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Posts Tagged ‘Pala di Castelfranco’

Giorgione, tra realtà e mito

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 10, 2009

di Simona Maggiorelli

giorgione, tempesta

Di lui non esiste firma riconosciuta come autografa e i documenti ufficiali che lo riguardano sono pochissimi. Tanto che se non fossero stati ritrovati quelli relativi a un’opera (andata perduta) che gli fu commissionata nel 1507 per Palazzo Ducale o i contratti che riguardano gli affreschi del Fondaco dei Tedeschi di cui La nuda è uno dei pochi lacerti superstiti, «Giorgione potrebbe tranquillamente non esser mai esistito».

Ad affermarlo, non troppo provocatoriamente, è il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci nel catalogo Skira che accompagna la mostra Giorgione. Dipinti e misteri di un genio (dal 12 dicembre all’11 aprile nel Museo Casa di Giorgione a Castelfranco Veneto). Ricordandoci che anche la morte prematura del pittore, a poco più di trent’anni a causa della peste che colpì Venezia nel 1510, è riportata solo da una lettera di Isabella d’Este a un suo faccendiere attraverso il quale aveva sperato di ottenere una a noi sconosciuta «pictura de una nocte» del geniale artista.

Ma per amore verso la straordinaria arte di Giorgione e volendo dare un po’ di fiducia ai cronisti del Cinquecento (Vasari compreso), ripercorriamo qui anche la tradizione che vuole Giorgio Zorzi da Castelfranco nato nel 1477 (o al più un anno dopo) da una famiglia povera e presto andato a farsi le ossa nella bottega di un pittore affermato come Giovanni Bellini. Tra le fonti che riportano questi scarni dati biografici, il Ridolfi, in particolare, sostiene che dopo un breve apprendistato Giorgione scelse di non legarsi a una bottega precisa ma di darsi le possibilità che apre l’essere “mobile” e indipendente.

Giovane, di bell’aspetto, abile nella musica, il pittore che avrebbe rivoluzionato il modo di dipingere  aprendo la strada alla pittura tonale, non ebbe difficoltà a inserirsi nella vivace vita culturale delle élite veneziane. Lungo questa via, Lionello Puppi che – assieme a Paolucci e a Enrico Maria Dal Pozzolo – ha curato la grande mostra di Castelfranco Veneto, ricostruisce nel catalogo Skira lo “spregiudicato” milieu culturale in cui Giorgione operò, stimolato da committenti provenienti dalla ricca e laica borghesia mercantile di Venezia e dalla comunità tedesca che viveva nella città lagunare (da qui il fertile contatto che l’artista ebbe con la grafica nordica e l’inquieta pittura di Dürer).

Giorgione, autoritratto

Senza dimenticare, fra i committenti che si rivelarono importanti per il lavoro di Giorgione, anche figure come il cardinal Domenico Grimani che con ogni probabilità gli fece conoscere alcune opere di Leonardo. E che la geniale ricerca leonardiana sullo sfumato avesse profondamente colpito il giovane pittore, tanto da spingerlo lungo quella strada a trovare una propria originale cifra stilistica, ne è prova evidente un capolavoro come La tempesta. Dipinto criptico quanto affascinante, eccezionalmente prestato (vista la sua fragilità) dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia per questa rassegna che, in occasione dei cinquecento  anni dalla morte del maestro di Castelfranco, raduna gran parte dell’esiguo corpus delle sue opere giunto fino a noi.

In questo quadro, come del resto nel cosiddetto Tramonto proveniente dalla National Gallery di Londra, si coglie tutta la portata della rivoluzione coloristica che il pittore veneto realizzò adottando un atteggiamento sperimentale verso la natura analogo a quello di Leonardo: il movimento continuo degli elementi, la fusione atmosferica delle forme e la potenza espressiva del colore ne La tempesta fanno sì che la natura stessa diventi protagonista, restituendo il vissuto emotivo dei personaggi e indirettamente quello dell’autore. Tanto da spingere lo spettatore a “tuffarsi “in questo paesaggio inquieto e vibrante distogliendolo dalla decifrazione razionale dell’episodio qui rappresentato.

E sul quale, tuttavia, sono stati versati fiumi d’inchiostro. Senza che la critica d’arte e gli studi di iconologia siano mai arrivati di fatto a una lettura certa e definitiva. Nei secoli si è parlato di allegoria alchemica, di idillio bucolico, di ermetico gioco mitologico. E più in dettaglio di raffigurazione di episodi delle Metamorfosi di Ovidio oppure della Tebaide di Stazio. E se Marcantonio Michiel nel Cinqeucento aveva parlato de «la zingara e il soldato», secondo Schrey agli inizi del Novecento i due protagonisti del quadro erano i progenitori dell’umanità scampati dal diluvio universale. Per arrivare poi a Salvatore Settis che nel celebre saggio La tempesta interpretata (Einaudi) legge le due figure come Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden.

