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Velàzquez, maestro di libertà

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 29, 2015

Venere allo specchi  di Velazquez

Venere allo specchio di Velazquez

Nonostante il re e la Chiesa, il pittore spagnolo mise a nudo il potere. Rappresentando la condizione umana e il teatro della vita. Una grande mostra al Grand Palais ne ripercorre l’opera

Ci voleva la garanzia scientifica del Louvre per poter mettere insieme così tanti capolavori di Diego Velàzquez (1599-1660), il pittore del Siglo de oro, a cui il musei spagnoli, e non solo, devono ampie fette del proprio pubblico. Ma questa è decisamente un’occasione speciale. Si tratta della prima grande antologica dopo quella del Prado e del Metropolitan Museum di New York negli anni Novanta; la prima in assoluto che la Francia dedica a questo maestro del Seicento, pittore del re eppure mai allineato, che entrò a corte mentre fioriva la stagione del romanzo picaresco, quando uscivano i capolavori di Cervantes, di Luis de Góngora e di Calderón de la Barca, l’autore de La vida es sueño (1635) con il quale Valàzquez ha in comune l’interesse per il teatro della vita e una raffinata riflessione sul rapporto fra realtà e fantasia, fra verità e finzione e, per l’autore di Las Meninas (1656), fra rappresentazione e creazione di immagine.

Proprio seguendo il filo rosso che in questo caso lega pittura, poesia e teatro, il curatore della mostra parigina Velàzquez, Guillaume Kientz, è riuscito a costruire uno scenografico percorso che al Grand Palais, fino al 13 luglio 2015, raduna centoventi opere, di cui 57 attribuite all’artista spagnolo, prestate dai maggiori musei d’Europa, e poi dai musei di Boston, di Dallas, di Chicago (come la splendida Mulatta del 1617 che esce dal buio di una cucina) e Forth Worth in Texas (dove è conservato l’elegante ritratto di Don Pedro de Barberana), ma anche da collezioni private fuori dalla portata del grande pubblico.

 Autoritratto di Velzquez , Uffizi

Autoritratto di Velzquez , Uffizi

E, malgrado l’assenza di Las Meninas, fin dalle prime sale, dove sono ripercorsi gli anni della formazione di Velàzquez a Siviglia, le sorprese non mancano. Figlio della piccola nobiltà locale l’artista entrò giovanissimo nella bottega di Francisco Pacheco, pittore colto anche se interamente inscritto nella corrente del naturalismo iberico e religioso. Fin dagli esordi con bodegones di tipo tradizionale, incentrati su scene sacre in ambienti apparentemente quotidiani, il giovane Velàzquez si stacca completamente dalla produzione a lui contemporanea. La sua Scena in taverna e La cena ad Emmaus (1617) spiccano per l’atmosfera intima e umanissima e per i chiaroscuri caravaggeschi in questo confronto diretto con le virtuosistiche nature morte di Zurbarán, con crudo realismo di Ribera e con il patetismo dei bamboccianti.

Anche quando sotto il giogo controriformista ha il compito di ritrarre i potenti esponenti del clero, come madre Jeronima de la Fuente che andò a evangelizzare le Filippine, non cela nulla della loro realtà. Tutt’altro che idealizzata la suora appare come una arcigna e torva presenza che impugna una croce come fosse una lancia da guerra. Già in questa tela del 1620, scura e improntata a uno smagato realismo, si scorge la straordinaria libertà creativa che Velàzquez seppe darsi. Nonostante l’inquisizione e i rigidi protocolli di corte. Come testimoniano qui i ritratti di Filippo IV, il malinconico imperatore al quale l’artista fu legato da un sodalizio durato 37 anni: un rapporto anche di amicizia, oltreché di stima professionale, tanto che il sovrano scelse proprio lui per un importante incarico diplomatico in Italia volto all’acquisto di opere d’arte per la collezione reale accettando il ritardo di mesi con cui il pittore rientrò a Madrid volendo aspettare la nascita del figlio avuto dalla giovane pittrice romana Flaminia Triva.

In quel periodo Velàzquez ebbe modo di approfondire lo studio di Tiziano, Tintoretto e dei maestri del Rinascimento, veneto e toscano, come non aveva potuto fare durante il suo primo viaggio nella penisola (1629 -31) che gli era stato consigliato da Rubens. Nella capitale realizzò uno dei suoi ritratti più celebri, quello di papa Innocenzo X (1650). Arrivato dalla romana Galleria Doria Pamphilj questo quadro apre una spettacolare teoria di ritratti di vescovi, di inquisitori, dell’infanta Marie-Therese del principe Baltassar e dell’infanta Marguerite ma anche di persone comuni di cui non si conosce il nome e poi di vividi ritratti di teatranti e nani di corte, che esprimono un’umanità schietta e distante dall’espressione del potere. Come Il buffone Calabazas proveniente dal museo di Cleveland e quello dell’attore Pablo de Valladolid (1635) giunto dal Prado.

