anche, e forse ultimamente soprattutto, questo. Una generazione nata lontana dalla città sul Bosforo, che fino a cinquant’anni fa era anche greca, figlia della città operaia di Izmit o emigrata dal Kurdistan in seguito al conflitto col Pkk. E approdata nel quartiere di Beyoglu, fra affitti improponibili, case occupate e disagi metropolitani, dopo essere cresciuta sotto la repressione del colpo di Stato, il divieto di apertura verso ovest ed Est, il nazionalismo e il militarismo più estremi, fino a sviluppare correnti e suoni del tutto unici. Non è Occidente né Oriente, la scena musicale di Istanbul: è semplicemente tutto quel che si può immaginare. Il turbo folk balcanico, la musica elettronica suonata col saz, e soprattutto la strada, luogo di socializzazione privilegiato di tutta l’area ottomana. A Istiklal si gira con lo strumento e ci si siede a suonare mentre dal lato occidentale, a Kadikoy, si vanno a incidere album che poi invadono internet e negozi. Dietro a tutto questo c’è anche molta politica; perché la libera espressione, in Turchia, è prima di tutto un atto di denuncia. C’è la questione delle minoranze curde, alevite, arabe e rom, per chi vuole fare musica tradizionale; c’è la questione dei diritti umani, per chi va a suonare agli scioperi e alle manifestazioni e per chi ha le radici ben piantate nel cemento della Turchia del boom economico e quindi del rock, del rap, e dell’elettronica; e ci sono i diritti dei migranti, perché Istanbul è anche un crocevia di profughi in arrivo da Africa, Afghanistan, Iraq e Palestina. Un esempio di questa commistione è Enzo Ikah, venticinquenne esule politico congolese; nato in Italia, studente della Sorbona, bassista di Youssu’n Dour e infine fuggitivo per aver criticato il regime della Repubblica Democratica del Congo, oggi fa il cantante reggae a Istanbul. In turco. Un fenomeno locale, che dopo due anni di concerti sta finalmente per pubblicare il primo disco – entro fine gennaio, pare. Alle sue spalle, un intero collettivo di band politicamente impegnate, l’Oppa tzupa sound. system. Una costellazione di esperienze che comprende la rock band Ahibba, che canta in arabo facendo metal con strumenti tradizionali; lo ska punk balcanico dei Bandista, che cantano in turco “Bella ciao” e “Fischia il vento”; il folk-jazz di Julide Oksel; e così via, evolvendosi ed espandendosi a un ritmo impressionante, inglobando collaborazioni con film maker, movimenti politici, artisti visuali e tutto ciò che di unico questa città sta producendo. In tempo reale.(contributo su Istanbul underground di Annalena Di Giovanni)

da left-avvenimenti

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Le sette vite di Shahrazad

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 27, 2009

di Simona Maggiorelli

mani

Shirin Neshat

Odalische in vesti diafane, uomini con il naso adunco che brandiscono scimitarre, geni e minareti. Un armamentario di figurine degne di Walt Disney. «Quando anni fa giocavo a flipper con uno storico modello della Williams “Tales of the Arabian nights” era proprio questo il panorama di personaggi che mi trovavo davanti» racconta ne La favolosa storia delle mille e una notte l’arabista Robert Irwin. Il suo libro appena uscito per Donzelli – non ingannino le parole dell’autore – è un dottissimo invito a liberarsi delle stereotipie che hanno accompagnato in Occidente la diffusione popolare dei racconti di Shahrazad.  «Oggi- scrive lo studioso inglese – sia da noi che nel mondo islamico, la straordinaria ricchezza delle Mille e una notte è stata ridotta a una manciata di immagini kitsch. Molti occidentali conoscono solo il minaccioso mondo arabo dei titoli giornalistici, che parlano di talebani di fatwa, di kamikaze…». Ma assicura Irwin (che sulla scorta del palestinese Said ha scritto pagine acuminate contro l’Orientalismo), «c’è un altro Medio Oriente ancora da scoprire sugli scaffali di ogni libreria occidentale che si rispetti: un luogo fatto di incanto, passione e mistero». Così in questo suo ultimo libro Irwin ci introduce in questo mondo fantastico, facendo chiarezza sulle traduzioni, sulle manipolazioni e sulle censure che questo grande libro ha subito nei secoli. Una vicenda che, nel nostro Paese, l’editore Donzelli ha contribuito a sbrogliare, pubblicando qualche anno fa la prima traduzione italiana delle Mille e una notte fatta direttamente dall’arabo, sulla base dell’edizione critica stabilita nel 1984 da Muhsin Mahdi. Ma ora tornando a tuffarci in quel mondo di principi tolleranti, donne intelligenti e combattive e maghi misteriosi che ci avevano affascinato da piccoli, impariamo qualcosa di più della cultura araba medievale che è alla base di questa raccolta di storie che i cantori tramandavano oralmente: scopriamo, con Irwin, una cultura araba sorprendentemente «ottimista, tollerante e pluralista». E che proprio per questo – anche in anni non lontani- è stata bersaglio della censura religiosa. Basti dire che nel 1985 un capo della commissione “moralità” del ministero dell’interno egiziano promosse una crociata contro un’edizione libanese del libro, accusata di attentare all’integrità della gioventù egiziana.  E fu proprio il Nobel Nagib Mahfuz – a cui idealmente è dedicata la Fiera del libro 2009  – uno degli scrittori che si batté di più contro l’assurda censura delle Mille e una notte.

