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Scalfari, il super dilettante

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 21, 2014

BucciCon modestia e sprezzatura si autodefinisce un «lettore forte» Francesco Bucci, autore del ficcante Umberto Galimberti e la mistificazione culturale, che nel 2011 mise con le spalle al muro il noto opinionista delle pagine di Repubblica, dimostrando – testi alla mano – che non solo copiava da se stesso, ma anche da altri.

Dopo quel libro l’università di Ca’ Foscari dove Galimberti insegna aprì un’inchiesta intimandogli di non copiare più. Con la stessa tenacia e capacità di lettura critica ora Bucci si applica a decostruire l’opera di Eugenio Scalfari,di recente pubblicata nei blasonati Meridiani Mondadori.

Al centro del libro Eugenio Scalfari, intellettuale dilettante (Società editrice Dante Alighieri) in realtà non c’è tanto il lavoro giornalistico del fondatore del quotidiano La Repubblica, quanto i saggi che a partire dagli anni Novanta Scalfari ha pubblicato piccandosi di scrivere di antropologia, di filosofia , di letteratura, di arte e persino di scienza. Senza avere i titoli accademici e «senza avere alcuna competenza».

Come è nel suo stile rigoroso, pagina dopo pagina, Bucci offre una spiegazione documentata della sua tesi, senza lasciare nulla al caso. E solo dopo una serrata indagine testuale, di fronte al continuo zigzagare dei discorso scalfariano, capace nel giro di poche pagine di «dire tutto e il contrario di tutto», Bucci arriva a stigmatizzarlo come un dilettante che tronfiamente «si atteggia a intellettuale universale».

Di fatto commettendo «errori marchiani», lasciandosi scappare «spropositi» e lanciandosi in continui «sproloqui». Dalla sua Bucci ha una solida formazione filosofica e scientifica che gli permette di cogliere non solo quando Scalfari non domina la materia di cui parla, ma anche quando involontariamente crea dei corto circuiti di senso che minano alla base ogni coerenza del discorso, finendo grottescamente per contraddire i propri presupposti. Illuminista dichiarato, Eugenio Scalfari si trova ad alimentare le ansie postmoderne di fine della storia e della modernità. Lui, che si dice progressista, si trova a sposare sotterraneamente l’idealismo e il conservatorismo di Benedetto Croce. Con effetti talvolta così assurdi da risultare grottescamente comici. Non a caso commentando il libro di Scalfari Incontro con io Cesare Garboli non esitava a definire «un libro fatto di pensieri arruffati, disordinati, venuti su da fondi dimenticati».

(Simona Maggiorelli dal settimanale left)

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L’alimentazione che protegge dal cancro

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 10, 2012

La complessità dei quasi duecento malattie che che compongono la galassia cancro sono al centro  de I giorni della ricerca promossi dall’Airc, l’associazione italiana per la ricerca sul cancro 2012. Fino all’11 novembre continua la campagna Airc per la raccolta fondi. Intanto Umberto Veronesi rilancia l’importanza  della prevenzione. A cominciare da una sana alimentazione povera di grassi, Riproniamo qui un’intervista che il professore ha rilasciato a left riguardo all’importanza per la salute della scelta vegetariana

 

di Simona Maggiorelli

Quello che la medicina sta vivendo è un momento di grandi sfide, racconta a left un luminare della ricerca contro il cancro come Umberto Veronesi, direttore scientifico dell’Istituto Europeo di Oncologia, e inventore della quadrantectomia, una tecnica chirurgica di cui molte donne italiane gli saranno sempre grate, perché già in anni in cui la chirurgia plastica ricostruttiva non era così diffusa, risparmiava alle donne affette da carcinoma mammario lo scempio della mastectomia. « Le sfide che ci troviamo davati sono tante e tali- dice il professore – che richiederebbero un’intera trattazione. Dovendo sintetizzare come è richiesto in un’intervista direi che si sta scommettendo soprattutto sulla genetica, per sfruttare la capacità, che abbiamo acquisito con il sequenziamento del genoma dieci anni fa, di isolare i geni e di studiare la loro funzione a livello molecolare”.

Una frontiera della genetica che offre molte speranze e che promette anche importanti ricadute nella ricerca sul cancro. «Su questa base stanno nascendo i primi farmaci diretti a quei geni mutati che sono all’origine del cancro- spiega Umberto Veronesi -, i ricercatori stanno cercando di capire quali siano i geni coinvolti in ogni neoplasia per creare poi farmaci selettivi, cosiddetti “intelligenti”, che dovrebbero gradualmente sostituire i chemioterapici, o combinarsi a loro come già avviene per alcuni tumori. L’ultima frontiera della ricerca è poi costituita dalle cellule staminali tumorali, le vere responsabili dell’inguaribilità della malattia, perché sono in grado di migrare in altri organi e di dare origine alle metastasi. Nuovi farmaci mirati all’eliminazione delle staminali tumorali sono già in sperimentazione clinica sull’uomo e nei prossimi 5-10 anni potrebbero diventare disponibili per alcune forme di tumore”.

E mentre la ricerca sulle staminali tumorali, anche grazie al team di medici e ricercatori dell’Istituto milanese fondato dallo stesso Veronesi sta facendo interessanti passi avanti anche nel nostro Paese, altri importanti ambiti della ricerca come quello sulle staminali embrionali (che magari hanno minore ricaduta immediata e che, certamente urtano più da vicino i custodi della fede) in Italia incontrano enormi ostacoli e sono pressoché escluse dai finanziamenti pubblici. Tanto che all’ex ministro della Salute ed ex senatore Pd Veronesi anche in vista del suo intervento preannunciato per questo fine settimana a Roma al Congresso dell’Associazione Luca Coscioni non possiamo non chiedere: la politica italiana, più attenta ai diktat del Vaticano che alle ragioni della scienza, sta uccidendo la ricerca scientifica la ricerca nel Belpaese?

« Questo non è solo un problema politico- sottolinea Veronesi-. in Italia manca una cultura e una strategia per la ricerca. Sicuramente il Vaticano ho posto molti vincoli ideologici, ma bisogna dire con chiarezza che le sue posizioni “oscurantiste” non sono state adeguatamente contrastate per mancanza appunto di una solida cultura della scienza. Basti pensare – aggiunge – che il nostro Paese destina alla ricerca una quota di risorse pari soltanto all’1% del PIL. Fino ad oggi, grazie ai grandi sforzi dei ricercatori e al contributo della gente attraverso le associazioni private, miracolosamente la bilancia dei risultati si è mantenuta ancora a favore della ricerca. Ma si tratta di un equilibrio instabile, che non si mantiene da solo all’infinito. Tanto è vero che, per la prima volta dopo trent’anni, nel 2009 la produzione scientifica italiana ha smesso di crescere, anzi è arretrata sia in termini relativi, come percentuale dell’intera produzione mondiale, sia in termini assoluti, come numero di articoli scientifici pubblicati”. Considerazioni importanti che cercheremo di trovare l’occasione di approfondire in altra occasione con il professore, che intanto alla sua maniera, gentilmente, ci incalza riportandoci all’impegno preso di parlare di un’altra sua importante sfida: quella di diffondere la cultura vegetariana, anche per l’importanza che riveste nella prevenzione d i importanti malattie e per la ripartizione più equilibrata delle risorse sul globo. L’occasione è offerta dall’uscita del suo nuovo libro La scelta vegetariana, scritto con il giornalista scientifico Mario Pappagallo e  pubblicato da  Giunti.

