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Le passioni di RobertoLonghi, a Parigi

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 24, 2015

Amor vicit omnia, Caravaggio

Amor vicit omnia, Caravaggio

A Roberto Longhi (1890-1970) si deve la riscoperta dei cosiddetti primitivi. E una innovativa e sensibile interpretazione della pittura del Trcento. Con al centro Giotto che, uscendo dalla piatta visione medievale, per la prima volta fa agire i personaggi nello spazio lasciando che le passioni e i sentimenti affiorino sui volti. Ma nel quadro del gotico internazionale seppe anche cogliere tutta l’originalità del linguaggio di Masaccio, fatto di essenzialità di linee, plastica monumentalità delle figure e potenza del colore. Lo racconta bene la mostra De Giotto à Caravage aperta fino al 20 luglio 2015 nel Musée Jacquemart-André a Parigi, scegliendo una fulgida Madonna con bambino dai colori smaltati per rappresentare l’artista della Cappella Brancacci in questo percorso espositivo pensato come fosse un ideale museo longhiano.

E poi la scoperta di Masolino da Panicale, dell’anti classico Mantegna e il pieno recupero dell’arcaicizzante Piero della Francesca di cui Longhi è stato uno dei massimi conoscitori e interpreti. Con una lingua viva quanto colta, nel celebre saggio L’officina ferrarese (1934, ora nei Meridiani Mondadori) Longhi riuscì anche a far riemergere dall’oblio un pittore come Cosmè Tura, dimostrando che era tutt’altro che un bizzarro e introverso pittore di provincia. Come testimonia qui, dal vivo, una potente e spettrale composizione di figure sacre, dai colori lividi e corruschi. Un’opera che emerge con straordinaria forza dal buio di una sala foderata di rosso scuro, mescolando inquietudini nordiche ed eleganza rinascimentale.

Ma in questo ricco itinerario dal XIV al XVII secolo, che affianca importanti prestiti del Polo museale fiorentino e di altri musei europei a numerose di tele della collezione Longhi, non poteva mancare uno degli artisti più amati dallo studioso piemontese: Caravaggio. Al quale riconosceva di aver rivoluzionato la pittura naturalistica con un uso vivo e drammatico del chiaroscuro. Di fatto gli scritti longhiani sono alla base della crescente fortuna critica di Caravaggio nel Novecento. Con l’aiuto di Mina Gregori presidente della Fondazione Longhi, il curatore Nicolas Sainte Fare Garno è riuscito a dedicargli sale in cui spiccano il Ragazzo morso da un ramarro  e l’Amorino dormiente della Galleria Pitti ma anche il Cristo coronato di spine del 1602, tra dipinti di Ribera e di caravaggisti. Ricostruendo il contesto in cui furono dipinti, con quell’attenzione alla koinè culturale che, come ricorda Orietta Rossi Pinelli ne La storia delle storie dell’arte (Einaudi), connota tutto il lavoro critico longhiano.

(Simona Maggiorelli, Left)

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Il genius loci di Fabriano

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 14, 2015

maestro di campodonico

maestro di campodonico

Non solo il fiammante gotico di Gentile. Ma anche il talento di una straordinaria serie di artisti meno noti al grande pubblico, dei quali la storia non ci ha tramandato i nomi propri. Come quell’originalissimo Maestro di Campodonico che si segnala come una delle riscoperte più stimolanti di questa mostra, Da Giotto a Gentile, pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento, prorogata fino al 18 gennaio nella Pinacoteca Bruno Molajoli di Fabriano. Un’esposizione e un catalogo, edito da Mandragora, che ha visto al lavoro un team di giovani studiosi  guidati da Vittorio Sgarbi. E che, diversamente da quel che lascia pensare l’ecumenico titolo, ha il merito di presentare una lettura precisa e innovativa dell’arte marchigiana fra XIII e XIV secolo. (Che dovrà essere adeguatamente discussa dagli esperti, beninteso, ma assai suggestiva). Ovvero che Fabriano all’epoca non fosse affatto una realtà appartata e provinciale. Anzi. La tesi argomentata attraverso un percorso di un centinaio di opere è che questa area marchigiana abbia saputo esprimere una lingua viva in pittura, che aveva accenti vigorosi, assai diversi da quelli espressi dalla grande scuola senese, ma anche capace di segnare una significativa distanza sia dalla langue riminese che dalla scura maniera umbra.

Gentile da Fabriano

Gentile da Fabriano

Nel saggio La scuola di Fabriano e il genio degli anonimi, Sgarbi avanza l’ipotesi che la rivoluzione pittorica rappresentata dalla pittura di Giotto, abbia dato origine a scuole differenti, fra le quali anche una scuola fabrianese, che seppe cogliere e sviluppare in modo particolare il nesso fra pittura e scultura, in affreschi e pitture di grande evidenza plastica; lontana anni luce dal razionalismo fiorentino, per qualità espressiva e senso della spazialità. Aspetti che certamente ritroviamo nelle visionarie e drammatiche scene affrescate dal Maestro di Campodonico, che  non era solo un pittore, ma anche un sapiente scultore. L’evidenza tridimensionale della sua Madonna, dall’espressione accigliata e antigraziosa del volto regalano un tratto quasi di eterodossa bizzarria alla scena dell’Annunciazione.

