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Diritti, individualità e libera ricerca secondo Vittoria Franco

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 23, 2005

di Simona Maggiorelli

Una domanda radicale abita le prime pagine del libro di Vittoria Franco, Bioetica e procreazione assistita, pubblicato da Donzelli. Una domanda diretta e essenziale: come è potuto accadere che in Italia sia passata una legge come la 40? Come è potuto succedere in un paese da molti anni all’avanguardia nella fecondazione assistita come l’Italia? Con centinaia di centri che, fino all’entrata in vigore di questa legge il febbraio di un anno fa, praticavano normalmente la fecondazione eterologa, la conservazione degli embrioni e la diagnosi preimpianto per selezionare embrioni sani.

Il fatto è che a 46 anni dalla prima proposta di legge in materia, scrive Vittoria Franco in questo suo agile e ficcante saggio, oggi abbiamo “una legge anacronistica, che detta norme vessatorie, piena di paradossi, lontana anni luce dal sentire comune e dai nuovi modelli di vita”. Su una materia così importante, delicata, nuova, afferma la senatrice diessina con grande franchezza “si è giocata una partita di scambio politico all’interno della maggioranza e fra questa e le gerarchie ecclesiastiche”. Una pagina nerissima della storia italiana e che con il referendum del 12 e 13 giugno si spera davvero di poter cambiare. Le ragioni per votare quattro sì sono argomentate con limpido rigore in questo nuovo libro della Franco, che da filosofa e ricercatrice, smonta una ad una le argomentazioni di Chiesa e governo Berlusconi, ma anche di un filosofo progressista come Habermas che, da qualche tempo, ha preso a scrivere contro la cosiddetta “genetica liberale” e le sue paventate derive. “Dove mai andremo a finire?” si domanda il filosofo tedesco. Prendendo, dice la Franco, quella che Mary Warnok chiama la posizione del pendio scivoloso, per cui in nome di un rischio remoto si rinuncia a risolvere casi concreti. Così, mentre perfino Habermas si mette a battagliare contro una fantasticata eugenetica, si impedisce a persone con gravi malattie genetiche come la talassemia o la fibrosi cistica di mettere al mondo figli sani e si impongono stop inderogabili a quella ricerca che potrebbe trovare una cura a malattie come queste, e come il Parkinson e l’Alzheimer, oggi inguaribili.

