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Donne, islam e democrazia

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 15, 2009

for Neda, Iran

for Neda, Iran

Con Musulmane rivelate, l’antropologa di origini palestinesi Ruba Salih vince
il premio Pozzale. A left racconta  la sua ricerca

di Simona Maggiorelli

Lo sguardo di Ruba Salih sul mondo musulmano appare particolarmente prezioso a chi, in Occidente, voglia capire i mutamenti che hanno attraversato la galassia del mondo islamico nella storia e ciò che di nuovo si sta muovendo oggi. A cominciare dalla rivolta di tanti giovani di Teheran contro il regime di Ahmadinejad e che vede tante studentesse in prima fila. Di origini palestinesi e docente di Antropologia sociale all’università di Bologna e in quella di Exeter in Gran Bretagna, Ruba Salih partecipa di molte e diverse culture e nei suoi lavori offre inediti spaccati di comparazione. Come nel bel libro Musulmane rivelate (Carocci) che il  12 luglio 2009 riceverà il premio Pozzale. Con atteggiamento laico, convinta che le «le idee e le ideologie di natura religiosa vadano viste e analizzate come prodotti della realtà sociale sulla quale poi esercitano un’influenza» Salih racconta in questo agile volume come nei Paesi islamici stia cambiando il rapporto fra uomo e donna e il ruolo delle donne nella società. Da qui prende il la il nostro incontro.
Professoressa Salih, come legge l’ampia partecipazione di giovani donne alle proteste contro le elezioni truccate in Iran?
È ancora presto per capire in che cosa si trasformerà questa protesta, se chiederà cambiamenti radicali o si fermerà alla rivendicazione di elezioni più trasparenti. Certo è che le donne sono molto presenti nell’iconografia di questa rivolta. E non è un caso. In Iran le donne non sono mai state assenti dalla scena pubblica. C’è un immagine bellissima che circola in Rete: si vede una donna che ferma l’auto del presidente Ahmadinejad. A me pare molto significativa.
Che significato assume oggi il velo?
Il velo, in realtà,, non ha un solo significato. In alcune società islamiche può essere strumento di negoziazione. In situazioni di crisi economica o quando si aprono delle nicchie di lavoro, le donne escono  velate per non distruggere tutto l’equilibrio delle relazioni di genere. Le donne lo usano per ottenere una maggiore libertà fuori casa, comunicando agli uomini che questo non comporterà una rivoluzione dei rapporti familiari E in contesti dove le donne hanno pochi diritti, la protezione della famiglia è una garanzia.
Maometto non impose il velo a tutte le donne. Da dove nasce l’obbligo?
Il velo preesisteva all’islam. Per esempio era un’usanza della società sassanide. Lo indossavano le donne dei ceti più alti. A un certo punto, alcune sure del Corano che parlano dell’abbigliamento femminile vengono interpretate in senso normativo.
Accade durante l’espansione islamica?
Sì, quando l’islam si fonde con gli usi delle regioni conquistate. Infatti ci sono molti tipi di velo. Cambiano da zona a zona. Perché diverso è ogni volta l’intreccio fra islam e culture locali.
Perché questo controllo sul corpo delle donne?
Studiose come Fatima Mernissi hanno documentato come sul corpo femminile si siano accaniti tutti, dai nazionalisti ai religiosi, ai modernisti. Nel mio libro provo a raccontare come ognuno di loro tenti di visualizzare il proprio progetto di società sul corpo delle donne. In Iran nel ’36 fu vietato indossare il velo ma non vedo troppa differenza fra questo divieto e quello attuale che proibisce alla donne di uscire  senza. Sono due facce della stessa medaglia.
Dalla sua ricerca sul linguaggio della letteratura coloniale emerge come l’Oriente fosse «femminilizzato, velato, visto come seduttivo e pericoloso». Al razionalismo lucido del conquistatore si contrapponeva una società vista come pericolosamente irrazionale?
Quando l’Occidente comincia a usare nelle sue rappresentazioni dell’Oriente l’immagine delle donne musulmane inizia un processo che è ancora in atto. Il colonialismo e l’orientalismo nella sua versione letteraria si accaniscono nel costruire l’altro in modo che l’Occidente, per contrapposizione, appaia moderno, aperto, logico. L’ambito della sessualità, avvertito come oscuro, intimo, morboso diventa giocoforza serbatoio di metafore. Ma il fatto è che i modernisti arabi hanno fatto propria questa rappresentazione iniziando a vedere nelle donne proprio l’elemento da modernizzare. E se è vero che hanno stilato nuovi codici di famiglia (anche se concessi dall’alto) riconoscendo diritti alle donne, dall’altro lato hanno rotto la sfera di potere che le donne avevano e si è iniziato a svalutare il sapere femminile. Nella famiglia più estesa, anche se patriarcale, le donne potevano avere un ruolo di cui poi vengono spodestate nella famiglia nucleare moderna. E sappiamo bene che anche in Occidente non è stata un territorio di libertà per le donne.
Nel libro accenna anche alla cesura che avvenne nel passaggio dalla società araba tribale all’islam.
Nel 600 l’islam si presentava come una religione “moderna”. Il Corano fungeva un po’ da codice: riconosceva alle donne il diritto ereditario (quello alla proprietà c’era già prima) e inseriva tutta una serie di meccanismi di protezione in caso di ripudio e di divorzio. Abolì l’infanticidio delle bambine. L’islam fu anche un movimento a cui si accompagnarono tutta una serie di trasformazioni economiche e di urbanizzazione, parliamo di dinamiche storico sociali che incisero profondamente su quello che sarà il destino delle donne. In città le donne furono più recluse nella sfera domestica: era la prova dello status elevato della famiglia. Le società preislamiche, invece, erano nomadi e avevano tratti matrilineari. Le donne stavano fuori casa ed effettivamente pare fossero più libere. La verginità, per esempio, non era così importante e le donne avevano un ruolo nella vita pubblica.
Ancora le mogli del profeta godevano di certe libertà?
Le femministe che si sono messe a studiare il Corano per fare una dialettica con gli uomini sul piano interpretativo, si riferiscono proprio alla vicenda delle donne di Maometto per rivendicare un diverso rapporto fra i generi nell’islam. Tutte le religioni, anche se in modi diversi, opprimono le donne. Ma se il cristianesimo condanna la sessualità e il desiderio femminile, per l’islam non è peccato. è così?