Ma forse, con Antonio Paolucci oggi potremmo finalmente dire che è il temporale il vero protagonista della tela e non inteso come mera descrizione di un banale evento atmosferico. Quello che vediamo, scrive il curatore della mostra castellana «è un temporale d’estate nella campagna intorno a Castelfranco, con le nuvole nero-grigio-viola che ruotano nel cielo fattosi improvvisamente buio, con il vento che squassa le chiome degli alberi e il fulmine che tocca di una luce livida e spettrale le mura del borgo» Una natura che è sì «vero visibile» ma che nelle sue epifanie e metamorfosi qui sembra evocare piuttosto “una tempesta emotiva”, o meglio l’inquieto vissuto emotivo che l’autore regala ai due enigmatici protagonisti. «Un temporale d’estate protagonista del quadro, come molti secoli dopo lo sarà la montagna Sainte Victoire per Cézanne o  come saranno le Ninfee per Monet. Con questo – precisa Paolucci – non si vuol dire che Giorgione è precursore dell’impressionismo. Si vuol dire semplicemente che la modernità nelle arti visuali incomincia anche con La tempesta». Certo è che in questa opera, come nel Tramonto o come accadeva già nella Pala di Castelfranco, Giorgione supera completamente la prospettiva rinascimentale che costruiva il paesaggio in modo architettonico. E in quell’impasto sfocato e nella tessitura continua della pittura senza disegno come è quella di Giorgione (diversamente da quella di Leonardo) si legge un’immagine latente mutevole e viva, diversissima dalla durezza smaltata della pittura quattrocentesca che prima di lui era ancora dominante nell’area veneta. La pittura tonale di Tiziano, Veronese e Tintoretto sarebbe venuta dopo.

da left-Avvenimenti 11 dicembre 2009

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Giorgione, le meraviglie dell’arte

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 10, 2009

di Simona Maggiorelli

Giorgione Danae

VENEZIA. Solo nove opere. Ma che, nella loro misteriosa essenzialità, formano un potente iato nella catena di capolavori delle Gallerie dell’Accademia. Dopo ori bizantineggianti , dopo le addensate tele di Carpaccio pullulanti di figure in ordinate cornici architettoniche, dopo il trionfo della luce nella pittura tonale di Veronese e la teatralità drammatica di Tintoretto, nell’ultima sala – poco prima dell’uscita, come in una bolla – si apre il potente silenzio delle tele di Giorgione.

Un silenzio denso di segni inquieti, difficili da decifrare, nella celebrata Tempesta. La silenziosa ma fremente presenza femminile della Laura di Vienna. L’intensità dello sguardo muto con cui la splendida Vecchia con in mano un cartiglio su cui è scritto “Col tempo” sembra invocare clemenza per i segni che la vita le ha lasciati incisi sulla pelle. Ma soprattutto, a incipit della mostraGiorgione. Le meraviglie dell’arte” curata da Giovanna Nepi Scirè, il magnetico silenzio che emana dalla Pala di Castelfranco di recente restaurata nei laboratori dell’Accademia e con la supervisione dell’Opificio delle pietre dure di Firenze.

Protetta in una teca climatizzata e illuminata da luci laterali, la Pala sembra venire incontro allo spettatore: il restauro ha restituito una radiosa luminosità ai colori. Liberata dalla patina grigia, la Madonna in trono si staglia con un’evidenza monumentale, come se fosse tridimensionale scultura, invece che pittura. Mentre la misteriosa verticalità che Giorgione dette alla struttura allungata del trono, ancor più, sembra dare a tutto il complesso un moto ascensionale. Potenza d’immagine e allusività criptica del messaggio. Qui allo zenit, nella tristezza che vela lo sguardo della Madonna, in contrasto con il chiarore albeggiante del paesaggio che si apre alle sue spalle. Quella speciale mistura di evocatività, intimismo, scandaglio interiore che fin dai tempi del Vasari ha contribuito a dare al pittore di Castelfranco Veneto un allure romantica e di mistero, qui c’è tutta. Un’aura di intrigante segretezza , non solo determinata dalle poche notizie biografiche che abbiamo su Giorgione, prematuramente scomparso a 33 anni nell’epidemia di peste che colpì Venezia nel 1510, ma anche, e soprattutto, dettata dalla complessità delle sue rare opere ( il catalogo di Giorgione raggiunge appena il numero di venticinque ), dalla genialità di immagini che, in tempi in cui le ragioni della committenza pesavano parecchio, riuscivano ad essere libere dalla rigidità e dalle imposizioni del canone.