Mentre la Crocifissione, di cui restano solo dei lacerti, rivela su un fondo di profondo blu l’inconsolabile dramma di una madre, più che disperata, furente, perché le è stato ucciso il figlio. Questi due preziosi frammenti di affresco intorno a cui si snoda la mostra furono ritrovati nel 1932 in una sorta di intercapedine della parete laterale nella chiesa della Maddalena di Fabriano, ma fanno ancora parte dei tesori poco conosciuti dalla maggioranza degli italiani. Invece la straordinaria luminosità e la presenza vibrante delle figure rivela la mano di un artista dal guizzo stizzoso, incisivo, sorprendente, che meriterebbe studio e attenzione. Al suo fianco si segnalano nel percorso espositivo altri interessanti presenze come quella del Maestro dei Crocefissi francescani e del Maestro di Sant’Agostino, del Maestro di Sant’Emiliano e del Maestro di Monte Martello. Le loro opere richiamano poi quelle di molti altri artisti anonimi di cui sono ricche le chiese disseminate nel tessuto urbano e le abbazie e gli eremi del territorio circostante, in una vasta zona tra Marche e Umbria. Invitando a proseguire il viaggio di scoperta. ( Simona Maggiorelli)

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Daverio e i denti di Giotto

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 19, 2014

Giotto cappella degli Scrovegni

Giotto cappella degli Scrovegni

Tecnicamente sarebbero una serie di canovacci, semplici tracce usate dal critico Philippe Daverio per realizzare una serie di puntate del popolare programma televisivo Passepartout. Ma a leggerli pubblicati nel suo nuovo libro edito da Rizzoli ci si rende conto come questa serie di scritti d’occasione, fuori da ogni banale semplificazione, formino una collana di folgoranti ritratti di artisti – da Giotto a Botticelli, da Correggio a Caravaggio – e un originale viaggio nella storia dell’arte italiana, con uno sguardo comparativo al resto del panorama europeo.

Nelle prime pagine di questo Guardar lontano, veder vicino (che fa seguito al best seller Il museo immaginato uscito nel 2011 e al più recente Il secolo della modernità) Daverio promette un racconto non conformista di alcuni dei più noti capolavori dell’arte italiana. E fino all’ultima pagina dedicata alla drammatica Resurrezione di Lazzaro di Caravaggio, non tradisce la promessa mantenendo uno sguardo fresco e curioso su opere sulle quali si è depositata la polvere di decine e decine di manuali scolastici.

Giotto, Cappella degli Scrovegni, particolare

Giotto, Cappella degli Scrovegni, particolare

Così ecco la Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto raccontata dal critico lombardo-alsaziano come la scoperta di una nuova oggettualità attraverso dettagli mai prima rappresentati in un affresco sacro, come i denti e le bocche spalancate dei frati, i peli e il sesso dei dannati e la trasformazione degli angeli, che liberati dalla rigidità bizantina, non appaiono più come i «carabinieri del Signore».

E’ la scoperta dell’espressività dei volti e il primo tentativo di rappresentare gli affetti umani in pittura che Daverio aiuta a cogliere nei capolavori di Giotto a Padova e ad Assisi, con un linguaggio spigliato che avvicina il lettore meno attrezzato ma che – bisogna riconoscere – non rinuncia mai all’approfondimento. Né a nessi suggestivi come quando mette a confronto il primitivismo del medievale Cimabue con quello del cubista Picasso raccontando la complessità di una poetica che dietro alla scabra essenzialità delle forme, cela una ricerca artistica raffinatissima. In questo breve spazio possiamo solo offrire qualche suggestione di questa multiforme “Daveriologia” lasciando al lettore il gusto di scoprire molto altro.

Ma prima di chiudere vorremmo almeno spendere qualche parola per raccomandare in particolare la lettura dei capitoli sul Rinascimento in cui la proposta fiorentina di Botticelli, intrisa di astratto neoplatonismo, viene messa a confronto con la scoperta della realtà che caratterizzava invece la coeva pittura fiamminga e con la nuova luce che la pittura ad olio regalava ai quadri di Van Eyck, che i traffici commerciali e bancari fra la signoria medicea e le repubbliche anseatiche, del resto, avevano reso ben noti nella penisola.

Non solo in Toscana, ma anche in quella Messina in cui nacque e si formò Antonello e che nel Quattrocento non era affatto una città di periferia, ma uno dei porti più importanti del Mediterraneo che metteva in connessione diretta la Sicilia con Venezia e con Anversa.

daverio_guardar_fascetta-660x911Per non dire poi del capitolo dedicato a Leonardo da Vinci che Daverio tratteggia come un giovane anarchico e “alternativo”, capace di mettere a soqquadro le ferree leggi del disegno tosco-emiliano scegliendo la via di  una laica «sperienza».  Nella Firenze medicea era il neoplatonismo  di Ficino a dettare i programmi iconografici ma il giovane pittore non poteva accettare che il disegno partisse da un’idea astratta. Leonardo, come giustamente Daverio ci ricorda qui, non poteva rinunciare allo spirito di ricerca, e  si fece notimista, anatomista, osservatore del continuo fluire degli elementi naturali. Più assonante in questo con il giovane Albrecht Dürer che con il concittadino Botticelli.

E leggendo queste pagine dedicate  al genio da Vinci  e alla sua affascinante quanto evanescente Ultima Cena torna alla mente  quella sequenza di Passepartout in cui Daverio per fare percepire allo spettatore per quale punto di vista Leonardo avesse pensato l’affresco,  nella sala del refettorio di Santa Maria Maggiore a Milano puntò due telecamere una contro l’altra evidenziando così quello spazio vuoto che un tempo era occupato dal tavolo dove i frati mangiavano: piccolo particolare domestico, ma che in tv metteva in nuova luce questo straordinario quanto enigmatico capolavoro leonardiano.  Anche per sequenze come questa ci dispiace  molto che la Rai non abbia voluto rinnovare a Daverio l’incarico per una nuova serie di trasmissioni.  Le vecchie puntate, per chi se le fosse perse, si possono rivedere su Rai 5.     (Simona Maggiorelli)

Dal settimanale Left-avvenimenti

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#Cézanne, l’inarrivabile

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 29, 2013

Cézanne, Paesaggio blu

Cézanne, Paesaggio blu

A guardarli dal vivo certi lussureggianti paesaggi di Cézanne e certi suoi scarni e incisivi ritratti, messi a confronto a Roma con i lavori di epigoni italiani, viene da pensare che Lionello Venturi avesse visto lungo quando, esule in Francia nel 1931 (perché si era rifiutato di firmare il Manifesto degli intellettuali fascisti) pubblicava il suo saggio su Cézanne.

