Alle spalle ha una solida formazione classica e lo studio del bello, nella sua arte di strada, si fonde con l’immaginifico, con il fiabesco e con un certo gusto per l’iperrealismo “nordico” e inquieto. Mutuato forse anche dalla passione per Bosch, il tardo gotico e Dürer che in lui va di pari passo con quella per il proto umanesimo di Paolo Uccello. Anche dal punto di vista della tecnica Lucamaleonte è quanto mai eclettico. Il suo strumento preferito è lo stencil, la classica mascherina.
Ma ama cimentarsi anche con l’incisione, con la xilografia e, più di recente, con grandi composizioni realizzate con un pennello attaccato a una lunga stecca. Simile a quella che usava Matisse a Nizza, per far fiorire sulle pareti della sua camera una ridda di forme e colori.
Romano, classe 1983, Lucamaleonte è uno dei protagonisti del rinnovamento della Capitale grazie alla street art ed è stato uno dei 12 protagonisti della mostra Urban legends, la collettiva che nel Macro Testaccio ha messo a confronto più generazioni di writers e di differente estrazione culturale: una iniziativa di 999contemporary che ha fatto dialogare opere di grandi dimensioni firmate da artisti autodidatti, agit prop della prima ora e figli della cultura hip hop americana, writers solitari e fautori della creatività che si sviluppa nel gruppo, graffitari figurativi e astratti, ognuno con un proprio stile e modo di fare arte negli spazi pubblici (ma non solo) come racconta Sabina De Gregori nel saggio pubblicato nel catalogo Castelvecchi. Per tentare almeno un’istantanea di questo cangiante e imprendibile universo della Street art, abbiamo rivolto qualche domanda a Lucamaleonte.
Aver studiato all’Istituto centrale per il restauro come ha influito sulla tua Street art?
In realtà la mia formazione è precedente alla scuola, e rientra in un contesto di educazione familiare; sono cresciuto sui libri della collana “I maestri del colore”.Da sempre sono stato abituato all’arte, soprattutto a quella antica. Ovviamente l’Istituto di restauro ha aumentato la mia conoscenza. Ed è cresciuta la mia passione per alcune correnti artistiche che tornano spesso in ciò che faccio.
Preferire muri legali, non cercare lo choc, non imporre un immaginario violento è un tuo modo anche per “curare” con l’arte gli spazi degradati, per renderli più umani?
Spero di sì, non ho la presunzione di pensare che quello che faccio sia la cura giusta, dipingo a modo mio, è la mia visione della vita e di come dovremmo comportarci rispetto agli altri, spero che emerga dal mio lavoro. Sapremo tra qualche decennio se questa cura ha funzionato o no.
Parlando di Urban legends, come è stato lavorare con altri? C’è qualche writer che stimi in modo particolare?
è stata una bella occasione per mostrare il mio lavoro, realizzandolo accanto a mostri sacri. È difficile dire chi stimo di più, sicuramente gli italiani, con i quali ho un rapporto anche umano oltreché professionale, mentre tra gli artisti francesi mi piace molto Popeye, che è davvero una legenda urbana, e anche i lavori di Seth mi hanno impressionato. Lavorare fianco a fianco con Eron e Andreco è stato strano e divertente, non sono solito farlo a più mani, ma ritengo che la tela realizzata con loro sia uno dei miei lavori più intensi in assoluto, parliamo tre lingue diverse, ma abbiamo dimostrato di avere un fine unico.
Mantenere l’anonimato, come ha scelto di fare Banksy, è una scelta di libertà o una strategia di mercato?
Entrambe le cose. è una scelta di libertà perché ti consente una possibilità di movimento maggiore di chi ci mette la faccia, ed è una strategia di mercato perché crea un alone di mistero, crea un personaggio. Ma anche fare il contrario può rivelarsi una buona strategia. A me non interessa molto questo discorso, preferirei che a parlare fosse il mio lavoro, non ritengo di essere un personaggio particolarmente interessante, la mia vita è del tutto simile a quella di chiunque altro.
Si parla dei graffiti urbani come ultracontemporaneo. Ma già agli albori della storia umana si trovano capolavori come le pitture rupestri di Chauvet. C’è un nesso seppur sotterraneo?
Sicuramente una scintilla di tribalità è presente anche in movimenti ultracontemporanei, i disegni rupestri raccontavano la vita di tutti i giorni, e probabilmente facevano parte di ritualità magiche che non conosciamo, in un certo senso anche l’arte urbana fa questo, racconta una visione del mondo del qui e ora di una generazione di artisti, ed agli occhi di chi guarda arriva ad avere una forte funzione simbolica personale e collettiva.
Roma è il tuo spazio ideale. Ma ti sei confrontato anche con altre realtà italiane e straniere. Cosa pensi del progetto del Comune di Pisa che, nel nome di Keith Haring, ha deciso di destinare ampi spazi pubblici alla Street art?
Non conosco questa iniziativa, credo che sia civile e ultracontemporaneo che le istituzioni diano spazi, ma ci vuole intelligenza nell’amministrarli e credo che si debba sempre indagare il fine ultimo di queste cose, prima di accettarle.
(Simona Maggiorelli, dal settimanale Left)