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Le radici dionisiache dell’Europa

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 31, 2011

Alle origini del pensiero greco.  Indagando il tema della follia nell’epos e nei culti dall’Oriente , Un incontro con il gregista Guido Guidorizzi che, dal3 al 5 settembre, saràfra i protagonisti del Festival della mente di Sarzana

di Simona Maggiorelli

arte minoica. affreschidall'isola di Thera, 1650 a.C

Dopo aver curato il volume Il mito greco uscito l’anno scorso nei Meridiani Mondadori, Giulio Guidorizzi torna in libreria con un nuovo libro, Ai confini dell’anima, dedicato ai Greci e alla follia e pubblicato nella collana di Raffaello Cortina diretta da Giulio Giorello. Un saggio dove l’ordinario di Teatro e drammaturgia dell’università di Torino prova ad approfondire la complessa koiné culturale della Grecia arcaica, prima della cosiddetta nascita del logos. Dedicando ampio spazio allo studio della potenza espressiva e icastica dell’epos più antico ma anche alla ricerca sui culti di Dioniso documentati anche nella cultura minoica.

Giulio Guidorizzi con Eva Cantarella a Firenze

«Nella Grecia delle origini – annota il grecista torinese nel suo nuovo lavoro – lo statuto della follia oscilla fra due estremi», dal momento che non fu intesa solo come «cedimento della ragione» ma anche «come incontro con sfere nascoste della mente». Tanto che la parola “follia” si legava a culti estatici, era alla base dell’attività dei profeti e perfino di politici; era la voce degli oracoli. Insomma, parafrasando Shakespeare, chiosa lo studioso, «c’era del metodo in quella pazzia che ispirava poeti e cantori».
Professor Guidorizzi, i Greci delle origini inventarono la follia, lei scrive. Come accadde?
I Greci inventarono anche la filosofia, del resto. Appunto nel definire i confini della ragione e nello studiare i procedimenti logici della mente, necessariamente, incontrarono il mondo della non-ragione e tentarono di farne conoscenza. L’idea che la pazzia sia una vera e propria malattia, dell’anima (come dicevano i filosofi) o del cervello (come dicevano i medici), compare per la prima volta, nella storia della civiltà occidentale, nel V secolo a.C., ovvero il secolo di Pericle e Socrate. Da allora in poi, ragione e follia apparvero come due facce contrapposte dell’uomo: o si è folli o si è sani di mente. Però, la sapienza greca arcaica non aveva confini così netti; in Grecia, tra l’altro, non vi fu mai la reclusione o l’emarginazione dei folli, anzi, la follia fu considerata, in alcuni casi, come un mezzo per forzare i limiti della coscienza e dilatare la personalità. Un mezzo, anche, per esplorare i confini dell’umano, scavalcando la ragione.
Dal suo libro emerge che il mito di Dioniso non giocò un ruolo affatto marginale nella cultura greca. Dunque, Nietzsche in certo modo aveva visto giusto?
Credo che, dopo Nietzsche, Dioniso sia tornato a essere un patrimonio della nostra civiltà. L’Illuminismo aveva escluso dalla cultura ciò che non è pienamente razionale ma Dioniso dimostra il contrario: anche la non ragione può entrare nella sfera della civiltà. Ai margini: né completamente dentro né completamente fuori. Il Dioniso dei Greci aveva molte facce, era un dio della vegetazione, un profeta, un dio civilizzatore; noi oggi tendiamo a vederne soprattutto una faccia: la forza irresistibile e involontaria che consente di uscire da se stessi, di superare i limiti della personalità per ritrovare l’armonia a cui aspiriamo e da cui la civiltà ci ha inevitabilmente separato. E’ davvero un modo diverso di concepire il mondo: perché il fatto davvero speciale è che Dioniso non è il dio della follia ma il dio alla cui natura profonda apparteneva il fatto di essere folle lui stesso.
«Dioniso non è Era che si compiace del suo potere “gettando la follia su altri”, si legge nel suo Ai confini dell’anima. La follia dionisiaca, dunque, era ben diversa dallo “stare male” che Era induceva?
Come avviene generalmente nelle culture primitive, i comportamenti anormali e inspiegabili sono visti in termini di intervento esterno: arriva un demone, entra nel corpo di un uomo e poi così come è arrivato se ne va. Nel frattempo, un uomo è un posseduto o (come dicevano i Greci) un éntheos, un “uomo dentro cui abita un dio”. Ma questo dio si manifesta in forme diverse. La follia mandata da Era è truce e distruttiva, quella di Dioniso è gioiosa, può essere talora sanguinaria ma comporta anche l’idea di una conoscenza e di rinascita.