E tutto, scrive Vittoria Franco, nel nome di una “confusione che si fa fra vivente e persona”. Attribuire personalità giuridica all’embrione, come fa la legge 40 (nessun’altra legislazione al mondo fa altrettanto), tutelando il possibile nascituro più della madre, è un’operazione che non regge sotto il profilo giuridico e scientifico. La senatrice e responsabile nazionale della cultura per i Ds dedica i capitoli centrali di questo suo nuovo libro a questo argomento, ricostruendo il dibattito internazionale, proponendo confronti serrati con le altre legislazioni europee, suggerendo percorsi bibliografici e pubblicando in appendice alcune interessanti spigolature del dibattito in Senato. Un paio di punti ci paiono da segnalare in primis: “L’individualità – scrive la Franco – è il requisito minimo per attribuire personalità giuridica, ma l’embrione nella prima fase è un’entità costruita da poche cellule indifferenziate. Attribuirgliela, dunque, è più di una forzatura”. E poi citando i più avanzati studi scientifici aggiunge: “solo dal momento in cui inizia una vita mentale si può parlare di persona”. È alla nascita, dice la scienza medica, con il “venire alla luce” – come intuisce del resto anche il linguaggio comune – che avviene una trasformazione irreversibile e radicale per l’essere umano. Prima delle 24 settimane, la medicina insegna, il feto non ha nessuna possibilità di vita fuori dall’utero materno. Così quando Habermas parla di inviolabilità dell’embrione, fa notare Vittoria Franco, sposta il discorso su un piano di metafisica. Ma così appunto, l’embrione diventa “entità intangibile”: sacra. “E nel nome di un concetto astratto di sacralità della vita – scrive la Franco – si impedisce la vita umana legata alla nascita; il venire al mondo di un essere umano compiuto”. Ma c’è dell’altro. Isolando l’embrione come se fosse un’entità autonoma, capace di svilupparsi indipendente dall’utero – denuncia Vittoria Franco – “si torna a considerare la donna come un soggetto privo di dignità giuridica ed etica, come un semplice contenitore di un’entità astratta e superiore”. Viene a mancare insomma quel fondamento della libertà femminile che le donne conquistarono con la contraccezione, quando finalmente la sessualità non fu più maternità come ineluttabile destino, ma scelta. E l’articolo 1 della legge 40, quello che poi informa di sé tutto l’articolato, compie proprio questo passo: creare una discrasia con quanto afferma la legge 194 sull’aborto. Per poi poter revisionare la legge sull’aborto, come auspicato pubblicamente dal senatore Giulio Andreotti e dal ministro Rocco Bottiglione. “L’articolo 1 della legge 40 – sottolinea la senatrice – è in aperta contraddizione con quella famosa sentenza della metà degli anni Settanta che poi portò alla promulgazione della 194”. Una sentenza che metteva in primo piano la salute fisica e psichica della donna, stabilendo una gerarchia di diritti, fra chi è già nato e un ammasso di cellule in via di sviluppo, che ha solo una vitalità generica e che non è ancora vita umana, in senso pieno, con una sua integrità fisico- psichica. Il che non vuol dire, sottolinea Vittoria Franco che l’embrione sia solo materia, che possa essere trattato alla stregua di “una muffa”. Ma la tutela morale dell’embrione, cara anche ai sostenitori di quattro sì, non comporta come automatica conseguenza una sua equiparazione alla persona, il riconoscimento giuridico dei suoi diritti al pari di quelli dei soggetti già nati. “Se parliamo di protezione – scrive la Franco, da politico e da studiosa di bioetica – noi accettiamo che l’embrione non sia cosa assimilabile a oggetti inanimati, ma un’entità che appartiene al genere umano: come inizio di una vita umana possibile”. E un modo alto di considerarne il valore potrebbe essere proprio quello di non lasciare che venga gettato in un lavandino, qualora non impiantato e non più richiesto dalla coppia, ma di utilizzarlo per la ricerca scientifica, per cercare una cura a quelle malattie – tumori, malattie genetiche e degenerative – che , per usare un’espressione del premio Nobel Dulbecco, sono oggi i principali killer della specie umana.

Avvenimenti

Vittoria Franco è ricercatrice di Filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, senatrice e responsabile cultura per la segreteria nazionale dei Democratici di sinistra. Per la Donzelli ha pubblicato “Etiche possibili. Il paradosso della morale dopo la morte di Dio“.

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Nuove mappe letterarie

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 10, 2005

Il canone occidentale scricchiola. Sulla scena internazionale una carica di nuove autrici: le voci più interessanti vengono dall’Asia, dal Medioriente, dall’Africa e dai Caraibi. Molte di loro sono state ospiti di Lingua Madre alla Fiera del Libro di Torino: Simona Maggiorelli ne ha raccolto il messaggio

