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La luce viva di GiorgioMorandi

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 20, 2015

Giorgio Morandi

Giorgio Morandi

Giorgio Morandi nacque a Bologna il 20 luglio di 125 anni fa. Google celebra con un doodle una delle nature morte che lo resero celebre in tutto il mondo, bottiglie e vasi dipinti in olio su tela con colori tenui e linee essenziali. Si ispirava a Picasso e Cézanne, suoi contemporanei, senza però tralasciare i grandi pittori del Rinascimento. I suoi quadri sono esposti in tutto il mondo, mentre Bologna, città in cui morì il 18 giugno del 1964, gli ha dedicato un museo. Per festeggiare i 125  anni dalla sua nascita riproponiamo qui due articoli sulla sua arte.

Morandi non è il pittore delle bottiglie e della polvere intrisa di nostalgia gozzaniana. Come perlopiù si dice. Modernissimo, sensibile, instancabile sperimentatore fra olio, acquerello, incisione, il suo sguardo era del tutto anti naturalistico. Nel Complesso del Vittoriano dove – fino al 21 giugno 2015 – è stata organizzata  la mostra Giorgio Morandi, 1890-1964, le sue composizioni di oggetti verniciati ci vengono incontro come luminosi orizzonti urbani fatti di segni geometrici; le sue bottiglie dal collo lungo svettano nel cielo e i suoi fiori di carta, lontani da ogni intento mimetico, più che impressionistici annunci di primavera, appaiono come eleganti composizioni architettoniche.

Giorgio Morandi

Giorgio Morandi

Da vivere, più che annusare. A Morandi non interessava dipingere in termini oggettivi ciò che aveva davanti agli occhi, ma trasfigurava gli oggetti in evocative presenze, fin quasi a farne dei segni astratti. Che catturano l’attenzione dello spettatore come fossero fotogrammi di una visione interiore, come un flusso musicale di suggestive modulazioni tonali, via via sempre più delicate fin quasi a scomparire.

Questa straordinaria retrospettiva romana che Maria Cristina Bandera dedica al pittore emiliano, dopo quindici anni di studi e una mostra al Metropolitan Museum di New York, non si limita a ricostruirne il percorso in senso filologico ma, attraverso precise sequenze, riesce a mettere in risonanza 150 opere fino a farne un unico flusso vitale che avvolge e seduce lo spettatore. Passando dalle prime composizioni cubiste, in cui gli oggetti paiono scomposti, a quelle inondate da luce radente e quasi marmorizzate (in cui la curatrice ci fa scoprire non solo accenni a Piero ma anche alla londinese Cena di Emmaus di Caravaggio), per arrivare a composizioni via via sempre più sintetiche e a nature morte dove i contorni sembrano dissolversi, farsi sfrangiati, impalpabili.

Non c’è ombra di metafisica nella luce e nel nitore di questi dipinti morandiani, abitati da un silenzio ricco di sfumature. Solo dal vivo si scopre la speciale forza del colore di Morandi (che nessuna riproduzione può catturare) anche quando il quadro è realizzato solo in una scala di bianchi e grigi, si scopre la vena di inquietudine che percorre gli acquerelli in cui le forme appaiono in negativo e la fine stilizzazione di incisioni su lastre dorate, con cui evocava paesi spogliati da ogni significato realistico. «Morandi è partito da Cézanne per fare una cosa più moderna», suggerisce la curatrice nel catalogo Skira. Ne ha ricreato la poetica per arrivare alla sintesi, all’essenziale. (Simona Maggiorelli Left)

Caro Longhi, caro Morandi

Giorgio Morandi

Giorgio Morandi

Un vaso di rose fragile ed elegante, che pare sul punto di impallidire e svanire alla vista. Come il sorriso di chi, scampato il pericolo, non è ancora ritornato in forze, ma è profondamente riconoscente. Con questi Fiori ( 1943 ) Giorgio Morandi ringraziava Roberto Longhi di essersi impegnato per la sua liberazione dal carcere bolognese dove era stato rinchiuso con alcuni militanti del Partito d’Azione per la sua stretta amicizia con lo storico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti, impegnato nel movimento antifascista clandestino Giustizia e libertà.
Nonostante i cupi tempi di guerra e la prigionia, il pittore emiliano realizzò un’opera che profumava d’Oriente illuminando il presente con un delicato impasto di colori. Quel quadro ad olio dotato di una «grazia fragile e sorridente» si trova ancora oggi nella villa fiorentina in cui Longhi visse fino alla morte, in quella residenza Il Tasso che oggi è la sede della omonima Fondazione di studi di storia dell’arte.

Qui di recente ha preso vita la rassegna Giorgio Morandi Roberto Longhi opere lettere scritti. Una piccola, preziosa, mostra incentrata sulle opere di Morandi che entrarono a far parte della collezione Longhi, ma anche su un fitto epistolario.