 Velazquez, Papa Innocenzo X

Velazquez, Papa Innocenzo X

Opere in cui Velàzquez mostra una straordinaria capacità di intuire la psicologia del soggetto, cogliendo l’individualità di ognuno con fresca immediatezza. Al punto che al gretto e rancoroso Innocenzo X il proprio ritratto parve troppo crudelmente vero per essere mostrato in pubblico. Ma grande capacità di scavo psicologico mostra anche nel nobile e austero ritratto proveniente da Boston del poeta Luis de Góngora (1622), amareggiato – si dice – per l’invidia e le trame di corte; quadro potentissimo come, per altri versi, lo è quello di un giovane uomo che si ipotizza possa essere un autoritratto, al pari da quello incluso in Las Meninas che James Hall nel L’autoritratto. Una storia culturale (Einaudi) legge come rappresentazione della libertà del pittore capace di relegare sullo sfondo il potere per dedicarsi alla propria arte.

Il terzo autoritratto, quello degli Uffizi, in cui appare in età matura intorno agli anni 1640-50, con un colpo di teatro, sigla la conclusione del percorso, in una buia sala ovale, da cui spunta l’immagine di un cavallo bianco, che fa pensare alla vitalità creativa di questo straordinario artista, che è ancora in grado di toccarci profondamente dopo molti secoli.

Prova ne è la sensuale ed enigmatica Venere allo specchio (1651) della National Gallery che, prima di arrivare all’evocativo epilogo della mostra, ci aveva sorpresi alla fine del primo piano. Con stridente e aperto contrasto la tela, che ritrae forse la giovane pittrice che Velàzquez conobbe a Roma, è qui accostata all’Ermafrodito, la statua di età romana appartenuta alla collezione privata del cardinal Scipione. Tanto le morbide forme della misteriosa Venere appaiono affidate a una pittura dalla pennellata sfrangiata ed evocativa, tanto quelle della statua romana appaiono fredde e di una bellezza solo materiale.

Il soggiorno italiano certamente addolcì la tavolozza di Velàzquez, la rese più sfumata. Ma in questa tela c’è qualcosa di più. C’è il gioco di sguardi che, attraverso lo specchio, Venere ingaggia con chi vede il quadro, azzerando ogni distanza temporale e aprendo lo spazio pittorico a quello reale dello spettatore, qui e ora. Ma soprattutto c’è l’ interesse per lo spazio, per lo studio del nudo femminile (quasi assente nell’arte spagnola seicentesca dominata dall’Opus dei), inteso come rappresentazione di affetti e passione. ( Simona Maggiorelli, settimanale Left)

Left

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Il Siglo de Oro al Prado e a Ferrara

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 3, 2013

 Velazquez-la venere allo specchioIl Siglo de oro della pittura spagnola torna al centro dell’attenzione con l’abbagliante mostra che Ferrara Arte dedica a un maestro delle nature nature morte e della pittura sacra come Zurbaran (1598-1664).

Nelle nobili sale di Palazzo dei Diamanti (che con questa mostra vara una nuova stagione espositiva dopo lo stop dovuto ai danni del terremoto) si susseguono scene di vita quotidiana, dalla evidenza quasi iperrealistica, primi piani di ciottoli da cucina e agnelli inondati da una luce “divina” e poi estasi e visioni di santi, scanditi da un ritmo drammatico di chiaro e scuro, come voleva la tradizione seicentesca della religiosissima Spagna.

Proprio in quella koinè artistica improntata a un canone sacro assai rigido emerse una personalità libera e decisamente in controtendenza come Diego Velázquez (1559-1960).

Che pur essendosi formato con un pittore classico come Pacheco, seppe emanciparsi dalla lezione del maestro e suocero per sviluppare una propria personalissima poetica laicamente incentrata sull’umano e in modo particolare sull’immagine femminile.

Zurbaran Agnus dei

Zurbaran Agnus dei

Basta pensare alla sua Venere allo specchio (1560) che, nuda, si staglia sul rosso fuoco del panneggio. La morbida posa delle gambe, la curva dei fianchi, il tono radioso della pelle, insieme al volto sfumato, quasi solo accennato nel riflesso dello specchio, ci regalano un’immagine femminile assolutamente originale all’interno di una tradizione seicentesca pesantemente segnata dalla dottrina e dalla committenza ecclesiastica ed imperiale.

