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Musulmani in carne ed ossa

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 30, 2011

Trappole dell’immaginario che impediscono di conoscere chi approda dal Medioriente in cerca di una nuova vita e possibilità di lavoro. Pregiudizi e ignoranza strutturano il razzismo Europa. Il sociologo Stefano Allievi dell’Università di Padova in un nuovo libro va alla radice di ciò che muove la gurra delle moschee. Lo presenterà nell’ambito del  festival vicino/lontano di Udine dal 12 al 15 maggio a Udine.

di Simona Maggiorelli

Musulmani in Europa

Dopo aver indagato le trappole dell’immaginario che deformano la realtà dell’altro ogniqualvolta parliamo di musulmani in Occidente, il sociologo Stefano Allievi, con un team internazionale di studiosi, pubblica La guerra delle moschee (Reset/Marsilio) un libro che, cifre e dati statistici alla mano, descrive minuziosamente la diffusione dell’Islam in Europa e come viene percepita dall’opinione pubblica. Emergono così in primo piano i gravi danni provocati dalle politiche conservatrici che fanno leva sulla paura e sul fantasma di un mondo islamico granitico e tout court fondamentalista, tratteggiato a prescindere da ogni conoscenza diretta. «Quello che ci viene propinato da certa politica e dai media – sottolinea lo studioso dell’Università di Padova – è un Islam monolitico, che non corrisponde alla reale complessità della galassia musulmana». In altre parole, insomma, l’islam non è uno solo, ma una realtà plurale. «Tutto ce lo conferma -annota Allievi in un suo scritto per Forum editrice -. Ce lo confermano la diversità culturale, geografica, linguistica, di scuole giuridiche, di usi e costumi, perfino, per quanto lo si ammetta malvolentieri, di teologie, di idee di Dio e dell’uomo». Ma le generalizzazioni e le semplificazioni, si sa, “tolgono” la fatica di pensare, mentre usare la contrapposizione «noi-loro ci offre a buon mercato una Weltanschaung di riferimento, buona per tutte le occasioni». Specie per quelle occasioni che permettono a politici di destra di accaparrarsi seggi e assessorati. Così la paura dell’altro, di ciò che è sconosciuto, viene brandita per impedire la costruzione di nuove moschee e per chiuderne di già esistenti. Con tanto di incursioni per «desacralizzare» con sangue di maiale gli spazi di riunione musulmana. E nel dibattito pubblico nel Nord d’Italia dove primeggia la Lega (ma non solo) tornano ad affiorare categorie tristemente note come quelle di “sacro” e di “ autenticità”, di “puro” e di “impuro”. «E contro l’impuro, contro il Male, si chiama alla crociata» avverte Stefano Allievi, ricordando anche come le parole “autentico” e “impuro” riecheggiassero nei discorsi nazisti. Anche per questo gli abbiamo chiesto di aiutarci a capire quali sono le radici di ciò che sta accadendo in Europa riguardo agli immigrati

Professor Allievi quanto è forviante l’opposizione Islam – Occidente cristiano?

Lo è fortemente, basta dire che le tre grandi religioni monoteistiche, ebraismo, cristianesimo e islam hanno una comune discendenza da Abramo., tanto che si dicono religioni abramitiche.

Ma ebraismo e cristianesimo vengono dette anche religioni occidentali…

A rigore nessuna delle tre religioni è occidentale. Sono nate tutte in quell’area che noi chiamiamo Medioriente. e a poca distanza l’una dall’altra.

Ma di due di queste religioni, lei ha scritto, siamo disposti a pensare che si sono occidentalizzate o che l’occidente l’hanno addirittura inventato, della terza no.

Per capire quanto sia una visione storicamente falsa basta pensare, sul piano geo-politico, all’importanza che ha avuto la denominazione arabo-islamica in Andalusia ovvero l’araba al-Andalus, oppure alla Sicilia dove l’incontro con le culture arabe non è stato certo uno dei periodi più cupi. Oppure pensiamo a quanto la scienza occidentale ha preso dall’astronomia, dall’algebra, dalla medicina, dall’arte, dalla chimica arabe. Mentre tanti contenuti della cultura occidentale sono stati assorbiti e rielaborati da quelle mediorientali.

Nonostante tanti contatti e scambi culturali lungo i secoli, ancora oggi, da noi, c’è tanta ignoranza sull’Islam?

L’idea dell’Islam che passa sui media è gravemente alterata. Si stigmatizza l’uso del velo e giustamente certo maschilismo arabo ma non si sa, per esempio, che il divorzio è una pratica riconosciuta da tempo nell’Islam. Ad indossare il hijab spesso sono donne colte , libere, che lavorano. La realtà è assai più complessa e articolata di quanto si creda e si dica.

Su temi come l’aborto l’islam ha posizioni più aperte del cattolicesimo. Per esempio, il feto non è considerato sacro e intoccabile fin dalle prime settimane di vita. E’ così?

Sì, certo, così come nell’Islam non c’è il peccato originale. Ma con questo non voglio dire che l’Islam sia una religione più progressista, dico che va studiata e conosciuta per quello che è nella pratica quotidiana dei musulmani. In Italia il dialogo interculturale manca totalmente e mancano anche le basi della conoscenza. I giornalisti e i politici che alimentano il sospetto intorno alle moschee perlopiù non ci hanno mai messo piede. Ma basterebbe fare una telefonata ai carabinieri o interpellare la Digos per sapere tutto ciò che c’è da sapere. Le moschee in Italia sono tra i luoghi più monitorati . E le leggi vengono applicate più che scrupolosamente. Come è giusto che sia, del resto. Ma va detto anche che nel Veneto dove vivo, per esempio, capita che di fronte a una medesima infrazione, un locale di proprietà di cittadini “autoctoni” venga multato mentre uno di musulmani venga direttamente chiuso.

L’ immigrazione in Italia è davvero a maggioranza musulmana come si legge e paventa sui giornali?

In realtà il grosso dell’immigrazione in Italia arriva da paesi di religione cristiana, molti sono gli ortodossi dalla Romania e da altri Paesi dell’Est, tanti sono i cattolici dalle Filippine, altri sono maroniti oppure animisti africani e via di questo passo. Solo un terzo dello stock dell’intera immigrazione proviene di paesi musulmani. E non è detto che chi viene da un’area regionale dove l’Islam è la religione più diffusa sia un praticante o un credente. Se io emigrassi dovrei essere considerato là un cattolico perché vengo da un Paese a maggioranza cattolica? Qui da noi se una maestra ha in classe un bambino arabo la prima cosa che fa è badare a non dargli per merenda il panino al prosciutto. Oppure con tutta onestà gli chiede di spiegare in classe cosa è il Ramadan, senza considerare che quel bambino, pur provenendo da un paese musulmano, potrebbe essere cresciuto in una famiglia non praticante.

L’etnicizzazione dell’immigrazione è una delle distorsioni più diffuse. In Italia chi viene da Paesi arabi può solo incontrare suoi connazionali in moschea?

Dico spesso che in Italia per quei giovani immigrati c’è ben poco tra il bar e la moschea. Una rete laica di associazioni di cultura araba è praticamente inesistente. E questo in un momento in cui il nostro associazionismo politico è morente e il maggior sindacato è soprattutto formato da pensionati…

Un caso solo italiano?