Nella cultura greca antica c’era la follia delle sacerdotesse. Ma nei poemi omerici si parla anche di quella di Aiace, che è cosa ben diversa. C’era in nuce una distinzione fra “follia” (intesa come irrazionale creativo, pensiero per immagini) e “pazzia” (intesa come irrazionale malato, distruttivo)?
Platone parlava di due tipi di follia, una negativa, che consiste nella malattia dell’anima; l’altra invece è una “divina follia” che favorisce manifestazioni creative e visionarie: è un surplus di energia psichica che trasporta la mente là dove, con le sole forze della ragione, non sarebbe capace di andare. Sotto questo aspetto, l’artista è un folle, perché ciò che lo muove è l’ispirazione irrazionale di cui non è pianamente padrone; un profeta è un folle perché vede cose che altri, sani di mente, non vedono; folle è anche un innamorato,  dentro il quale operano “forze” di cui non è padrone e gli impongono azioni ed emozioni che non potrebbe mai compiere o provare  in condizioni normali.

Un’ampia parte del suo libro è dedicata ai poemi omerici. E in Omero si legge:”Due sono le porte dei sogni inconsistenti, una ha battenti di corno, l’altra d’avorio, quelli che escono fuori dal candido avorio, avvolgono d’inganni le mente, parole vane portando; quelli che escono fuori dal lucido corno, verità li incorona, se un mortale li vede. Quasi a dire che specifico della specie umana è anche un pensiero della notte, per immagini, che è fantasia, conoscenza profonda quando non è offuscato da carenze, negazioni e annullamenti?
I Greci davano una speciale importanza al linguaggio dei sogni. Il sogno era per loro una fonte di conoscenza: in sostanza, l’idea è che non si vive solo di vita cosciente ma che la vita può essere raddoppiata, se si includono nella nostra esperienza anche le immagini notturne. Platone afferma che il sogno rivela una serie di esperienze represse e primitive che si agitano dentro gli uomini. Il sogno dimostra quindi l’uguaglianza psichica di tutti gli uomini, perché dal punto di vista della vita irrazionale il saggio non è migliore del criminale, ed è appunto questo groviglio di cose che i sogni mettono in luce, in tutti, durante la notte in cui anche un uomo onesto sogna cose proibite o immorali. Senonché Platone scelse di chiudere la porta che si apriva sull’inconscio per affermare che solo l’anima razionale porta l’uomo verso la sua vera umanità. Ma con la contraddizione, appunto, della follia: che da un lato disgrega ma dall’altro esalta.
Lei si è occupato lungamente di mito greco, ecco, dall’Oriente era giunta una favola che narrava di una fanciulla, Psiche, che sarebbe andata in sposa al dio dell’amore. Poi venne Platone che, come oggi sappiamo, ne fece un concetto astratto di anima. Così il logos greco si strutturò per annullamento del pensiero irrazionale e dell’identità femminile…
In effetti, i mostri della mitologia greca sono quasi tutti al femminile: Arpie, Sirene, Gorgoni. Una femminilità spaventosa e terrificante; però, c’è un altro versante della questione. I grandi personaggi della tragedia greca, per esempio, sono, quasi tutti donne: sembra che nell’analizzare le grandi forze che si agitano nell’anima, il mondo femminile rappresentasse per i Greci un universo da esplorare.  In effetti, l’uomo inventa la civiltà, la città, le leggi; ma la donna conserva le radici della natura, dentro di sé, e le fa emergere irresistibilmente, talvolta in modo anche inquietante. Donne di tutti  i tipi: colei che si sacrifica, l’omicida, la gelosa, la sposa fedele, la traditrice…  Non conosco altra letteratura che abbia presentato un panorama così ampio e grandioso di figure femminili, da Elena a Clitennestra, ad Antigone.