Giorgio Morandi, incisione

Giorgio Morandi, incisione

Quell’evento resta documentato in una bella pubblicazione edita da Silvana editoriale in collaborazione con i Quaderni della collezione Merlini. Curato da Maria Cristina Bandera e con interventi, tra gli altri, di una illustre allieva di Longhi come Mina Gregori, il volume offre uno sguardo profondo sulla biografia intellettuale dell’artista e dello studioso (entrambi nati nel 1890 ) che si svolse in modo quasi parallelo, fra molte consonanze e comuni passioni, lungo l’arco di trent’anni.

Come quella per gli scritti d’arte di Ardengo Soffici o l’interesse per il Futurismo, visto all’inizio come antidoto a certo provincialismo italiano, salvo poi abbandonarlo rapidamente.

E ancora dalle pagine di questa bella pubblicazione emerge la comune passione per la primitiva essenzialità di Piero della Francesca, per la drammaticità di Caravaggio e, soprattutto, per la visione di Cézanne.

Giorgio Morandi

Giorgio Morandi

Per Longhi e Morandi fondamentale fu la stanza monografica che la Biennale di Venezia del 1920 dedicò al maestro di Aix en-Provence. Mentre un’altra Biennale storica, quella del 1964, coincise con la scomparsa del pittore bolognese.
Proprio mentre la Pop Art di Andy Warhol si apprestava a conquistare l’Europa, Morandi moriva. Una notizia che aveva lasciato Roberto Longhi sbigottito «non quasi tanto per la cessazione fisica dell’uomo, quanto più per l’irrevocabile, disperata, certezza che la sua attività resti interrotta, non continui; e proprio quando più ce ne sarebbe bisogno». Ma in quelle note il grande storico dell’arte era sostenuto anche da una speranza-certezza: «La statura di Morandi potrà, dovrà crescere ancora dopo che quest’ultimo cinquantennio sarà stato equamente ridimensionato, ridotto ai suoi limiti e, dove occorra, persino estromesso dal concerto di una storia che possa dirsi civile e cioè in grado d’intendere ciò che di umano sempre si esprime nell’atto dell’artista». (Simona maggiorelli, Left)

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Un confronto rivelatore

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 9, 2015

MantegnaIl tratto netto e tagliente di Giovanni Bellini influenzò Andrea Mantegna che arrivò alla straordinaria sintesi e al potente scorcio prospettico de Il Cristo morto (in foto) solo dopo un lunghissimo esercizio. Come si evince dal disegno Il seppellimento di Cristo (1456) conservato nel Gabinetto dei disegni della Pinacoteca di Brera, e ora esposto accanto a quel Cristo morto nel sepolcro con tre dolenti (1470-74), che è  il capolavoro assoluto del Rinascimento mantovano. E proprio a quello schizzo un po’ rigido e immaturo di Mantegna, che mise a dura prova anche un conoscitore come Giovanni Morelli, si deve un capitolo importante degli studi sugli anni giovanili del pittore padovano, così come la possibilità di mettere a fuoco il salto creativo che egli seppe fare in età matura, liberandosi da ogni identificazione con il cognato, che non conosceva rivali presso la ricca committenza veneziana.

Sul Cristo morto di Mantegna si sarebbe esercitato poi (con molti altri) il Tintoretto, con tratto fine e accurato, quasi vasariano, del tutto insolito nell’area veneta dove a prevalere era il colorismo di Tiziano e poi la pittura tonale che tocca punte altissime con Veronese e Tiepolo, capaci di costruire le proprie figure con il solo colore, giocato tono su tono. Anche in questo caso è un disegno conservato nel Gabinetto della Pinacoteca di Brera a permetterci di capire ancora meglio l’originalità di Tintoretto, pittore della luce, teatrale e già manieristico nel contesto della pittura veneta del Cinquecento. E di esempi di questo genere potremmo farne ancora molti continuando a esplorare l’importante collezione di opere grafiche conservata nel maggiore museo milanese. Una raccolta che la mostra Il primato del disegno (aperta fino al 19 luglio, catalogo Skira) permette di conoscere più da vicino, mettendo a confronto una scelta di opere grafiche di artisti di varie epoche, “dai primitivi a Modigliani” con i dipinti che quei disegni in qualche modo contribuirono a generare. Non solo come studi preparatori in senso stretto, ma anche – come abbiamo appena visto – permettendo di osservare meglio l’evoluzione di artisti come Pisanello, Mantegna, Raffaello, Parmigianino, Tintoretto e Veronese, per arrivare poi al Novecento di Modigliani, Carrà, Boccioni, Morandi, Giacometti e Licini.