E proprio ai rapporti fra Velàzquez e il casato reale è dedicata l’esposizione che al Museo del Prado si apre il prossimo 8 ottobre.

Con il titolo Velàzquez e la famiglia di Filippo IV, la rassegna  propone un percorso all’interno della ritrattistica di Valàzquez dal secondo viaggio a Roma del pittore nel 1649 fino alla sua morte a Madrid nel 1660.

Las Meninas di Kingston Lacy

Las Meninas di Kingston Lacy

Perno della mostra che raccoglie una trentina di opere di questo straordinario artista di origini andaluse è ovviamente la sala XII del Prado dove è conservato un capolavoro raffinato e in certo modo enigmatico come Las Meninas (1656).

In cui Velàquez, attraverso un labirintico gioco di specchi e di rimandi, tratteggia la trama del potere ma anche dei rapporti affettivi e privati nella famiglia reale. Consegnandoci così un quadro apparentemente celebrativo del potere, ma che al tempo stesso lo mette a nudo, mostrandone aspetti intimi e  segrete fragilità. E mentre si avvicina l’inaugurazione della mostra  madrilena ecco che torna ad accendersi la polemica intorno ad una versione di Las Meninas appartenente alla collezione di Kingston Lacy e fin qui considerata una copia di mano di Juan Bautista Martinez del Mazo (1611-1667), discepolo di Velàzquez. Il 2 ottobre in Spagna è stato pubblicato il risultato della lunga indagine firmata dallo studioso Matias Diaz Padron,componente del Consiglio nazionale  delle ricerche, che mette radicalmente in discussione questa attribuzione, sostenendo che (per quanto appaia come un’opera più grossolanamente abbozzata) si tratti di un’opera autografa, tanto quanto Las Meminas che il pubblico da sempre può ammirare al Prado. (Simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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Oltre olo specchio di Venere

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 21, 2012

La ricerca di una vita, la passione per l’arte , gli incontri e gli amori di Diego Velazquez nella prima biografia italiana del grande pittore del Seicento spagnolo, edita da Cavallo di Ferro e firmata da Riccardo De Paolo. Fra storia e romanzo l’avventura di un autore di penetranti ritratti, di opere complesse come Las Meninas e di laici nudi femminili , in un’epoca di roghi feroci

di Simona Maggiorelli

Velazquez, Venere allo specchio (1650)

La narrazione comincia dalla fine: dalla lettera che il pittore Diego Velàzquez, ormai sul letto di morte, invia nel 1660 all’amico Juan de Còrdoba. Lasciando che sulla pagina affiorino memorie di vita, di incontri, di amori ma anche la passione di una intera vita, quella per l’arte («Volevo spingermi nell’arte dove nessuno si era ancora spinto»).

Con quella fierezza di hidalgo che lo caratterizzava fin da giovane, ma soprattutto con la consapevolezza di una esistenza pienamente riuscita, Diego Rodriguez de Silva y Velàzquez, cavaliere dell’Ordine di Santiago, si appresta ad uscire di scena.

«La nostra vita è solo una goccia nel mare del tempo; e non sono così stolto – o privo d’immaginazione – da poter escludere che questo nostro stato non sia soltanto una temporanea finzione. Ricordatene se un giorno, oppresso dai ricordi, o da qualche bicchiere di troppo, ti verrà voglia di piangere», scrive all’amico in questa lettera immaginata da Riccardo De Palo ad incipit de Il ritratto di Venere, la vita segreta di Diego Velàzquez (Cavallo di Ferro), la prima biografia italiana del grande pittore del Seicento spagnolo.

In forma di romanzo, ma puntuale nella ricostruzione storica e soprattutto generosa di approfondimenti sulla poetica, originalissima, di questo autore di penetranti ritratti (basta pensare al suo celebre nano di corte), di opere complesse come Las Meninas e di morbidi nudi femminili come la Venere allo specchio conservata alla National Gallery di Londra: un’opera luminosamente laica in un’epoca di feroci roghi controriformisti.

In questo romanzo storico De Palo ne rintraccia il vero volto nella bella ventenne Marta di cui il già maturo pittore si innamorò perdutamente durante un soggiorno romano. E più indietro nel tempo l’autore ci porta a rintracciare l’origine della calda tavolozza di ocra, rossi e terre tipica di Velàzquez in quella libera e arabizzante Siviglia in cui  era nato nel 1599 e aveva trascorso la giovinezza, «rimirando i fregi intarsiati di quelle che un tempo erano moschee», fra botteghe che vendevano di ogni tipo di mercanzia e strade piene di gente.

