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L’universo culturale di Aldo Manuzio, rivoluzionario editore umanista

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 30, 2016

Aldo Manuzio

Aldo Manuzio

Per chi è a Venezia, da non perdere,  la nostra dedicato a uno stampatore colto, laico e cosmopolita come Aldo Manuzio.  Chiude il 31 luglio

Aveva la grande ambizione di ampliare la circolazione della cultura. Pubblicando non solo classici in latino, ma anche la nuova letteratura in volgare. Dunque non fu “solo” uno stampatore Aldo Manuzio (1449-1515), ma un editore colto e umanista, che guardava al futuro. Da questa sua visione laica e moderna derivano tutte le sue importanti innovazioni editoriali – dal carattere corsivo ai libri tascabili – che non furono soltanto soluzioni formali ed estetiche ma corrispondevano a un preciso pensiero: allargare il pubblico dei lettori, mantenendo una veste di qualità e la cura filologica dei testi. Come dimostrano gli incunaboli e le eleganti edizioni aldine esposte nelle sale della Galleria dell’Accademia nella mostra Aldo Manuzio il Rinascimento di Venezia. Una esposizione che ha dietro il lavoro scientifico di tre curatori (G. Beltramini, D. Gasperotto, e G. Maneri Elia), in cui il rigore di studio si combina con una raffinata eleganza nell’allestimento.

La Tempesta di Giorgione

La Tempesta di Giorgione

Attorno ad edizioni stampate e miniate di classici della cultura greca, latina e umanista , sono radunati capolavori dell’arte veneta coeva e nordica: dipinti di Giovanni Bellini, di Giorgione, Lorenzo Lotto e Cima da Conegliano, ma anche opere grafiche di Albrecht Dürer che fu a Venezia dal 1494 al 1495 e poi nel 1510 entrando in contatto con ambienti neoplatonici ma anche con i maestri del colorismo veneto, dai quali mutuò una tavolozza più chiara e luminosa, oltre che forme meno rigide.

Interessante è come i curatori siano riusciti a raccontare chi era Manuzio attraverso la selezione di queste straordinarie opere d’arte: Il ritratto di gentiluomo di Tiziano che si ipotizza raffiguri il poeta arcadico Jacopo Sannazzaro ci racconta della passione del marchio contrassegnato con l’ancora per il linguaggio poetico, mentre la misteriosa Tempesta di Giorgione, ci dice dell’interesse di Manuzio per la tradizione pagana e panteista più raffinata e per la filosofia neoplatonica, di cui il pittore veneto si fece raffinato interprete.

Lorenzo Lotto, ritratto di Laura di Polo

Lorenzo Lotto, ritratto di Laura di Polo

Poco più in là fa bella mostra di sé una delle pubblicazioni di cui lo stampatore veneto andava più orgoglioso: l’Hypnerotomachia Poliphili, il romanzo allegorico di Francesco Colonna che fu pubblicato nel 1499 corredato da 172 xilografie. La narrazione si dipanava come una sorta di viaggio iniziatico alla maniera delle Metamorfosi di Apuleio.

Dietro a pubblicazioni del genere c’era il pubblico delle corti, ma interessante è anche le edizioni aldine diventassero un oggetto del desiderio anche delle dame, come ci racconta qui il Ritratto di Laura di Polo di Lorenzo Lotto. Insieme al Ritratto di uomo con petrarchino di Parmigianino ci dice della rivoluzione rappresentata dalle edizioni tascabili. ( Simona Maggiorelli)

 

 

 

 

 

 

 

 

Conferenza su Aldo Manuzio, i lettori e il mercato internazionale del libro

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Lorenzo Lotto nella Reggia di Venaria

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 10, 2013

Lotto. Laura da Paola

Lotto. Laura da Paola

“Difficile discriminare se più nuoccia alla fama di un artista essere dimenticato che mal conosciuto: e vien voglia di decidere che se un grande spirito potesse scegliere, preferirebbe il silenzio alle mezze parole”, così scriveva la scrittrice Anna Banti ad incipit del suo libro dedicato a Lorenzo Lotto (1480-1556): un agile volume opportunamente recuperato e pubblicato nella collana Sms dell’editore Skira, un paio di anni fa. Il prezioso ritratto a parole firmato della romanziera e studiosa d’arte, sulla strada aperta dagli scritti di Roberto Longhi, finalmente restituiva la giusta statura a questo inquieto pittore, dalla vena sensibile e popolare, lontano anni luce dallo splendore e dal trionfo dei colori della pittura veneta a lui contemporanea.

Benché fosse veneziano e ventenne alla svolta del Cinquecento, la sua cultura visiva sembrava alquanto provinciale al confronto con il raffinato e poetico tonalismo di Giorgione o se paragonata al vigoroso realismo, laico ed espressivo di Tiziano.

Ma i suoi santi scavati dal tormento interiore, le sue timide Madonne, i suoi aguzzi e veritieri ritratti sono, se possibile, ancor più lontani dal classicismo idealizzante di Giovanni Bellini, che secondo la tradizione sarebbe stato suo maestro nei primi anni veneziani. Brusco ed immediato, poco propenso alla ricerca formale e alla trasfigurazione aulica dei soggetti rappresentati (anche nelle pale sacre) Lorenzo Lotto è stato forse il maggiore interprete in Italia di quello spirito nordico e riformista che si era andato diffondendo in modo più o meno sotterraneo nella piccola “borghesia” delle regioni del Nord della penisola. Ma non solo.

Lorenzo Lotto fu anche il cantore delle terre marchigiane e dei suoi rustici personaggi, come racconta la mostra Un maestro del Rinascimento. Lorenzo Lotto nelle Marche, aperta dal 9 marzo al 7 luglio nella piemontese Reggia di Venaria e incentrata dal curatore Gabriele Barucca su una ventina di opere realizzate da Lotto ad Jesi, a Recanati e dintorni.

Dedicata al periodo più fertile della produzione lottesca, l’esposizione, che ha fatto tappa anche al Museo Puškin di Mosca, in realtà è una piccola grande summa dell’arte di questo schivo e appartato artista: un viaggio sfaccettato nella sua poetica antieroica e borghese, dove trionfano penetranti primi piano di sarti e altri artigiani al lavoro, di ricche e addobbate signore di provincia, di giovani di belle speranze, di persone anonime che conquistano per la prima volta la ribalta della storia dell’arte.