Un luogo quasi magico, fatato. Carico di frutti. Uccelli multicolori sugli alberi. E fontane da cui sgorgano gocce di diamante. Montagne svettanti, cariche di neve e nel mezzo dell’altopiano assolato, la città di Kabul, cosparsa di ville e minareti. Così raccontava il paese in cui la famiglia aveva vissuto da oltre 900 anni il padre della scrittrice e giornalista Saira Shah. “Da bambina mi faceva narrazioni straordinarie di quella terra, per me, lontanissima”, ricorda la giovane autrice e giornalista, nata in Inghilterra e solo di recente, dopo la guerra, tornata a ritroso sulle strade dell’emigrazione della sua famiglia. Il suo L’albero delle storie (Rizzoli, pag. 309, 16,50 euro), presentato alla Fiera del libro di Torino il 7 maggio, è uno straordinario racconto di viaggio, evocativo, pieno di poesia e, insieme, di forte denuncia. “Questa volta non mi interessava fare la cronaca dei fatti, non volevo fare un intervento giornalistico – dice Saira, autrice nel 2000 del documentario scandalo Sotto il velo – , ma trasmettere al lettore un po’ di quel fascino che emana da quella terra antichissima, dalla sua millenaria cultura, dalla visione del mondo e dai valori di quell’Islam moderato in cui sono stata allevata”. Valori, dice, come la tolleranza, lo spirito di indipendenza, il coraggio, la dignità. “L’islam che mio padre mi ha trasmesso è quello di un maestro afgano come Baghawi di Herat – dice ad Avvenimenti. Sosteneva che un’ora di riflessione vale più di una notte di preghiera e che le donne sono la metà gemella degli uomini, con le stesse opportunità”. Un contrasto durissimo con ciò che accade oggi, con storie come quella, feroce, toccata qualche giorno fa a una giovane afgana, lapidata, come vuole la religione dei talebani, perché adultera. (Mentre il suo amante se la cavava con qualche frustata sulla pubblica piazza). Che dire allora dei talebani? E come sono riusciti a prendere il potere? “Certamente ancora oggi i talebani controllano larga parte del paese, ma non tutto – spiega Saira – . Non sono gruppi omogenei fra loro, ma hanno avuto mezzi economici per imporre la legge della violenza. E dal punto di vista religioso sono d’accordo con quei musulmani che denunciano l’analfabetismo dei talebani. Non conoscono veramente l’Islam. Solo alcuni sono persone colte, ma la gran parte di loro è di un’ignoranza abissale”. Ne L’albero delle storie racconta di loro, dei loro scempi, registrati viaggiando attraverso il paese devastato dalla guerra, percorso a bordo di un camion, con indosso il burka e con il cuore in gola per la paura; aiutata dalle attiviste della “Revolutionary association of the women” che, al suo fianco, rischiavano la vita come lei e più di lei: “prima la tortura e poi una pallottola in testa o più semplicemente la scomparsa nel nulla di Pul i Charki”. Saira non risparmia accuse, ai talebani, ma anche agli invasori stranieri. “Se gli Stati Uniti avessero davvero voluto – accenna – avrebbero potuto sgominare una volta per tutte i talebani. Ma non l’hanno fatto”. E, con amarezza, aggiunge: “Nella sua storia l’Afghanistan ha dovuto registrare due devastazioni. Due superpotenze, l’Urss prima e poi gli Usa, l’hanno invaso, devastato e poi se ne sono andate, lasciando il paese, come è oggi, in ginocchio, senza che l’opinione internazionale più se ne curi”.