da left-avvenimenti del 16 luglio 2010

LA MOSTRA: CAPOLAVORI RIEMERSI DAL MARE

Sono riemersi dal mare due tesori dell’arte antica, esposti a Roma. Si tratta di una statua di Dioniso dal sorriso velato di malinconia e di una grande maschera in bronzo di Papposileno. I due capolavori, rispettivamente del II secolo d. C. e del I secolo a.C,, si possono vedere fino al 18 luglio, al Museo nazionale romano di palazzo Altemps. Le due opere, in passato custodite in dimore private, tedesche e italiane, sono state acquistate e restaurate dalla Fondazione Sorgente group. La maschera bronzea di Papposileno (che compare nella foto qui sopra), in particolare, è considerata un unicum nella produzione artistica greco-romana. Raffigura un satiro che ha le sembianze di un essere semi ferino; nella storia del teatro drammatico greco, Papposileno è il sileno più anziano e il più saggio della “corte” dionisiaca, infatti a lui fu affidato Dioniso quando era piccolo. Ma preziosa è considerata anche la scultura del giovane Dioniso (alta un metro e mezzo), in marmo bianco italico a grana fine e realizzata  ai tempi dell’imperatore Marco Aurelio, intorno al 180 d. C.

CLASSICI. da Nietzsche a Kerényi

Nietzsche che pure professava un radicale ateismo, contrappose un dio greco a cristo. Come giunse a questo?». Come arrivò a capire che una cultura del tutto diversa si era espressa con il mito di Dioniso? è la domanda che Karl Kerényi si poneva nell’introduzione al suo Dioniso, scritta a Roma nel 1967. Una domanda che al filologo ungherese aveva fatto scattare la voglia di scavare più a fondo nei culti dionisiaci. Riconoscendo al pensiero del filosofo tedesco molte intuizioni. Nonostante le contraddizioni  infeconde e il fondo di religiosità incoffessato degli scritti nietzschiani. L’indole misticheggiante di Kerényi, del resto, non gli permise di vederle. Resta però che il suo corposo Dioniso, ora riproposto da Adelphi, è ancora un importante classico negli studi. A partire dalla decifrazione della seconda scrittura lineare cretese compiuta da Michael Ventris, infatti, Kerényi si dedicò all’interpretazione delle occorrenze di nomi dionisiaci che vi emergevano. Da qui una serie di importanti scoperte sulla civiltà minoica «che – scriveva – rimane del tutto incompresa se non viene inteso il suo carattere dionisiaco».

da left-avvenimenti 19 luglio 2010

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Chiesa e pedofilia. L’analisi culturale che mancava

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 19, 2010

Dopo decenni di silenzi e nonostante l’omertà delle gerarchie ecclesiastiche, è esploso in tutta la sua virulenza lo scandalo della pedofilia nel clero cattolico. Centinaia di migliaia di vittime accertate in tutto il mondo testimoniano un fenomeno dalle dimensioni inquietanti, paragonabile a uno sterminio. Un crimine, quello degli abusi del clero sui bambini che non ci fa trascurare il fatto che le violenze pedofile avvengono spesso nell’ambito della cerchia familiare. Senza dimenticare qui anche la dimensione internazionale che hanno assunto il cosiddetto “turismo sessuale” e la pedopornografia on-line. Reati disumani che a loro volta alimentano altri reati disumani, a cominciare dalla tratta dei minori. Che non risparmia nessuna popolazione nel globo. Ma riguardo al fenomeno pedofilia nella Chiesa si segnala un fatto nuovo: dal modo in cui i media stranieri hanno trattato la vicenda della Santa sede, alla reazione dell’opinione pubblica sembra infatti trapelare un nuovo atteggiamento. Che è di totale indignazione. Cosa è cambiato? Per dare una risposta a questa domanda, il libro indaga la storia del pensiero che ha fatto da matrice all’azione e ha garantito l’impunità dei pedofili. Si parte dall’analisi delle radici culturali della pedofilia, un crimine che in Occidente si consuma da 2500 anni sotto la copertura culturale che comincia con Platone, Socrate e Aristotele. Una cultura e un modo di pensare il bambino che segna 20 secoli di cattolicesimo e che nel Novecento ha trovato nuova velenosa linfa in Freud, padre di quell’idea violenta e assolutamente infondata che il bambino abbia già una sessualità. Sino ad arrivare al pensiero, anche sessantottino, per cui in fondo al bimbo piacerebbe essere violentato fisicamente e psichicamente dall’adulto. Lo sosteneva Foucault, proprio negli anni in cui la Chiesa emanava il testo segreto Crimen sollicitationis. E d’accordo con questo pensiero criminale del filosofo francese si sono detti intellettuali e politici, italiani e stranieri. Da Cohn-Bendit fino a Vendola.