In questo percorso espositivo sono tante anche le opere che raccontano episodi mutuati dai testi sacri e che appaiono sempre calati nella concretezza della vita di tutti i giorni, in modeste abitazioni e in brulli tratti di paesaggio, scavati da calanchi, come i volti dei solitari santi che Lotto metteva al centro della sua pittura altamente drammatica e narrativa. Calati nella quotidianità, nella storia, fuori da ogni distanza metafisica, così appaiono i suoi San Gerolamo e il suo San Vincenzo Ferrer proveniente dalla chiesa di San Domenico di Recanati e appena restaurato. Ma folgoranti sono anche i pannelli dell’annunciazione, dipinti a Jesi intorno al 1526 in cui le figure sacre si sporcano le mani con la faticosa quotidianità contadina, mentre lo sgomento che si legge sul volto di Maria arriva a sfiorare l’eterodossia. ( Simona Maggiorelli)

dal settimanale Left

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Lorenzo Lotto, l’anticlassico

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 25, 2011

Dal 2 marzo alle Scuderie del Quirinale una importante antologica dedicata al maestro veneto che allo splendore del colorismo di Tiziano preferiva l’inquietudine di Antonello da Messina

di Simona Maggiorelli

Lorenzo Lotto, Annunciazione

Quella giovane Madonna di Lorenzo Lotto che, qui e ora, in un movimento assolutamente contemporaneo a noi che guardiamo il quadro, si rincantuccia mostrando tutta la sua umanissima paura di fronte all’Arcangelo, non potrebbe essere più lontana dalla protagonista dell’Annunciazione (1522) di Tiziano che accoglie il messaggero divino con modi pacati ed eleganti da gran signora. Lo stesso soggetto, la stessa scena sacra. Entrambi i pittori conoscono alla perfezione la tradizione pittorica e padroneggiano al massimo la tecnica. Ma la resa iconografica dell’Annunciazione, per i due maestri del Cinquecento, non potrebbe essere più divergente.

Così se Tiziano rende quasi profana la scena ambientandola in un aristocratico palazzo, Lotto sembra fare del dipinto di Recanati (1534) un manifesto di una  pittura popolare, concreta, quasi protestataria. Certamente segna uno scarto dalla norma quel modo di narrare per immagini, anticlassico e vivace, che caratterizza la tela di Recanati, dal 2 marzo al 12 giugno al centro della mostra Lorenzo Lotto (catalogo Silvana editoriale) curata da Giovanni Carlo Federico Villa alle Scuderie del Quirinale; una antologica che riunisce a Roma un ampio nucleo di opere dell’artista veneto, fra pale di altare, opere a tema sacro e una serie di eccezionali ritratti.

Ma forse si può dire di più: L’Annunciazione di Lotto rappresenta una vera e propria invenzione di immagine. Anche rispetto agli esempi di turbatio della Madonna dipinti da Ambrogio Lorenzetti e altri, ben noti a Lotto (come ha documentato Settis in Iconografia dell’arte italiana, Einaudi). Precedenti molto decorosi e composti che ben poco hanno a che fare con il ruspante scompiglio di questa Annunciazione, dipinta in colori freschi e accesi. Ma anche la Natività (1530), da poco restaurata e in primo piano alle Scuderie, ci racconta che Lotto non era un pittore naif: nel bel mezzo di una scena intima e quasi naturalistica qui l’autore sapientemente cala due fredde ali azzurrine, una nota divina e straniante, già pienamente manierista.

Che Lorenzo Lotto (1480-1556) non fosse affatto un artista minore nel quadro della pittura veneta del Cinquecento, del resto, lo aveva già notato Bernard Berenson dedicandoli nel 1895 la prima monografia (ripubblicata nel 2008 da Abscondita). E lo hanno ribadito nel secolo scorso studiosi come Venturi e Longhi ispiratori della importante antologica veneziana degli anni Cinquanta.

Giovane rivale di un ben più acclamato Tiziano e coetaneo di un artista raffinato come Giorgione, Lotto per necessità e non solo scelse la provincia come ambito in cui vivere e operare, legandosi ad una committenza diversissima da quella laica, colta e nobile che sosteneva i suoi due più famosi colleghi. Sempre controcorrente, solo, di spigolo alle cose e fuori dalla rete dei rapporti che contano, così raccontano l’uomo Lorenzo Lotto le trentasei lettere autografe indirizzate al Consorzio della Misericordia. Ma un profilo aspro e schivo emerge anche dal Libro di spese diverse, una specie di diario in cui dal 1538-1556 il pittore annotò tutte le commissioni ricevute ma anche il fallimento della vendita all’asta di quarantasei opere, da cui nel 1550 sperava d ottenere almeno quattrocento scudi riuscendo a cavarne solo quaranta. Prova ulteriore che la sua arte, al tempo stesso “antica” e in anticipo sui tempi (basta pensare alla penetrazione psicologica di certi ritratti), era del tutto fuori sincrono rispetto alle mode del tempo. Più che dallo splendore del colorismo veneto e dai suoi classici maestri come Giovanni Bellini, Lotto si sentiva attratto dalla vena inquieta di Antonello da Messina (dal quale mutuò il drammatico fondo nero della bellissima cimasa del Cristo morto) ma anche da certo naturalismo tedesco e fiammingo che ebbe modo di conoscere da vicino attraverso Albrecht Dürer a Venezia nel 1505. Già a quell’epoca il venticinquenne Lotto dimostrava una sua personalità perfettamente formata. Come si può evincere dal sanguigno ritratto del vescovo Bernardo de’Rossi realizzato proprio quell’anno e ora esposto a Roma.