La lingua dei sensi

Il suo primo libro, Caffè Babilonia (Pomegranate soup) è già stato tradotto in 8 lingue, ai capi opposti del mondo. «Una risposta davvero inaspettata», esclama Marsha, occhi luminosi e grandi, su un volto ancora da ragazzina che dimostra meno dei suoi 28 anni. «Tutto è successo così all’improvviso – dice la scrittrice iraniana presente alla Fiera del per presentare il libro edito da Neri Pozza -, una vera sorpresa, del tutto inaspettata».
A conquistare è stata la freschezza con cui Marsha Merhan racconta di tre sorelle che, con prelibatezze persiane, creano scompiglio in un paese irlandese. «L’unico vero scopo che mi ero data – racconta – era dare un po’ di gioia ai lettori». E puro piacere sensuale, che mobilita tutti e cinque i sensi, si sprigiona dalle pagine di questo romanzo, in parte autobiografico: di vero c’è la fuga con la famiglia dalla rivoluzione kohmeinista, l’infanzia in Argentina dove i genitori di Marsha avevano aperto un caffè persiano, e poi l’Irlanda dove ora la scrittrice vive. «Una storia un po’ complicata la mia – accenna-, con molti approdi fra diverse culture. Quando lasciai l’Iran – racconta – avevo due anni. E la maggior parte dei mie ricordi si legano agli odori, ai sapori. Il profumo delle spezie e dell’acqua di rose, l’odore dei gelsomini, i cancelli scolpiti di casa dei miei nonni, piccole cose, delicate. A Teheran non ho dovuto subire persecuzioni o violenze, come è accaduto a molti della mia famiglia». Nei primi anni 80 era cominciata la rigida imposizione del velo, e le vessazioni della polizia su chi dissentiva dai principi del neo stato teocratico. Ma in Iran oggi molte cose potrebbero cominciare a cambiare, sostiene Mehran: « Basta dire che il 70 per cento della popolazione ha meno di 30 anni. In Iran oggi moltissimi sono i ragazzi educati, colti, esigenti, inquieti, alla ricerca». Notizie che filtrano anche attraverso la rete, frequentatissima dai giovani iraniani. «Un paio di anni fa comunicavo via internet con una ragazza iraniana. Con immagini d’arte fotografava l’underground di Teheran e i locali di ritrovo, dove i giovani vanno per un caffè, per fumare e parlare. Discutono di filosofia, di politica, di arte, con lo stesso fervore con cui il loro coetanei occidentali parlano delle ultime tendenze di moda e di attori. Non servono a nulla, mi disse un giorno, scoraggiata: “le mie foto non cambiano nulla”. Il pensiero che il talento di giovani come lei possa andare sprecato mi pare tristissimo. Ma penso che un cambiamento pacifico possa avvenire, spero che accada nel tempo di una generazione» Tornare là però, per Marsha Mehran è più impossibile. Una solida e stratificata tessitura di differenti culture è il segno della sua scrittura. Esuberante, seducente, con ricette persiane a fare da stuzzicante incipit ad ogni capitolo. «Anche l’arte culinaria è un linguaggio – assicura la scrittrice-. Non c’è niente che curi e che unisca di più di un pasto preparato con cura». E poi parlando di “lingua madre”, uno dei fili rossi di questa fiera del libro, racconta: «scrivo in inglese, sogno in inglese ma la mia “anima” è persiana. E questo dualismo mi ha accompagnata da quando sono nata. A Buenos Aires – racconta -frequentavo la Scottish Accademy. Così fin da piccolissima ho imparato ad esprimermi in tre ritmi diversi: spagnolo nella strada, inglese a scuola e lingua farsi a casa. Ogni sera i miei genitori pretendevano che prima di andare a dormire dicessi: “Shab-e kher! Buenas Noches! Goodnight!” Non c’è possibilità per me di separare questi tre elementi, l’est, l’ovest, il persiano, l’inglese. La considero una gran fortuna».
Una ricchezza multietnica e moderna contro cui cozzano gli opposti fondamentalismi: del terrorismo islamico e del governo Bush. «Sono tempi precari, quelli che viviamo – suggerisce Meheran -, ma anche stimolanti. Negli Usa ho abitato per anni in città multiculturali come Miami e New York. Non ho mai visto un tale miscuglio di colori, tanta bellezza nelle differenze, come a NY. Certo ci sono anche tensioni, problemi. Ma la città attrae proprio perché è aperta, inclusiva. C’è di che riflettere. Si può sviluppare un forte senso di identità e di tradizione, anche accogliendo una molteplicità di altre tradizioni forti. Ci vuole tempo, pazienza e rispetto. Ma, forse, anche coraggio».