Nell’Europa del Centro-nord gli immigrati dal Medioriente trovavano fino a qualche anno fa un’associazionismo attivo e maturo, declinato in maniera laica, anche grazie alla rete che si era sviluppata su input del panarabismo socialista. Ma oggi la situazione è peggiorata. In Italia poi tocca i punti più bassi. Il bar notoriamente non è un luogo associativo organizzato. In moschea si va per pregare anche per trovare una macelleria halal e altri prodotti , ma soprattutto per avere una rete di rapporti di sostegno. Detto questo non è che ad oggi ci sia una particolare concentrazione di moschee sul territorio italiano e nemmeno nel resto dell’Europa. In barba a tutti gli allarmismi. Senza contare che per tradizione la moschea è un luogo di incontro, aperto; spesso al suo interno ha un mercato. Insomma parliamo di una realtà molto diversa dalle nostre chiese.

Allargando lo sguardo all’Europa, il processo di integrazione ha subito contraccolpi negli ultimi anni?

E’ un processo che va avanti, ma anche contraddittorio che conosce battute di arresto. C’è stata una universalizzazione dei diritti, ma non funziona ovunque.

Nella civilissima Svizzera, come è noto, è passato un referendum per la messa al bando delle moschee. Un caso emblematico?

Ecco il punto. Quel referendum dà molto da pensare ma al tempo stesso sarebbe difficile dire che in Svizzera l’integrazione degli immigrati non sia un processo avviato e da tempo. Siamo di fronte a una situazione per molti versi contraddittoria. Per cui i maggiori sì alla messa al bando dei minareti si sono registrati nei cantoni di montagna più isolati e non nelle città svizzere dove l’immigrazione musulmana è più massiccia. Qui torniamo all’inizio della nostra conversazione: quello che manca è la conoscenza dei musulmani in carne ed ossa, mentre si fa molta propaganda riguardo a musulmani immaginari pensati così come li descrivono i media, alterando la realtà.

Da left-avvenimenti

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Quel sapere che fa paura al potere

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 28, 2011

 Vietato pensare. Il premier Berlusconi vorrebbe irretire l’autonomia critica e la memoria degli italiani. Ma le sue bugie hanno le gambe corte. Ala Festival Parole di giustizia a La Spezia il professor Stefano Rodotà parla dell’importanza della storia  e dell’impegno civile nel contrastare la barbarie culturale in cui sembra caduto il Paese

di Simona Maggiorelli

Lorenzetti Il Buon governo, Siena XIV secolo

Restituire un pezzo di memoria assume inevitabilmente un significato politico e civile, oggi in Italia. Anche se il professor Stefano Rodotà a proposito del suo Diritti e libertà nella storia d’Italia (Donzelli) si schermisce: «non voglio salire su un cavallo bianco -dice- ho solo cercato di rinfrescare il ricordo di certi fatti. Perché negli ultimi dieci anni anche in Parlamento si raccontano cose che nessuno anni fa avrebbe osato, perché si conosceva la storia di questo paese». Un attacco alla storia, (vedi i manifesti scandalo sulle Br in procura) che va di pari passo con l’attacco del Premier alle istituzioni. E non solo. Su  questi temi, in occasione della presentazione del libro al Festival Parole di giustizia il 13 maggio a La Spezia abbiamo rivolto alcune domande al professore emerito di diritto dell’Università La Sapienza.

Professor  Stefano Rodotà, dopo aver denunciato l’attacco alla Costituzione, ora lei parla di decostituzionalizzazione. Una deriva ulteriore?

Sì, si usa la riforma della giustizia per eliminare in radice garanzie che la Carta prevede. Là dove, per esempio, è detto che la magistratura dispone direttamente della polizia giudiziaria si leva “direttamente” e si dice “secondo le modalità della legge”. Così una maggioranza qualsiasi potrà far fuori le garanzie sancite dalla Costituzione e protette dalla sua rigidità. E si potrà passare una serie di poteri a maggioranze ordinarie come l’attuale: blindata, che vota qualsiasi cosa. Intanto il Parlamento è stato ridotto a luogo di registrazione passiva della volontà del presidente del Consiglio e l’ altro sistema di controllo, di contropotere, di contrappeso necessario in ogni democrazia- la magistratura- è sempre più preso di mira».

Stefano Rodotà

 Berlusconi parla di magistrati «eversori», stigmatizza la Corte costituzionale «covo di sinistra». Calunnia, altera la verità, anche quella storica. Perché una parte di italiani continua a credere alle sue falsità?

Questa è la domanda chiave. Di risposta non ce n’è una sola. Al primo punto c’è l’informazione in Italia. Non dobbiamo cadere nella trappola berlusconiana che addita alcuni talk show come eretici nei suoi riguardi quando tutte le ricerche dicono che l’opinione pubblica si forma soprattutto con il Tg1 e il tg5. Che non riferiscono una serie di fatti oppure ne danno la versione di B. Perfino l’Autorità delle telecomunicazioni- che pure non brilla di attivismo in queste materie- ha dovuto dire che non si può diffondere ogni giorno un comunicato o un video di B. Secondo punto: il Premier ha costruito intorno a sé, non “un sogno” come è stato detto, ma un blocco sociale su interessi come l’evasione fiscale. Per lui «l’evasione fiscale è legittima difesa». Da qui l’abbassamento della soglia di tutte le regole. Così accanto alle leggi ad personam, ecco l’eliminazione del falso in bilancio, di cui B. si è servito. Una “semplificazione” che fa scendere la legalità nella stesura dei bilanci. Parlo di un blocco sociale, dunque, costruito sui peggiori aspetti della società italiana come il non pagare le tasse. Anche se qualcosa comincia a scricchiolare: con questa crisi le piccole e medie imprese non riescono a stare sul mercato, i problemi che devono affrontare sono assai più vasti. Poi a tutto questo va aggiunto un terzo elemento: la debolezza dell’opposizione che, a mio avviso, ha regalato forza a B.

 B. dice che la sinistra è triste ed «ha una ideologia disumana e crudele». E alla convention dei Liberal del Pd Bill Emmott risponde che non va sottovalutato: «la sinistra ha una cultura del dolore». Così Enzo Bianco rilancia: «dobbiamo sorridere di più». Perché continuare a rincorrere B. sul suo terreno?

Per lungo tempo è stata sopravvalutata la capacità di comunicazione di B. E si è pensato che adeguandosi al suo modello lo si sarebbe sconfitto. Non è accaduto. Proprio per l’asimmetria di potere: se io scelgo il modello media e i media sono di un altro, lotto con una mano legata dietro la schiena. Intanto si è persa la strada storica del rapporto con la società. Qualcosa, però, sta cambiando. La manifestazione delle donne, degli studenti, del lavoro e del precariato ci dicono di una ripresa di reazione sociale. E non sono più «i ceti medi riflessivi» di cui parlava Paul Ginsborg all’epoca dei girotondi. Ora la reazione che ci si deve aspettare dall’opposizione è che trovi i giusti canali di comunicazione con questo mondo che va in piazza e che ha bisogno anche di una sponda politica. Fin qui le reazioni sono state vecchie, impaurite e sbagliate. Si è detto non possiamo arrenderci al movimentismo. Come se non fosse qualcosa che sta avvenendo nella società…

Dal suo libro emerge l’abisso fra uno Stato ancora in formazione che paventava lo strapotere della Chiesa e gli ultimi quindici anni in cui lei scrive: «si è assistito a pratiche politiche e a leggi che quanto più si avvicinavano alle richieste della Chiesa tanto più si allontanavano dalla Costituzione». Siamo sempre più lontani dal resto d’Europa?