Lorenzo Lotto, ritratto di giovane uomo

Insieme alla cultura figurativa, dall’area nordica Lotto aveva appreso alcune istanze di rivolta evangelica.  E anche a causa di un ritratto andato perduto di Martin Lutero con la moglie si tramanda che il pittore avesse imboccato la strada dell’eterodossia. Strada quando mai rischiosa in tempi in cui si cominciavano ad accendere i roghi della Controriforma. Dall’appassionante indagine che Massimo Firpo scrisse qualche anno fa sulla controversa ortodossia di Lotto (Artisti, gioiellieri, eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma, Laterza) si sa, per esempio, di una Venezia, snodo cruciale dei traffici tra l’ Oriente e l’Europa, ma anche «Porta della Riforma», dove fu stampata  la prima traduzione italiana del Corano ma anche la  Bibbia in volgare illustrata da Lotto, insieme a  testi in odore di eresia, opere criptoriformate e libri eretici. E nel tollerante clima politico lagunare, oasi momentanea in un’Europa di grandi sconvolgimenti politici e martoriata dalla peste, sostiene Firpo, Lorenzo Lotto si lasciò affascinare da istanze dissidenti rispetto alla dottrina dal papato romano, con il quale aveva avuto un breve contatto nel 1509 quando era stato chiamato da Giulio II per affrescare le Stanze. Dalla corte papale, come noto, Lotto quasi scappò e da allora per lunghi anni, spinto da ragioni economiche  ma anche, chissà, forse incalzato dalla montante Controriforma, peregrinò per l’area lombardo veneta e nelle Marche. E se la tesi di Firpo ora trova ulteriore conferma nella serrata indagine storiografica compiuta da Diarmaid MacCulluch nel poderoso volume Riforma da poco uscito per Carocci (uno studio di oltre mille pagine  in cui lo storico inglese, tra l’altro, ricostruisce tutta la mappa delle amicizie veneziane di Juan de Valdes) più cauto sulla vexata quaestio della devianza lottesca è invece il curatore della mostra alle Scuderie del Quirinale : «Lotto fu un uomo dall’animo profondamente religioso – dice – mantenne sempre uno stretto rapporto con i domenicani, che volevano una Chiesa vicina ai ceti più poveri. Anche per questo – conclude Villa- la sua pittura anticipò alcuni temi della Controriforma»

da left-avvenimenti  25 febbraio 2011

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L’inquieto Rinascimento di Lucas Cranach

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 11, 2010

Per la prima volta in Italia, quarantacinque opere di Lucas Cranach il Vecchio. In una ampia mostra nella Galleria Borghese di Roma

di Simona Maggiorelli

Lucas Cranach Venus

La figura enigmatica, oniricamente allungata, di una Venere nuda ma ornata di gioielli e cappello, si staglia sullo sfondo scuro della Venere e Amore che reca il favo di miele del pittore Lucas Cranach il Vecchio (1473-1553).

Diafana e apparentemente fragile, questa bionda dea tedesca guarda negli occhi lo spettatore, con morbida seduzione. Una resa così raffinata del nudo femminile (e così dirompente nei contenuti) non c’era mai stata nella dura pittura tedesca che più di altre tradizioni europee ha vissuto una lunga  stagione gotica. Colto, amante della cultura classica e dell’arte italiana (che aveva conosciuto grazie alla collezione di Margherita d’Austria) Cranach il Vecchio era l’artista che nella Germania del primo Cinquecento apriva con più coraggio alla nuova stagione umanista.

Lucas Cranach, fanciulla

Ma quando, su invito di Federico il Saggio, nel 1504 lasciò Vienna per trasferirsi a Wittenberg, l’artista divenne anche uno dei maggiori protagonisti della svolta riformista. Amico di Lutero, discusse con lui la stesura delle famosi Tesi. E non solo.

Con i pittori della sua grande bottega a Wittenberg lavorò per mettere a punto una nuova iconografia cristiana conforme ai principi riformisti. E alla nuova visione luterana della società e della donna; non più icona astratta ma presenza concreta, di madre e di moglie. «Ma la Chiesa protestante non era troppo interessata all’arte e Cranach dovette assicurarsi anche un’altra committenza, ricca e altolocata», ricostruisce Bernard Aikema, curatore insieme con Anna Coliva della mostra “LucasCranach. L’altro Rinascimento” che, nelle sale della galleria Borghese apre il 15 ottobre  accompagnata da un catalogo edito da Federico Motta.

In questo ambito di una committenza privata e laica nacque appunto la Venere intorno a cui i due studiosi hanno costruito questa splendida mostra che per la prima volta porta in Italia quarantacinque opere di Cranach il Vecchio. Un autore, nel Belpaese, sempre aduggiato dal più italianeggiante Albrecht Dürer e che questa esposizione romana permette di conoscere più da vicino. In un inedito dialogo con pittori di area lombardo-veneta come Lorenzo Lotto, che a Cranach appare legato da una fitta rete di risonanze. Del resto anche il pittore veneto risentì dell’influenza delle idee riformiste rischiando l’eterodossia in tele che ci mostrano una madonna popolana e impaurita.

da left-avvenimenti del 15 ottobre

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Le rivoluzioni di Caravaggio

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 15, 2010

Il Merisi artista geniale, ribelle ma non maudit. Per le celebrazioni dei quattrocento anni dalla morte, nel 2010 escono importanti nuovi studi che mettono a punto il catalogo delle opere ( oberato di recenti nuove acquisizioni scientificamente poco fondate) ma anche importanti ricostruzioni, fra biografia, arte e storia, come quella firmata da Francesca Cappelletti per Electa

di Simona Maggiorelli

Caravaggio, Davide con la testa di Golia

L’ultimo decennio di studi caravaggeschi, come abbiamo ricordato anche in un’altra occasione, è stato contrassegnato da un can can di nuove attribuzioni che non di rado poi si sono rivelate affrettate e scarsamente fondate dal punto di vista scientifico. Tanto da far sospettare ingerenze dei mercanti d’arte.

Ma quello che sta per finire è stato anche il decennio delle biografie romanzate, dei film e delle fiction tagliate sulla mitologia maudit di un Caravaggio, genio scellerato e violento. Dal best seller L’enigma di Caravaggio di Peter Robb all’ultimo film di Derek Stonebarger,  Io sono Caravaggio, una cascata di stereotipi.

Alla quale l’occasione dei quattrocento anni dalla morte di Caravaggio che nel 2010 porterà esposizioni e convegni speriamo possa metter freno. Lo diciamo pensando alla mostra ideata  da Claudio Strinati per le Scuderie del Quirinale e che da febbraio presenterà una serie di capolavori capaci di raccontare per “exempla” il rinnovamento stilistico e la continua ricerca di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610) nella sua breve e folgorante attività di pittore. Ma anche pensando ai tre volumi editi dal Comitato nazionale per il quarto centenario della morte di Caravaggio guidato da Maurizio Calvesi. Tre tomi che, ripercorrendo criticamente il catalogo dell’artista, dovrebbero dirimere la questione delle opere di dubbia attribuzione.