Nella cosmopolita Siviglia Velàzquez entrò giovanissimo a bottega del colto Pacheco (di cui sposerà la figlia Juana) assorbendone la lezione improntata al naturalismo fiammingo e, attraverso stampe e riproduzioni, facendo proprio il drammatico chiaro-scuro dei caravaggisti. Poi la decisione di trasferirsi a Madrid, per tentare la carriera a corte, riuscendo a diventare l’artista preferito del re Filippo IV e amico di Rubens da cui il pittore andaluso apprezzava la libertà dai moralismi religiosi e il coraggio nel portare avanti progetti personali e lungimiranti in barba alle meschinerie e alle trame di corte.

Seguendone le orme, ricostruisce Riccardo De Palo, Velàzquez ebbe incarichi ufficiali per acquistare all’estero opere per la collezione imperiale. Ma divenne anche testimone privilegiato del Siglo de oro, frequentando Francisco de Quevedo, Luis de Gòngora, Calderòn de la Barca, Lope de Vega e altri importanti intellettuali del tempo. Avendo anche la possibilità di un diretto  confronto con i maestri dell’arte italiana, grazie a una serie di viaggi nella penisola dove poté studiare le opere di Michelangelo, di Raffaello, di Tiziano, di Veronese e di Tintoretto.

Il suo fiammeggiante Innocenzo X  resta un debito aperto con quel Tiziano di cui a Venezia ebbe modo di apprezzare la grande libertà creativa e  la rappresentazione dell’umano piena e immanente. A tutto questo, specie nella ritrattistica, Velàzquez seppe aggiungere una straordinaria capacità di cogliere in un guizzo, in un’espressione, in una smorfia imprevista, ciò che più profondamente si agita nell’animo umano, raccontandone i tormenti interiori, riuscendo a fermare la realtà vibrante sotto il suo pennello.

da left-avvenimenti

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La nuda verità secondo Goya

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2010

In Palazzo Reale a Milano fino al 27 giugno una grande mostra dedicata al maestro spagnolo

di Simona Maggiorelli

Goya, autoritratto, 1815

Liberare Goya dai vecchi e logori schemi interpretativi che ne fanno un maestro ermeticamente chiuso in suo mondo silenzioso, abitato da cupe visioni notturne. Cercando di restituire la trama complessa delle tensioni e delle inquietudini che percorrono la sua pittura e che la rendono ancora oggi viva, capace di toccare profondamente lo spettatore. Nasce con questa intenzione critica alta la mostra Goya e il mondo moderno che si apre il 17 marzo in Palazzo Reale a Milano (fino al 27 giugno, catalogo Skira). Un’iniziativa nutrita di prestiti importanti dal Prado e dal museo di Saragozza (in tutto si contano una cinquantina di opere del maestro spagnolo fra le quali L’autoritratto del 1815 e numerose stampe dai Disastri della guerra).

Di fatto una mostra “kolossal” che in cinque sezioni a tema si propone di ripercorrere le principali invenzioni artistiche di Goya, quelle  destinate a una lunga durata nella fantasia e nelle rielaborazioni di pittori e scultori dei secoli successivi. A cominciare dal modo di dipingere il nudo di donna. Basta ricordare qui che la Maya desnuda di Goya sedusse perfino Picasso a tentarne una ricreazione in forme nuove. Ma, restando ai quadri esposti a Milano, una lunga e fertile influenza sull’arte del XX secolo ebbero anche i corrosivi ritratti di nobili e re che Goya dipinse in pose convenzionali e in abiti sfarzosi, lasciando però affiorare sui volti e nelle espressioni la loro assoluta vacuità interiore.

Goya, La lattaia di Bordeaux (1826)

Tele, come quella in cui campeggia uno spettrale Carlo II, formalmente rispettose dei canoni tradizionali della ritrattistica settecentesca ma, a uno sguardo attento, crudelmente rivelatrici per l’immagine latente che portano in primo piano. Così opere come il Ritratto del duca de San Carlos o come il Ritratto di don Juan Martin Goicoechea di Goya in Palazzo Reale sono esposte accanto a dipinti coevi dell’illuminista David in un confronto schiacciante: da un lato penetranti ritratti che fanno aprire gli occhi sulla natura parassitaria della corte borbonica e sull’inconsistenza umana dei suoi rappresentanti che chiedono a Goya di essere “eternati” con l’arte. Dall’altra ritratti monumentali, idealizzati, retorici, con cui il rivoluzionario David celebra il tiranno Napoleone. E sarà proprio questo speciale talento di “scavo psicologico” a fare di Goya un pittore amatissimo da quegli artisti che fra fine Ottocento e primi del Novecento rivoluzioneranno la ritrattistica affrancandola definitivamente dalla piattezza fotografica. Ma non solo.