Nettamente e non è una valutazione preconcetta o ideologica. Prendiamo un dato di realtà: si discute in Parlamento di testamento biologico lasciando strada aperta a una posizione della Chiesa veramente violenta che parla di «indisponibilità della vita e di limiti invalicabili». Ora se noi andiamo in Germania, Francia o in Spagna non solo lì le norme sul biotestamento ci sono e da tempo, ma sono in forme tali che in Italia l’opposizione neanche penserebbe di proporle perché verrebbe accusata di chissà quali nefandezze, Siamo prigionieri di questo meccanismo: da noi vengono presentate come questioni di fede questioni che evidentemente di fede non lo sono come il diritto a rinunciare a idratazione e nutrizione forzata. Quelli della Chiesa diventano da noi punti di vista che pesano nella discussione politica al punto da frenarne l’autonomia e l’intelligenza. Perché c’è una presenza della Chiesa più intensa che altrove, ma anche per una politica debole. Per cui il Pdl si presenta come fedele braccio secolare delle volontà del Vaticano e non per reale adesione culturale, ma per averne sostegno. La debolezza della politica italiana ha aperto varchi enormi all’iniziativa della Chiesa.

 Il vice presidente del Cnr, Roberto de Mattei ha organizzato un convegno contro l’evoluzionismo e uno sul fine vita in cui si attacca il protocollo di Harvard. Cosa ne pensa?

De Mattei è libero di dire ciò che vuole ma rivestendo una carica istituzionale – perché il vertice del Cnr è nominato dal Governo – ha il dovere di rispettare l’opinione altrui e di non usare il denaro e il ruolo pubblico per fare propaganda a tesi che, per usare un eufemismo, hanno uno statuto scientifico molto debole. Ormai non c’è più confronto, si rifiuta il punto di vista dell’altro quando non lo si ritiene conforme alla propria particolare situazione. E’ il dato devastante introdotto dalla logica del berlusconismo che ha come regola la negazione dell’altro. Lei lo ricordava all’inizio: “tutti comunisti”, “tutti nemici della famiglia”; con questa premessa non è possibile guardare alla società italiana tenendo aperta la discussione. Il punto drammatico è la regressione culturale, che è anche regressione del linguaggio. Uno non si scandalizza moralisticamente della barzelletta di B. ma della degradazione dell’altro che c’è nel suo linguaggio, che poi è quello leghista. Non a caso si attacca un luogo di formazione del pensiero critico come la scuola pubblica: si vuole azzerare la capacità dei cittadini di valutare. Ma cattiva cultura produce cattiva politica, ed è ciò che stiamo vivendo. Anche per questo quando Donzelli mi ha proposto di rimettere in circolazione quel libretto aggiornandolo ho accettato. In una altra situazione avrei detto no, ci sono molti materiali. Ma oggi si va perdendo anche la memoria dei fatti elementari. Il Premier, per esempio, lamenta di non poter fare provvedimenti. C’è un travisamento della realtà istituzionale tanto che si imputa alla Costituzione e al Parlamento l’impossibilità di muoversi. Ma basta pensare che in un solo anno, il 1970, sono stati approvati l’ordinamento regionale, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, le norme sulla carcerazione preventiva, in sequenza rapidissima… E negli anni successivi le norme sulle pari opportunità sul lavoro, l’aborto, la riforma dello stato di famiglia. C’era una cultura politica e in Parlamento si andava per discutere davvero. Non mi meraviglia che un periodo come quello, in cui si attuava la Costituzione per i diritti e le libertà, oggi venga demonizzato.

da left-avvenimenti

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Il caso Ellen West. Fu istigazione al suicidio?

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 9, 2011

Ludwig Binswanger, il padre dell’analisi esistenziale, dimise la giovane donna sapendo che si sarebbe uccisa. Un drammatico fallimento terapeutico. Che viene fatto passare per il suo contrario. Sulla scorta della filosofia di Heidegger che molte responsabilità ha avuto nel dare fondazione teorica al nazismo. La denuncia della psichiatra Annelore Homberg

di Simona Maggiorelli

la psichiatra Annelore Homberg

“La recensione firmata da Pietro Citati de Il caso Ellen West di Ludwig Binswanger apparsa su Repubblica il 17 marzo, fa indignare molto noi psichiatri perché scorretta come metodo e delinquenziale nel pensiero che esprime». Non usa circonlocuzioni la psichiatra e psicoterapeuta Annelore Homberg (Università di Chieti Pescara e di Foggia) nel commentare il modo in cui il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ha presentato la nuova edizione Einaudi del famoso saggio dello psichiatra svizzero padre della Daseinsanalyse, “analisi esistenziale”.

Dottoressa Homberg perché parla di scorrettezza?

Perché Citati tratta il testo di Binswanger come se fosse un’opera letteraria che ha una protagonista, Ellen West, e nella recensione riassume gli stati d’animo come se fosse una eroina. Ora, la figura di un romanzo può essere affascinante quanto si vuole ma sappiamo tutti che è inventata e che lo scrittore esprime una sua visione soggettiva delle cose: ogni lettore deciderà poi da sé se condividerla o no. Lo scrittore Pietro Citati, invece, dopo aver trattato quello che sarebbe un testo scientifico come se fosse un romanzo, repentinamente torna alla scienza. All’improvviso nel suo pezzo Binswanger torna ad essere «un grande psichiatra» che pronuncia ciò che sarebbe una verità scientifica: ovvero quanto può essere bello e libertario suicidarsi. E non parla del gesto di una persona affetta da una malattia del corpo allo stadio terminale, parla del suicidio di una paziente psichiatrica. Messaggio cinico, fatuo e falso perché non c’è storia più dolorosa e fallimentare di una persona che si toglie la vita per motivi psichici. Citati e con lui La Repubblica si sono mai chiesti che cosa provano i familiari di un suicida, spesso segnati a vita?

Con Cecilia Iannaco lei ha tradotto e pubblicato in Italia un lavoro dello psichiatra tedesco Albrecht Hirschmüller che, a proposito degli psichiatri che si occuparono della giovane donna, parla esplicitamente de Il fallimento di tre terapie. Cosa avvenne?

Nel 2002 il noto storico della psichiatria Albrecht Hirschmüller pubblicò una ricostruzione del caso Ellen West (pubblicata in Italia nel 2005 sulla rivista Il sogno della farfalla) che evidenzia in maniera inequivocabile quanto Binswanger abbia mentito sui fatti e quanto le posizioni da lui espresse siano ideologiche e “controtransferenziali”. In base a documenti inediti tra cui il diario di Ellen, Hirschmüller dovette criticare non solo la diagnosi di schizofrenia fatta da Binswanger ma anche tutta l’impostazione di fondo. Ellen West fu tutt’altro che una donna «destinata a realizzarsi nel suicidio». Era una paziente difficilissima ma il suo intento di guarire che c’era, fu brutalmente demolito dai suoi medici e dal marito.