Professor Veronesi che incidenza può avere una dieta vegetariana sulla salute umana? «Innanzi tutto un’alimentazione povera o priva di carne e derivati aiuta ad evitare obesità e sovrappeso, che sono i principali fattori di rischio per le malattie cardiocircolatorie, il cancro e il diabete. Chi è vegetariano- fa notare Veronesi – pesa, in media, il 10% in meno di chi non lo è: Il controllo del peso è favorito dal fatto che frutta e verdura sono alimenti poverissimi di grassi e ricchi di fibre».  Ma non solo. « La dieta vegetariana – prosegue – è efficace nell’ostacolare l’insorgenza o nel favorire la regressione di gravi patologie delle coronarie e costituisce una barriera a molte malattie cronico-degenerative grazie al suo basso contenuto di acidi grassi saturi, di colesterolo e di proteine animali e grazie alle sue alte concentrazioni di folati, antiossidanti e fitoestrogeni».

E per quantoriguarda poi più specificamente la prevenzione oncologica? « Oggi sappiamo che esistono nei vegetali molecole protettive per tipi specifici di tumore. Ad esempio- dice Veronesi – il licopene contenuto nei pomodori protegge dal cancro della prostata, l’indolo- tre- carbinolo contenuto nelle crucifere protegge dal cancro del seno, la catechina presente nelle foglie del tè contribuisce a proteggere dal tumore alla pelle, al colon, al polmone, al seno e alla prostata, il resveratrolo contenuto nell’uva e nel vino rosso protegge da patologie cardiovascolari. Alcuni vegetali, come la soia, sono ricchi di fitoestrogeni (sostanze simili agli ormoni femminili) e per questo possono svolgere un ruolo di regolazione di eventuali influenze ormonali sullo sviluppo di certi tumori».

Si può quindi pensare che chi segue un’alimentazione ricca di alimenti vegetali è meno a rischio di ammalarsi? “Certo e può vivere più a lungo. L’esempio che porto sempre è quello degli abitanti dell’isola giapponese di Okinawa: dieta ipocalorica, vegetariana e ricca in curcumina hanno prodotto la più alta percentuale di ultracentenari al mondo».

. E se una dieta ricca di carne, come lei argomenta nel libro può favorire l’insorgenza di tumori, quanto questo tipo di malattie sono invece determinate dall’ambiente , dall esposizioni a radiazioni o a inquinamento e quanto conta invece l’eredità genetica?

«Circa le cause dei tumori va detto innanzi tutto che il cancro è una malattia soprattutto “ambientale”, intendendo con questa parola l’ambiente interno ed esterno alla cellula. I fattori genetici- spiega Veronesi – sono responsabili solo del 3% dei tumori, i fattori riproduttivi ed endocrini lo sono per il 12% mentre i fattori ambientali sono la causa dell’85% di tutti i tumori. Quindi, nella maggior parte dei casi, la malattia si sviluppa per effetto di fattori ambientali collegati agli stili di vita individuali. Di questi la ricerca ne ha individuati con certezza alcuni che sicuramente incidono sulla formazione dei tumori: alimentazione, fumo (responsabile del 30% delle morti per cancro nel mondo), alcuni virus, esposizione a sostanze cancerogene soprattutto sul luogo di lavoro. Queste ultime sono all’origine del 4% dei tumori di origine ambientale, mentre gli agenti infettivi (virus cancerogeni conosciuti, come l’HPV o l’epatite B) sono responsabili di un altro 10%. Ma il fattore che incide di più- sottolinea Veronesi – è un’alimentazione sbagliata: ben il 30% dei tumori è dovuto all’alimentazione, in particolare a un’alimentazione troppo ricca di grassi di origine animale. Alcune forme, come il cancro intestinale, sono direttamente correlate al consumo di carne mentre altre, come il tumore dell’endometrio, sono legate all’obesità».

Diventare vegetariani però comprta anche rinunciare al pesce, che i nutrizionisti dicono ricchi di acidi grassi polinsaturi, i grassi “buoni” i cosiddetti omega 3.« Non a caso è diffuso il principio che si possa essere sostanzialmente vegetariani pur mantenendo un limitato consumo di pesce- approfondisce Veronesi -.Dal punto di vista nutritivo, il pesce è un prezioso alleato della salute. È un alimento magro, con un modesto contenuto di colesterolo e con una discreta quantità di iodio, utile per la prevenzione delle patologie tiroidee. Ma soprattutto i suoi grassi, oltre a essere simili a quelli vegetali (cioè caratterizzati prevalentemente da composti “insaturi”), sono anche ricchi di acidi grassi polinsaturi, appunto gli omega3, che funzionano da protettori per cuore e arterie.Dunque il pesce non andrebbe evitato né per ragioni di salute né per ragioni ambientali. Per ragioni etiche però sì».

Da ultimo mi permetta una curiosità: Scegliere un’alimentazione vegetariana ha sempre corrisposto nella storia dell’umanità a una scelta etico -filosofica. I filosofi pitagorici, lei ricorda nel libro, per esempio, consideravano la carne come un alimento che ostacola la vigilanza della mente. Una superstizione? «La posizione dei pitagorici è forse troppo drastica. È vero però che essere vegetariani è l’espressione di una filosofia di vita che esclude ogni forma di prevaricazione e privilegia sempre il rispetto per tutti gli esseri viventi. Per questo l’alimentazione vegetariana è considerata in molte culture, spesso in associazione al digiuno, una forma di ascesi, che realmente facilita la riflessione e la concentrazione perché, essendo naturalmente più frugale e digeribile di quella carnivora, appesantisce di meno l’organismo e favorisce la lucidità mentale.

dl settimanalea left-avvenimenti 30 settembre 2011

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Il ritorno di Confucio

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 13, 2012

L’antico filosofo stigmatizzato da Mao come zavorra conservatrice è al centro di un sorprendente revival. La sinologa Anne Cheng denuncia le ragioni strumentali di questa riscoperta da parte del think thank del Partito

di Simona Maggiorelli

Festa per il compleanno di Confucio in Cina

Una statua di Confucio, un paio di anni fa spuntò improvvisamente in un luogo istituzionale e denso di scure memorie come piazza Tian’ammen, nel 1989 teatro della rivolta studentesca che il governo cinese represse nel sangue. Nel frattempo, anche nelle università cinesi si è ripreso a studiare Confucio e sono usciti nuovi lavori accademici per cercare di ricostruire filologicamente l’ancora incerto corpus delle opere di questo pensatore vissuto 2500 anni fa. Sul quale abbiamo poche informazioni sicure visto che la sua biografia fu scritta quattro secoli dopo la sua morte.

Ma oltre a dotte iniziative editoriali in Cina si segnalano anche film da blockbuster, sceneggiati e siti web dedicati a questa leggendaria figura e instant book che dispensano “pillole di saggezza” confuciana. Così nel Paese di Mao che aveva stigmatizzato Confucio come zavorra conservatrice, mettendolo al bando, si assiste più che a una riabilitazione a un vero e proprio revival. Non solo fra i ricchi imprenditori cinesi che troverebbero nelle pagine dell’antico studioso un rimedio allo stress di una vita frenetica all’insegna del motto «arricchirsi è glorioso» coniato da Deng. Ma anche fra un più ampio e indifferenziato pubblico questo maestro della misura, della ricerca di armonia e della morale tradizionale ha ripreso ad esercitare un forte appeal come dimostrano i milioni di copie vendute di alcuni libri come La vita felice secondo Confucio (pubblicato in Italia da Longanesi) della quarantenne consulente televisiva Yu Dan.