Nell’islam le donne hanno diritto al piacere sessuale. L’impotenza del marito, anche nella Sharjah, è fra le possibili cause di divorzio a vantaggio delle donne. Così come l’assenza prolungata del marito. Ma c’è un fatto  contraddittorio che consiste nel controllo sui corpi delle donne e sulla sessualità femminile perché le società islamiche, non dimentichiamolo, sono società patriarcali. E la cultura patriarcale si impone come un macigno sulla libertà femminile. Ed è un fatto trasversale che accade anche in contesti culturali diversi. I molti delitti che si verificano in Italia, e di cui si ha più notizia in estate, vedono quasi sempre come vittime le donne, uccise da mariti e fidanzati perché hanno agito in modo disonorevole o secondo canoni o scelte diverse. Questo è il patriarcato. Un tipo di cultura che preesiste all’islam e si intreccia con esso. Una mentalità che oggi le femministe arabe vogliono separare dall’islam. Ma decostruire il patriarcato non è facile.

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Quei supermaschi dei Romani

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 27, 2009

cantarella

eva cantarella

di Simona Maggiorelli

Dopo aver guidato il lettore in un viaggio colto e appassionato all’interno della polis raccontandoci come i greci vivevano i rapporti sessuali e le passioni, con il suo nuovo libro, Dammi mille baci (Feltrinelli, dal 23 aprile in libreria), Eva Cantarella ci fa scoprire i lati meno noti della vita dei Romani.

E se in Passato prossimo (Feltrinelli) con personaggi come Tacita Muta aveva messo a fuoco l’assoluto silenzio a cui le donne erano condannate nei primi secoli della romanità, in questo nuovo lavoro racconta come le matrone apparentemente acquisirono nuovi diritti durante gli anni della Repubblica e dell’Impero, guadagnandosi un posto nella sfera pubblica. Ma pagando un prezzo altissimo. «Consapevoli dei premi, dei vantaggi e degli onori che sarebbero derivati loro dall’adempimento dei propri compiti – scrive la studiosa – le donne romane di regola condividevano i ruoli maschili. Esse accettavano, profondamente convinte della sua importanza, la costruzione maschile della loro immagine e del loro ruolo».