Già in questo fine anno, comunque, a far chiarezza contribuisce anche bella e documentata monografia di Francesca Cappelletti, Caravaggio un ritratto somigliante, appena uscita per Electa. Un volume in cui la studiosa, sulla strada aperta negli anni Sessanta da Wittkower con libri come Nati sotto Saturno (Einaudi) e prima ancora da Roger  Fry, fa piazza pulita del ciarpame biografico che, incurante del contesto storico  seicentesco in cui Caravaggio visse, ne fa un artista “maledetto” alla maniera ottocentesca. Fry, in particolare, già agli inizi del Novecento parlava di Caravaggio come del «primo artista moderno, il primo a procedere non per evoluzioni ma per rivoluzioni» riconoscendogli di essere stato il primo realista, capace di portare in primo piano la verità umana perfino nel dramma sacro.

Con questa premessa Cappelletti legge in parallelo la vita e l’arte del Merisi, riportandone in luce la vasta cultura figurativa e la libertà con cui sottopose la tradizione a un costante vaglio critico, dissacrando di continuo i modelli consolidati alla ricerca di maggiore e più profonda espressività. Fin dagli anni in cui era a bottega da Peterzano con ogni probabilità Caravaggio ebbe modo di conoscere il “realismo” di Savoldo, la religiosità popolare ed eretica di Lotto, ma anche il segno nervoso e inquieto delle stampe di Dürer  e molto altro ancora.

Ogni volta Caravaggio ne ha tratto spunti per una elaborazione radicalmente originale. Basta pensare alla distanza che c’è fra il descrittivismo minuzioso di una lussureggiante natura morta di scuola nordica e quel chicco guasto, quel piccolo tarlo che si segnala sinistramente nel canestro dell’ambrosiana; un cesto stranamente in bilico, che getta un’ombra del tutto irreale sul tavolo. Ma si potrebbe pensare anche alla dirompente rilettura della religiosità umile e quotidiana dei pittori lombardi in opere come La morte della Madonna, che  per il suo crudo realismo fece gridare allo scandalo i carmelitani scalzi che l’avevano commissionata.

Se Lorenzo Lotto per la prima volta nel 1527  aveva rappresentato una Madonna umanamente spaventata dalla comparsa dell’arcangelo, quella di Caravaggio del 1605 è una povera annegata, intorno alla quale si accalca il compianto di una folla di diseredati.

Ogni opera di Caravaggio contiene un’invenzione, ci ricorda Cappelletti in questo suo appassionato lavoro. Invenzione che può riguardare l’iconografia come succede nel David con la testa di Golia (1607 ) che campeggia sulla copertina del libro Electa e in cui l’artista abbandona la tradizionale visione frontale per una inaspettata prospettiva obliqua che lascia in primo piano il volto provato del David.

Ma gli esempi potrebbero essere ancora tanti. Specie riguardo all’uso geniale della luce, del chiaroscuro, dell’ombra e del buio. Dalla luce radente che bagna paganamente La fuga in Egitto negli ultimi anni arriverà alla quasi stenografica visione  della Resurrezione di Lazzaro che emerge da un nero di pece, denso e oppressivo. Ed ogni volta è una vera rivoluzione.

dal settimnale Left-Avvenimenti del 18 dicembre 2009

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Costantinopolitismo

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 10, 2010

di Simona Maggiorelli da Istanbul

Istanbul

Per una iniziativa partita dalla società civile un gruppo di intellettuali turchi nel 1999 perorò la causa di Istanbul capitale europea della cultura ricevendo un secco no dalla Ue dal momento che la Turchia non ne fa parte. Ma quella proposta partita dal basso, sul lungo periodo, ha dato i suoi frutti e il 16 gennaio Istanbul avrà la sua incoronazione ufficiale come capitale del 2010. La cultura in questo caso ha preceduto la politica. Dimostrandosi più sensibile e lungimirante nel preconizzare un allargamento dell’Europa che significherebbe anche riconoscerne le radici multiculturali e, dal punto di vista delle religioni, certamente non solo cattoliche ma anche islamiche e chissà – di questo passo, ci auguriamo – anche pagane. Da parte sua la capitale turca punta a festeggiare l’atteso evento con una ridda di appuntamenti internazionali di arte, letteratura, musica, danza e perfino di cucina e di moda.

Se ne è avuto qualche assaggio già durante le recenti festività, in una Istanbul che da alcune settimane insolitamente inonda di luci il mare scuro e profondo del Bosforo. Una Costantinopoli degli anni Duemila animata più che mai di locali, di feste e di concerti improvvisati a ogni angolo di strada, secondo la tradizione zingara più intima e seducente della città. Ma anche una capitale piena di cantieri aperti per restauro di monumenti simbolo come il Ponte di Galata sul Corno d’Oro e per la costruzione di nuovi centri culturali come il Museo dell’innocenza che il premio Nobel per la letteratura Ohran Pamuk ha fondato a pochi metri dalla sua casa-studio nello storico quartiere di Cihangir, traducendo in realtà una fantasia del protagonista del suo ultimo omonimo romanzo. E ancora per le centinaia di migliaia di turisti che durante le feste di capodanno hanno letteralmente preso “d’assalto” la metropoli (in tutto il 2009 sono stati 7,5 milioni e se ne attendono più di 10 milioni nel 2010) si aprono grandi mostre dedicate all’arte della Persia antica e ai rapporti fra Venezia e l’impero ottomano, mentre sfodera tutti i suoi gioielli lo storico Topkapi, che per secoli, con il suo dedalo di sale per consigli politici (divan), giardini con fontane, harem, ha fatto da palazzo pubblico e privato dei sultani ottomani. Intanto sul pontile di Galata pescatori di ogni età continuano a prendere all’amo pesci messi in fuga dal passaggio delle navi, per le strade del vecchio quartiere di Sultanahmet strillano i venditori di ciambelle, i gatti dormono sui tappeti in vetrina e la voce del muezzin continua a scandire le ore di preghiera in questa megalopoli (che dagli anni Cinquanta a oggi è passata da poco più di un milione di abitanti agli attuali 12 milioni) in cui da sempre convivono differenti culture e religioni e dove oggi fiere ragazze con la minigonna sfrecciano per le vie di Beyoglu accanto a donne velate. Una mescolanza singolare, non solo di culture turche, arabe, greche, armene, curde, come racconta la scrittrice turca Elif Shafak ne La bastarda di Istanbul (Rizzoli) e nel suo nuovo romanzo ma anche una particolarissima coesistenza di antico e moderno, di inerzia e movimento continuano a essere la cifra più vera di questa Bisanzio del nuovo millennio. Così il Museo di arte moderna, nato cinque anni fa, con il suo giardino di sculture in acciaio colorato si inserisce nello scosceso panorama di viuzze del quartiere di Cihangir (quello di Pamuk appunto), dominato da una svettante moschea. E in Santa Sofia una Madonna bizantina campeggia accanto a versetti del Corano.