Un fenomeno così macroscopico e in controtendenza, dopo anni di svalutazione e ostracismo di Confucio (da Max Weber a Mao) che non può certo essere sfuggito all’occhiuto governo della Repubblica popolare cinese. La specialista di Confucio Anne Cheng, autrice di una Storia del pensiero cinese (Einaudi) tradotta in molte lingue venerdì 14 settembre sarà al Festivalfilosofia di Modena proprio per parlare di questo tema.

la sinologa Anne Cheng

Riguardo alla «febbre confuciana» che si registra oggi nell’Impero di mezzo, Cheng ha un’idea piuttosto interessante, ovvero che il governo cinese sia il vero deus ex machina di questa riscoperta. Dopo il fallimento della rivoluzione culturale (1966-1976) e di fronte alle pretese egemoniche dell’occidente industrializzato, il Partito comunista cinese (Pcc) ha promosso nell’ultimo trentennio un assiduo lavoro di ricerca degli “antecedenti”, delle radici cinesi che affondano nella storia antica, attraverso il restauro di edifici storici e il recupero di modelli filosofici autorevoli da contrapporre a quelli di un Occidente che, ancora a fine Novecento, pareva vincente su scala globale.

È in questo contesto che la vulgata confuciana passata indenne da una dinastia all’altra nel lungo medioevo cinese, improntando per secoli la vita politica e culturale del Paese ma anche il suo competitivo sistema scolastico, d’un tratto è tornata nuovamente “comoda” al potere. Tanto più nella congiuntura degli ultimi trent’anni, fra rapida crescita economica e “capitalismo di Stato”.

Così proprio mentre in Europa e negli Usa il capitalismo cominciava a mostrare un risvolto di disgregazione sociale, di edonismo e individualismo, spiega Anne Cheng, alcuni valori della tradizione confuciana come il senso del dovere, il rispetto della famiglia e dell’autorità, il lavoro assiduo, lo studio, la disciplina, insieme alla ricerca di armonia con l’ambiente, si sono rivelati strumenti utili per cercare di compattare un’identità nazionale sottoposta alle spinte centripete di un vertiginoso avanzamento economico e schiacciata da un mancato sviluppo democratico.

Una stampa che rappresenta Confucio

E ancora oggi capita che l’espressione «creare una società armoniosa» sia fra le più usate e abusate dall’apparato di partito ossessionato dall’ordine e dalla stabilità si Stato. Nelle sue lezioni al Collège de France (che si possono riascoltare sul sito http://www.college-de-france.fr) Anne Cheng fa un’approfondita disamina di questo “saccheggio” del vocabolario confuciano «in chiave visibilmente autoritaria, piegando il concetto di “società armoniosa” verso un’idea paternalistica delle relazioni fra governanti e governati». E non si tratta della prima volta per questo pensatore cinese del V secolo a.C.

Nei suoi studi Anne Cheng ha ricostruito la secolare storia degli usi ideologici e delle contraffazioni del pensiero confuciano, del resto – come accennavamo – non facile da restituire alla sua forma originale. Come scrive Maurizio Scarpari in Confucianesimo (Einaudi) la tradizione testuale delle opere del Nostro è assai ingarbugliata e lungo venticinque secoli di storia soggetta a continui rimaneggiamenti. Opere come I dialoghi  di Confucio  e I detti  composti dai suoi discepoli (nel 2006 pubblicati da Adelphi in nuova edizione), si sono strutturate nel tempo come uno stratificato palinsesto, in cui si può riscontrare l’eco di molte voci diverse e riscritture. Ma anche importanti scoperte archeologiche che in Cina negli ultimi decenni hanno portato alla luce una serie di frammenti di testo che sono simili a quelli de I dialoghi, hanno obbligato gli studiosi a rivedere  e ad analizzare più a fondo la natura del testo confuciano fatto di assemblaggi e di unità mobili. Al Festivalfilosofia di Modena la sinologa Anne Cheng traccerà anche un bilancio dei risultati di questi studi e di queste scoperte.

da left-avvenimenti  8-14 settembre

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Il salto culturale dei sapiens

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 20, 2012

Nessun gene dell’egoismo o della creatività. Alle origini del linguaggio, un processo evolutivo, in cui contano le relazioni umane. Parla Telmo Pievani, ospite del Festival della mente di Sarzana

di Simona Maggiorelli

Pitture rupestri, Chauvet, 32mila anni fa

Come nasce il linguaggio umano? Su questo annoso e affascinante tema il filosofo della scienza Telmo Pievani ( con Emanuele Banfi e Federico Albano Leoni)ha promosso un confronto fra linguisti e neuroscienziati all’università Bicocca di Milano. Left gli ha chiesto di fare il punto sui risultati del dibattito che ha coinvolto un parterre internazionale di scienziati. A settembre su questi temi lo studioso terrà una lectio magistrali al Festival della mente di Sarzana

Professor Pievani sui media, di recente, si fantastica di un gene dell’egoismo o dell’altruismo. Non si può pensare, piuttosto, che la maturazione cerebrale avvenga in relazione a stimoli ambientali, sociali, di rapporto? 

Suggerisco di diffidare sempre delle notizie del tipo “Scoperto il gene di”. Non ha più alcun senso ritenere che comportamenti sociali complessi abbiano una determinazione genetica lineare di questo tipo. Persino per il colore della pelle occorre un intero network di geni interconnessi, figuriamoci per l’egoismo o l’altruismo. Il genoma è la filigrana della vita, non un oracolo interno, né un surrogato dell’anima; è una componente di un sistema, non un’essenza senza tempo né contesto. La maturazione cerebrale, che avviene per una parte dopo la nascita (i nostri cuccioli nascono fragili e immaturi) è soggetta sia a un’impronta genetica ereditaria sia a influenze ambientali, sociali, familiari. In un intreccio inestricabile di innato e acquisito.

Nello sviluppo del linguaggio è importante il rapporto con la madre, lei scrive. Non a caso Kaspar Hauser e i “bambini lupo” cresciuti fuori dal rapporto umano non parlano. Tuttavia il bambino non è una tavoletta di cera…
Il linguaggio umano deve essersi evoluto nel genere Homo con un processo continuativo, se non vogliamo ricorrere a tesi miracolistiche o rassegnarci al mistero. Ma non abbiamo ancora modelli evoluzionistici adeguati per ricostruire questa dinamica. Anche se indizi ora vengono da ricerche di etologia cognitiva e paleoantropologia. E qui occorre distinguere tra filogenesi e ontogenesi: tra evoluzione delle specie e sviluppo individuale. Il rapporto con la madre è certo decisivo per lo sviluppo del linguaggio verbale. Ma la novità è un’altra. Anche negli studi che riguardano la filogenesi, noi sappiamo adesso che forse l’ambiente ideale per le sperimentazioni necessarie all’evoluzione del linguaggio non è stato solo il coordinamento per la caccia ma anche l’interazione tra madri e piccoli, come sostenne già anni fa Ian Tattersall e come ha scritto Dean Falk in Lingua madre. Dunque anche il linguaggio potrebbe essere legato all’allungamento dell’infanzia e dell’ adolescenza nei sapiens, che è maggiore rispetto a ciò che accade in scimpanzé e gorilla ma anche rispetto alle altre specie del genere Homo.