Tanto che, riempite di gioielli e onorate pubblicamente come matrone, mogli e madri modello, azzarderemmo, se la passavano perfino peggio delle donne greche, stigmatizzate dal sommo Aristotele come esseri inferiori, irrazionali, incapaci di ragionare. Pienamente sussunte nel modello maschile sulla scena pubblica e violentate in privato da mariti che concepivano solo una «sessualità per stupro» non facendo alcuna differenza fra uomini e donne, purché avessero un ruolo passivo, le donne dell’Urbe ci appaiono catturate in una situazione di annullamento totale della propria immagine e identità. Senza contare che presto sarebbe stato il Cristianesimo a dar loro il colpo finale. «Studiando la condizione femminile a Roma ci si trova davvero di fronte a un quadro agghiacciante – ammette Eva Canterella -. E la cosa ci tocca da vicino perché ha lasciato tracce durevoli e pesanti su di noi. La grande abilità politica dei Romani e la loro astuzia determinò questa situazione. A differenza dei Greci che discriminavano le donne tanto da costringerle a vivere appartate, le Romane stipularono questo tacito patto con gli uomini, che vige ancora oggi, nelle ricompense, nei piccoli vantaggi.

Purché fossero mogli e madri modello…

Solamente se diventavano delle madri modello, mogli o vedove potevano ottenere qualcosa. Quanto alla lunga durata di una certa mentalità mi impressiona quello che si sente dire oggi riguardo alla necessità di aumentare le pene nei casi di stupro. Per carità, aumentino pure gli anni di carcere, ma il punto è che molto spesso i responsabili non vengono nemmeno individuati perché gli stupri avvengono in famiglia. Soprattutto non si ferma con il mero istituto della pena un fatto psicologico culturale di questa portata che ha radici così profonde. Ci vuole veramente una rivoluzione culturale.

affresco_romano_-_pompei_-_eros_e_psiche2Nel saggio Essere diverse contenuto nel libro Donna m’apparve curato da Nicla Vassallo per Codice edizioni lei scrive che la diversità della donna è una teoria elaborata dai Greci.

Sì, ma il fatto è che i filosofi greci elaborano un’idea di differenza che significa inferiorità della donna. E Aristotele, lo sappiamo, ha avuto un peso enorme sulla cultura occidentale. Il suo pensiero ha resistito fino a quando le femministe hanno elaborato una nuova teoria della differenza. Che poi sia riuscita o  meno, questo è un altro discorso. Ma non c’è dubbio che fino a quel momento la “differenza” è stata solo una sciagura per le donne.

Fra i Romani, come fra i Greci, l’omosessualità era pratica comune. Ma quello che più colpisce è che per i primi essere uomini voleva dire avere un ruolo sessualmente attivo. Poco importava se poi il partner era una donna o un uomo.

Questo accadeva anche in Grecia. Con una differenza tuttavia: Aristofane usa tutta una serie di aggettivi per indicare gli omosessuali passivi, usa parole che poco si adattano a un’intervista. Ma se si trattava di un giovane da educare ai valori della polis, il rapporto omosessuale veniva considerato un mezzo nobilissimo, in ogni caso. I Romani erano portatori – per capirsi – di un “celodurismo” alla Bossi, si pensavano supermaschi, ma se certi ragazzi romani di buona famiglia erano intoccabili, gli adulti non esitavano a ficcarlo in quel posto ai nemici e agli schiavetti. Perfino il dolce Catullo rivendicava l’io te lo metto lì e lo scriveva nei messaggi che indirizzava ai giovani uomini.

A Pompei i fanciulli che si prostituivano erano più ricercati e pagati delle donne?

Accadeva anche a Roma dove c’erano molti ragazzini viziati che dagli uomini si facevano pagare moltissimo. L’etica cittadina diceva no a tutto questo, ma la pratica quotidiana era cosa diversa. Come sempre.

E il Cristianesimo che tipo di cesura segnò nella cultura romana?

Una cesura radicale. Per il Cristianesimo l’unico rapporto secondo natura è quello che porta alla procreazione. E condannava ogni relazione omosessuale. Le conseguenze si possono leggere nelle costituzioni di epoca imperiale. Anche allora vigeva questo vizio dei politici di imporre a chicchessia quanto affermato dalle gerarchie ecclesiastiche. Gli imperatori cristiani cercarono di adeguare la legislazione, ma non potevano bruciare vivi gli omosessuali attivi che erano “approvati” dall’etica pagana. Quindi per secoli si punirono solo gli omosessuali passivi.

affresco-romanoLei scrive che nella società romana il parricidio era un’ossessione diffusa. E non di rado si passava all’atto.