La mostra Goya e il mondo moderno suggerisce anche nessi più arditi, ipotizzando che certi sferzanti ritratti di Grosz abbiano tratto linfa proprio da quella fedeltà alla verità più profonda delle cose che Goya anteponeva a tutto, da quella sua capacità di «guardare ciò che tutti hanno davanti agli occhi e fingono di non vedere» per dirla con le parole di Claudio Strinati. Un coraggio di vedere e di rappresentare ciò che si è visto o intuito che in Goya come in Grosz diventa gesto politico di denuncia. Anche se il pittore espressionista tedesco scelse la strada di una secca semplificazione caricaturale. Proprio quella scorciatoia che Goya aveva sempre rifiutato anche quando si era dedicato all’incisione e alla stampa di scenette grottesche di gusto popolare. E ancora alla dura verità dei quadri di Goya, secondo i curatori della mostra Valeriano Bozal e Concepción Lomba, si sarebbe rivolto poi anche Francis Bacon nell’ideazione dei suoi scomposti e angosciati ritratti. Un accostamento che può far storcere il naso a qualcuno ma che, di fatto, mostrando dal vivo ritratti di Goya e di Bacon fianco a fianco fa immediatamente risaltare quel carattere di profonda umanità e di fiducia nei propri simili che, al fondo, Goya non perse mai, anche nei momenti più cupi della restaurazione imposta da Ferdinando VII, della guerra, del ripristino dell’inquisizione. Anche quando immagina i Disastri della guerra, la sua visione non è mai nihilista. Perfino quando, ormai sordo, concepì le pitture nere, i suoi mostri e incubi notturni restano un monito contro una violenza e una distruttività che Goya non avvertiva come un destino ineluttabile per gli uomini. Nella sua pittura ritroviamo un interesse verso l’umano che, per esempio, il visionario Bacon non ebbe mai, attratto com’era dalla raffigurazione di corpi in disfacimento, e che non rimandano ad altro oltre se stessi, se non a un’astratta idea di un’angoscia esistenziale che secondo il pittore irlandese sarebbe universale. Qui come nelle aree della mostra milanese dedicate all’irrazionale, al sogno, o in quelle dedicate alla “violenza”, al grido”, per differenza con opere di simbolisti e romantici (Klinger, Daumier, Rops, Hugo), di espressionisti (Kirchner, Kubin, Dix, Grosz), fino all’informale De Kooning, appare declinata una rilettura di Goya in chiave “progressista” e che trova il suo climax in un quadro che il pittore spagnolo dipinse quando aveva più di 80 anni e con uno stile completamente nuovo. Talmente originale da far ipotizzare ad alcuni studiosi che non fosse suo ma opera di sua figlia, Rosario (che però nel 1826 aveva 12 anni). Certo è che l’improvviso schiarirsi della tavolozza, l’aria trasparente e mattutina, il movimento del corpo e quell’espressione vagamente velata di tristezza della donna rappresentano un cambiamento totale rispetto alla Quinta del sordo di poco precedente. Goya nel frattempo si era trasferito in Francia. «Sordo, vecchio, malato e senza sapere una parola di francese» ma, raccontava il suo amico Maratin, ancora «contento e ansioso di conoscere il mondo».

IL LIBRO. IN CERCA DEL TESCHIO DI GOYA

«Dovendo qui fare la storia di un teschio, storia già definita orripilante, mi sembra giusto e coerente presentarvelo fin dall’inizio, quando era ricoperto di pelle e conteneva uno dei più ricchi cervelli di cui mai abbia potuto godere un uomo». Comincia così L’orripilante storia del teschio di Goya , l’omaggio spassoso e coltissimo che lo storico Juan Antonio Gaya Nuño ha dedicato al geniale pittore spagnolo, partendo da un fatto di cronaca dal sapore necrofilo: ovvero la scomparsa del teschio di Goya dalla sua tomba nella chiesa di San Antonio della Florida a Madrid.  Un teschio rubato, forse smarrito, forse sottratto per antiche superstizioni (impossessarsi del teschio di un defunto significava assorbirne lo “spirito vitale”) alla resa dei fatti poco importa. Il fatto curioso  nel libro di Gaya Nuño (che dal 25 marzo Skira manda in libreria ) diventa un eccellente espediente narrativo per un affresco storico di cui Goya è protagonista. Mettendo così a segno una insolita e divertente biografia d’artista,  che ora esce corredata da un ricco apparato di  acquerelli e incisioni.

da left-avvenimenti, 12 marzo

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