La fantasia, la capacità di immaginare, è specifica e originaria dell’essere umano?
Direi di sì, almeno da quanto vediamo dalla nascita del comportamento umano “cognitivamente moderno”, intorno a 40-50mila anni fa. Dopo le prime avvisaglie in Africa, l’innovazione sembra diffondersi con grande rapidità, facendo esplodere nei cacciatori raccoglitori sapiens (dall’Europa all’Australia) comportamenti del tutto inediti, cioè pitture rupestri, sepolture rituali, ornamenti, strumenti musicali, sculture, nuove tecnologie litiche. Le caratteristiche di questo cambiamento, forse portato da una popolazione di sapiens uscita dall’Africa circa 60mila anni fa (di cui conosciamo alcuni marcatori genetici), lasciano supporre che sia stata un’evoluzione culturale, più che biologica. E l’innesco di questa intelligenza simbolica potrebbe essere stato proprio il completamento del tratto vocale umano e lo sviluppo del linguaggio articolato tipicamente sapiens, con le sue proprietà ricorsive e astrattive che hanno aperto alla nostra mente nuove possibilità. Lì abbiamo imparato a inventare mondi alternativi nella nostra testa, e a condividerli con i compagni del gruppo. Ancora oggi nello sviluppo individuale, anche se spesso si fa di tutto per mortificarla, credo che la capacità di immaginare altri mondi possibili, scenari alternativi, sia il modo migliore per onorare la nostra evoluzione sapiens.
Negli studi sull’origine del linguaggio umano si parla perlopiù di linguaggio verbale e di pensiero cosciente. Ma il Big bang della nostra specie non è stata la capacità di creare immagini espressive, dalla risonanza profonda e di valore universale?
Sono d’accordo. Se verrà confermata l’ipotesi evolutiva che delineavo, il linguaggio verbale va associato a una più vasta competenza simbolica. Anch’io penso che la comparsa di segni e poi di rappresentazioni (sia realistiche che stilizzate) sia un indizio cruciale. La raffinatezza delle prime pitture rupestri e il loro contesto espositivo vanno oltre un significato sociale di valenza rituale. Sono la prova che lì è all’opera una mente umana inedita, con un rapporto nuovo con l’ambiente, capace di mescolare il ricordo vivido delle scene di caccia con una trama di messaggi simbolici condivisi dalla comunità. Senza nascondere che questa immaginazione è anche ciò che ci ha reso più espansivi e invasivi di qualsiasi altra forma umana.

 

Telmo Pievani

Uno studio apparso su Science ora spinge a retrodatare ai Neanderthal la prima arte rupestre. E c’è chi suppone una ibridazione fra Neanderthal e Sapiens. Può aver portato più varietà e capacità di risposta all’ambiente? E quale è stato il contributo della donna?
Lo studio non riguarda la scoperta diretta di arte rupestre neandertaliana, ma ipotizza una possibile associazione con popolazioni neandertaliane, quindi lo valuterei con cautela. I dati suggeriscono che il Neanderthal si stava avviando verso l’intelligenza simbolica: lo mostrano le possibili sepolture di Shanidar nel Kurdistan, l’uso di piume ornamentali nel sito di Fumane, il possibile flauto neandertaliano scoperto in Slovenia. Tuttavia, un conto è assumere questi comportamenti in modo globale e sistematico come fanno i sapiens, altro è farlo in modo occasionale. Forse era un inizio e non hanno fatto in tempo. Anche l’ibridazione tra le due specie è un modello in discussione, non tutti i genetisti ne sono convinti. Certo, scoprire che in certe fasi della nostra storia e in alcuni territori (si pensa al Medio Oriente) ci siamo accoppiati dando alla luce ibridi Sapiens/Neanderthal, capaci di procreare, è impressionante. Vorrebbe dire che nemmeno il nostro genoma è “puro”, tutto nostro, e che anche geneticamente siamo un mantello di Arlecchino con contributi diversi, che certamente ci hanno rafforzato in termini di variabilità e di difese immunitarie. Per tutte le specie, la diversità interna è una assicurazione per la vita, il combustibile di ogni cambiamento. Vale anche per le diversità di genere, che in campo evoluzionistico per fortuna sono andate ben al di là dello stereotipo dell’uomo cacciatore e della donna raccoglitrice. Dalla neotenia alle interazioni madre/figlio nello sviluppo del linguaggio, oggi l’evoluzione umana è vista senz’altro molto più “al femminile” di quanto non fosse in passato.

da left -avvenimenti

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Come nascono i popoli

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 9, 2012

Ultimo giorno oggi, 9 aprile, per visitare la mostra Homo Sapiens al Palaexpo di Roma.  Dal 28 aprile la bella rassegna curata da Telmo Pievani e Cavlli Sforza si trasferisce al Museo della scienza di Trento. Intanto l’antropologo e docente di filosofia della scienza dell’ Università Bicocca pubblica  per Laterza una nuova Introduzione a  Darwin

di Simona Maggiorelli

Mostra Homo sapiens

Le società umane non sono monoliti, ma organismi in evoluzione, le cui radici nel tempo sono tutte intrecciate fra loro» fa notare Telmo Pievani, anticipando i contenuti della conferenza che il 30 marzo il docente di filosofia della scienza dell’Università di Milano-Bicocca ha tenuto a Genova, nell’ambito de festival la Storia in piazza. Una rassegna dedicata alla storia passata e presente dei migranti, con interessanti finestre sul passato più remoto della specie umana e sulle prime migrazioni dei Sapiens, di cui in questa occasione parleranno Cavalli Sforza e altri noti antropologi e genetisti. «Grazie all’inedita convergenza di dati scientifici differenti, dai geni ai fossili alle lingue, è oggi possibile indagare le tante storie nascoste che hanno preceduto la Storia con la maiuscola che abbiamo studiato a scuola» approfondisce Pievani.

«Scopriamo così che il movimento nello spazio geografico ed ecologico è stato il processo alla base della nascita dei popoli e il principale motore della diversità umana». E non solo. «Da un piccolo gruppo di pionieri africani», sottolinea lo studioso, «è scaturito il più sorprendente esperimento di diversificazione culturale mai registrato nell’evoluzione, con più ondate di popolamento a partire dal Corno d’Africa, espansioni di piccoli gruppi, oscillazioni demografiche, improvvise fiammate di innovazione culturale, catastrofi ambientali che hanno messo a repentaglio la nostra sopravvivenza, convivenze con altre forme umane fino a tempi recenti, colonizzazioni di nuovi mondi, in uno scenario inedito che promette di modificare profondamente la nostra concezione della “preistoria”».

 Un tema, quello dell’evoluzione umana, che Telmo Pievani di recente ha affrontato anche in una mostra al Palazzo delle Esposizioni di  Roma  fino al 9 aprile ( e dal 28 aprile al 4 novembre al Museo delle Scienze di  Trento  e in un nuovo libro, Introduzione a Darwin. Uscito lo scorso febbraio per Laterza, il volume, che si avvale di lettere, diari e documenti inediti, offre un ritratto personale e “intimo” del padre dell’evoluzionismo (nato il 12 febbraio del 1809) presentandolo come «un uomo schivo che riuscì a cambiare per sempre il nostro modo di intendere la natura, e il posto della specie umana in essa». Mettendo insieme biografia e pensiero di Charles Darwin, Pievani evoca la giovinezza spensierata (senza troppa voglia di studiare) del futuro scienziato, raccontando poi di quel viaggio avventuroso di cinque anni che lo portò attorno al mondo e di un secondo viaggio londinese, questa volta tutto mentale, all’inseguimento di un’intuizione rivoluzionaria e inconfessabile. E che si tradusse in venti lunghi anni di silenzio operoso nella campagna del Kent.