La lingua della ribellione

«Scrivo in inglese. Ma ho sempre avuto un rapporto molto complesso con questa lingua. Continuo a lottare per farle dire ciò che io vorrei. Perché, come ogni altra lingua contiene i residui della sua storia. Ma, come ogni altra lingua, non può opporre resistenza alla forza dell’esperienza e del pensiero». Così, con dolorosa passione, racconta il suo corpo a corpo quotidiano con la lingua del potere la scrittrice, poetessa e saggista caraibica Dionne Brand a Torino per presentare il suo nuovo romanzo Il libro dei desideri (What we all long for) edito da Giunti. La sua storia, ma anche uno dei suoi romanzi più forti e intensi, Di luna piena e di luna calante (Giunti), hanno radici a Trinidad, dove Brand è nata nel 1953. Una storia quella del romanzo che ce l’ha fatta conoscere, scandita da mattini lussureggianti nel verde e nel rosso dei campi di cacao. Di un rosso che “sa di sangue marcio” come dice la protagonista Marie Ursele, arrivata come schiava dall’Africa. Un giorno, deciderà di giocarsi la vita per far arrivare, ai “sordi” latifondisti, la protesta sua e dei compagni. «La storia di Marie si basa su fatti realmente accaduti a Trinidad – racconta Brand – Una donna che si chiamava Thisbe nel 1802, progettò un suicidio di massa fra gli schiavi di una piantagione. Per questo impiccata, il suo corpo mutilato, fu arso, la testa portata in giro come trofeo.“Questo è un sorso d’acqua rispetto a ciò che ho dovuto sopportare”, disse mentre le mettevano il cappio al collo».Una storia che è anche un grande affresco della storia di Trinidad, raccontata attraverso 150 anni. Terra amatissima da Brand nonostante l’esilio volontario, da 35 anni a Toronto.«La mia eterogeneità, il mio senso di libertà – racconta – lo devo all’essere cresciuta a Trinidad fra culture diversissime». Esperienza poi continuata nella ancora più multicultare Toronto. E dal cuore della città canadese è nata l’ispirazione per questo nuovo Il libro dei desideri, storia di emigrazione e di un’interminabile fuga dagli anni 70 agli anni 90 di una famiglia vietnamita. «Un romanzo – racconta la stessa Brand – che parla delle vite che si incrociano nella metropoli, del caso che le fa ritrovare, di passione giovanile e oblio….». Una storia forte e romantica, ma che non fugge da uno sguardo critico sul presente. «È difficile per me avere speranze positive sugli scenari internazionali» accenna Brand passando ala politica, l’altra sua passione. «Viviamo in tempi segnati dall’imperialismo americano, da corporazioni capitalistiche che controllano la sfera pubblica. Mentre nuovi razzismi richiamano vecchi razzismi. Non so cosa potrà accadere – dice con preoccupazione -. Il gap che va crescendo fra paesi poveri e ricchi non è un fenomeno naturale, né si tratta di un frutto del capitalismo che possa essere corretto e controllato da organismi come l’IMF o la banca mondiale. È un gap è deliberato e atroce”. Ma subito aggiunge: “Detto questo, in questo momento mi trovo a scrivere un libro di poesia. Una contraddizione assoluta. Ma c’è una parte di me che pensa che scrivere sia importante. Una parte di me insopprimibile, malgrado l’evidenza dica esattamente il contrario».

La lingua del viaggio

La lingua madre? «Ognuno ha la sua, originale», racconta Anita Rau Badami, autrice del romanzo rivelazione Il passo dell’eroe (Marsilio). Epos familiare, ironico e avvincente, che curiosamente ha fatto, di lei nata 38 anni fa in India, una delle voci emergenti della letteratura nordamericana. «Il passo dell’eroe – racconta Badami – è un passo classico nella danza indiana, quello dell’eroe nell’ora dell’attacco da parte dei demoni». Ma a guardar bene, suggerisce, «anche un uomo qualunque, un padre di famiglia, ha il suo passo dell’eroe. È lo stile, assolutamente personale, con cui ognuno di noi affronta le prove, le sfide, i drammi che la vita ci mette davanti». Accade così nel corale affresco di una famiglia indiana che Badami racconta in questo suo affascinante romanzo, in cui si alternano sette voci diverse, sette diverse figure di donne e uomini nel raccontare la vita nelle piccole case disagiate, nelle strette viuzze di Madras sovraffollate, in cui l’attaccamento a antichi riti va di pari passo con l’ultimo modello di computer. «Una società contraddittoria, ma che ha un suo fascino potente – racconta Badami -ho dei parenti là, mi sono nutrita dei loro racconti». Nostalgia di una terra lontana come può esserlo l’India dal Canada? «Sono emigrata all’inizio degli anni 90 – racconta – per seguire mio marito che lavorava qua. Ciclicamente, però, penso di tornare nella mia terra, così piena di gente che parlano, che fanno festa, in cui sai tutto di tutti, ma quando sono là poi mi manca il silenzio dei quartieri canadesi, l’aria metropolitana che si respira qua». Una vita sempre a metà fra due o più mondi quella di Badami, sempre all’incrocio di differenti culture. «Almeno tre, di sicuro- esclama Anita -. Ho sempre avuto a riferimento tre diverse lingue madri, l’inglese che parlavano tutti in casa, l’hindi che avevo imparato a scuola e il kannada, la lingua con cui mia madre ci sgridava. Lo parlava anche mio padre, ma con un dialetto diverso. Insomma sarebbe un vero caos per me dire: questa è la mia lingua madre». Una storia cominciata quando era piccolissima e il lavoro del padre, ufficiale delle ferrovie indiane costringeva di tanto in tanto tutta la famiglia a trasferirsi in una nuova zona. «Avevo una valigia verde allora che ogni volta riempivo con i miei giocattoli e vestiti, elettrizzata dalla prospettiva di una casa nuova e di fare nuovi amici. Quando mio padre andò in pensioni e non ci furono più viaggi, per me fu un momento tristissimo. Da grande poi mi sono accorta che quella valigia verde era diventata un baule pieno di storie e di personaggi da raccontare».