Giorgione, i tre filosofi

Rafforzano questa tesi l’incontro dal vivo con queste nove opere di Giorgione per la prima volta in sequenza, ma anche, sul piano degli studi, i tre importanti contributi pubblicati nel catalogo edito da Marsilio. Approfondendo lo studio dei pochi documenti esistenti e rigettando l’ipotesi di un incontro fra Giorgione e Leonardo a Venezia, Antonio Gentili tratteggia l’immagine di un pittore geniale e isolato, dedito a studi di astrologia, poco propenso a dirsi integralmente cattolico e per questo lasciato ai margini dalle grandi commissioni ecclesiastiche , che il più giovane Tiziano, invece, riusciva a raccogliere a piene mani. Un profilo di artista appartato, tormentato, anticonformista, che richiama la figura del ragazzetto scalzo appoggiato a una roccia fuori dalla città murata dell’unico disegno autografo rimasto, prezioso prestito del museo di Rotterdam alla mostra veneziana. E’ soprattutto alla luce dei nuovi esami radiografici dei “Tre filosofi” di Vienna che Gentili rafforza i suoi convincimenti. Sotto la versione definitiva del quadro ora a Venezia affiorano segnali astrologici e più nette connotazioni dei tre personaggi come patriarchi e simboli delle tre religioni monoteistiche, l’ebrea, la cristiana e l’islamica, da Giorgione poste pariteticamente sullo stesso piano, equiparate nel grado di importanza, e tutte ugualmente giudicate prossime a un epocale tracollo. Più forzata e capziosa – come ha notato per primo Antonio Pinelli – appare invece la seconda parte del saggio di Gentili, là dove ipotizza un Giorgione filo ebreo, contagiato da una visione saturnina e apocalittica derivata da una certa committenza ebraica. Se è vero come è vero che tutta l’opera di Giorgione è pervasa da una sottile inquietudine, da un allusività drammatica, da un rigorismo morale interiorizzato e forte, con Bernard Aikema la seconda delle tre firme in catalogo, viene piuttosto da ascriverla al rapporto continuo che Giorgione ebbe con pittori e incisori tedeschi.

Giorgione, ritratto Ludovisi

E in particolare con la pittura di Durer che fu a Venezia dal 1505 al 1507. Dal rapporto con l’opera del tedesco sicuramente nacque il potente autoritratto che Giorgione realizzò dipingendosi come un David saturnino, con uno sguardo bruciante di malinconia .Un timbro di struggente malinconia che Salvatore Settis indaga ora nella Pala di Castelfranco, per la prima volta arrivando a darle una data certa , il 1504, l’anno in cui morì giovanissimo Matteo Costanzo, soldato e rampollo di una famiglia nobile siciliana stabilitasi a Castelfranco. Il padre Tuzio commissionò la Pala a Giorgione, prova ne è la presenza dello stemma di famiglia che campeggia sul quadro. A partire da questa attestazione Settis rilegge il trono della Madonna come sarcofago di porfido, simbolo regio in Sicilia e in questo caso precisa allusione al titolo di viceré di Cipro che Tuzio Costanzo poteva vantare, sperando prima o poi di poter tornare a mettere le mani sui propri possedimenti. E proprio in questa chiave funebre, Settis spiega lo sguardo di tristezza che si accende sul volto della Madonna e del bambino.

Ma le novità e le scoperte di questa preziosa mostra di Giorgione ( in attesa di un’antologica che fin qui non si è potuta realizzare per difficoltà di prestito e rischi eccessivi nel trasporto delle opere ) riguardano anche inaspettati ritrovamenti, come quello del “Putto alato”, un frammento della facciata del Fondaco dei Tedeschi, a cui Giorgione lavorò nel 1508, a due anni dalla morte, e del quale si credeva fosse rimasta solo la diafana immagine della “Nuda”, energica e tondeggiante figura femminile senza volto, di cui oggi si intravedono solo i solidi contorni. Messi l’uno accanto all’altro, due preziosi tasselli di un tutto purtroppo andato irrimediabilmente perduto. Ma qualcosa della libertà e della leggerezza delle immagini che una volta campeggiavano sulle pareti del Fondaco veneziano affrescato da Giorgione ci arriva attraverso la figura in dissoluzione di questo putto che si arrampica su un ramo rigoglioso di frutti. Si sapeva che era stato acquistato da Ruskin nella seconda metà dell’Ottocento, ma poi se ne erano perse le tracce, fino alla recente ricomparsa in una collezione privata. Altra nuova acquisizione, il “Cristo portacroce” della Scuola Grande di San Rocco che dopo anni di accesi dibattiti è stato definitivamente sussunto al ridottissimo catalogo di Giorgione. Un Cristo malinconico e dolcissimo, immagine sfumata per la stesura sottile del colore ma anche per le tante mani di devoti che vi si sono posate sopra, visto che la tela per molto tempo rimase collocata sul pilastro dell’abside.

La mostra, nella Galleria dell’Accademia, resterà aperta fino al 22 febbraio 2004. Poi “La tempesta” e “La vecchia”, per quattro mesi saranno esposti al Kunsthistorisches di Vienna.

Dal quotidiano Europa, 12 novembre 2003

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