Poi la scomparsa della figlia amatissima e un precipitare di eventi fino alla imprevista lettera di un potenziale rivale, che aveva tutta l’aria di volergli rubare le idee più innovative. Un fatto che, se non altro, spinse Darwin ad affrettarsi a pubblicare i risultati dei suoi studi. Nel raccontare i contenuti delle ricerche dello scienziato britannico, Pievani non trascura tuttavia la cronaca del successo mondiale dell’Origine delle specie, né tanto meno lo scandalo che suscitò nella “buona società” dell’epoca, religiosa e conservatrice. Il fatto è, ricorda Pievani in questo agile libro, che Darwin ha dato il via a una rivoluzione non solo scientifica, ma anche filosofica e culturale. Una rivoluzione che ancora oggi trova nei seguaci delle religioni monoteiste i suoi più accaniti (e anacronistici) oppositori.

da left-avvenimenti

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Babilonia, la prima metropoli cosmopolita

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2012

di Simona Maggiorelli

Babylon, gate of Ishtar

Culla della civiltà e straordinario melting pot di culture diverse, la Mesopotamia nella storia è stata duramente attaccata dall’Occidente. Tanto che per secoli cronache e dipinti l’hanno raccontata come il Male, come terra di peccato e di perdizione. Negando il valore della civiltà babilonese e le sue straordinarie realizzazioni in campo architettonico e culturale. Ma anche quell’intelligente lavoro di riassorbimento del passato sumerico e di reinvenzione delle altre tradizioni che, invece, aveva permesso a Babilonia di crescere rapidamente, diventando fra il II e  il I millennio a C., la capitale di Hammurabi e faro di tutto il Medio Oriente.

Così, mentre i testi cuneiformi la raccontano come città del bene, della convivenza pacifica fra i popoli, ma anche come luogo delle meraviglie, fucina delle arti, della letteratura, della poesia, della astronomia e della medicina, la tradizione biblica  ne ha  tramandato un’immagine deformata, frutto di una perversa rivisitazione ideologica.

E negli affreschi medievali, ma anche in opere di maestri come Bruegel o Rembrandt, gli svettanti ziqqurrat della capitale pagana appaiono tramutati in diroccate torri di Babele su cui si scaglia la maledizione divina, i ricchi palazzi diventano oscuri harem dove si consuma ogni tipo di violenza, i luminosi giardini pensili appaiono inquietanti e labirintici. E questo è accaduto per un arco di tempo lunghissimo, che va dai Salmi fino a Borges con la sua metafisica Biblioteca di Babele. E ancora oltre.

Ishtar/Inanna

Ishtar/Inanna

Come ricostruisce l’archeologo Paolo Brusasco nel libro Babilonia. All’origine del mito (Raffaello Cortina). Un affascinante lavoro multidisciplinare in cui il docente di storia dell’arte del Vicino Oriente dell’Università di Genova ricostruisce la verità storica di Babilonia, mostrando come il mito che l’Occidente ha costruito sia servito «ad esorcizzare le proprie paure» e continui a gettare ombra sul presente. Non a caso uno dei primi capitoli del libro è dedicato a una «autopsia del disastro in Iraq», dopo un ventennio di guerre e l’invasione anglo-americana.

La missione “civilizzatrice e democratica” targata Usa, come è noto, si è tradotta anche nell’occupazione militare del sito di Babilonia, distruggendo ogni possibilità di leggere filologicamente la stratigrafia. Un po’ come se i talebani fossero sbarcati a Pompei, suggerisce il professore. E senza che da parte degli organismi internazionali ci sia stata adeguata attenzione. E oggi, dopo che le truppe anglo-americane hanno lasciato il Paese, cosa sta realmente accadendo? «La situazione è ancora molto inquietante – denuncia Brusasco – Anche perché è impossibile stimare la reale entità dei danni che migliaia di siti archeologici stanno tuttora subendo. Una mia analisi del commercio telematico di antichità mesopotamiche dimostra la presenza di numerosissimi reperti sumerici e assiro-babilonesi verosimilmente finiti sul web in modo illegale. Anche le contrapposizioni etnico-confessionali (tra curdi, sciiti e sunniti etc.) hanno un peso nella mancata tutela del patrimonio culturale: sia la ricognizione dei Carabinieri del nucleo per la tutela che quelle del British Museum sotto l’egida dell’Unesco hanno messo in luce il perdurante saccheggio dei siti sumerici e babilonesi dell’alluvio meridionale (il biblico Eden) da parte di tribù sciite impoverite da anni di embargo e guerre. Per tacere dell’ennesima riapertura “propagandistica” dell’Iraq Museum, cinque mesi fa, in occasione di una mostra sulla scrittura cuneiforme, senza una preventiva messa in sicurezza delle strutture espositi

Tavoletta di argilla babiloneseNel libro Cultural cleansing in Iraq un gruppo di intellettuali scrive che l’invasione anglo-americana è stata un deliberato attacco all’identità storica dell’Iraq. E ha comportato «l’annientamento del patrimonio iracheno e della sua classe». Ma quale minaccia può mai rappresentare Babilonia oggi?

«Questo ed altri importanti siti antichi del Paese- spiega Brusasco-«sarebbero una minaccia in quanto simboli della grandezza del regime sunnita dell’ex dittatore Saddam Hussein che ne aveva fatto delle icone della sua propaganda politica :la cosiddetta mesopotamizzazione dell’Iraq. Distruggere questi simboli, con una vera e propria operazione di pulizia culturale, permetterebbe una riformulazione del concetto di nazione irachena più in linea con gli interessi Usa, per il petrolio e il controllo geopolitico del Medio Oriente. Una nazione che, privata della fierezza della propria memoria storica, diverrebbe uno stato vassallo, asservito agli interessi anglo-americani; i quali del resto non possono vantare un passato altrettanto straordinario.

Nella storia occidentale affiora l’immagine di un Oriente seducente e misterioso. Più spesso però il pregiudizio è stato violento. Il mito della torre di Babele lo testimonia?

I Greci lo vedevano come esotico, non senza una forte seduzione. Le invettive dei profeti contro Babilonia, «la madre delle prostitute», sono state amplificate a partire dalla cattività babilonese dal 597 al 538 a.C. E Babilonia è stata investita dal mito della confusione delle lingue dei popoli costruttori della torre di Babele, nella realtà la ziqqurrat Etemenanki, la “Casa delle fondamenta del cielo e della terra”. Fu un ribaltamento effettivo della realtà storica: la torre era il simbolo della prima città cosmopolita della storia alla cui costruzione cooperarono le migliori maestranze dell’impero, che, al contrario, si comprendevano grazie alla lingua franca dell’epoca, l’aramaico. Ma per gli esuli ebrei la torre era un idolo pagano dedicato al dio Marduk e un affronto al dio unico Jahvè.

Babilonia era la grande meretrice. E Semiramide era la lussuria. L’Occidente era scandalizzato dall’immagine e dall’identità che la donna aveva nella cultura babilonese, dove la stessa dea Ishtar rappresentava una sessualità femminile più libera e “attiva”?

babilonia secondo Brueguel

La «figlia di Babilonia» dei profeti si materializza in una donna in carne e ossa, «la grande prostituta». Vedere Babilonia come di genere femminile, e come corrotta e peccatrice, è una equazione rivelatrice della mentalità che echeggia nella Bibbia. L’esistenza di donne di grande potere in Mesopotamia doveva avere colpito anche i Greci che costruirono il mito della licenziosa Semiramide, la femme fatale costruttrice di Babilonia. L’eroina è un personaggio leggendario, un concentrato di valenze storiche, ispirato alle regine assire (Shammuramat e Nakija) e mitiche, dietro la quale si cela l’energia sessuale e guerriera della dea Ishtar, assai cara alla tradizione popolare babilonese. I profeti ebrei e i sapienti greci, tra cui anche Erodoto, rimasero scandalizzati anche dal costume babilonese della prostituzione sacra: in realtà si trattava di una unione sessuale (la ierogamia) di carattere apotropaico celebrata a Capodanno per rigenerare le forze stagionali della natura. E sottendeva al potere erotico del femminile come elemento culturale primario, lontano da una semplice valenza istintuale: le prostitute erano considerate le principali educatrici degli uomini non civilizzati, e i miti mostrano una sostanziale simmetria tra i sessi, entrambi emersi dalla terra o da un corpo” androgino” (amilu, “essere umano”).