da Avvenimenti, n.17

: 10 maggio 2005

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Nel segno di Leopardi

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 7, 2005

Non sempre la naturalità è amica dell’uomo e della donna In libreria nuovi studi sulla fecondazione assistita.

di Simona Maggiorelli

Un pieno di uscite editoriali accompagna il dibattito sulla fecondazione assistita. Tenendo alta una discussione sulla legge 40, se non in tv e sui grandi media di massa, almeno in libreria.
Un vero e proprio proliferare di titoli di scienza, di filosofia, di politica e bioetica, nell’ultimo mese, fra instant book e volumi frutto di ricerche ampie e strutturate, che su un tema delicato come questo che tocca la salute di milioni di persone, aiutano ad uscire dalle secche del determinismo genetico e della metafisica, rimettendo al centro la questione dell’informazione e della conoscenza.
Questione fondamentale, questa della conoscenza, per un dibattito franco e aperto in vista del referendum, sottolinea lo stesso Giuliano Amato nella prefazione al libro del senatore diessino e ex dirigente della Fuci Giorgio Tonini, La ricerca e la coscienza edito da Il Riformista.Ricordando anche che nel confronto delle parti, fra i sostenitori del sì al referendum e il partito dell’astensione che attraversa il centrodestra, «sono soprattutto i difensori della legge 40 – scrive Amato – a chiudersi a riccio in petizioni di principio tenacemente sottratte ad ogni riscontro di scienza e fattuale ». Chi, invece, non ha paura di porsi domande radicali e di indagare a fondo le ragioni politiche che hanno portato nel giro di un anno e poco più l’Italia, da essere un paese all’avanguardia nella ricerca a fanalino di coda in Europa e nel mondo, è Vittoria Franco nel libro Bioetica e procreazione assistita edito da Donzelli. Questa legge? «La più anacronistica, vessatoria che si potesse immaginare – denuncia la senatrice diessina e docente di filosofia alla Scuola Normale –, una legge lontana anni luce dal sentire comune e dai nuovi modelli di vita». Con argomentazioni importanti e cogenti, che non evitano il campo della morale, la Franco prova a rispondere anche alle paventate derive della «genetica liberale» proposte da un filosofo, fin qui laico e progressista, come Habermas.
Il quale, da qualche tempo continua a sollevare la medesima domanda: «Dove mai andremo a finire?». Prendendo così, fa notare Vittoria Franco, quel pendio scivoloso, per cui «in nome di un rischio remoto si rinuncia a risolvere casi concreti ». In nome di una fantasticheria di eugenetica, si impedisce a persone con gravi malattie genetiche di mettere al mondo figli sani.
Anche Chiara Lalli nel libro Libertà procreativa pubblicato da Liguori affronta l’argomento con strumenti filoso fici, analizzando il quadro di riferimento e di pensiero che sta dietro alla formulazione della legge 40 e ai suoi divieti, «illiberali – scrive la Lalli – e medicalmente dannosi». A fare da abbrivio a questo volume in cui la giovane ricercatrice dell’Università di Chieti tira in campo anche la letteratura e gli scenari futuribili immaginati da scrittori, una prefazione di Jhon Harris che stigmatizza la situazione italiana. In questo quadro il libro di Chiara Lalli, scrive Harris, «porta una salutare ventata di liberalismo in un settore dove sta prendendo sempre più piede il pregiudizio e la repressione».
E proprio per sgombrare il campo dal “si dice” e capire un po’ più da vicino cosa ne pensa la comunità scientifica, c’è il libro del biologo Angelo Vescovi La cura che viene da dentro edito da Mondadori in cui lo scienziato dell’Università di Milano parla delle potenzialità di cura offerta dalle staminali, spiegando la differenza fra adulte e embrionali, e lo stadio che ha raggiunto fin’ora la ricerca su quest’ultime, quelle derivate dall’embrione, le più potenti e insieme le più discusse da parte di chi, per convinzioni etiche e religiose, ritiene che l’embrione sia già persona.