Un lavoro in cui analizzava in parallelo le imperfezioni di Giotto con quelle del pittore francese: «Nulla meglio del confronto fra un paesaggio di Cézanne e uno di Giotto – scriveva – può darci l’esatta impressione della esatta intenzione a determinare la costruzione delle masse e il loro volume, a cercare il fenomeno sintetico senza nessuna preoccupazione della somiglianza con la natura». è merito di Maria Teresa Benedetti, curatrice della mostra Cézanne e gli artisti italiani, aperta fino al 2 febbraio 2014 al Complesso del Vittoriano, l’aver ricordato nel catalogo Skira che accompagna questa sorprendente collettiva quel prezioso incunabolo della critica d’arte, essenziale per avvicinarsi con cognizione di causa all’opera del solitario pittore di Aix- en Provence, l’unico artista che Picasso abbia mai riconosciuto come maestro e che, ostinato nel cercare di rappresentare il processo della visione (non meramente retinica), ci ha regalato capolavori come la serie sulla montagna Sainte-Victoire, via via sempre più scarnificata ed evanescente, via via sempre più ridotta ai suoi tratti essenziali.

Alcune di queste preziose varianti sono in mostra al Vittoriano insieme ad opere meno note come Il negro Scipione (1886) e come il magnetico Paesaggio blu, (1904-6) in cui la scomposizione della realtà secondo forme geometriche lascia il posto al ritmo fluido del colore verde – azzurro che attira lo spettatore verso la profondità della tela. Conservato a San Pietroburgo questo quadro è uno dei più emozionanti di questa esposizione che mette a confronto una ventina di opere di Cézanne, provenienti dal Musée d’Orsay, con tele di pittori italiani- da Severini a Soffici, da Morandi a Carrà e oltre -, che nella prima metà del secolo scorso si rivolgevano al maestro di Aix per uscire dalle secche di una pittura italiana attardata, ancora legata ad un naturalismo accademico d’antan. Fu così che Ardengo Soffici, più critico d’arte che artista (a Parigi si manteneva facendo disegni satirici) trasse ispirazione dalle forme solide di Cézanne, per tentare una propria via al cubismo sulla scia di Braque e Picasso. Anche se, come si vede qui, riuscì a cavarne solo aneddotiche composizioni di oggetti quando non del tutto strapaesane. Ma una lettura appiattita di Cézanne si evince anche nei tentativi di Carlo Carrà, di Mario Sironi e perfino di un giovane Giuseppe Capogrossi di estrapolarne un classicismo che nei loro lavori anni Trenta assume il sapore di un oppressivo ritorno all’ordine.

Più riuscito appare invece il tentativo di Felice Casorati che si ispirò a Cézanne nel dipingere nature morte dalla evidenza plastica quasi tridimensionale. Mentre Umberto Boccioni, con il suo ritratto di Ferruccio  Busoni, è forse l’unico artista che dimostra di aver assorbito profondamente la lezione dell’inarrivabile maestro francese e di saperla ricreare in modo del tutto originale.

dal setttimanale left-avvenimenti

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Restauri sospetti

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 28, 2013

Bronzi di Riace, restauro infinito

Bronzi di Riace, restauro infinito

Mentre il sindaco di Firenze Matteo Renzi nel Salone dei Cinquecento si danna a trapanare gli affreschi del Vasari in una insensata caccia del perduto affresco di Leonardo, pur di avere file di turisti non solo agli Uffizi, ma anche a Palazzo Vecchio, e mentre si moltiplicano gli scavi macabri in cerca di ossa della Gioconda, di Giotto e di altri malcapitati protagonisti della storia dell’arte italiana, un restauratore come Bruno Zanardi lancia un allarme riguardo al moltiplicarsi di restauri inutili. Quando non addirittura dannosi. Restauri commissionati solo per un effimero ritorno d’immagine da parte di Comuni ed enti privati. Restauri ingaggiati per drenare finanziamenti e che talora mettono a rischio la leggibilità critica dell’opera.

È questo il caso di un dipinto di Orazio Gentileschi «pulito per i prossimi mille anni», scrive Zanardi nell’acuminato pamphlet Un patrimonio artistico senza. Ragioni, problemi, soluzioni (Skira). Ricordando come una giovane storica dell’arte di un museo comunale del centro Italia gli avesse confidato orgogliosa di aver ottenuto diecimila euro per restaurare quel quadro… perché sarebbe dovuto andare in mostra il mese successivo. Ma c’è anche di peggio.

«Un’importante casa automobilistica prese a interessarsi di restauro», ricorda Zanardi nel capitolo “Raffaello, un restauro inutile, quasi dannoso”. In che modo quell’azienda privata avrebbe voluto dedicarsi a tale nobile impresa? «A modo suo», chiosa con ironia lo studioso che è stato allievo di Giuliano Urbani e sodale di Cesare Brandi. La casa automobilistica in questione prometteva «un pacco di soldi a uno dei più celebri musei italiani e del mondo per restaurare una qualsiasi delle opere lì conservate. Unica condizione: l’opera doveva essere molto famosa». Niente di male, direte. Chi produce auto non è tenuto a saperne d’arte. Ma il funzionario pubblico della soprintendenza sì. E avrebbe dovuto rifiutare quella proposta. Cosa che non è accaduta.