Che differenziava l’ Afrodite greca, Ishtar/ Inanna sumerico accadica e Astarte fenicia?

Originano tutte da una primigenia divinità madre preistorica, la cui valenza sessuale attiva e procreatrice si unisce ad aspetti distruttivi e ctonii, legati all’oltretomba, man mano che si sviluppano civiltà sempre più complesse. L’Inanna/Ishtar babilonese è l’archetipo da cui si generano tradizioni fenicie, greche, romane ed etrusche indipendenti. L’Astarte fenicia è la trasposizione tout court della Ishtar babilonese, l’Afrodite greca ha una valenza legata alla spuma del mare primigenio, mentre Ishtar è anche la stella del pianeta Venere e ha quindi forti connotazione astrale.

Paolo Brusasco

Nel libro lei si occupa del poema d’Agushaya e della danza sfrenata che le era associato. Alcuni aspetti della cultura babilonese possono aver influenzato, direttamente o indirettamente, regioni del nostro Meridione?

«Il leone di Ishtar si è calmato, il suo cuore si è placato». Così chiude il poema dedicato alla Ishtar guerriera, ovvero Agushaya, dal sovrano babilonese Hammurabi (1792-1750 a.C.), dopo avere conquistato il mondo allora conosciuto. Il rito aveva lo scopo di placare il furore bellico del sovrano, come pure appianare le tensioni sociali esistenti all’interno della comunità, dal momento che prevedeva una danza catartica collettiva del popolo in festa. Non possiamo postulare un collegamento diretto con rituali del nostro meridione quali, per esempio, il tarantolismo pugliese, anche se la forma cristianizzata del tarantolismo richiama l’antichissimo sottofondo pagano della Magna Grecia, probabilmente debitore di influssi orientali. Negli ultimi anni risulta sempre più chiaramente la profonda ricchezza di contatti nel mondo antico. Per non fare che un esempio: la recentissima scoperta nel santuario fenicio di Astarte a Tas-Silg (Malta) di un amuleto babilonese di agata, recante un’iscrizione cuneiforme del 1300 a.C., testimonia di incredibili contatti tra Oriente e Occidente la cui natura e dimensione restano in via di definizione. Certo non si può disconoscere il ruolo giocato dai marinai e mercanti fenici nell’esportazione verso il Mediterraneo occidentale di culti orientali quali quello di Astarte/Ishtar, con tutte le implicazioni culturali che ne derivano.

da left-Avvenimenti

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I passi silenziosi di Chen Zen

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 15, 2011

Negli spazi  della galleria arte Continua a San Gimignano, fino a gennaio, una importante retrospettiva del cinese Chen Zen. Artista “cult” che negli anni di esilio a Parigi ha molto riflettuto sui temi esistenziali e di gande respiro filosofico Tra Oriente e Occidente

di Simona Maggiorelli

chen zen

Somparso prematuramente a Parigi nel Duemila e presto diventato una figura quasi mitica dell’arte contemporanea internazionale, Chen Zen è ricordato ora in una intensa retrospettiva organizzata da Galleria Continua a San Gimignano: lo spazio d’avanguardia che per primo l’ha portato in Italia facendo conoscere il lavoro di questo schivo e appartato artista cinese anche da noi.
Con il titolo Les pas silencieux – che ben rappresenta l’attraversamento di Chen Zen, quasi in punta di piedi, della scena di fine Novecento – questa antologica riunisce (dal 10 settembre al 28 gennaio) alcune delle opere più significative realizzate fra il 1990 e il 2000. Così, nel suggestivo spazio dell’ex cinema teatro dell’Arco dei Becci – sul palcoscenico, in platea, nelle sale attigue e nel giardino – si ritrovano disseminate sculture emblematiche come la serie di ideogrammi di cera che, in forma di fragili casette,  evocano poeticamente una lingua madre da abitare, ma anche ormai lontana e quasi irreale, come fredda e astratta risuonava la parola “patria” alle orecchie di Chen Zen che dal 1986  viveva esule in Francia.

chen zen house

Ma qui a San Gimignano si ritrovano anche gli strani strumenti musicali costruiti con materiali poveri, con cui Chen Zen, riprendendo antiche tradizioni della Cina pre-imperiale, invitava idealmente il pubblico a crearsi un proprio percorso di “musicoterapia” utilizzando il contrasto fra le risonanze scure e profonde di tamburi e  quelle chiassose delle campane. Che si tratti di sculture sonore (come Un interrupted voice del 1988 o come la Biblioteche musicale del 2000) o che si tratti di aeree installazioni luminose (come Le bureau de change del 1996, ricreato in questa mostra) oppure di strane creature di vetro, leggere e trasparenti, come quelle della collezione Pinault, troviamo sempre un filo rosso di riflessione filosofica ed esistenziale a legarle in un percorso unitario. Un pensiero che Chen Zen attingeva alla più antica tradizione culturale cinese riletta alla luce di un’esperienza personale spesso anche dura, fatta di sradicamento e poi anche di lotta contro la malattia dopo che, all’età di venticinque anni, gli fu diagnosticata una anemia emolitica.

Negli ultimi tempi, in modo particolare, l’opera di Chen Zen cercò di nutrirsi anche di questa esperienza tentando di darle un significato. Mentre accanto alla dialettica bipolare fra  yin e yang, si affacciavano sempre più spesso temi della filosofia buddista. Come racconta l’opera Six Roots/Memory del 2000 qui riproposta e che rappresenta i sei stadi della vita secondo la tradizione  buddista.

da left -avvenimenti

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Ferraris: Shakespeare era un fuoriclasse

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 27, 2011

Fussli, Calibano

Fussli, Calibano

Il pazzo, l’amante e il poeta, sono impastati di immaginazione recita il sottotitolo della lectio magistralis che Maurizio Ferraris tiene il 19 settembre a Sassuolo. Con un chiaro omaggio al Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare e più in generale agli artisti che certamente, nei secoli, hanno frequentato la fantasia assai più dei filosofi. «Comunque sia – chiosa il professore – i filosofi hanno scritto sull’immaginazione più di qualunque altra categoria professionale».
Anche lei, anni fa, ha dato il suo contributo scrivendo l’Immaginazione (Il Mulino). Mi incuriosiva la sua distinzione fra un’immaginazione riproduttiva e un’immaginazione che si pone come atto creativo originale.
L’immaginazione puramente riproduttiva, intesa come memoria, è certo un’altra cosa dall’immaginazione produttiva. Ma il grande creatore è anche uno che dispone di vasti archivi nella propria mente. Una volta Eco ha detto una frase che trovo molto giusta:«Non è vero che il genio non ha regole, ne ha molte più degli altri». Il genio è uno che ha più memoria di altri. C’è un passo di Leibniz nei Nuovi saggi sull’interesse umano in cui dice: «Chi ha visto più figure di piante e di animali, di fortezze e di palazzi, di navi e di strumenti, sa più cose di chi non ha mai visto queste figure». Se la prendeva con Cartesio che diceva che se tu non hai un’idea chiara e distinta di qualcosa e hai solo un’impressione vaga non sai nulla.
Anche Shakespeare conosceva molti canovacci, molte storie antiche che poi abilmente rimestava, però i suoi testi teatrali hanno una forte originalità. La trasformazione dei materiali è totale.
Sì certo. È che tutti abbiamo due gambe, poi uno solo fa il record dei cento metri. Pensiamo ai due personaggi più privi di immaginazione che la letteratura abbia immaginato: Bouvard e Pécuchet. Sono agli antipodi di don Chisciotte, due archivisti del tutto privi di immaginazione. Eppure in quel gioco fantastico che Flaubert gli fa fare di recuperare tutte le scemenze dell’universo e di archiviarle rivelano una genialità assoluta.
Fra i filosofi chi ha cercato di riscattare la fantasia dalla condanna platonica e aristotelica?
Sono stati in molti a parlar bene della fantasia, in realtà. In primis i romantici.
Anche se la sua ricerca si ferma all’analisi del cosciente, Husserl ha dato un contributo positivo quando ha parlato di intenzionalità alludendo alla possibilità di una visione più profonda delle cose?
È stato il grande filosofo dell’immaginazione. Le ha dedicato 500 pagine durissime e però illuminantissime. Dove fa vedere che in fondo se possiamo concepire delle azioni morali è anche perché disponiamo di immaginazione. Perché se non ne avessimo e ci ricordassimo solo quello che abbiamo fatto non potremmo immaginare quello che avremmo potuto fare. Sarebbe una sorta di determinismo indotto dalla mancanza di immaginazione. Sul piano teoretico poi ci ha fatto vedere come l’immaginazione sia fondamentale per arrivare all’essenza delle cose.
Bachelard parla della potenza dell’immaginazione, ma poi resta prigioniero di schemi ipostatizzati di archetipi. Qual è stato il suo contributo?
Il suo merito è stato l’aver lavorato molto su come delle immagini contino all’interno della produzione scientifica. È una cosa ovvia: gli scienziati non sono mica macchine. Sono esseri umani come tutti gli altri che si fanno guidare dall’immaginazione. Sappiamo che addirittura ci sono invenzioni tecniche sognate dagli inventori. Simona Maggiorelli