Kirchner, Dr. Ludwig Binswanger

Nella prefazione de Il caso Ellen West ora edito da Einaudi si legge che lei «considerava esasperante l’analisi, ma anche l’unico mezzo che possa tirarla fuori dal baratro nel quale è precipitata»…

Come è noto nel 1920 la West iniziò con molte speranze un trattamento analitico con Victor von Gebsattel (che più tardi avrebbe aderito alla filosofia di Heidegger). Purtroppo, dopo pochi mesi costui andò incontro ad una crisi mistica: interruppe l’analisi e portò la sua paziente con sé ai sermoni del suo predicatore. La West, mostrando in questo segni di notevole equilibrio mentale, non gradì ed iniziò una seconda analisi, con un analista che le spiegava tutto con «l’erotismo anale». Quando la West ha una crisi durante le vacanze del suo medico, il marito la convince a farsi ricoverare nella Clinica di Binswanger. Arriviamo così al gennaio del 1921: Binswanger evita ogni rapporto profondo con Ellen ma suona spesso il violino insieme al marito di lei, Karl. Anche se qualche miglioramento c’è il marito continua a dire che lei dovrebbe “porre fine alle proprie sofferenze”. Mossa finale: Binswanger invita per un consulto decisivo il professor Hoche che l’anno prima aveva pubblicato un bestseller sulla necessità di eliminare «vite indegne di essere vissute». Solo dopo Ellen crolla e Binswanger e marito decretano l’incurabilità della paziente. Quando viene dimessa nel marzo 1921, Binswanger “sa” che si suiciderà. In effetti, Ellen prende i barbiturici – avuti da chi? – e lo fa in presenza del marito. Per proteggerlo giuridicamente, lascia per iscritto che lui non ne sapeva niente.

Raccontato cosi, sembra un’istigazione al suicidio…

Ciò che colpisce è che da parte di questi medici non c’è stata essuna autocritica, solo un freddo dire: era incurabile. Nei suoi diari, Binswanger non nomina Ellen, nemmeno una volta.

Nella lettera che Binswanger scrisse a Karl West dopo il suicidio di Ellen, lo psichiatra arriva a dirsi sollevato. Poi , molti anni dopo , nel 1944, scrive il famoso saggio, in cui sostiene che suicidandosi Ellen West avrebbe realizzato il suo Dasein. Quale influenza ha avuto su di lui il pensiero di Heidegger?

Il contatto con la filosofia di Heidegger gli permise di rileggere ciò che era stata un’allucinante negazione della sua impotenza umana e professionale, come necessità esistenziale e autorealizzazione del malato. Ellen era «nata per la morte». Hirschmüller sospetta che fosse il tentativo binswangheriano di discolparsi di un altro suicidio, quello del figlio maggiore nel 1928. Ciò che colpisce sono però i tempi. Binswanger concepisce questo saggio su una sua paziente ebrea a partire dal 1941-42 quando la Germania nazista che sembra ancora vittoriosa, ha già iniziato lo sterminio degli ebrei. E’ solo cattivo gusto o sotto c’è una micidiale connivenza con il nazismo, mediata dal pensiero di Heidegger? E qui torniamo all’articolo di Repubblica firmato da Citati: mi preoccupa che tramite la glorificazione del suicidio e di Binswanger si voglia proporre di nuovo il pensiero di Heidegger le cui responsabilità di pensatore nel nazismo sono ormai ben note.

IL LIBRO . Il medico e il filosofo

Dopo l’edizione SE uscita nel 2002, ora Einaudi propone una nuova edizione de Il caso Ellen West dello psichiatra Ludwig Binswanger (Kreuzlingen 1881-1966). Al centro, la storia di una giovane donna ebrea che nel 1921 si tolse la vita dopo aver tentato di curarsi con vari tentativi di analisi. L’ultimo fu appunto con il fondatore della Dasainsanalyse, Binswanger che poi considerò quel caso paradigmatico del suo fare psichiatria. Ma chi era la donna che lo psichiatra svizzero chiamò Ellen West sulla scorta di Rebekka West di Rosmersholm di Ibsen?

Studentessa modello, brillante, Ellen ebbe un primo crollo nel 1907, “probabilmente durante un viaggio in Italia, ma le sue cause ci sono ignote” scrive Albrecht Hirshmuller. Ma già da tempo nei diari “dava segni di una personalità premorbosa”. Poi anni di disturbi alimentari e autodistruzione. Con idee esplicitamente suicide. Nonostante tutto questo e altri segni di grave patologia mentale, Binswanger scrisse che con il suicidio Ellen realizzava se stessa. Il consenso alla dimissione della paziente che voleva morire, da parte sua, fu “un segno di ammirazione e di rispetto” chiosa il curatore de Il caso Ellen West Stefano Mistura, senza rilevare la violenza insita in quella “ammirazione”. E aggiunge: “Montaigne, Montesquieu, Hume, Schopenhauer e Heidegger, Binwanger considerva il suicidio un atto di libertà estrema”. Anche quello di una malata di mente. E’ stato scritto da eminenti psichiatri che Heidegger stesso, filosofo di riferimento della Daseinsanalyse era affetto da una particolare forma di schizofrenia. Come è possibile, viene da chiedersi, che Binswanger abbia fatto riferimento all’autore di Essere e tempo, al teorico dell'”essere per la morte”, cioè per l’annullamento e l’eliminazione dell’altro, per comprendere la schizofrenia, ritenendo così di dare una fondazione rigorosa alla psichiatria? Ciò che ci appare evidente è che per questa via Binswanger finì per pensare che la malattia fosse la vita stessa e che la cura della malattia fosse la morte. s.m.

da left-avvenimenti 2011

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Si alza la febbre dell’indignazione

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 9, 2011

Con Odio gli indifferenti di Antonio Gramsci nasce una nuova collana  Chiarelettere di instant book tratti da classici. Per riflettere sul presente. E  per la casa editrice diretta da Lorenzo Fazio l’ex partigiano Massimo Ottolenghi scrive Ribellarsi è giusto, dedicandolo ai giovani

Simona Maggiorelli

Antonio Gramsci

«Odio gli indifferenti. Credo…che vivere vuol dire essere partigiani…Chi vive veramente non può non essere cittadino e parteggiare, indifferenza è abulia, è parassitismo, non è vita…». Suona così, accalorato, l’attacco di un pezzo che Antonio Gramsci scrisse nel febbraio del 1917 e intitolato Prima di tutto. E su quell’articolo è tornato a riflettere ora l’editore Lorenzo Fazio scegliendolo come incipit di una incisiva raccolta di scritti gramsciani e di una nuova collana di instant book che d’ora in avanti affiancherà i libri d’inchiesta di Chiarellettere più legati all’attualità.