Istanbul by night

Compresenze di Oriente e di Occidente che fanno il fascino sottile di questa capitale della cultura che, unica al mondo, si stende su due continenti. Una città che sul versante occidentale come sul quello asiatico continua a crescere in orizzontale, disinvoltamente senza centro, come volesse procedere all’infinito. Nei quartieri della parte più europea, palazzoni di cemento e piccole case di legno si ergono fianco a fianco, giocandosela in solitario nel conquistare un proprio posto in uno skyline “creativo”, gaddianamente «patrufaziano». Istanbul – e questo è parte della sua magia – trova anche il modo di far convivere il razionalismo dell’edilizia anni Settanta con il romanticismo delle vecchie Yali in legno, residenze di villeggiatura sul Bosforo della buona borghesia turca. Alcune sopravvivono come se il tempo non fosse passato, altre anche in mezzo all’abitato appaiono drammaticamente spanciate e ridotte a macerie da incendi e terremoti. Come quello, devastante, che colpì Istanbul nel 1999 causando più di 30mila morti. La città turca, di fatto, sorge su una faglia simile a quella californiana senza mai essersi dotata di adeguata edilizia anti sismica. E come scrive lo stesso Pamuk nel libro Altri colori (Einaudi) non c’è cupola o minareto qui che, nei secoli, non sia stato ricostruito almeno una volta. «Compresi quelli che ai nostri occhi hanno sempre rappresentato la continuità ottomana nei secoli». Comprese anche le magnifiche moschee del più importante architetto ottomano, Sinan (1489-1588), che punteggiano la città di monumentali cupole finemente decorate all’interno con ceramiche dipinte e con un complesso lessico aniconico. I fondi che il governo di Ankara è riuscito a racimolare grazie al fatto che Istanbul sia stata riconosciuta capitale europea 2010 serviranno in larga parte proprio a questo, a fare lavori di restauro e di consolidamento dei molti tesori d’arte che Istanbul possiede. Ma la faccenda potrebbe in realtà essere più complicata. Sui giornali turchi, infatti, nei mesi scorsi si è accesa una violenta polemica sulla gestione delle celebrazioni da parte dell’agenzia turca Istanbul 2010 european capital of culture. Nell’ufficio del suo segretario generale Yilmaz Kurt sono passate più di duemila proposte di progetti culturali dei quali ne sono stati selezionati 467 da spalmare durante tutto l’arco dell’anno. Fra questi, il restauro di Santa Sophia e di Palazzo Topkapi, ma anche progetti di festival cinematografici e di concerti di rockstar come gli U2. Il tutto con un budget che si aggira sui 375 milioni di lire turche. Metin Karada, noto architetto e segretario dell’Ordine, in più di un’intervista ha detto che l’Agenzia ha una struttura caotica e la suddivisione dei fondi «non è trasparente».