Left 38/08 19 settembre 2008

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Quando l’artista diventò un’icona

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 9, 2011

A proposito della querelle aperta dal critico Jean Clair sulla morte dell’arte contemporanea, ridotta a gadget di lusso da artisti come Murakami, Hirst, Koons and Co.: nei mesi scorsi abbiamo affrontato più volte questo tema sulle pagine del settimanale Left-Avvenimenti. Per proseguire la discussione ecco alcune riflessioni a proposito del lavoro del filosofo Arthur Danto sulla fine dell’arte.

di Simona Maggiorelli

Andy Warhol

La morte delle arti visive così come si sono sempre intese è un fatto evidente ed acclarato secondo il filosofo Arthur C. Danto (classe 1924), che ha elaborato questa tesi in libri come Andy Warhol (Einaudi) e Dopo la fine dell’arte (Bruno Mondadori). Secondo l’analisi del pensatore e critico d’arte americano negli anni Sessanta si è compiuto un drastico cambio di paradigma nel mondo dell’arte.

Non solo un certo tipo di narrazione per immagini di tipo ottocentesco si è esaurita ma, secondo Danto, è finita anche la spinta propulsiva delle avanguardie. Fino ad arrivare a un vero e proprio dissolvimento di un certo modo di fare ricerca.

«L’arte doveva morire per poi rigenerarsi con nuovo pensiero», scrive Danto. Individuando in Andy Warhol il killer che con il suo nihilismo riuscì a fare tabula rasa. «l’arte morì quando la Pop art reputò ogni oggetto e ogni forma comunicativa degna di essere considerata arte», nota ancora il filosofo.

Più di Duchamp che con i suoi orinatoi da museo cercava la bizzarria, lo choc, lo spiazzamento del pubblico, Warhol con le sue gigantografie di dive e banconote minuziosamente riprodotte, cercava il consenso di un pubblico vasto e in particolare di quella middle class che, negli anni del boom economico non aveva aspirazioni culturali ma solo di consumo. Lui l’accontentò operando la trasfigurazione dell’ordinario e del banale. In più, portando nell’arte le istanze del “supercapitalismo” occidentale, diventò egli stesso un’icona pop, un personaggio che negli Usa richiamava folle da rockstar.

Nel 1965 questa metamorfosi, in Warhol, era già compiuta, anticipando il ‘68. Analisi stringente, ficcante quella che ci propone Danto, ma anche leggendo la monografia Arthur Danto, un filosofo pop (Carocci) di Tiziana Andiana viene da chiedersi se si renda conto, fino in fondo, delle conseguenze di ciò che ha scritto.

Per Warhol esisteva solo la superficie delle cose, secondo un suo famoso motto. Non c’era nulla di latente da intuire oltre la materia. E su questa base rottamò i suoi inizi da pittore espressionista e ogni ricerca sull’inconscio. Ma con il suo brutale positivismo come avrebbe potuto inaugurare una nuova fase e un nuovo pensiero nell’arte? L’impostazione razionale da filosofo analitico qui sembra impedire a Danto di immaginare ogni possibile superamento della crisi delle arti visive e degli standard raffreddati e iperazionali imposti dall’attuale sistema dei musei.

dal settimanale left-avvenimenti

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La filosofia del copia incolla

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 12, 2011

Con stringente analisi documentale, Francesco Bucci denuncia in un libro appena uscito per Coniglio Editore come Umberto Galimberti scrive i suoi saggi e i suoi articoli: riusando (senza citare) brani propri e altri. Eccone l’incipit

di Francesco Bucci

Umberto Galimberti

Gli scritti di Umberto Galimberti celano un segreto che questo libro svelerà. Galimberti sapeva da sempre, ne sono convinto, che ciò prima o poi sarebbe accaduto. Anzi rendendo il segreto nel corso del tempo sempre meno nascosto, lasciandolo sempre più intravedere, fornisce l’impressione di aver addirittura voluto creare le condizioni per la sua scoperta. Come se volesse liberarsene. Eppure il segreto resiste da oltre trent’anni. Indurre a ragionare sul perché di questo fatto singolare è uno degli obiettivi del libro. L’altro è far emergere le implicazioni filosofiche del suo disvelamento. Ritengo infatti che l’analisi che faremo dei testi galimbertiani possa fornire spunti di un qualche interesse per una riflessione sul linguaggio e sul significato di certa filosofia contemporanee, fatta su basi del tutto originali, perché di tipo esclusivamente documentale.

Scioglierò subito la suspense ricorrendo a una sorta di apologo. Un fedele un giorno si accorge che il parroco ripete nei suoi sermoni, ad intervalli di tempo più o meno lunghi (anche a distanza di poche settimane) gli stessi discorsi. Non già gli stessi argomenti, ma proprio le stesse frasi, magari solo in un ordine diverso. Incuriosito il fedele inizia a seguire le prediche con più attenzione, finendo così per fare sorprendenti scoperte: il parroco trae dalle stesse premesse conclusioni diverse; dice le stesse cose a proposito di cose diverse…o cose diverse a proposito della stessa cosa. Attribuisce a San Tommaso ciò che altre volte ha attribuito a Sant’Agostino e così via. Il fedele volge allora lo sguardo attorno per cogliere sul volto degli altri l’espressione dello stesso stupore che egli prova. Ma con meraviglia si rende conto che essi non solo non manifestano nessuna reazione, ma continuano ad ascoltare con interesse le parole del parroco. S’insinua quindi nella mente del fedele il dubbio che forse è lui a sbagliarsi… Ma dopo averlo ascoltato con la massima attenzione per qualche altra settimana, si convince definitivamente che sono proprio i sermoni del parroco che non vanno. Decide per tanto di andare a parlargli per chiedergli spiegazioni… entrando senza preavviso in sagrestia lo scorge intento a rovistare in una vecchia cassapanca. Avvicinandosi silenziosamente vi vede dentro centinaia di fogli e foglietti ammucchiati alla rinfusa contenenti appunti che – scritti in passato – il sacerdote usa e riusa per le sue prediche, pescandole dalla cassapanca poco prima dell’inizio della messa. Il fedele così nel trovare conferma di essere nel giusto scopre anche la causa delle strane prediche del parroco. Gli resta però da capire non tanto i motivi del comportamento di questi (che afferendo alla sfera privata non gli interessano), quanto perché le assurdità delle sue prediche non suscitino sconcerto nell’uditorio. Piano piano comincia a formulare delle ipotesi. Forse le strampalate chiacchiere del sacerdote vengono prese per dotte disquisizioni teologiche, talmente sofisticate da non consentire di coglierne un significato; forse l’oscurità viene considerata frutto di profondità e di complessità di pensiero; forse le contraddizioni vengono ritenute solo apparenti, non essendo concepibile che un uomo così colto cada in banali errori logici: ma se così fosse si dovrebbe concludere, si chiede il povero fedele in crescente difficoltà, che il discorso religioso è in sé tale da poter accogliere impunemente nel suo ambito parole vane o prive di senso? Ebbene ecco svelato il segreto: U.G. nei suoi scritti si comporta spesso non molto diversamente dal parroco del racconto. E la mia scoperta è avvenuta in modo non molto dissimile da quella del parrocchiano. Anch’io ho iniziato a percepire nei discorsi di U g quanto non andava, leggendo settimanalmente la sua rubrica di corrispondenza sul settimanale del sabato de La Repubblica. Anch’io a quel punto ho iniziato a leggere con attenzione ciò che andava scrivendo e ciò che aveva scritto in passato (articoli, libri, recensioni ecc.). Anch’io, infine, ho così scopertola cassapanca di U. G:, l’archivio storico dei suoi scritti. E’ da lì che egli ha assai spesso attinto materiali per la costruzione di scritti successivi con esisti , sul piano dei contenuti, del tutto analoghi a quelli del racconto.