Una collana agile e incisiva, ma ad alto tasso di passione civile, fatta di testi di grandi autori del passato ma che aiuta a riflettere sul presente. «Non ci interessava pubblicare i grandi classici del pensiero, atri lo fanno già autorevolmente- spiega Fazio -. Ma collane come i Meridiani sono pensate in primis per gli studiosi, mentre noi vorremmo che i classici fossero davvero letti e offrire degli strumenti che tutti possano usare anche per orientarsi nel presente».

Da qui la scelta di questo testo che in un momento di ripresa di attenzione verso le opere gramsciane (Einaudi, per esempio, ha appena ripubblicato le Lettere dal carcere con la prefazione di Michela Murgia) tocca temi di “stringente attualità” come i politici inetti, il diritto alle cure mediche, i privilegi della scuola privata, i professionisti della guerra, e molto altro, permettendo di leggere in profondità i nodi rimasti irrisolti nell’Italia di oggi.

«Il libro Odio gli indifferenti presenta anche un Gramsci diverso da quello pensoso che pure è stato importantissimo per la nostra storia politica. Dagli scritti che abbiamo selezionato – prosegue Fazio – emerge un Gramsci arrabbiato, indignato, un Gramsci che ha una temperatura emotiva molto alta. Un Gramsci che si indigna, che si schiera. Un Gramsci che nel 1917-18 vive la tragedia della guerra come un normale cittadino che deve fare i conti con l’emergenza. Un Gramsci, insomma, che fa i conti con un’Italia molto simile a quella che viviamo chiusa nel “particulare”, senza attenzione al bene pubblico, al futuro dei giovani».

Odio gli indifferenti, Chiarelettere

Ma anche quando si alza la febbre del j’accuse Gramsci non perde mai di vista il fatto che non basta indignarsi. Così come non smette di analizzare le ragioni di un’indifferenza che non è semplice “non fare” ma «opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera». All’indifferenza in questo vibrante pamphlet Gramsci oppone la forza dell’intelligenza. Alla boria e la stupidità violenta di padroni e tiranni oppone l’«autorevolezza dell’intelligenza». «Recuperare questa intelligenza- chiosa il fondatore di Chiarelettere- è veramente un atto rivoluzionario; come lo è recuperare il senso pieno di certe parole». Anche per questo, per stimolare pensieri nuovi su questa Italia dei partiti che non sembra trovare una via d’uscita dalle pastoie del berlusconismo, Lorenzo Fazio ha deciso di pubblicare un titolo oggi praticamente introvabile in Italia: il Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie (1530 – 1563), in cui al fondo, ci si domanda: come è possibile che una massa di persone segua il tiranno? Come è possibile che un tiranno riesca a farsi seguire su una strada che va contro l’interesse dei più? «Sono domande del 1500 ma rimbalzano oggi moltissimo», sottolinea Fazio, che accanto all’attenzione per la storia e per la filosofia politica coltiva anche un’interesse per la memorialistica egagé. Proprio mentre in Francia emergeva il fenomeno Indignatevi! del novantacinquenne partigiano Stephane Hessel, Fazio metteva in cantiere il libro di un altro ex partigiano, Massimo Ottolenghi, avvocato torinese e tra i fondatori di Giustizia e Libertà dopo essere stato allontanato dall’insegnamento universitario con le leggi razziali. Il suo  Ribellarsi è giusto uscirà a maggio per Chiarelettere. «E’ una lettera aperta ai giovani – conclude Fazio – da parte di un uomo che, a 95 anni, ammette che la propria generazione ha fallito certi obiettivi di libertà e giustizia, e dice ai giovani: ora tocca a voi; voi non dovete fallire».

FRANCIA. La rivolta del partigiano Stephane Hessel

Uscito il 20 ottobre 2010 in Francia, Indignez vous!, a gennaio 2011 aveva venduto già  oltre cinquecentomila copie, collezionando ristampe e richieste di traduzione da tutto il mondo (Brasile, Polonia, Turchia, Giappone, Grecia, Stati Uniti). con circa trenta pagine di testo, oltre alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ( Onu 10 dicembre 1948), il libro di Stéphane Hessel è da dicembre in Italia dove, come è accaduto ovunque e come scrive Eric Aeschimann su Liberation ” è diventato un fatto di società e non solo un caso editoriale”.  Per leggere Indignatevi! (Pubblicato in Italia da Add editore) si impiegano poche decine di minuti. Tanto basta per far passare l’incisiva analisi, il programma politico e il discorso sul metodo dell’ex partigiano, oggi novantacinquenne,  che ci stimola a non rimanere inerti di fronte alle ingiustizie.

La sua analisi, come accennavamo, è ficcante e spietata.  Se dopo il 1948 sono stati fatti fatti importanti passi avanti, come la  deconolonizzazione e la fine dell’apartheid o la caduta del muro di Berlino,a partire soprattutto dagli anni duemila, la tendenza si è invertita ” i primi anni del ventunesimo secolo sono stati un periodo di regressione” scrive Hessel.  In anni di globalizzazione si sono determinate “cose insopportabili” dice Hessel censurando “l’indifferenza” di questa società che genera sans-papiers, che ricorre alle espulsioni”. Ma non solo. Questa regressione che stiamo vivendo secondo Hessel è legata anche  in parte alla presidenza di George W. Bush, all’11 settembre e alle disastrose decisioni Usa per l’intervento militare in Iraq”. E aggiunge: ” Siamo in una fase di transizione, tra gli orrori del primo decennio del nuovo secolo e le possibilità dei decenni futuri. Ma bisogna sperare, bisogna sempre sperare”.

Con Nelson Mandela e Martin Luther King Hessel fa sua la strategia della non violenza e invoca «una insurrezione pacifica». Hessel si dice convinto che il futuro appartenga alla non violenza, Hessel rifiuta di gistificare i “terroristi che mettono le bombe”. Non tanto e non solo per valori morali, ma anche perché “la violenza non è efficace”. (In questo prende le distanze da Sartre).

«L’impulso di scrivere il libro è stata la sensazione che i valori ereditati dalla Resistenza siano ancora oggi indispensabili», ha detto Hessel a La Stampa occasione della conferenza che ha tenuto alla Biennale Democrazia di Torino. «Sono principi calati, dopo la guerra, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», che Hessel contribuì nel 1948 a scrivere.

da left-avvenimenti

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Biennale democrazia. Nell’interesse dei molti

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 8, 2011

di Simona Maggiorelli

Forse mai come ora appuntamenti commenti come le Giornate della laicità di Reggio Emilia e la Biennale democrazia di Torino (entrambi al culmine questo fine settimana con decine di conferenze incontri, lezioni magistrali) assumono il significato politico di un dibattito pubblico sulla deriva che sta vivendo l’Italia. Un Paese , il nostro, in cui non solo gli strumenti della giustizia sono alterati da leggi ad personam (a favore del premier e del suo clan), non solo si vuole imbavagliare la stampa, non solo si contravviene all’articolo 11 della Costituzione che ripudia la guerra. Ma si negano diritti civili come l’accesso per tutti a tecniche mediche come la procreazione assistita mentre si vuole obbligare per legge a una vita meramente biologica attaccata alle macchine chi, avendo perso ogni facoltà mentale, si trovi in uno stato vegetativo permanente.

