
Picasso e Gilot fotografati da Capa (1948)
Il 2013 dell’arte si apre nel segno del pittore spagnolo. Con mostre a Milano, Roma, Chicago e Barcellona. Che raccontano la svolta cubista. E la sua ricerca continua di un modo nuovo di fare immagini
di Simona Maggiorelli
«Io dipingo esattamente come altri scriverebbero la loro autobiografia. Le mie tele, finite o non finite, sono come le pagine del mio diario. Il futuro sceglierà quelle che preferisce», diceva Pablo Picasso. «È il movimento della pittura che mi interessa, l’attenzione drammatica insita nel passare da una visione all’altra. Anche quando il tentativo non è portato a fondo». E la pittrice Françoise Gilot nel libro La mia vita con Picasso racconta che poi lui le disse: «Ho sempre meno tempo e sempre di più da dire. Sono arrivato a un punto in cui il movimento del mio pensiero mi interessa di più del mio pensiero stesso!». 
Che Picasso si sia espresso o meno con queste precise parole poco importa, viene da pensare passeggiando per le sale della mostra milanese Picasso capolavori dal museo nazionale di Parigi (fino al 27 gennaio, catalogo Il Sole 24 oreCultura), tanto si attaglia e sussume l’avventura, libera, eretica, incontenibile del pittore malaguegno nell’arte del Novecento.
«La vicenda biografica di Picasso è la storia stessa della sua opera», annotava anche uno studioso rigoroso come Argan invitando a leggere la monumentale biografia di Roland Penrose L’uomo e l’artista (ora riproposta da Pgreco).
Proprio come intime e delicate pagine di un diario, benché completamente ricreate e trasfigurate, spuntano, fra gli specchi antichi di Palazzo Reale, i biondi ritratti di Marie-Thérèse Walter, la giovane amante di Picasso.E come schegge di memoria conficcate nella carne viva, ecco le aguzze scomposizioni del volto di Dora Maar, la compagna abbandonata, che piange, mostrando le unghie e urlando tutta la sua disperazione.

Picasso, studio per Les Demoiselles
E ancora, quasi a voler rappresentare tutta la intricata trama dei rapporti di Picasso con l’universo femminile, ecco il marmoreo ritratto di Olga (1917), la statuaria ballerina russa, quasi bambola di cera dal volto infinitamente triste. E poi, sempre lungo il filo della cronologia, le massicce figure femminili che corrono controvento nell’atmosfera afosa di un neoclassicismo anni Venti che si fa metafora tangibile e concreta di un pesante ritorno all’ordine. Dagli esordi con il fiammeggiante ritratto dell’amico Casagemas (1901), morto suicida, al periodo blu rappresentato a Milano da una inquietante Celestina orba, alla dirompente invenzione del cubismo, fino ai collages, agli assemblaggi di oggetti trovati, alle filiformi sculture in ferro a quadri che giocano con fantasmagorie di stampo vagamente surrealista e ben oltre. Con grande abilità e irruenza, Picasso ha saccheggiato ogni genere e stile. Ogni novità e tradizione con cui sia venuto in contatto. Riuscendo sempre a farne qualcosa di assolutamente personale, originale, inimitabile.
Così le eleganti scomposizioni cubiste di Braque, giocate sui toni del nero e marrone, accanto alla forza dirompente ed iconoclasta di quelle picassiane, ritmate da linee nere, definite e perentorie, appaiono poco più che educati esercizi di stile. Come si potrà notare anche più approfonditamente al Vittoriano a Roma, dal 7 marzo, con la mostra e il catalogo Skira Picasso, Braque, Leger e il cubismo.
Ma interessante, qui a Milano, è anche il confronto con l’unico maestro che Picasso abbia mai riconosciuto: Cézanne. Che regala ai caldi paesaggi provenzali, lucenti di arancio e verde, una evidenza e una tridimensionalità quasi scultorea. «Sarebbe bastato fare a pezzi questi dipinti… e poi ricomporli secondo le indicazioni fornite dal colore, per trovarsi di fronte a una scultura» suggeriva Picasso stesso intervistato da Cahiers d’art nel 1935.