Ma da non perdere di vista è anche il chiarificante libro intervista di un altro eminente scienziato Edoardo Boncinelli, Sani per scelta, la scienza che ci cambia la vita, pubblicato dal Corriere della Sera. Un agile volumetto in cui il biologo e genetista dell’Università di Milano spiega l’importanza della ricerca sulle cellule staminali embrionali per la cura di malattie oggi incurabili, dalle malattie genetiche, al diabete, all’Alzheimer, ma anche – grazie al fatto che queste staminali totipotenti e veloci nel riprodursi sono ancora indifferenziate e possono dar vita a qualsiasi tipo di tessuto – le opportunità che offrono nel riparare i danni dell’infarto e di tumori.
Un’appassionata difesa delle possibilità della scienza e del progresso quella di Boncinelli, contro chi sostiene che tutto ciò che è naturale sia, di per sé, buono.
Ricordando la lezione di Leopardi, ma anche qualche vistoso paradosso. In base a questo principio della “naturalità”, accenna lo scienziato, dovremmo abbandonare gran parte di ciò che fa la nostra realtà di tutti i giorni, «perché – ci ricorda – certamente è contro natura l’uso degli occhiali, dell’ombrello, dell’insulina.Come sono contronatura gli antibiotici e la cura dei tumori». Una efficace provocazione senza trascurare argomentazioni etiche: «Semplicemente perché – dice – a noi non piace che qualcuno porti per tutta la vita le conseguenze dell’aver pescato un numero sbagliato nella lotteria dei geni e che i deboli e malati vengano lasciati morire fuori dal branco».  

Da Europa 7 maggio 2005

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verso il referendum

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 1, 2005

Batticuorum per la ricerca

L’associazione Coscioni lancia la sfida per il dopo referendum

di Simona Maggiorelli

Non è bastata l’iniziativa di una trentina di scienziati che- per la prima volta nella storia italiana- hanno fatto lo sciopero della fame. Non è bastata la drammatica autoriduzione del cibo da parte del ricercatore universitario Luca Coscioni che, malato si batte per la libertà di ricerca in Italia. “A una settimana dal voto – denuncia il segretario dell’associazione Coscioni Marco Cappato – siamo in una situazione di pesante illegalità. Che riguarda l’informazione:, con il black out di Rai e Mediaset, ma anche le liste elettorali, in cui sono stati conteggiati i nomi degli italiani all’estero, senza verificare se siano morti o dispersi. Questo mentre il partito dell’astensione incassa illegalmente il non voto dei malati gravi che non si possono muovere dal letto, ma anche quello dei soldati italiani in missione all’estero. Il presidente Ciampi, come capo delle forze armate, potrebbe dire una parola su questo”.

Colpisce che in tv ci finiscano sempre personaggi come Antinori o Eleonora Porcu, più volte denunciati di falsificare e manipolare i risultati delle ricerche.  Con le loro testimonianze eccentriche si vorrebbe far credere che la comunità scientifica sia divisa?

L’obiettivo è la disinformazione. La falsificazione più grave riguarda la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali. Si racconta la storia per cui ci sarebbe addirittura equivalenza tra il filone di ricerca sulle embrionali e quello sulle cellule staminali adulte. Questo è oggettivamente falso. Basta consultare qualsiasi scienziato.