COP_8991_ZanardiPatrimonio_ok:SKIRA«Il soprintendente, italico more, se ne fregò e accettò», ricorda Zanardi. «Né la decisione destò problema. Anzi tutti a dire: questo sì che è un muoversi da liberale! Far entrare i privati nella tutela e nella valorizzazione. Nessuno osò sostenere il contrario». Ovvero che «un restauro condotto senza indiscutibili ragioni conservative è l’opposto di rigore etico, professionale e morale del liberalismo. Oltre a essere denari buttati via». Per non parlare poi della cosa più importante: i danni arrecati all’opera da un restauro inutile. E non si tratta di un singolo episodio. In questo appassionato diario di uno dei massimi restauratori italiani si trova un’intera pletora di casi analoghi. Compreso quello, annoso, che riguarda i bronzi di Riace in restauro da un paio d’anni. Il terzo dal 1980. Per una spesa di un milione di euro o giù di lì. A mo’ di commento Zanardi riporta lo sfogo (meritorio) di un custode che allargando le braccia gli dice: «Secondo me che li vedevo ogni giorno, erano perfetti. Bastava spolverarli…Ma mi rendo conto che se una cosa la spolveri e basta senza spendere nulla c’è una probabilità su un miliardo che tu vada in televisione e sui giornali».  (Simona Maggiorelli)

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Il ritratto del diavolo

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 19, 2012

Giotto, Lucifero, Cappella degli Scrovegni, Padova

Giotto, Lucifero, Cappella degli Scrovegni, Padova

Con le corna e trinariciuto. Oppure seducente angelo ribelle. Una mostra a Bolzano e uno studio di Daniel Arasse indagano la  nascita e le metamorfosi dell’iconografia di Belzebù

di Simona Maggiorelli

Dicembre tempo di Babbi Natale e di presepi (quest’anno senza bue e l’asinello “bannati” da un Ratzinger neofita di twitter). Ma anche tempo di diavoli con tanto di coda biforcuta e corna.

Come vuole la tradizione popolare tedesca che fa del Krampus – il diavolo che accompagna la festa di San Nicolò il 5 dicembre – il vero protagonista di questa stagione. Così la doppia mostra che l’assessorato alla Cultura e alla convivenza del Comune di Bolzano dedica a questa leggendaria e affascinante figura diventa l’occasione per fare qualche riflessione, fra il serio e faceto, sull’imperitura fenomenologia del diavolo e sulla metamorfosi che la sua rappresentazione ha avuto in pittura, tra medioevo e protoumanesimo, oscillando fra bestia repellente e superbo angelo ribelle.

Sul primo aspetto indaga una spassosa esposizione di 250 cartoline storiche raccolte nelle sale della Galleria civica altoatesina sotto il titolo Saluti dal diavolo (fino al prossimo 23 febbraio 2013), insieme a un’ampia collezione di maschere popolari del XVIII e XIX secolo indossate in passato durante spettacoli teatrali e feste altoatesine.

A fare da filo rosso, una serie di credenze popolari che, per esempio, raccomandano di non aprire la porta di notte perché a bussare potrebbe essere Belzebù in persona. Ma anche di cospargere la soglia di sale e di piante dall’odore pungente per metterlo in fuga. Per chi, all’uopo, non si sentisse ancora certo di saper resistere alle seduzioni diaboliche si raccomanda di procurarsi un uovo di gallina nera come talismano e, nel caso, di sacrificare qualche malcapitato gatto. Nel suo monumentale Dizionario della superstizione (Castelvecchi)  Helmut Hiller ricorda anche che – al pari di dio – il diavolo non deve essere nominato invano.

Il ritrattoNé conviene dipingerlo sulla parete, perché altrimenti comparirà davvero. Curioso consiglio popolare, questo. In paganissimo contrasto con tutta l’arte medievale di matrice cristiana che, invece, di orribili diavoli è piena zeppa. Come memento mori e minaccia di bruciare in un eterno inferno. Sulla rappresentazione del diavolo in pittura, come è noto, c’è una bibliografia sterminata. Che vanta storici dell’arte come André Chastel e Luther Link. Ma per chi volesse divertirsi ad approfondire le tempestose vicende della rappresentazione di Satana si consiglia anche il dotto e affascinante Ritratto del diavolo di Daniel Arasse che ora Nottetempo pubblica in edizione illustrata.

Frutto di un seminario che lo storico dell’arte francese scomparso nel 2003 tenne all’Ecole des hautes etudes en Sciences sociales, il volume analizza in particolare la nascita di una certa iconografia orrorifica e trinariciuta del diavolo a partire dalla tradizione orale dei predicatori, che era carica di immagini d’impatto e molto teatrale. Sulla scorta degli studi sull’arte della memoria di Francis Yates, Arasse ricostruisce come si andò consolidando una tradizione che aveva un preciso intento: inculcare in chi non sapeva leggere il terrore di dio, facendo del diavolo “mostruoso” una imago agens che si fissa nella memoria.

dal settimanale left avvenimenti

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Nella fucina dell’Umanesimo

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 31, 2012

di Simona Maggiorelli

Paolo Uccello, La battaglia di San Romano, Uffizi

Una selva di lance spezzate e il bagliore delle armature. E poi il sangue, i soldati morti mentre i cavalli scalciano con vigore. Così rappresentava, con una prospettiva inedita e in scorci vertiginosi, la Battaglia di San Romano (1438-1440) il pittore Paolo Uccello.

La tela conservata agli Uffizi, dopo tre anni di restauro, ha recuperato ora una piena leggibilità. Brillano gli inserti d’oro e d’argento ma soprattutto emerge la raffinata pittura tonale che dà profondità alla scena, in cui anche lo spettatore è come risucchiato.