Di più. In Italia i diritti umani stessi vengono calpestati. Basta pensare alla sciagurata norma partorita dal governo Berlusconi e che ha istituito il reato di clandestinità. Una legge responsabile dei drammatici respingimenti di immigrati e di rifugiati (non riconosciuti come tali) a cui, impotenti, assistiamo in questi giorni. Per fare una diagnosi adeguata dello stato di salute della democrazia italiana, delle responsabilità dei governi di centrodestra, ma anche della debole opposizione della sinistra in Italia molti sono gli strumenti sul tavolo (su quest’ultimo tema, in particolare si veda lo stringente saggio di Rino Genovese “la responsabilità della sinistra italiana nell’affermarsi del berlusconismo” contenuto ne La democrazia in Italia edito da Cronopio).

La saggistica in questo ambito sta conoscendo una straordinaria fioritura. E tanti sono i libri che verranno presentati e discussi in questo fine settimana a Torino. A cominciare dal volume curato da Pier Paolo Portinaro per Einaudi L’interesse dei pochi, le ragioni dei molti che raccoglie una scelta significativa di interventi di politologi, giuristi, storici, sociologi e filosofi  presentati durante l’edizione 2009 della rassegna piemontese. E pubblicati ora con il preciso l’intento di offrire strumenti a una discussione pubblica documentata durante  questa Biennale democrazia 2011, come annota il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nella prefazione. Senza soluzione di continuità con quel lavoro iniziato due anni fa, non a caso, il festival torinese quest’anno ha scelto tre parole chiave: Tutti-molti-pochi. «La democrazia è una sorta di elastico, si tende e si chiude,vive di una continua dialettica, tra l’interesse dei pochi e quello dei molti» chiosa lo stesso Zagrebelsky presidente di Biennale democrazia. Avvertendo: «Il nemico principe della democrazia è l’oligarchia e il punto oggi è proprio come poter praticare una redistribuzione di potere ai più, a coloro che ne sono stati esclusi». Perciò la riflessione sul tema dell’oligarchia parte da lontano con lezioni di  storia antica di Luciano Canfora e Michael Cox e con una ricerca di nessi fra passato e presente affidata, tra gli altri, a Nadia Urbinati e a Lucio Bertelli. E ancora: riflessioni sul “potere di tutti”, del cosiddetto popolo, durante questo fine settimana saranno svolti da un giovane narratore e ricercatore sul campo come Andrea Bajani, dallo scrittore Antonio Pennacchi e dal filosofo Salvatore Veca. Ma interessante anche la sezione dedicata all’indagine su ideologia e religione  e su quanto l’assenza di laicità nella sfera pubblica indebolisca la democrazia italiana (con interventi di Gian Enrico Rusconi, Giulio Giorello e altri) e infine quella dedicata alla riflessione sui linguaggi , a come  l’arte, la musica, la letteratura possano far crescere la polis. Il programma completo della manifestazione è sul sito www.biennaledemocrazia.it

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Creatività nel vortice

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 6, 2011

Al Museo Guggenheim di Venezia la prima mostra ampia sul Vorticismo, il movimento inglese ispirato da Ezra Pound. Una avanguardia dalla vita breve ma che aprì la pittura inglese all’astrattismo

di Simona Maggiorelli

Dorothy Shakespear senza titolo

Con questa iniziativa della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia si colma finalmente una lacuna scientifica. Fin qui non si era mai vista in Italia una mostra sufficientemente completa sul Vorticismo, movimento inglese dalla parabola fulminante (1913- 1915) e che ebbe molti addentellati con il Futurismo italiano. A unirli, in primis, una parallela ricerca sul dinamismo, sulla  rappresentazione della velocità, sullo studio delle figure in movimento.

Analogamente a quanto andavano sperimentando da noi Bragaglia e Balla, Alvin Langdon Coburn, per esempio, realizzò con le sue vortografie una interessante serie di fotografie astratte, cercando di cogliere non solo lo spostamento del corpo nello spazio, ma anche il movimento umano nello scorrere del tempo. E ancora. Composizioni astratte di linee in movimento e forme a vortice per rappresentare forza e energia campeggiano nei quadri del primo Futurismo e di Boccioni in modo particolare. E diventano soggetto pressoché univoco delle elaborazioni pittoriche e grafiche che in Inghilterra si svilupparono nel “laboratorio” della rivista Blast, a review of the Great English Vortex, fondata da Ezra Pound con Wyndham Lewis dichiarando apertamente il proprio debito con Umberto Boccioni che aveva parlato del suo fare arte come «risultato finale di un vortice di emozioni».

Gaudier Brzeska

Ma come ci racconta questa importante mostra al Guggenheim di Venezia,  I vorticisti (fino al 15 maggio) e nata dalla collaborazione con molteplici istituzioni internazionali fra cui anche la Tate Britain di Londra, il Vorticismo non fu solo la versione più spiritualistica e letteraria del Futurismo ma -come ben evidenziano i due curatori Mark Antliff e Vivien Greene – fu anche un movimento aperto a quanto di più rivoluzionario aveva portato il Cubismo in Francia ma anche il Blaue Reiter in Germania. Basta dire che il nesso fra suono e colore indagato da Kandinskij. come del resto il suo scritto Lo spirituale nell’arte, esercitarono una grande attrazione su vorticisti inglesi come l’artista-letterato-poeta Wyndham Lewis, autore del manifesto del movimento.

Mentre il dinamismo plastico e la ricerca di forme “primitive” di Picabia e di Picasso  influenzarono fortemente la scultura del vorticista Henri Gaudier Brzeska, noto soprattutto per un totemico ritratto (in legno scolpito) del poeta Pound. Legandosi alle intuizioni più brillanti delle avanguardie i vorticisti d’Oltremanica cercarono di uscire dall’inerzia culturale del periodo edoardiano (1901-1910), ma non solo. In una Inghilterra in tumulto, in una società dinamizzata dalle lotte operaie, ma anche piena di contraddizioni, i Vorticisti cercarono di interpretare in termini artistici queste istanze di cambiamento. Purtroppo – alcuni di loro – finendo per restare impigliati in un inquieto e ambiguo esoterismo.

Da Left-Avvenimenti

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La bellezza incarnata

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 5, 2011

A Forlì una mostra invita a riscoprire Melozzo e i suoi «trovatori del cielo». Studiò a fondo la pittura di Piero della Francesca, umanizzandola

di Simona Maggiorelli

Melozzo da Forlì frammento di affresco

Un incontro di liuti, tamburi, mandolini. Un concerto di armonia di forme e di colori. Che suggerisce allo spettatore un’immagine idealizzata di vita a corte, fra poesia e musica. Non certo un orizzonte sacro e dottrinale che sa di morte.

Tanto che nella sua storia dell’arte italiana del 1913 Adolfo Venturi aveva definito gli angeli di Melozzo da Forlì «trovatori del cielo». Così, con tocco immediato e fresco, evitando l’ombra claustrale ed infida, l’architetto e pittore Melozzo di Giuliano degli Ambrosi (1438- 1494) fa vivere queste sue creature celesti in piena luce, lasciando che un sole radiante riscaldi i suoi quadri.