Perfino il biologo Vescovi, paladino della legge 40, nel suo ultimo libro è costretto ad ammettere il valore della ricerca sulle staminali embrionali.  Perché non passa?

Gli scienziati stanno cercando altri modi per fare informazione, forme più dirette, visibili, con il coinvolgimento diretto dei  loro centri. Siamo in una situazione per certi versi simile a quella in cui si è venuta a trovare la classe operaia, che in certi momenti della storia, si è trovata costretta a forme di partecipazione diretta per l’affermazione delle proprie libertà fondamentali, dei propri diritti.

Sul fronte politico cosa ostacola il quorum?

Non ha giovato la scelta di Rutelli e di Prodi di aprire ora la lacerazione. Una scelta artatamente costruita, a mio avviso, per distrarre dal referendum. Sarebbe stato logico rimandare questo confronto. Alle regionali, da destra e da sinistra, ci è stato impedito di varare le liste Coscioni-Radicali, “per non sovrapporre le due campagne”. Ora appare chiaro che si puntava solo all’eliminazione della campagna referendaria.

Anche una parte dei ds ha messo la sordina alla campagna referendaria?

La posizione presa a favore dei 4 sì non si è ancora trasformata in una lotta. Fassino non ha ancora avuto, la forza o la volontà, di ribaltare questa situazione. E’ in atto uno scontro. Lo hanno lanciato Ruini, il comitato Scienza e Vita, forte degli introiti dell’8 per mille. Bisogna vedere se si vuole rispondere o se si vuole, come ha detto Violante, sperare di non urtare la suscettibilità della Margherita.

Da liberale come giudica che lo Stato dia alla Chiesa la possibilità di intromettersi nel privato dei cittadini?

Il fatto grave è che a farne di più le spese sono i cattolici, colpiti doppiamente nella loro libertà di cittadini e come credenti. Il Vaticano non solo punta a occupare lo Stato, ma ha occupato la Chiesa come comunità. I fedeli si trovano costretti ad obbedire a regole che non hanno precedenti. A contraddizioni vistose anche in termini religiosi, per cui con la legge 40 si salvaguarda l’embrione ma si ammette l’aborto del feto.

Perché giudica illegali i richiami all’astensione dai pulpiti o nelle ore di religione?

Qui non si tratta di libera espressione. Ma di violazione delle leggi italiane. Con il concordato il Vaticano ha accettato un ruolo pubblico e parastatale. La conseguenza è che ci sono limiti alla possibilità di fare politica nell’esercizio di quella funzione. Un funzionario pubblico delle poste non può usare i soldi del ministero per fare volantini o usare le ore di lavoro per far campagna elettorale. Per la medesima ratio neanche un prete potrebbe farlo nell’esercizio delle sue funzioni.

Lei ha denunciato che volantini per l’astensione vengono distribuiti perfino negli asili. E’ così?

Abbiamo avuto delle segnalazioni di insegnanti di religione che in varie scuole e asili hanno dato ai bambini materiali per l’astensione dicendo loro di portarlo a casa. Tutto questo viene fatto con i nostri soldi.

Che cosa accadrebbe se continuasse questo stop alla libertà di ricerca continuasse?

Che qualcuno dovrà assumersi la responsabilità di aver rimandato di anni cure che riguardano malattie devastanti e mortali per milioni di persone.

In Italia c’è già chi fa ricerca acquistando linee cellulari all’estero, dovendo poi rinunciare per contratto alla titolarità delle scoperte e  dei brevetti. Non è un danno anche per l’economia?

La negazione della libertà di ricerca rientra in un quadro di declino del sistema paese. All’estero ormai ci considerano inaffidabili in termini di certezze del diritto, ma anche per la scarsa capacità di avere un ruolo attivo da parte delle istituzioni che d’altro canto concedono poca libertà. In questo settore in particolare non c’è unaragione per cui un investitore dovrebbe puntare sull’Italia, se non per il valore dei singoli ricercatori che, però, si trovano a dover elemosinare i fondi o a emigrare.

da Avvenimenti, 2005

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