Quella che Paolo Uccello offre è una magnifica visone dello scontro fra senesi e fiorentini, una potente orchestrazione di «caos, clamore, urto, sventolio araldico e sonorità metalliche d’un estremo sogno cavalleresco», come annota la soprintendente al Polo Museale Fiorentino Cristina Acidini in un suo saggio pubblicato nel catalogo Giunti della mostra Bagliori dorati. Il gotico internazionale a Firenze

. Una rassegna aperta fino al 4 novembre nella Galleria degli Uffizi e che alla fine di un percorso di oltre cento opere culmina proprio con la Battaglia di San Romano, l’unica tavola del celebre trittico di Paolo Uccello rimasta in Italia. (Le altre  due tele , come è noto, sono alla National Gallery di Londra e al Louvre di Parigi).

Curata dal direttore degli Uffizi Antonio Natali, con Enrica Neri Lusanna e Angelo Tartuferi, questa mostra è l’ideale proseguimento di quella di un paio di anni fa intitolata L’eredità di Giotto, e che si fermava al 1375. La tesi scientifica di questa importante esposizione – che riunisce capolavori di Gentile di Fabriano come la Pala Strozzi e opere giovanili di Paolo Uccello come L’Annunciazione proveniente da Oxford o la Madonna di Antonio Veneziano conservata ad Hannover – è che il gotico internazionale, nelle sue varie declinazioni fosse già parte dell’Umanesimo, al pari del filone innovativo che va da Masaccio a Donatello e Brunelleschi.

La Battaglia di San Romano, da questo punto di vista, si presenta proprio come una sintesi potente della complessità intellettuale e creativa di quella speciale stagione dell’arte fiorentina che senza soluzione di continuità procede dal Trecento al secolo successivo e in cui, per dirla con Natali, «rigore matematico e sperticate fantasie convissero, intersecandosi talora».

Lorenzo Monaco, particolare

Tutto ciò è raccontato attraverso una scelta di opere realizzate tra 1375 e il 1440, fra cui dipinti di Angelo Gaddi, Beato Angelico, Lorenzo Monaco, ma anche di Masolino da Panicale, Antonio e Domenico Veneziano e altri artisti dai nomi meno noti al grande pubblico ma che testimoniano bene della ricchezza di stili e di sperimentazioni della Firenze protoumanista.

Dove un ruolo preminente aveva anche la scultura che doveva esprimere la magnificenza della città legittimandone il primato culturale e politico. Un aspetto indagato anche dallo storico dell’arte ungherese Miklós Boskovits scomparso un anno fa a Firenze. Fra i massimi studiosi del XIII-XV secolo, ai suoi lavori si deve la rilettura del Quattrocento fiorentino come fucina di innovazione in cui un raffinato gotico internazionale incontrava l’interesse per l’umano e lo studio della classici.

Una koinè che, come argomenta Michele Tomasi nel suo L’arte del Trecento in Europa (Einaudi), risulta incomprensibile se letta in contrapposizione con il Trecento e senza considerare il coevo contesto europeo.

da left-avvenimenti

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Yves Klein, la pittura sulla pelle

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 3, 2012

A cinquant’anni dalla sua scomparsa, in Palazzo Ducale a Genova, una retrospettiva ricorda l’artista francese del blu oltremare e delle antopometrie realizzate intingendo le modelle nel colore

di Simona Maggiorelli

Yves Klein , antropometrie

Yves Klein, artista zen alle prese con la filosofia giapponese e con le mosse di judo (era cintura nera). Ma anche pittore affascinato dalla fisicità e dalla sensualità con performances realizzate intingendo splendide ragazze direttamente nel colore. Raffinato ricercatore nell’ambito dell’astrattismo e al tempo stesso imprendibile giullare delle arti visive che si divertiva ad emulare il tuffatore degli affreschi di Pompei e le prove di volo di Leonardo da Vinci in acrobatici fotomontaggi in cui sembrava librarsi dai cornicioni dei palazzi parigini

Alter ego di Piero Manzoni in scintillanti provocazioni con (finti) lingotti d’oro nascosti nella Senna sbeffeggiando la riduzione capitalistica dell’opera d’arte a pura merce

Ma anche, e al tempo stesso, esoterico alchimista di un blu oltremare che sfidava il blu di Giotto. E molto altro ancora. Nella sua breve vita, Yves Klein (Nizza, 28 aprile 1928 – Parigi, 6 giugno 1962) sperimentò a tutto raggio le potenzialità del suo poliedrico talento di pittore, scultore, performer, teorico dell’arte, filosofo e perfino compositore

Rielaborando in modo originale gli stimoli che coglieva viaggiando in Occidente e in Oriente. Così se dal Giappone più antico mutuò l’idea del judo come danza, vicina al Teatro No, dall’America anni Cinquanta mutuò l’idea di happening che punta a coinvolgere gli spettatori, facendone parte attiva dello spettacolo, tornato a Parigi, Klein ne fece la base e il laboratorio per la creazione di suggestive Antropometrie in cui silhouettes di donne diventavano segni, tracce, di evocative presenze femminili raccontate con pochi segni essenziali.

Quadri di grandi dimensioni che Yves Klein dipingeva stendendo per terra la tela alla maniera di Jackson Pollock. Come l’inventore dell’Action painting senza usare i pennelli. Ma in questo caso lasciando che le pitture astratte e colorate prendessero forma attraverso un dripping insolito: una sorta di danza delle modelle nude sulla tela. Mentre il gesto artistico, non più solitario, si faceva dialogo di gesti, incontro pubblico e collettivo, festa. Da qui, dalla ricerca artistica che Klein amava realizzare in gruppo, ma anche dal fascino che esercitava su di lui la dura dialettica del judo sono partiti Bruno Corà e il fondatore degli Archivi Klein di Parigi, Daniele Moquay, per  costruire il percorso della mostra Judo, teatro, corpo e pittura dal 6 giugno al 26 agosto  in Palazzo Ducale a Genova.