santralistanbul

Ma ci sono state anche altre accuse di corruzione e di mala gestione. Che a oggi però non sono state ancora provate. «Sull’Agenzia si sono fatte molte chiacchere – ha commentato il ministro della Cultura e del turismo Günay al quotidiano Daily News -. In realtà molti progetti sono stati rifiutati perché molto costosi oppure perché giudicati inadeguati, e questo ha generato malcontento fra chi li aveva avanzati». Di fatto, forte è stato lo scontento nel mondo dell’arte contemporanea per la selezione dei progetti. Un mondo che però a Istanbul vive da più di una decina di anni una stagione vivacissima. Basta dare uno sguardo a Santralistanbul (www.santralistanbul.com), uno straordinario reperto di archeologia industriale (si tratta della prima centrale elettrica dell’impero ottomano costruita nel 1911) trasformato da tre anni a questa parte in un cantiere internazionale d’arte dove si incontrano differenti linguaggi delle arti visive, della musica, della danza. Oppure al Museo di arte moderna o alla storia della lanciatissima Biennale di Istanbul, nata nel 1987. La vera movida di Istanbul abita qui. E continua a crescere da più di una decina di anni. er una iniziativa partita dalla società civile un gruppo di intellettuali turchi nel 1999 perorò la causa di Istanbul capitale europea della cultura ricevendo un secco no dalla Ue dal momento che la Turchia non ne fa parte. Ma quella proposta partita dal basso, sul lungo periodo, ha dato i suoi frutti e il 16 gennaio Istanbul avrà la sua incoronazione ufficiale come capitale del 2010. La cultura in questo caso ha preceduto la politica. Dimostrandosi più sensibile e lungimirante nel preconizzare un allargamento dell’Europa che significherebbe anche riconoscerne le radici multiculturali e, dal punto di vista delle religioni, certamente non solo cattoliche ma anche islamiche e chissà – di questo passo, ci auguriamo – anche pagane. Da parte sua la capitale turca punta a festeggiare l’atteso evento con una ridda di appuntamenti internazionali di arte, letteratura, musica, danza e perfino di cucina e di moda. Se ne è avuto qualche assaggio già durante le recenti festività, in una Istanbul che da alcune settimane insolitamente inonda di luci il mare scuro e profondo del Bosforo. Una Costantinopoli degli anni Duemila animata più che mai di locali, di feste e di concerti improvvisati a ogni angolo di strada, secondo la tradizione zingara più intima e seducente della città. Ma anche una capitale piena di cantieri aperti per restauro di monumenti simbolo come il Ponte di Galata sul Corno d’Oro e per la costruzione di nuovi centri culturali come il Museo dell’innocenza che il premio Nobel per la letteratura Ohran Pamuk ha fondato a pochi metri dalla sua casa-studio nello storico quartiere di Cihangir, traducendo in realtà una fantasia del protagonista del suo ultimo omonimo romanzo. E ancora per le centinaia di migliaia di turisti che durante le feste di capodanno hanno letteralmente preso “d’assalto” la metropoli (in tutto il 2009 sono stati 7,5 milioni e se ne attendono più di 10 milioni nel 2010) si aprono grandi mostre dedicate all’arte della Persia antica e ai rapporti fra Venezia e l’impero ottomano, mentre sfodera tutti i suoi gioielli lo storico Topkapi, che per secoli, con il suo dedalo di sale per consigli politici (divan), giardini con fontane, harem, ha fatto da palazzo pubblico e privato dei sultani ottomani. Intanto sul pontile di Galata pescatori di ogni età continuano a prendere all’amo pesci messi in fuga dal passaggio delle navi, per le strade del vecchio quartiere di Sultanahmet strillano i venditori di ciambelle, i gatti dormono sui tappeti in vetrina e la voce del muezzin continua a scandire le ore di preghiera in questa megalopoli (che dagli anni Cinquanta a oggi è passata da poco più di un milione di abitanti agli attuali 12 milioni) in cui da sempre convivono differenti culture e religioni e dove oggi fiere ragazze con la minigonna sfrecciano per le vie di Beyoglu accanto a donne velate. Una mescolanza singolare, non solo di culture turche, arabe, greche, armene, curde, come racconta la scrittrice turca Elif Shafak ne La bastarda di Istanbul (Rizzoli) e nel suo nuovo romanzo ma anche una particolarissima coesistenza di antico e moderno, di inerzia e movimento continuano a essere la cifra più vera di questa Bisanzio del nuovo millennio. Così il Museo di arte moderna, nato cinque anni fa, con il suo giardino di sculture in acciaio colorato si inserisce nello scosceso panorama di viuzze del quartiere di Cihangir (quello di Pamuk appunto), dominato da una svettante moschea. E in Santa Sofia una Madonna bizantina campeggia accanto a versetti del Corano. Compresenze di Oriente e di Occidente che fanno il fascino sottile di questa capitale della cultura che, unica al mondo, si stende su due continenti. Una città che sul versante occidentale come sul quello asiatico continua a crescere in orizzontale, disinvoltamente senza centro, come volesse procedere all’infinito. Nei quartieri della parte più europea, palazzoni di cemento e piccole case di legno si ergono fianco a fianco, giocandosela in solitario nel conquistare un proprio posto in uno skyline “creativo”, gaddianamente «patrufaziano». Istanbul – e questo è parte della sua magia – trova anche il modo di far convivere il razionalismo dell’edilizia anni Settanta con il romanticismo delle vecchie Yali in legno, residenze di villeggiatura sul Bosforo della buona borghesia turca. Alcune sopravvivono come se il tempo non fosse passato, altre anche in mezzo all’abitato appaiono drammaticamente spanciate e ridotte a macerie da incendi e terremoti. Come quello, devastante, che colpì Istanbul nel 1999 causando più di 30mila morti. La città turca, di fatto, sorge su una faglia simile a quella californiana senza mai essersi dotata di adeguata edilizia anti sismica. E come scrive lo stesso Pamuk nel libro Altri colori (Einaudi) non c’è cupola o minareto qui che, nei secoli, non sia stato ricostruito almeno una volta. «Compresi quelli che ai nostri occhi hanno sempre rappresentato la continuità ottomana nei secoli». Comprese anche le magnifiche moschee del più importante architetto ottomano, Sinan (1489-1588), che punteggiano la città di monumentali cupole finemente decorate all’interno con ceramiche dipinte e con un complesso lessico aniconico. I fondi che il governo di Ankara è riuscito a racimolare grazie al fatto che Istanbul sia stata riconosciuta capitale europea 2010 serviranno in larga parte proprio a questo, a fare lavori di restauro e di consolidamento dei molti tesori d’arte che Istanbul possiede. Ma la faccenda potrebbe in realtà essere più complicata. Sui giornali turchi, infatti, nei mesi scorsi si è accesa una violenta polemica sulla gestione delle celebrazioni da parte dell’agenzia turca Istanbul 2010 european capital of culture. Nell’ufficio del suo segretario generale Yilmaz Kurt sono passate più di duemila proposte di progetti culturali dei quali ne sono stati selezionati 467 da spalmare durante tutto l’arco dell’anno. Fra questi, il restauro di Santa Sophia e di Palazzo Topkapi, ma anche progetti di festival cinematografici e di concerti di rockstar come gli U2. Il tutto con un budget che si aggira sui 375 milioni di lire turche. Metin Karada, noto architetto e segretario dell’Ordine, in più di un’intervista ha detto che l’Agenzia ha una struttura caotica e la suddivisione dei fondi «non è trasparente». Ma ci sono state anche altre accuse di corruzione e di mala gestione. Che a oggi però non sono state ancora provate. «Sull’Agenzia si sono fatte molte chiacchere – ha commentato il ministro della Cultura e del turismo Günay al quotidiano Daily News -. In realtà molti progetti sono stati rifiutati perché molto costosi oppure perché giudicati inadeguati, e questo ha generato malcontento fra chi li aveva avanzati». Di fatto, forte è stato lo scontento nel mondo dell’arte contemporanea per la selezione dei progetti. Un mondo che però a Istanbul vive da più di una decina di anni una stagione vivacissima. Basta dare uno sguardo a Santralistanbul (www.santralistanbul.com), uno straordinario reperto di archeologia industriale (si tratta della prima centrale elettrica dell’impero ottomano costruita nel 1911) trasformato da tre anni a questa parte in un cantiere internazionale d’arte dove si incontrano differenti linguaggi delle arti visive, della musica, della danza. Oppure al Museo di arte moderna o alla storia della lanciatissima Biennale di Istanbul, nata nel 1987. La vera movida di Istanbul abita qui. E continua a crescere da più di una decina di anni.

