di Simona Maggiorelli
«Trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono», annotava Cézanne. E di questa frase Braque, Picasso, Léger, Gris e molti altri fecero il proprio motto in quel primo decennio del Novecento che vide, a Parigi, la nascita del cubismo. Ad un anno dalla scomparsa di Cézanne, una retrospettiva al Salon d’Automne nel 1907 celebrava finalmente l’opera del maestro di Aix-en Provence e i giovanissimi artisti che al volgere del nuovo secolo alimentavano l’avanguardia ne rimasero profondamente colpiti.
La visione volumetrica e “onirica” di Cézanne li incoraggiava ad esplorare un modo nuovo di fare pittura, sempre meno legato alla visione retinica delle cose e sempre più figlia di una visione interiore e originale dell’artista capace di cogliere l’invisibile. Così, grazie al genio di Picasso ma anche di Braque, fu subito un grande salto, un radicale cambio di paradigma nella pittura d’Occidente. Come ci avvertono inequivocabilmente le due tele, un nudo di Picasso e un paesaggio di Braque, poste ad incipit della mostra Cubisti cubismo allestita nel Complesso del Vittoriano, a Roma (fino al 23 giugno, catalogo Skira).
Da un lato un nudo femminile del pittore spagnolo, datato 1909 (proveniente da San Pietroburgo), primitivo e potente, tracciato con pochi segni essenziali; magnetico e scultoreo, per quanto scomposto secondo una pluralità di prospettive. Dall’altro la stratificata foresta di Braque, una visone sintetica e instabile, un bagno di verdi brillanti e marroni, in cui lo spettatore ha la sensazione di poter sprofondare fino a precipitare in una quarta dimensione temporale ed emotiva.
In entrambi i quadri i piani si aprano, non collimavano più, la “realtà” è ritratta da più angolature, secondo prospettive multiple. Il cubismo «non è arte dell’imitazione, ma arte di pensiero che tende ad elevarsi fino alla creazione» scrisse il poeta Apollinaire, rilanciando quel termine, cubismo, che il critico Luis Vauxcelles aveva coniato recensendo la mostra di Braque nella galleria di Kahnweiler nel 1908. Un’etichetta che diventò felicemente un marchio di fabbrica, fino alla fine degli anni Venti come racconta questa corposa e avvincente collettiva romana curata da Charlotte N.Eyerman e da Simonetta Lux, che raduna più di una decina di opere di Picasso (fra le quali una straordinaria donna accovacciata prestito del museo di Sant’Antonio in Texas) e altrettante di Braque, ma anche una miriade di dipinti di artisti sodali ai due, anche se di minor talento – come Gleizes, Metzinger, Gris, Feininger, Cendrars e molri altri – ma che restituiscono pienamente il vivace fermento artistico e creativo che animò la capitale francese per oltre un ventennio, anche dopo la prima guerra mondiale e fino al “ritorno all’ordine” degli anni Trenta.
Ma interessanti sono anche le finestre aperte da questa mostra sul cubismo russo con opere di Gontcharova e Popova e sul futurismo italiano attraverso opere e collage in stile cubista di Severini e Soffici. E ancora, da non perdere, al piano superiore del Vittoriano, la sezione dedicata alle intersezioni fra il cubismo e il teatro, con i costumi di scena e le scenografie del balletto Parade firmate da Léger ma anche quella che racconta la sperimentazione cubista nella moda attraverso le stoffe realizzate dalla pittrice Sonia Delaunay.
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