Un’operazione di confronto filologico eccezionale, affidata alla cura del direttore della Pinacoteca Sandrina Bandera e resa possibile da importanti prestiti di dipinti da parte del Louvre, dell’Albertina di Vienna, del Metropolitan Museum, della Morgan Library e degli Uffizi. tratto netto e tagliente di Giovanni Bellini influenzò Andrea Mantegna che arrivò alla straordinaria sintesi e al potente scorcio prospettico de Il Cristo morto (in foto) solo dopo un lunghissimo esercizio. Come si evince dal disegno Il seppellimento di Cristo (1456) conservato nel Gabinetto dei disegni della Pinacoteca di Brera, e ora esposto accanto a quel Cristo morto nel sepolcro con tre dolenti (1470-74), che è  il capolavoro assoluto del Rinascimento mantovano. E proprio a quello schizzo un po’ rigido e immaturo di Mantegna, che mise a dura prova anche un conoscitore come Giovanni Morelli, si deve un capitolo importante degli studi sugli anni giovanili del pittore padovano, così come la possibilità di mettere a fuoco il salto creativo che egli seppe fare in età matura, liberandosi da ogni identificazione con il cognato, che non conosceva rivali presso la ricca committenza veneziana. Sul Cristo morto di Mantegna si sarebbe esercitato poi (con molti altri) il Tintoretto, con tratto fine e accurato, quasi vasariano, del tutto insolito nell’area veneta dove a prevalere era il colorismo di Tiziano e poi la pittura tonale che tocca punte altissime con Veronese e Tiepolo, capaci di costruire le proprie figure con il solo colore, giocato tono su tono. Anche in questo caso è un disegno conservato nel Gabinetto della Pinacoteca di Brera a permetterci di capire ancora meglio l’originalità di Tintoretto, pittore della luce, teatrale e già manieristico nel contesto della pittura veneta del Cinquecento. E di esempi di questo genere potremmo farne ancora molti continuando a esplorare l’importante collezione di opere grafiche conservata nel maggiore museo milanese. Una raccolta che la mostra Il primato del disegno (aperta fino al 19 luglio, catalogo Skira) permette di conoscere più da vicino, mettendo a confronto una scelta di opere grafiche di artisti di varie epoche, “dai primitivi a Modigliani” con i dipinti che quei disegni in qualche modo contribuirono a generare. Non solo come studi preparatori in senso stretto, ma anche – come abbiamo appena visto – permettendo di osservare meglio l’evoluzione di artisti come Pisanello, Mantegna, Raffaello, Parmigianino, Tintoretto e Veronese, per arrivare poi al Novecento di Modigliani, Carrà, Boccioni, Morandi, Giacometti e Licini. Un’operazione di confronto filologico eccezionale, affidata alla cura del direttore della Pinacoteca Sandrina Bandera e resa possibile da importanti prestiti di dipinti da parte del Louvre, dell’Albertina di Vienna, del Metropolitan Museum, della Morgan Library e degli Uffizi. (simona maggiorelli, dal settimanale Left)

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Il sogno di Klimt

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 3, 2015

Klimt

Klimt

Le figure femminili del Fregio di Beethoven sembrano rincorrersi e danzare sulla parete in un unico flusso di chiome fiammeggianti. Un fiume rosso che attraversa tutta la sala centrale della Pinacothèque de Paris dove, in collaborazione con la Österreichische Galerie Belvedere, è stata ricomposta questa opera monumentale di Gustav Klimt, che fu esposta nel 1902 all’interno del Palazzo della Secessione costruito nel 1897: data d’inizio della grande svolta viennese.

La grande mostra Klimt e il suo tempo  ha saputo raccontare quello strappo epocale attraverso ottanta opere selezionate da Alfred Weidinger, curatore del Museo Belvedere. Organizzata da Arthemisia Group e 24 ORE Cultura non è la replica dell’esposizione già vista a Milano, ma una versione arricchita in cui, accanto a capolavori di Klimt, figurano opere di artisti a lui contemporanei e arredi in stile liberty che aiutano a ricostruire il contesto e a comprendere meglio la sua idea di “arte totale”, capace di fondere linguaggi differenti, dalla pittura al design, dall’architettura alla musica, dando forma ad ogni aspetto della vita, come stile, come ornamento, arredo, come creazione di ambienti che favorissero e stimolassero la ricerca intellettuale. Era il sogno wagneriano della Gesamtkunstwerk, che Klimt seppe ricreare in moderne allegorie pagane, celebrando la bellezza di muse, amanti e amiche come Alma Malher, appena diciassettenne quando la incontrò. Come racconta lei stessa nella autobiografia La mia vita, ora riproposta da Elliot. Bellezza algida e altera, la futura amante dell’architetto Walter Gropius, dello scrittore Franz Werfel e del pittore Oskar Kokochka ispirò a Klimt la figura di Giuditta, femme fatale, incastonata in un mare di oro e di gemme. Un’immagine femminile decisamente scandalosa per la ricca borghesia ebraica viennese che si auto rappresentava pia e tradizionalista nella ritrattistica dell’epoca. Ed è questo forse il maggior pregio della mostra parigina che, mettendo a confronto le opere attardate di pittori come Moll (il patrigno di Alma Mahler) con quelle di Klimt permette di cogliere tutta la distanza abissale che le separava. Ad un naturalismo impressionistico e decorativo, Klimt rispondeva con la potenza magnetica di nudi e ritratti femminili dalla linea pura, mutuata dalle antiche stampe giapponesi; rispondeva con le geometrie stilizzate che reinventavano i mosaici bizantini, come documenta Judith I (1901), un’opera capace di sussumere secoli di storia dell’arte. ( Simona Maggiorelli, left)

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