Le due signore del Mediterraneo

Istanbul e Venezia, un rapporto lungo secoli

interno moschea, Istanbul

Centoventisei opere provenienti dai Musei civici veneziani e quarantacinque dai musei di Istanbul documentano in una grande mostra al museo Sakip Sabanci la lunga trama di rapporti che le due città ebbero nei secoli. Con il titolo Venezia e Istanbul in epoca ottomana (fino al 28 febbraio, catalogo Electa) questa rassegna, ideata per Istanbul capitale europea della cultura 2010, si concentra in particolare sul periodo che va dalla caduta di Costantinopoli nel 1453 alla battaglia di Lepanto del 1571 vinta dai cristiani (anche se, come è noto, si trattò di una data molto più simbolica che risolutiva in termini di egemonia). Arrivando poi fino al 1718, l’anno in cui i rapporti fra la Repubblica marciana e la Sublime Porta si conclusero definitivamente. (Vedi in proposito quanto scrive Ennio Concina nel libro Venezia e Istanbul, incontri, confronti e scambi, Forum). Dunque un lungo percorso con molte testimonianze di arte bizantina, di arte veneta protorinascimentale e rinascimentale, per arrivare all’orientalismo dell’arte ottocentesca. E se come ci ha insegnato lo storico dell’arte Otto Demus in libri come L’arte bizantina e l’Occidente (Einaudi) il ruolo svolto dall’arte bizantina nell’evoluzione dell’arte occidentale è stato fondamentale, con tanto di artisti bizantini usati come maestri e maldestri tentativi occidentali di imitazione, non meno trascurabile è stata l’influenza dell’arte turco-ottomana e, attraverso i traffici commerciali e i rapporti diplomatici con Istanbul, quella proveniente dai Paesi arabi. Le due signore del Mediterraneo La mostra al Sakip Sabanci, dunque, racconta di un ricco scambio biunivoco fra le due differenti culture, che da parte “europea” vide protagonista assoluta l’arte di Gentile Bellini con il suo potente ritratto del doge Giovanni Mocenigo (in mostra a Istanbul) ma anche con il suo celeberrimo Ritratto del sultano Mehmed II del 1480 conservato alla Nataional gallery di Londra. Un quadro che il pittore veneziano – primo artista occidentale a lavorare direttamente su committenza ottomana – realizzò vivendo per un periodo presso la corte del sultano. E non è certo un caso che si trattasse di un pittore che aveva bottega a Venezia. La Repubblica nei primi tre secoli di conflitti con i turchi aveva mostrato una certa condiscendenza sprezzante verso i rivali, cavalieri delle steppe abili nell’arte equestre ma nuovi all’arte nautica. Ma poi, vista l’esiguità del proprio apparato militare e per non offrire vantaggi alla rivale Genova, pensò bene di optare per una politica neutrale verso i turchi. Una politica che si tradusse in fitti scambi commerciali e qualche volta perfino in alleanze militari.

Lorenzo Lotto carpet

Testimonianze del secolare rapporto di Venezia con la cultura ottomana, anche per questo, si trovano nelle tele commissionate da ricchi committenti veneziani ai pittori più importanti tra fine Quattrocento e fine Cinquecento. Basta pensare alla precisa raffigurazione di tappeti turchi in alcune opere di Lorenzo Lotto. Oppure alla foggia di vestiti con turbante e alla presenza di minareti sullo sfondo di alcune tele di Carpaccio e in molta pittura “orientalista” che si sviluppò a Venezia dal XV al XVII secolo. Senza contare che determinante per la nascita del cosiddetto colorismo veneto (di cui furono protagonisti Tiziano, Veronese, Tintoretto e poi Tiepolo) fu l’impiego di particolari pigmenti usati dai miniaturisti persiani e ottomani e l’uso di polvere di pietre preziose nell’amalgama dei colori. E se prestiti orientali quasi non si contano nelle lacche veneziane e nelle rilegature di libri veneziani del XVI secolo, così come nella lavorazione di metalli ageminati, nei tessuti e nei velluti, colpisce a livello meno patente la penetrazione di certe suggestioni della cultura islamica contenute in capolavori come I tre filosofi (1504-08) di Giorgione in cui l’artista dà particolare rilievo e fierezza alla figura che secondo la lettura di Michael Barry (in Venezia e l’islam 828-1797, Marsilio) andrebbe letta come ritratto del filosofo Averroè.

Vermeer spleeping maid

Ma se i prestiti della cultura turco-ottomana all’arte italiana sono ancora materia per specialisti e, purtroppo, non compaiono sui manuali di scuola, spostandoci dal museo Sakip Sabanci al ricchissimo Museo di arte turca e islamica nei pressi della Moschea blu non si può non restare colpiti dal sistema di catalogazione delle opere e dei reperti. Questi ultimi per lo più sono schedati con il nome dell’archeologo occidentale che li ha riportati alla luce. Mentre per indicare le diverse e complesse grafie dei tappeti turchi vengono comunemente usati i nomi dei pittori italiani e olandesi (Bellini, Lotto, Holbein ecc) che dipinsero quelle tipologie di tappeto nei loro quadri. Tristemente, quasi fosse lo sguardo dell’Occidente a definirne il valore.

La pazzia del sultano, il tarlo ottomano

I loro antenati erano i turcomanni del III millennio a.C. Ma il potere ottomano non fu strutturato solo sulla potenza “equestre”. La chiave del lungo successo dell’impero, racconta Jason Goodwin ne I signori degli orizzonti (Einaudi), risiedeva in un complesso sistema militare e di governo. «Tra il 1320 e il 1390 gli Ottomani travolsero come un’onda impetuosa le secche del potere bizantino che aveva dominato per più di mille anni» scrive lo storico inglese. Nel 1326 gli Ottomani conquistarono Bursa facendone la loro capitale, poi a poco a poco si impadronirono della Grecia settentrionale, della Macedonia, della Bulgaria e quindi della Tracia e di Adrianopoli che, ribattezzata Edirne, divenne nel 1366 la loro capitale sul suolo europeo. La travolgente avanzata ottomana fu temporaneamente arrestata da Timur nel 1402 nella battaglia di Ankara. Nel 1453 però i turchi conquistarono Istanbul (gli occidentali la registrarono come la caduta di Costantinopoli). E l’avanzata ottomana riprese con forza fino ad arrivare poi a Vienna, nel cuore dell’Europa. Ma l’impero significò anche la costruzione di un’importante rete di istituzioni culturali e islamiche che permisero di presidiare il territorio conquistato: ovvero moschee, madrasse, biblioteche ma anche caravanserragli, bazar, ponti, acquedotti, ospedali e ospizi. Se gli Ottomani, insomma, non andavano tanto per il sottile quando erano in guerra, usavano il guanto di velluto quando si trattava poi di governare, lasciando che i popoli conservassero le loro tradizioni e credenze religiose. Ma quell’impero ottomano, che con il cosiddetto tributo dei ragazzi aveva congegnato un sistema di cooptazione della classe militare e della burocrazia facendo fuori ogni privilegio di sangue e ogni infida aristocrazia, aveva nella legge fratricida il proprio tallone di Achille. Con questa legge (che fu abolita solo nel 1603) i fratelli e i parenti del sultano venivano uccisi o rinchiusi in prigione perché non potessero tramare contro di lui. Ma la pratica invalidante di imprigionare i principi nelle gabbie finì per creare dinastie di disadattati. Osman III, per esempio, aveva passato cinquanta anni in una gabbia con sordomuti quando fu ripescato per prendere il posto del sultano che nel frattempo era morto. «Molti sultani – scrive Goodwin – erano mentalmente disturbati, un fatto che non può essere attribuito ai pericoli dei matrimoni tra consanguinei ma si spiega con le atroci condizioni in cui venivano allevati». s.m.