is50164lMa che cosa contengono di tanto scandaloso questi antichi racconti della tradizione araba, noti con alcune varianti dal Mali al Marocco, dal Nord Africa, all’India, alla Cina? La studiosa che più si è dedicata a questa ricerca, come è noto, è la  marocchina Fatema Mernissi. In libri che sono già dei classici, come L’harem e l’Occidente (Giunti) ma anche nel recente Le 51 parole dell’amore (Giunti) Mernissi fa piazza pulita dei pregiudizi  che campeggiano nella pittura occidentale da Ingres a Matisse,che ci hanno sempre fatto vedere l’harem come un luogo pacificato di odalische passive e perennemente disponibili. Ma l’obiettivo più appassionato della studiosa di Fes è sempre stato quello di riscattare il personaggio della narratrice Shahrazad da quella etichetta di donna astuta e ingannatrice che le è stata cucita addosso dall’Occidente.  Minacciata di morte dal saltano impazzito di gelosia, il suo parlare gentile nella notte ( in arabo “samar”) suggerisce Mernissi, era un modo per cercare un rapporto più profondo con l’altro, per dialogare su un piano diverso da quello diurno, cercando di capire e di fermare la pazzia. Altro che mera astuzia! Shahrazad usa la sua cultura, la sua sensibilità e la sua intelligenza per leggere la mente dell’altro provando a “curarlo”.  Contrariamente a ciò che lasciano intendere le fantasie occidentali sull’harem «in Oriente- scrive Mernissi – il solo uso del corpo, ovvero del sesso privo della mente, non aiuta minimamente la donna a cambiare la sua situazione. Shaharazad insegna alle donne che la sola arma è coltivare l’intelletto e la sensibilità, acquisire conoscenza, per dialogare con gli uomini invitandoli a confrontarsi con il diverso da sé». Di fatto grazie all’originale lavoro di comparazione fra cultura occidentale e mediorientale, che Mernissi svolge da trent’anni, alcune delle nostre più ferree convinzioni, per esempio, riguardo al modo di vedere la donna e di intendere il desiderio nelle due diverse tradizioni, finiscono a carte quarantotto.

Così, mentre con la raccolta e lo studio di storie orali dalle più remote zone montane dell’Atlante e del deserto del  Sahara, Mernissi porta in luce un patrimonio culturale pre islamico che diversamente dalla legge coranica, non stabilisce affatto il diritto degli uomini di dominare le donne, dalla comparazione fra la tradizione letteraria e iconografica di Oriente e di Occidente la studiosa deduce che, se gli arabi hanno costruito gli harem perché temevano «la forza incontrollabile che c’è nelle donne», l’occidente razionale, nonostante libertà e diritti, l’identità e la diversità delle donne la nega interamente.

Ancora una volta Le mille e una notte e il modo in cui Shahrazad è stata letta in Occidente può aiutarci a capire qualcosa di più.  Il suo “primo viaggio” in Occidente fu grazie a Jean Antoine de Galland, primo traduttore del grande libro di racconti arabo. L’interesse del pubblico colto occidentale fu immediato quando i 12 volumi furono pubblicati tra il 1704 e il 1717. Ma per oltre un secolo, ricostruisce Irwin, furono solo le avventure di Sinbad, di Aladino e Alì Baba a catalizzate l’attezione. Lei avrebbe dovuto aspettare fino a quel 1845 quando Edgar Aallan Poe pubblicò The Thousand and second tale of Shahrazad ma cambiando il finale, e facendola morire. E se l’erotismo fu un elemento di attrazione per un pubblico occidentale «stretto – scrive Mernissi – fra i divieti dei preti e una rigida razionalità», l’immagine che passa, per esempio, attraverso Nijinsky nella Shéhérazade dei Balletti russi fu un misto di «esotismo, androginia, schiavitù e violenza», quando «al contrario- sottolinea Mernissi – l’antico e risoluto messaggio di Shahrazad implicava proprio l’insistenza sulla differenza tra i sessi».