Non lo dico solo io, ma anche un grande storico come Paul Veyne. E devo ammettere che se si vanno a leggere direttamente le fonti il fenomeno appare impressionante. A Roma, di fatto, non si smetteva mai di essere figli. Capitava così che un individuo a 40 oppure a 50 anni, sposato o console che fosse, dipendesse ancora dal padre, il quale poteva tagliargli i viveri o diseredarlo. L’usura, anche per questa causa, era molto praticata e c’era chi arrivava, per questo, ad uccidere il padre. E che non fosse un fatto straordinario, lo  si capisce dalle leggi ad hoc che furono emanate.

Dunque la famiglia romana produceva crimini e pazzia?

Di sicuro produceva rapporti difficili e contorti. Certo che il problema del parricidio era un affar serio, è documentato da molte fonti. Andrebbe ricordato a quanti ancora oggi esaltano la famiglia dipingendola in ogni epoca come un paradiso.

Il parricidio veniva punito con una pena efferata: la morte in un sacco con un cane, un gallo, una scimmia e una vipera

La pena del sacco, che a noi  sembra assolutamente primitiva, rimane in vigore anche nell’Impero. La si comminava anche agli adulteri, ma forse senza animali.

In questa romanità incentrata sul pater familias, in cui si imponevano modelli culturali anche attraverso la letteratura e la scelta dei miti e delle divinità, Apuleio come riuscì a introdurre la favola di Amore e Psiche?

In effetti fu un bel salto. Quello che sappiamo è che la favola di Amore e Psiche probabilmente era di origine orientale e arrivò in occidente attraverso percorsi sui quali si discute moltissimo.

Di questo lei si è occupata per una nuova edizione della favola di Apuleio che uscirà a giugno per Rizzoli. A che conclusione è giunta?

Ho scritto, appunto, che le radici della storia di Amore e Psiche affondano in luogo diverso da Roma e in un tempo probabilmente molto lontano da quello in cui visse Apuleio. Secondo alcuni studiosi il mito viene dalla Siria, secondo altri ancora sarebbe l’elaborazione greca di un mito iraniano. L’ipotesi sulle origini sono incerte. Ma quali che siano, la storia viene ripresa e rielaborata da Apuleio per adattarla alla società in cui viveva.

Da cosa lo deduce?

Apuleio, come sappiamo, era un avvocato e nel suo testo ci sono molti riferimenti ad istituti romani. Per esempio le donne a cui Psiche chiede aiuto le rispondono: non posso perché altrimenti sarei punita. La legge effettivamente sanzionava chi aiutava gli schiavi fuggitivi. Lo stesso Giove, a un certo punto dice: «Per colpa tua, io ho più volte violato la lex Iulia.

Il fatto che Apuleio fosse di origini berbere non potrebbe anche far pensare che la materia del mito provenisse proprio da quell’area dove le donne fin dalle epoche più antiche hanno sempre goduto di una certa libertà?

Non è da escludere, ma non abbiamo prove certe. Quello che possiamo dire è che il mito è sicuramente orientale, berbero o persiano che sia. Il mio lavoro su Amore e Psiche in realtà origina da alcune lezioni che tenni a New York con Karol Gilligan. Nel libro In a different voice, la Gilligan scrive che la favola di Amore e Psiche racconta una storia di resistenza femminile. Un’interpretazione affascinante, anche se mi convince fino a certo punto.  Il mito si offre a molte letture. In ogni caso particolarmente eversivo nella cultura classica romana, razionale, impostata sull’autorità paterna e la sottomissione totale della donna e dei figli.

Questo rapporto con l’Oriente è stato problematico. In Dammi mille baci, per esempio, lei racconta che la leggenda di Cleopatra con il naso lungo fu inventata da Pascal. Ma sono tante le storie di donne di culture mediorientali che la tradizione ebraico-cristiana ha deformato e alterato.

È comprensibile che Cleopatra fosse vista malissimo dai Romani, ma è vero che si potrebbero fare molti altri esempi di cattiveria occidentale. Uno dei pochi casi opposti è quello di Zenobia, la regina di Palmira. Di lei le fonti occidentali dicono che conosceva non so quante lingue e che cavalcava alla testa dei suoi soldati. Se ne parlava con rispetto. Se il nostro sguardo si fosse liberato dal pregiudizio si sarebbe accorto già molti secoli fa che nella storia e nella letteratura orientale emergono figure femminili veramente straordinarie.

da left-Avvenimenti 27 aprile 2009

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