L’altra Istanbul. Uno scenario underground

C’è voluto il lungometraggio del turco tedesco Fatih Akin “Crossing the Bridge: il sound di Istanbul”, nel 2005, perché si cominciasse a parlare della Istanbul underground. Sezen Aksu, dalla band neo psichedelica Baba Zula alla cantante tradizionale curda Aynur Dogan, il mondo sotterraneo che gravita dal ponte di Galata a Istiklal Caddesi, sul lato occidentale di Costantinopoli, trovava finalmente diffusione. Istanbul è anche, e forse ultimamente soprattutto, questo. Una generazione nata lontana dalla città sul Bosforo, che fino a cinquant’anni fa era anche greca, figlia della città operaia di Izmit o emigrata dal Kurdistan in seguito al conflitto col Pkk. E approdata nel quartiere di Beyoglu, fra affitti improponibili, case occupate e disagi metropolitani, dopo essere cresciuta sotto la repressione del colpo di Stato, il divieto di apertura verso ovest ed Est, il nazionalismo e il militarismo più estremi, fino a sviluppare correnti e suoni del tutto unici. Non è Occidente né Oriente, la scena musicale di Istanbul: è semplicemente tutto quel che si può immaginare. Il turbo folk balcanico, la musica elettronica suonata col saz, e soprattutto la strada, luogo di socializzazione privilegiato di tutta l’area ottomana. A Istiklal si gira con lo strumento e ci si siede a suonare mentre dal lato occidentale, a Kadikoy, si vanno a incidere album che poi invadono internet e negozi. Dietro a tutto questo c’è anche molta politica; perché la libera espressione, in Turchia, è prima di tutto un atto di denuncia. C’è la questione delle minoranze curde, alevite, arabe e rom, per chi vuole fare musica tradizionale; c’è la questione dei diritti umani, per chi va a suonare agli scioperi e alle manifestazioni e per chi ha le radici ben piantate nel cemento della Turchia del boom economico e quindi del rock, del rap, e dell’elettronica; e ci sono i diritti dei migranti, perché Istanbul è anche un crocevia di profughi in arrivo da Africa, Afghanistan, Iraq e Palestina. Un esempio di questa commistione è Enzo Ikah, venticinquenne esule politico congolese; nato in Italia, studente della Sorbona, bassista di Youssu’n Dour e infine fuggitivo per aver criticato il regime della Repubblica Democratica del Congo, oggi fa il cantante reggae a Istanbul. In turco. Un fenomeno locale, che dopo due anni di concerti sta finalmente per pubblicare il primo disco – entro fine gennaio, pare. Alle sue spalle, un intero collettivo di band politicamente impegnate, l’Oppa tzupa sound. system. Una costellazione di esperienze che comprende la rock band Ahibba, che canta in arabo facendo metal con strumenti tradizionali; lo ska punk balcanico dei Bandista, che cantano in turco “Bella ciao” e “Fischia il vento”; il folk-jazz di Julide Oksel; e così via, evolvendosi ed espandendosi a un ritmo impressionante, inglobando collaborazioni con film maker, movimenti politici, artisti visuali e tutto ciò che di unico questa città sta producendo. In tempo reale.(contributo su Istanbul underground di Annalena Di Giovanni)

da left-avvenimenti

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Il ritratto interiore

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 12, 2004


El Greco, ritratto di gentiluomo

Nella forma del volto, l’anima si esprime nel modo più chiaro”, scriveva Georg Simmel in un affascinante saggio intitolato Il volto e il ritratto. E ancora di più l’interiorità si rende leggibile, scriveva, quando quel volto non viene semplicemente fotografato, fissato in un’ immagine descrittiva dei tratti somatici, ma quando viene tradotto e, per così dire, reinterpretato, sulla tela. Quando c’è di mezzo la percezione, la sensibilità e il lavoro dell’artista, insomma, il volto diventa ancor più specchio di un’immagine invisibile che la macchina fotografica non riesce cogliere. Basta pensare al sorriso di Monna Lisa o alla potenza espressiva dei ritratti di Rembrandt volti spesso anonimi, ma dai quali sembra di poter leggere il movimento interiore del soggetto e persino i suoi affetti e le sue pulsioni. Ma la vera rivoluzione del ritratto, si sa, arriverà con il cubismo quando Picasso si mise a scomporre sulla tela il volto delle donne amate, cercando di rappresentarne l’interiorità. Un’immagine frammentata, “regressiva”, tanto che diventa difficile dire se sia stata davvero un’immagine della musa o non, piuttosto, un’immagine interiore creata dall’artista stesso. E se anche il Novecento italiano non offre personalità così geniali e dirompenti, anche i nostri Boccioni e, soprattutto, Modigliani cercarono, attraverso la scomposizione l’uno e la deformazione e l’allungamento delle linee l’altro, una via a una rappresentazione della figura umana che non fosse solo freddamente razionale. Ma la strada per arrivarci è lunga. Attraversa cinquecento anni di storia del ritratto. La indaga a partire dalle sue radici moderne nella Venezia di Tiziano e poi di Veronese e Tintoretto la mostra Il ritratto interiore che si apre il 1 giugno nel museo archeologico di Aosta. Un percorso di quasi 150 opere, scelte da Vittorio Sgarbi, passando dalle carnali figure femminili di Tiziano (che già rompono la rigidità ufficiale dei ritratti di corte), ai penetranti ritratti di Lotto che, per la prima volta, allargano il campo del ritratto anche a persone comuni del ceto medio, artigiani e mercanti, cogliendone l’individualità e la psicologia. Come nel “ritratto d’uomo’, proveniente dalla collezione Otto Neumann di New York, che trasmette il senso di una presenza umana viva e vibrante. Ancora più ardito, il ritratto di gentiluomo di El Greco, con le sue linee ritorte e allungate, un’originalità che spicca in un contesto cinquecentesco ancora fermo. E poi il Seicento raccontato attraverso alcuni folgoranti ritratti di Diego Velazquez, la ritrattistica aneddotica del settecento, l’ottocento simbolista e romantico, fino al Novecento che Sgarbi sceglie di raccontare puntando più sulla tradizione che sull’innovazione. Eccezion fatta per le tele di Giacomo Balla, declinandolo qui fra il naif di Ligabue e le contorsioni interiori di Pirandello, passando per un insolito Ritratto col fiore in bocca di Pier Paolo Pasolini. Fino ad ottobre. Catalogo Skira ( Simona Maggiorelli)

dal quotidiano Europa, giugno 2004

dal quotidiano Europa

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