Yves Klein

A cinquant’anni dalla scomparsa dell’artista francese, e forte della bella retrospettiva che organizzò alcuni anni fa al Museo Pecci di Prato, Bruno Corà torna così a ripercorrere la folgorante parabola di Yves Klein che il critico e curatore nei suoi scritti compara a quella del poeta Rimbaud: «I due avevano una grande quantità di stimmati comuni», nota Corà, «Entrambi sono stati folgoranti meteore, entrambi cercarono una speciale fusione fra arte e vita. Ma ad avvicinarli è anche una certa insolenza, un orgoglio, una spavalderia d’azione» nota lo studioso tratteggiando un ritratto di Yves Klein come artista romantico che cercava di rappresentare l’invisibile. In primis indagando il colore come materia viva, espressiva di per sé. Sulla strada aperta da Kandinsky, ma anche affascinato dalla ricerca di assoluto che Malevich svolgeva con il bianco o il nero di grafite. E che Yves Klein traduceva in un blu denso, vibrante, «cosmico» e ieratico.

Da left-avvenimenti

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L’Italia nel mito preraffaellita

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 25, 2011

Alla Gnam di Roma a confronto opere di pittori inglesi dell’epoca vittoriana  e i capolavori, da Giotto a Botticelli, da cui trassero linfa

di Simona Maggiorelli

Dante Gabriel Rossetti Venere Verticordia (1866)

Colori chiari, purezza della forma, bellezze muliebri morbide e sensuali. Immerse in un bagno di fiori pre-liberty. Fondendo l’immagine idealizzata della donna stilnovistica con l’immagine delle eroine shakespeariane e romantiche.Così Dante Gabriel Rossetti coltivava in pittura il mito del Belpaese, frutto di frequentazioni letterarie e non di conoscenza diretta (per quanto fosse figlio di un poeta, carbonaro e fuoriuscito abruzzese dei moti napoletani del 1820).

Ma il sole meridiano stregò anche un artista raffinato e grande sperimentatore come il pittore William Turner, uno studioso di arte come John Ruskin ( che si fece mentore dei Preraffaelliti) e tanti poeti romantici , fra i quali anche Browning e Tennyson. Tanto che nell’Inghilterra vittoriana si sviluppò un vero e proprio filone di interessi italianistici e risorgimentali che infuocò le fasce più vivaci dell’intellettualità. In questo milieu, nel 1848, Dante Gabriel Rossetti, con Burne-Jones, con Millais e altri, fondò il movimento dei Preraffaelliti (Pre-Raphaelite Brotherhood) che proponeva il superamento di ogni rigido accademismo attraverso la riscoperta  «della verità del Trecento» (per dirla con Gombrich) e di un Quattrocento inquieto e tormentato.

John W. Waterhouse, la Sirena

Nel segno di Giotto, di Gentile da Fabriano e dei coevi maestri del paesaggismo veneto. Ma anche nel segno aspro e verace di Crivelli e Carpaccio e in quello fragile e altero di Botticelli. Riportando in primo piano la pittura italiana precedente all’armonioso Rinascimento di Raffaello che tutto leviga e ricompone. Al sogno ribelle e carbonaro di questo singolare movimento artistico uscito dalle nebbie di un secondo Ottocento inglese puritano e bacchettone, la Galleria nazionale di arte moderna (Gnam) dal 24 febbraio al 12 giugno dedica la mostra Dante Gabriel Rossetti, Edward Burne-Jones e il mito dell’Italia in cui, attraverso un percorso di un centinaio di opere, sono messe a confronto diretto le opere oniriche ed estetizzanti dei Preraffaelliti e i capolavori italiani che le ispirarono. «La mostra che proponiamo – spiega una delle curatrici, Maria Teresa Benedetti nel catalogo Electa – vuole documentare, con scelte probanti, la trasposizione talora arbitraria di elementi chiave della nostra tradizione in area inglese nel corso del XIX secolo».

E se un anno fa l’antologica ravennate I Preraffaelliti e il sogno del Quattrocento italiano ha permesso di vedere per la prima volta in Italia un’ampia selezione di opere di pittura inglese del secondo Ottocento, in questa nuova occasione romana sono approfinditi alcuni rapporti specifici fra Rossetti e  Burne-Jones con Botticelli e Michelangelangelo. Ma non solo. Nella mostra romana firmata da Stefania Frezzotti, Robert Upstone  si ricostruisce la scoperta inglese degli affreschi di Beato Angelico per l’effetto di leggerezza della sua grana rada e luminosa.
E il fatto che  Hunt, Millais, Rossetti e compagn – in fuga  dalla retriva borghesia vittoriana e  dal capitalismo delle  macchine e affascinati dal socialismo umanitario di  William Morris- si lasciarono incantare anche dalle architetture medievali e dal mito delle rovine, come nella mostra alla Ganm ci ricorda attraverso opere come il trittico del 1861 di  Burne-Jones, con l´Annunciazione e Adorazione dei Magi, “una tela ad olio di grandi dimensioni destinata a una chiesa Gothic Revival a Brighton progettata da Carpenter”. L’idealizzazione della vita agreste intanto fa capolino nel ritratto della Nanna di Frederich Leighton. Ma l’attrazione per il medioevo di Dante trova espressione anche nel il ritratto di Beatrice dipinto da Rossetti , alla Ganm al centro di una serie di ritratti in cui Rossetti si divertva a trasfigurare amiche e amanti in dee e figure del mito.

da left-avvenimenti

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Il mondo dell’arte nel 2010: ritorno alla ricerca