Poi sarebbero venuti gli anatemi talebani e la censura a cui accennavamo, ma la sopravvivenza delle Mille e una notte, per fortuna, segue percorsi carsici e riemerge- ad esempio – anche nelle pagine di scrittrici di oggi, nei racconti delle autrici iraniane che Anna Vanzan ora ha raccolto nel volume Figlie di Shahrazad (Bruno Mondadori). Ma quel che più colpisce, a dire il vero è la sopravvivenza e la penetrazione che ha avuto in Occidente una tradizione meno nota al grande pubblico, ovvero la letteratura medievale sull’amore scritta da maestri sufi (vedi Il Sufismo di William C. Chittick, appena uscito per Einaudi) e la poesia erotica della tradizione araba antica, quella che la scrittrice siriana Salwa Al-Neimi ci ha fatto conoscere attraverso le pagine del suo romanzo La prova del miele (Feltrinelli). Caso letterario esploso in Francia l’anno scorso, il libro sarà presentato alla Fiera del libro il 16 maggio con una conferenza della scrittrice dedicata all’eros  nel mondo arabo. Curiosamente lo stesso titolo della conferenza tenuta dalla protagonista del romanzo . E se la realtà, qui a Torino, invera la fantasia, il gioco di rimandi fra l’autrice e il suo alter ego narrante si fa ancora più serrato, rafforzando la sensazione che La prova del miele sia in parte autobiografico. Al centro del libro un incontro con un uomo che fino alla fine manterrà per il lettore una immagine indefinita, misteriosa Del resto la protagonista stessa non lo chiama mai per nome, ma si riferisce a lui come il Pensatore, facendone una presenza fisica e sensuale, ma senza descrizioni. Il lettore sa quello che basta,ovvero che quello è l’uomo che ha fatto ritrovare il desiderio alla protagonista, colta bibliotecaria di un dipartimento di arabistica (esattamente come Salwa Al-Neimi), ma anche che le ha fatto ritrovare la memoria dell’infanzia a Damasco e il gusto per l’antica letteratura erotica della tradizione araba, letta fin da ragazzina clandestinamente. Un interesse per la filosofia islamica sull’amore che la scrittrice trasmette a sua volta al lettore,che si trova così sedotto ad andare a leggere direttamente Abu Hashin ( autore sufi fra i più antichi che morì nel 772  d.C)  e al -Daylami che teorizzò l’amore come luce sfolgorante, «colui che ama- scriveva – è rischiarato dal suo genio e illuminato nella sua natura», ma anche e soprattutto il pensatore andaluso Ibn Hazm che otto secoli fa scrisse un  trattato che ha influenzato profondamente il pensiero occidentale. E se Mernissi con altri studiosi ipotizza una precisa influenza dei mistici sufi sulla nascita della poesia trobadorica e sul Dolce stil novo, Al-Neimi ci fa conoscere le riflessioni di mistici come Ibn al-Azraq che affermava: «Ogni desiderio che l’uomo asseconda gli indurisce il cuore, eccetto l’atto sessuale» . «Le mie letture segrete mi fanno pensare che gli arabi siano l’unico popolo al mondo per i quali il sesso è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio- scrive Salwa Al-Neimi nel romanzo-. L’insigne e prode shykh Sidì Muhammad al- Nifzawì, sia pace all’anima sua, comincia così la sua opera il Giardino profumato: sia gloria a Dio che ha voluto che il più grande piacere dell’uomo fosse la vulva delle donne e che per esse fosse il pene degli uomini.  Che la vulva trovi pace, che si plachi, che trovi soddisfazione solo dopo aver conosciuto il pene e viceversa…».
Ancora nel XIV secolo, il sapiente di Damasco Idn Qayyim al Jawziyya nel trattatto Il giardino degli amanti, scriveva che la lingua araba ha 60  parole per esprimere l’amore e la passione,compresa quella fisica. In barba a Platonee ai suoi discendenti.

da Left-Avvenimenti 15 maggio 2009

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