tratto dal libro Francesco Bucci Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale, Coniglio Editore

L’INTERVISTA . Francesco Bucci: ” Il successo dell’autore de La casa di psiche  nasconde una totale  assenza  di pensiero”

DIETRO? C’E’ IL VUOTO

di Simona Maggiorelli

Capita che un lettore appassionato di filosofia e che da anni, ogni mattina, compra il quotidiano La Repubblica, vedendosi proporre sovente elzeviri e articolesse a firma di Umberto Galimberti, sia stato preso dal ghiribizzo di provare a leggerne qualcuno. Accorgendosi, via via con crescente stupore, di trovarvi  un coacervo di contraddizioni, di brani riciclati, già pubblicati altrove e riproposti, anche a breve distanza di tempo, cambiando solo qualche parola chiave. E non solo. Di articolo in articolo il romano Francesco Bucci (dirigente della pubblica amministrazione che nel tempo libero ama leggere «soprattutto saggi») scopre che il professor G., docente universitario e facondo autore per Feltrinelli, non solo copia da sé e da altri autori, ma manipola pesantemente i testi. Clona,  decontestualizza, stravolge. Facendo lo specchio ad altri e anche a se stesso. Giocando con le parole senza più rapporto con le cose. Con un manierismo che sembra imitare Heidegger ma anche il gusto per il neologismo ossimorico, per i corto circuiti di senso alla Jacques Lacan. Alla fine, facendo precipitare quel lettore che cerchi un senso in quegli scritti in un labirinto senza via di uscita. «Galimberti è il funambolo delle parole, ne fa un uso  “ludico” finendo per svuotare di contenuti ciò che dice», commenta Bucci che abbiamo raggiunto al telefono mentre il suo Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale (Coniglio Editore) sta andando in stampa.
Nel suo libro, con una straordinaria messe di prove documentali, fa emergere come Galimberti componga i suoi testi. Cosa si nasconde dietro un imbarazzante procedere per “copia-incolla”?
Un vuoto assoluto di pensiero. Dopo aver letto e studiato praticamente tutto di Galimberti sono giunto alla conclusione che il suo sia un pensiero parassitario che si nutre in modo paradossale di altri autori.
Nel libro lei scrive che La casa di psiche contiene testi riciclati all’80%, L’ospite inquietante quasi al 100% e nell’ultimo I miti del nostro tempo appaiono “prestiti” non dichiarati da Aime, Basaglia, Baudrillard, Brogna, Rovatti , Yunis  e molti altri.
«Che male c’è, filosofare è un po’ copiare» ha detto Gianni Vattimo. Diversamente da lui io penso che sia necessario un apporto di proprie elaborazioni. Nei libri di Galimberti, invece, si trova il nonsense, un patchwork senza costrutto. L’ospite inquietante, per esempio, è un libro privo di qualsiasi filo logico. La casa di psiche poi è davvero sorprendente: recupera e accosta opere anche di dieci anni prima e in cui si sostengono tesi completamente diverse, addirittura opposte. Quelli di Galimberti sono dei libri Frankenstein, dei mostri. E la cosa assurda è che a questi testi vengono dedicate  recensioni da illustri intellettuali e, a quanto pare, quei libri poi vengono acquistati in centinaia di copie. Altrimenti perché Feltrinelli li pubblicherebbe?
Come spiega questo successo di vendite?
La vedo legato alla forza mediatica, ai passaggi in tv di Galimberti, ma anche e soprattutto alla sua dilagante presenza su La Repubblica. Dispiace dirlo ma Eugenio Scalfari è il principale responsabile di tutto questo, avendo dato fin dal 1995 a Galimberti uno spazio enorme. Ed è durato fino a pochi mesi fa. Per anni, insomma, paginate e paginate su una delle testate italiane più importanti. Così Galimberti è diventato una sorta di guru.
L’illuminista Scalfari ha scritto encomi sperticati dei libri dell’heideggeriano Galimberti. Nel libro lei scrive anche: «A Scalfari è completamente sfuggita la “dissociazione intellettuale” manifestata da Umberto Galimberti»….
Paradosso emblematico; mi domando ancora come sia possibile. Che Scalfari abbia frainteso? Secondo me, banalmente, non ha letto i libri del Nostro. E qui il discorso si amplia all’industria culturale e a come funziona . Dall’altra parte mi è capitato di parlare con intellettuali che ammettono di aver letto qualche articolo di Galimberti ma non  i suoi libri. Perlopiù non entrano nel merito, non lo criticano, lo ignorano, non lo valutano, non leggono 600 o 700 pagine di Psiche e techne, piene di oscurità e contraddizioni,
E’ stato difficile trovare un editore per questo suo libro-denuncia?
Il libro è pronto da quasi due anni, ho bussato a molte porte.
Continuerà il lavoro di collazione dei testi galimbertiani e di affini?
Questo lavoro è stato estenuante…
Cosa si aspetta dall’uscita del libro?
Spero che ci siano reazioni molto accese, il caso merita che si apra un dibattito. Ma anche perché si toccano aspetti che riguardano il mondo accademico chiuso in un sistema di autodifesa. E per quanto riguarda la filosofia ancora segnato dal postmodernismo, dal decostruzionismo, da un certo bla bla da cui anche Galimberti ha tratto vantaggio.
Da lui ha avuto qualche risposta?
Nel 2008 ho scritto via mail al direttore di Repubblica Ezio Mauro facendogli presente, con lettere documentate, cosa andavo scoprendo sugli scritti di Galimberti. Benché non abbia avuto risposta, ho continuato a informarlo. Ad un certo punto mi arriva una mail del professor G. che recita pressapoco così: “Il direttore mi dice che lei si lamenta del fatto che io riproduca testi già editi. Quando i temi sono più o meno gli stessi è si giunti a una riformulazione completa è inutile rimettereci le mani”…Poi aggiungeva complimenti alla mia acribia di lettore concludendo con un “le prometto che non lo rifarò più”. Da rimanere basiti. Siamo al surreale…

DA LEFT-AVVENIMENTI 13 aprile 2011

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