Beninteso non si tratta qui di stabilire un meglio o un peggio, in una impossibile scala di giudizio fra protagonisti dell’arte così rivoluzionari, ma di rimarcare l’assoluta differenza che Picasso sapeva segnare ogni volta, anche quando il suo fare arte nasceva dall’arte altrui, in dialogo vivo, con pittori del passato o suoi contemporanei.

Picasso, L’ombra
Perfino nel confronto con quel classicista accademico di Ingres, in cui Picasso colse un lato sovversivo, ricreandone interamente il celebre Bagno turco (1862) ne Les Demoiselles d’Avignon (1907), l’opera del geniale balzo in avanti, dello strappo radicale con tutta la tradizione figurativa d’Occidente, che mandava in cantina la pittura da cavalletto e la piatta mimesi del reale.
Dalle passive odalische di Ingres, il ballo ancestrale di nude e scultoree fanciulle, rappresentate in questa antologica milanese attraverso una serie di studi preparatori. Magnetiche e lucenti come l’ebano delle statuette africane che avevano attratto l’attenzione di Picasso al Musée dell’Homme di Parigi. Ma niente affatto tornite e affabili. Anzi spigolose e aguzze, imprevedibili e selvagge nella irrazionale molteplicità di punti di visti con cui il pittore spagnolo le mette in scena. Regalando loro il fascino enigmatico e misterioso di uno sguardo spalancato su una realtà che lo spettatore non riesce a vedere. Come antiche statuette votive yemenite, eppure ultramoderne.
Gli schizzi e le tele per le Demoiselles in mostra in Palazzo Reale portano in primo piano la linea netta e potente con cui sono “scolpite”. Anche quando non sono tracciate con il carboncino o con l’inchiostro, ma con una friabile e carnale sanguigna. Ed è uno dei momenti forse più emozionanti di questa mostra. Insieme all’omaggio all’amico e rivale Matisse che in Palazzo Reale è evocato attraverso una serie di tele picassiane che si aprono come finestre su marine assolate con al centro sensuali presenze femminili, quadri come L’ombra (1957) o L’atelier La Californie (1955) dipinto subito dopo la morte di Matisse, come un commosso addio.
Con tutto ciò non ha la pretesa di voler dire qualcosa di nuovo su Picasso questa mostra curata dalla direttrice del Museo Nazionale di Picasso Anne Baldassari, neanche rispetto alle precedenti rassegne del 2001 e del 1953 che queste sale hanno ospitato. Ma offre l’occasione davvero imperdibile di rivedere circa 250 opere di Picasso, fra cui molti capolavori, mentre la loro storica sede parigina resterà chiusa per lavori fino all’estate 2013. Nel frattempo, parte di questi prestiti, ricombinati con altri, andranno a comporre, dal 20 febbraio, la grande retrospettiva che l’Art Institute di Chicago dedica a Picasso per i cento anni da quella storica esposizione del 1913 che presentò il suo lavoro al pubblico americano. Una nutrita serie degli autoritratti che raccontano i tanti travestimenti attraverso i quali Picasso – con abile mitopoiesi di se stesso – amava raccontarsi, invece, dal 31 maggio saranno esposti nel Museo Picasso di Barcellona nell’ambito della mostra Yo, Picasso.
In primo piano, il multiforme giocare picassiano con le maschere di Arlecchino, di saltimbanco dell’anima, Trickster, e Ermete Trismegisto avvezzo a tramenare con tutte le possibili alchimie pittoriche, in un movimento continuo di un pensiero per immagini che procede come un fiume in piena. Vicino al linguaggio dei sogni, nelle sue deformazioni, condensazioni, polisemie. Eppure mai preso nella trappola surrealista di tentare una trascrizione meccanica e razionale delle immagini della notte.
da left-avvenimenti del 29 dicembre 2012
Mi piace:
"Mi piace" Caricamento...