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 15, 2010

Mentre Parigi e Londra puntano sulla cultura per battere la crisi, il Belpaese resta al palo. Nonostante l’apertura del MaXXI e alcune mostre di pregio. Ecco lo scenario che si prospetta per il nuovo anno

di Simona Maggiorelli

Kandinsky

Lasciati alle spalle gli anni zero dell’euforia dei mercati internazionali dell’arte e, specie per quanto riguarda l’Italia, gli anni di “mostrite” acuta (che nell’ultimo decennio ha prodotto una ridda di mostre già finite nel dimenticatoio) l’anno nuovo si apre all’insegna di esposizioni che tornano ad esplorare le avanguardie storiche e l’opera dei maestri che hanno segnato importanti svolte nei due secoli passati: da Goya a Van Gogh, da Gauguin a Kandinsky a Picasso. Ma il 2010 dell’arte, in molta parte d’Europa, si annuncia anche all’insegna di un concetto chiave come la valorizzazione dei beni culturali. Solo per fare un esempio basta dire che il presidente francese Sarkozy, anche per reagire alla crisi economica, nell’anno che si è appena aperto ha in programma di realizzare un grosso processo di riforma e di rilancio del Grand Palais e della Rmn (Réunion des musée nationaux) con l’obiettivo di “fare di Parigi una delle prime sedi di mostre a livello internazionale”. E mentre Londra, con un forte rilancio delle due sedi della Tate e con il ricco programma di esposizioni dedicate alle civiltà antiche della National gallery e del British punta a scippare a Berlino il primato di capitale dell’arte contemporanea e dell’archeologia, Barcellona e Amsterdam, investono su mostre scientifiche di studio e di approfondimento dell’opera di Picasso e Van Gogh.

E nel Belpaese?

Quanto a valorizzazione del patrimonio tutto procede, purtroppo, in ben altra direzione. Dopo un anno di fortissimi tagli al Fus alla tutela e alle soprintentendenze il responsabile della neonata direzione generale della valorizzazione dei beni culturali, il super manager ex Mc Donald’s Mario Resca ha appena varato una campagna pubblicitaria in cui il Colosseo appare smontato pezzo dopo pezzo mentre il David di Michelangelo, imbracato, si invola in cielo. Sotto scorre una minacciosa scritta: “se non lo visitate lo portiamo via”. Chi ha avuto modo di viaggiare durante queste festività ha visto senz’altro modo di notare questa geniale sortita del nostro ministero dei Beni culturali che circola on line nel circuito tv dei più importanti aeroporti nostrani. Ma tant’è. Continuando a sperare che gli italiani prima o poi si decidano a dare il ben servito a questa classe politica di centrodestra che, fra le altre pensate, ha concepito anche una Spa per la cartolarizzazione e la vendita di importanti pezzi del patrimonio nazionale, nell’anno che si apre gli amanti dell’arte antica e contemporanea avranno alcuni appuntamenti per rinfrancarsi, almeno un po’. Appuntamenti dovuti- è quasi pleonastico dirlo- alla tenacia di singoli studiosi non certo alle “ politiche” di questo governo.

Man Ray nudo di Meter Hoppenheim

Fra i vari eventi pensiamo in modo particolare dalla mostra ideata da Claudio Strinati per i quattrocento anni dalla morte di Caravaggio alle Scuderie del Quirinale a Roma, ma anche della duplice rassegna dedicata a Giotto e Assisi (marzo-settembre 2010) e al cantiere della Basilica e all’arte umbra tra il Duecento e il Trecento. Ma parliamo anche e soprattutto, della definitiva apertura del MaXXI, il museo del XXI secolo disegnato da Zaha Hadid, che dopo 11 anni di gestazione e 6 di costruzione aprirà a maggio con cinque mostre: da Spazio! dedicata alle collezioni permanenti di arte e architettura alla antologica dedicata a Gino De Dominicis curata da Bonito Oliva. Per il resto in Italia si produce poco e si importa molto. Seppur non di rado con profitto, come nel caso della grande mostra dedicata ai maestri dell’arte astratta che approderà al Guggenheim di Vercelli dal 20 febbraio sotto l’egida del curatore (nonché direttore del Macro di Roma) Luca Massimo Barbero. O anche come nel caso della mostra Utopia matters, che dal primo maggio, a cura di Vivien Greene, inaugura la nuova ala museale del museo Peggy Guggenheim di Venezia.Ma pensiamo anche alla mostra Goya e al mondo moderno che si aprirà il 5 marzo al palazzo Reale di Milano con la collaborazione di Skira. In questo quadro di collaborazione fra l’editore di origini svizzere e Palazzo Reale preceduta dalla rassegna Schiele e il suo tempo che si aprirà il 25 febbraio.

Su e giù per lo stivale

Mentre a Villa Manin a Passariano di Codroipo (Udine) prosegue con successo di pubblico fino al 7 marzo la mostra L’età di Courbet e Monet. La diffusione del realismo e dell’impressionismo nell’Europa centrale e orientale il prolifico e, comunque sia, bravissimo Marco Goldin con Linea d’ombra annuncia già la mostra Munch e lo spirito del Nord, in programma sempre a Villa Manin: 40 dipinti del pittore norvegese intercalati ad altri 80 dipinti che raccontano della pittura in Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca nel secondo Ottocento.

dalla mostra aristocratic

E ancora a Parma, dal 16 gennaio Novecento arte fotografia moda design, una grande mostra che indaga il secolo passato inseguendone tutti i rivoli, grazie alle molte donazioni che gli artisti stessi hanno fatto al centro di documentazione creato da Arturo Carlo Quintavalle e Gloria Bianchino. In mostra opere di Schifano, Burri, Boetti, Fabro, Ceroli, Guttuso, Fontana, Sironi e molti altri.