In pieno Quattrocento, in un’area romagnola ancora artisticamente attardata rispetto a quanto stava accadendo per esempio in Toscana, Melozzo riuscì a voltare i diktat della committenza ecclesiastica a favore di una limpida poetica inneggiante alla vita e all’arte. Distillando un proprio stile originale a partire dallo studio della pittura di Piero della Francesca. Leggendo in profondità l’arte del pittore aretino e umanizzandola. Facendo della bellezza enigmatica e mistica delle Madonne di Piero una bellezza incarnata e presente.

Pier della Francesca madonna Senigallia

Una preziosa summa della pittura di Melozzo è offerta fino al 12 giugno dalla mostra Melozzo da Forlì. L’umana bellezza tra Piero della Francesca e Raffaello (catalogo Silvana editoriale). Una monografica di grande valore scientifico anche perché il direttore dei musei Vaticani Antonio Paolucci, con i curatori Mauro Natale e Davide Benati, è riuscito a ricostruire nei Musei di San Domenico a Forlì una buona parte del complesso programma di pitture che Melozzo realizzò nel 1480 nell’abside della chiesa dei Santi Apostoli: un grande affresco dedicato all’Ascensione di Cristo e tradotto visivamente dal maestro forlivese in una dinamica sequenza di scorci, di punti di vista, di salti, tanto da far sembrare l’insieme una danza. Il colpo d’occhio finale, per quanto frammentario (l’affresco fu ridotto in 14 frammenti nel 1711) lascia l’impressione di una affascinante macchina teatrale, precorritrice delle invenzioni visive di Correggio e di Veronese. Ma l’aver radunato a Forlì una dozzina di dipinti di Melozzo non è l’unico merito di questa mostra che squaderna una sessantina di opere di altri artisti di area romagnola, ricostruendo così quella temperie culturale in cui poi si sarebbe formato Raffaello. Ma non solo. In mostra a Forlì s’incontra anche un capolavoro da poco restaurato come la Madonna Senigallia di Piero della Francesca (che Melozzo aveva conosciuto tra il 1465 e il 1475 a Urbino). Proprio nella colta corte urbinate, come ci ricordano i curatori, l’artista conobbe anche la pittura di fiamminghi e spagnoli come Giusto de Gand e Pedro Berruguete e approfondì quegli studi sulla prospettiva che, tra il 1475 il 1484, gli avrebbero permesso di conquistare la fiducia papale.

da left-avvenimenti 2011

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Cossé, elogio del pensiero forte

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 2, 2011

di Simona Maggiorelli

Il suo nuovo romanzo L’incidente (Edizioni E/O) è un romanzo inchiesta intorno alla morte di Lady Diana, di Dodi al Fayed e di Henri Paul. Glamour e cronaca nera. Materia apparentemente da rotocalco.

Ma Laurence Cossé  riesce a costruirci intorno un noir psicologico, puntando sul punto di vista immaginario e fin qui rimasto anonimo: quello di chi  sei anni fa era alla guida di quella Fiat Uno bianca che la Mercedes su cui viaggiavano al Fayed e la sua amante, in quel tunnel, non riuscì a evitare. Per presentare questo suo nuovo romanzo  la scrittrice francese Laurence Cossé  è  a Roma il 3 aprile, ospite della rassegna LIBRI COME e per un’iniziativa in collaborazione con il festival de la fiction française. Ma l’appuntamento all’Auditorium  di  Renzo Piano sarà anche un’occasione per conoscere più da vicino il lavoro poliedrico di Cossé, giornalista e romanziera edita in Francia da Gallimard,  e anche volto noto della tv più colta (memorabili le sue interviste al regista Andreï Tarkovski e  allo scrittore Jorge Luis Borges).

Noi abbiamo cominciato già, incontrando Cossé per parlare, non di questo nuovo lavoro, ma del suo precedente romanzo uscito nel 2010, La libreria del buon romanzo – edito in Italia sempre da E/O – e che ci ha particolarmente colpito per il tema: l’amore per la letteratura alta, per i classici, per quei libri che hanno il dono di toccarti profondamente e, qualche volta, persino di “cambiarti”.
«I classici, non di rado, hanno questa ricchezza e capacità di agire su di noi. è questo ciò che rende vitale, essenziale, la lettura. Come il respiro stesso. Ma – precisa Laurence Cossé – non parlo solo dei libri scritti nel lontano passato. Abbiamo la fortuna di poter scoprire anche oggi magnifici e sempre nuovi classici del presente. è questo che rende la lettura un’avventura continua». Nell’appassionante La libreria del buon romanzo Ivan e Francesca, i due protagonisti, decidono di aprire una libreria in cui si non si trovano bestseller commerciali e novità effimere  ma si vendono solo testi validati da una qualificata e segreta “giuria” di letterati, scrittori, lettori forti. Un circolo d’elezione proveniente dagli ambiti sociali più diversi, ma uniti dal fatto di cercare l’arte e la bellezza, ogni giorno, in ogni sua forma, nelle pagine di un libro. Un lavoro di consigliere che ciascuno di loro fa impegnando tutto se stesso, romanticamente senza ricevere un soldo. Come a dire, per metafora, che l’arte, la vera arte, è sempre gratuita.
«Penso che esistano due tipi autori – dice Cossé -, quelli che ricercano il successo (anche se l’ambizione, ammetto, è un grande motore della psiche umana) e quelli che si impegnano a scrivere nel modo più profondo e accurato possibile. Delle due l’una. Non si possono perseguire tutte le strade, occorre scegliere da che parte stare». Ma c’è un altro elemento interessante che, strada facendo, emerge dalle pagine di questo romanzo che rende omaggio alla grande letteratura: fatto strano, a poco a poco, i due fondatori della libreria, un uomo e una donna che si sono incontrati per caso, diversissimi fra loro, ma entrambi schivi e defilati, si accorgono che con la loro libreria si sono fatti dei nemici. E dei più feroci: non sopportano l’idea che si possa essere così esigenti, che nella ricerca  non si possa scendere a compromessi, che non siano ammesse ignavia e vigliaccheria. «Se uno parla di verità – dice a un certo punto uno dei protagonisti inventati da Cossé – si finisce per essere accusati di fascismo». Un pensiero forte, nella Francia colta post ‘68, di sinistra, viene avvertito come pericoloso.