Hong Kong tradional trandy

E ancora celebrando il Novecento, a Venaria reale e al museo del cinema di Torino la mostra 400 anni di Cinema: dal film paint alle lanterne magiche, in co-produzione con la Cinémathèque frainçaise di Parigi. Per quanto riguarda la fotografia, dal 29 gennaio al 5 febbraio 2010, in veste di evento off di ArteFiera 2010 di Bologna segnaliamo la proposta della rassegna Aristocratic The new experience. Una mostra che racconta un’esperienza caratterizzata da un forte desiderio di interagire con la realtà e che tuttavia porta a una trasformazione delle immagini in chiave assolutamente personale, anche attraverso la sperimentazione di nuove tecniche, strumenti e materiali.

Spagna. Dal genio di Picasso in poi

Al museo Picasso di Barcellona si indaga l’influenza cruciale che l’artista catalano Santiago Rusiñol esercitò sul giovane Picasso comparando l’opera dei due artisti dal punto di vista biografico e iconografico. Dal 15 ottobre al 16 gennaio 2011 poi il museo Picasso di Barcellona organizzerà una mostra che esplora i rapporti fra Picasso e Degas affidandola alla cura di una delle maggiori studiose dell’artista spagnolo Elizabeth Cowling dell’ University of Edinburgh. Un confronto basato sul fascino che Degas esercitò su Picasso e sul diverso uso che i due artisti fecero di pastelli pittura, scultura stampe e fotografia. Una mostra che punta a esplorare le risposte esplicite di Picasso a Degas ma anche i nessi concettuali più nascosti fra i due artisti. Al Prado,invece, nel 2010 approderà la mostra dedicata all’esplorazione della luce del romantico Turner,già passata per il Grand Palais e che mette a confronto i suggestivi paesaggi del pittore inglese con opere del XVI e XVII firmate da Brill, Carracci, Lorraine e Poussin. Intanto si lavora già a una importante mostra dedicata all’ultimo Raffaello e che sarà esposta al Prado e al Louvre nel 2012. Nell’anno che si apre ricchissimo è anche il programma del museo Guggenheim di Bilbao dove per dicembre è attesa una retrospettiva del pittore americano Robert Rauschenberg scomparso nel 2008.Ma anche e soprattutto una importante antologica dell’artista indiano Anish Kapoor,una delle personalità più sensibili e interessanti della scultura contemporanea. La mostra ricalca in parte quella organizzata dalla Royal Academy of Arts di Londra lo scorso anno e che ha avuto un notevolissimo successo di pubblico e di critica.

La grande Francia

L’anno francese si apre all’insegna di una grande rassegna dedicata alle icone sacre dei territori della Russia cristiana (dal 3 maggio al Louvre) con una mostra che scandaglia la tradizione che va dal IX al XVIII secolo.Al Centre Pompidou, da aprile a luglio Attraversando nazioni e generazioni Crossing nations and generations, Promises from the past con cinquanta artisti dall’Europa centrale e dell’Est , a più di vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino cercando di individuare continuità e punti di rottura nel lavoro delle generazioni di artisti più giovani.

E ancora, per quanto riguarda l’archeologia, in primavera al Louvre, Meroë, impero sul Nilo. Di fatto si tratta della prima mostra dedicata esclusivamente alla capitale egizia, con più di duecento reperti che raccontano dell’influenza africana egizia e greco romana che si intrecciò in questa area di 200 chilomentri a nord dell’attuale Khartoum. La capitale reale Meroë è diventata famosa nei secoli per le piramidi dei re e delel regine che dominarono la regione tra il 270 a.C e 350 d.C. Un tema quello dell’esplorazione delle civiltà antiche che ritroviamo al centro anche della mostra Strade verso l’Arabia. Tesori archeologi dall’Arabia saudita. Una mostra che permette di conoscere più da vicino la storia artistica di questo paese che a causa del regime fondamentalista che lo governa rende difficile l’accesso agli occidentali.

Sua maestà la ricerca scientifica

Senza perdere troppo tempo con gli eventi da cassetta la National Gallery punta sulla ricerca scientifica ed il restauro. Così tra le mostre più interessanti proposte dai musei inglesi per il 2010 c’è a partire da fine giugno la rassegna dedicata alle recenti scoperte riguardo ad attribuzioni e nuovi studi su opere di grandi maestri conservate alla National Gallery. Un esempio abbastanza emblematico: nel 1845, il quadro dal titolo Uomo con teschio fu attribuito a Hans Holbein. Una recente analisi dell’opera con mezzi aggiornati e scientifici ha dimostrato che l’opera risale e a un periodo successivo alla morte dell’artista.

Esplorando un altro ambito poco sotto i riflettori come quello del disegnoo antico, dal 22 aprile, sempre alla National Gallery si apre una grande mostra dedicata al disegno rinascimentale italiano, da Verrocchio a Leonardo a Michelangelo e Raffaello. Per quanto riguarda le civiltà antiche e l’arte di altri continenti, dal 4 marzo, la National ospita una grande retrospettiva dedicata alla scultura africana nigeriana che conobbe una particolare fioritura tra il XII e il XV secolo. E poi con un salto di molti secoli ancora dando uno sguardo alla fitta programmazione della Tate si segnalano nel 2010 la mostra dedicata all’avanguardia europea di Theo van Doesburg (1883-1931) protagonista del movimento olandese di artisti, architetti e designers De Stijl. Ma anche e soprattutto la retrospettiva di Arshile Gorky (1904-1948) dal 10 febbraio, in un confronto serrato con la diversa ricerca di Rothko, Pollock e de Kooning. E ancora dal 30 settembre l’antologica dedicata a Gauguin con un centinaio di opere da collezioni pubbliche e private del mondo per uno sguardo nuovo su questo maestro della modernità.

dal quotidiano Terra del 2 gennaio 2010

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