Questo sembra volerci dire Cossé se si guarda oltre la superficie accattivante di questo noir contemporaneo. «Il fatto è che dopo il XIX secolo si è aperta una sorta di età del nulla, un’età del dubbio corrosivo nelle menti intellettuali occidentali. Il valori del bello, della verità, sono diventati impresentabili – spiega Cossé – e chiunque non voglia piegarsi a questa estrema forma di ermeneutica, di decostruzione dei valori viene tacciato di autoritarismo».
Al contempo però «e per fortuna –  aggiunge – continuano a uscire romanzi che si oppongono a questa forma di relativismo estremo e che rischia di rendere indecidibile qualsiasi cosa. Penso anche a  grandi romanzi come La strada (Einaudi, 2007)  e Questo non è un paese per vecchi (Einaudi, 2005) di Cormac Mc Carthy». Grandi “opere-mondo” che esprimono – piaccia o meno – un punto di vista forte.
IL FESTIVAL. ALL’AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA LIBRI COME

Dopo l’anteprima dedicata a Jonathan Franzen e al suo Libertà (Einaudi), che è già un caso letterario anche in Italia, entra nel vivo dall’1 al 10 aprile la rassegna LIBRI COME, la festa del libro e della lettura all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Con un pieno di presentazioni, laboratori, tavole rotonde e soprattutto incontri ravvicinati con autori di primo piano. A fare da filo rosso, quest’anno, è l’idea di entrare idealmente nel laboratorio di scrittura di grandi romanzieri. Con la voglia di esplorare a fondo il percorso che porta alla nascita di un libro. Riflettori accesi dunque su romanzieri, filosofi, storici da tutto il mondo. A cominciare dal romeno Norman Manea che ha appena pubblicato in Italia Il rifugio magico (Il Saggiatore), un lavoro che prosegue il suo lungo processo di riflessione sugli orrori del nazismo  e sulle oppressioni della dittatura di Ceausescu. Dagli Stati Uniti poi arriva Peter Cameron, l’autore di  del romanzo Questo dolore un giorno ti sarà utile  e di Quella sera dorata (Adelphi) adattato per il cinema da James Ivory con Anthony Hopkins e Charlotte Gainsbourg protagonisti. Per riflettere sul presente arriva a Roma il sociologo della post-modernità e della “società liquida” Zygmunt Bauman. E ancora lo scrittore e saggista marocchino Tahar Ben Jelloun, rappresentante di spicco di quell’area maghrebina oggi  in pieno cambiamento politico, sociale e culturale  e che  dopo lo splendido Marocco, romanzo (Einaudi) ha appena pubblicato da Bompiani,  l’instant book La rivoluzione dei gelsomini. E ancora con LIBRI COME andremo nella Barcellona immaginata da Ildefonso Falcones, nel Medio Oriente con l’israeliano David Grossman, nella labirintica Mumbai dell’indiano Suketu Mehta (candidato al Pulitzer), nei Balcani di Emir Kusturica, arrivando fino nel Canada di Mordecai Richler, l’autore dell’ormai classico La versione di Barney (Adelphi): Il 3 aprile saranno presenti a Roma la moglie Florence e il figlio Noah. E ancora la filosofa Roberta De Monticelli autrice del quanto mai attuale pamphlet La questione morale (Raffaello Cortina). E ancora si parlerà di poesia (con il lirico canto dedicato alla Patria da Patrizia Cavalli), di narrazioni orali (con Ascanio Celestini), ma anche, in senso lato di sensibilità e universo femminile (con Dacia Maraini e Michela Murgia).  Voci femminili sono anche protagoniste della tavola rotonda che, il 9 aprile, viene idealmente a chiudere il cerchio aperto da Claudio Magris  una settimana fa. Tra entusiasmo e dubbi, sogni e ambizioni, la scrittura del primo romanzo è un momento clou nella carriera di ogni autore. Per ciò LIBRI COME  ospita sei giovani esordienti, che hanno segnato la stagione recente con opere coraggiose dimostrando la vitalità del panorama letterario nazionale che ha voce di donna. Sul palco: Viola Di Grado (Settanta Acrilico, Trenta Lana pubblicato da e/o), Barbara Di Gregorio (Le giostre sono per gli scemi, Rizzoli), Donatella Di Pietrantonio (Mia madre è un fiume, Elliot), Lorenza Ghinelli (Il divoratore, Newton Compton), Antonella Lattanzi (Devozione, Einaudi) e Veronica Tommasini Sangue di cane, pubblicato da Laurana Editore.

c.p. da Left-avvenimenti del 1 aprile 2011

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La Praga magica di Arcimboldo

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 1, 2011

A Milano, in Palazzo Reale, una mostra ricostruisce la cultura inquieta  del  pittore lombardo, maestro della bizzarria e dell’anamorfosi. Mentre Skira ripropone le affascinanti pagine sulla culura esoterica  praghese di Angelo Maria Ripellino

Simona Maggiorelli

Arcimboldo Inverno

Con quel suo particolare gusto per la bizzarria, per l’assurdo, per la “maraviglia”, per il capriccio, per la mostruosità, per l’anamorfosi e per i codici cifrati, Giuseppe Arcimboldo (1526-1593) è il pittore manierista per antonomasia, artigiano più che artista, pronto ad accontentare il principe in ogni suo ghiribizzo.

E la mostra Arcimboldo artista milanese tra Leonardo e Caravaggio ce ne dà perfettamente contezza squadernando in Palazzo Reale a Milano (fino al 22 maggio, catalogo Skira) una grande messe di quei ritratti fatti di verdure o di animali quanto di pentole o di oggetti più vari che fanno la cifra stessa della pittura arcimboldesca. Che, al fondo, poco o nulla sembra raccontare oltre la sua artificiosità.

Ma accanto al famoso ritratto di Rodolfo II travestito da Vertumno e accanto a quello caricaturale del bibliotecario di Massimiliano II costruito con costole di libri e pagine al vento (metafora concretissima di un sapere nozionistico e reificato) ecco che questa rassegna milanese curata da Sylvia Ferino offre la bella sorpresa di un nucleo di disegni di Leonardo, in cui il genio rinascimentale trasformava il gusto lombardo per il carnevalesco e il caricaturale in raffinati studi sulla vecchiaia e più in generale sulla bruttezza, fuori da ogni idealizzazione classica e in sintonia piuttosto con la tradizione nordica e fiamminga.

Merito di questa mostra su Arcimboldo è dunque quello di ricostruire in maniera articolata il contesto lombardo in cui il pittore si formò e, nella seconda parte, di farci intuire qualcosa di più dell’atmosfera che si respirava nella kunstkammer di Rodolfo II, ovvero in quella koinè di arte ermetica che connotava la città vltavina dopo il 1583, e in cui l’artista milanese si immerse completamente. «Giuseppe Arcimboldo “ingegnosissimo pittor fantastico” si fuse a tal punto con l’atmosfera rodolfina – scriveva Angelo Maria Ripellino – da entrare nella mitologia di quel tempo, lui stesso assumendo qualcosa di quella magica ambiguità e malinconia saturnina che contraddistinsero gli alchimisti. Come si vede del resto dall’autoritratto in cui appare ieratico e duro, con gabbano nero».

E poi lo studioso siciliano aggiungeva: «L’arte dell’Arcimboldo è fortemente connessa con le predilezioni di Rodolfo II con il suo amore degli Automaten» richiamando poi alla mente l’oppressione e l’angoscia che provava il Tycho Brahe di Max Brod di fronte a simili cumuli confusi di oggetti. Ed è da segnalare che quel ficcante ritratto di Arcimboldo tratteggiato da Ripellino e contenuto nel suo classico Praga magica (Einaudi) proprio in occasione di questa mostra ha preso a vivere di vita propria, con il titolo Arcimboldo e il re malinconico nella nuova collana sms edita da Skira. Appena una sessantina di pagine ma è l’essenziale di quella certa congerie culturale cinquecentesca. Per illuminarla sul cotè lombardo ora, nella stessa collana Skira compare un’altra perla: Lorenzo Lotto di Anna Banti.

da Left-Avvenimenti

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