Federico Tulli è giornalista professionista, frequenta da anni il settore scientifico. È autore di numerose inchieste sul mercato dei farmaci, sui finanziamenti pubblici alla ricerca scientifica, sulla tratta delle schiave del terzo millennio, solo per citarne alcune. Ha lavorato con diverse testate giornalistiche, tra cui l’agenzia stampa Il Velino. Collaboratore del settimanale Avvenimenti e di Left che ne ha raccolto e rinnovato l’eredità, è redattore del quotidiano Terra.

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Nonostante Platone

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 27, 2009

2254752359_f3c00ba4ac_b1Il suo l’Amore è un dio uscito per Feltrinelli (dopo una fortunata serie radiofonica) è diventato rapidamente un best seller. Per la semplicità e il rigore con cui Eva Cantarella conduce i suoi lettori nell’universo della mitologia e nella vita della polis antica. Già al lavoro su un ideale seguito di quel libro, sulla vita nella Roma antica, fra un impegno accademico e l’altro, Eva Cantarella è a Firenze per il convegno Donne in rivolta,organizzato dal Maggio musicale.

Il tema scelto dalla docente di diritto greco e romano dell’Università di Milano è una originale rilettura dell’Orestea e in particolare di Clitemnestra, figura tragica per antonomasia che, con la complicità di Egisto, diventa l’assassina di Agamennone.

Professoressa Cantarella perché questa scelta?

Fra tutti i personaggi tragici femminili è quello che più è stato oggetto di riletture interessanti. Da Dacia Maraini e Valeria Parrella. In lei colpisce la violenza terribile, anche psicologica, verso i figli Oreste e Elettra. Le femministe hanno scritto che non era cattiva, originariamente violenta. Ma vittima di quella che una volta si chiamava oppressione di genere. Nell’Orestea questo non è così chiaro, ma da altre fonti emerge cheha subito ingiustizie, che ha grande dignità, forza di carattere,consapevolezza della condizione di oppressione che grava sulle donne. Una condizione da cui secondo la Clitemnestra classica se ne può uscire solo “con la scure”. Ma più a fondo il personaggio pone la necessità di riflettere su come trasformare il rapporto con l’uomo.

Da studiosa di diritto antico che cosa l’ha interessata?

Sulla scia di riletture di antichisti e letterati sono tornata a esaminare l’ultima parte della storia. Clitemnestra è morta, c’è il processo a Oreste. La sua assoluzione contiene tutto il sensodell’Orestea. È la nascita deldiritto. Ma avviene con una sentenza che stabilisce la superiorità del padre e la conseguente subalternità della donna. Le Erinni che rappresentano la passione, le emozioni, la parte femminile del mondo, sono sconfitte dalla ragione. La nascita del diritto si lega alla fine di una fase che qualcuno, forse non del tutto impropriamente, ha voluto dire di matriarcato. Ma oggi, prendendo spunto da interessanti riletture del mito, c’è chi dice che il diritto non debba essere solo ragione. Per essere giusto, il diritto deve comprendere anche le emozioni.

00-3-ganymede-ferrara1Le donne, dice Aristotele, vanno messe sotto tutela. Perché non hanno il logos,non sono in grado di deliberare. In questo passaggio l’immagine e l’identità femminile vengono negate, deformate. Santippe, per esempio, è tramandata come la pestilenziale moglie di Socrate. Che fosse solo ribelle alla sua logica astratta del filosofo?

Tutto si può dire in tempi di revisionismo come quelli in cui viviamo, ma affermare che i Greci non fossero misogini è davvero difficile. Già Esiodo dice che Pandora, la prima donna, nasce perché Zeus deve mandare un castigo agli uomini. Così la dota di grazia e di desiderio struggente, e ne fa «una trappola da cui non si può sfuggire».

Esiodo dice che da quel momento gli uomini non vivranno più bene. Quali sono le radici di questa misoginia che fa distinguere Omero fra mogli obbedienti come Penelope e pericolose sirene?

Si radica nella necessità di controllare le donne. Dietro c’è la paura della sessualità femminile. Le donne sono sessualmente incontinenti, non si sanno controllare e, dal momento che fanno anche i figli, bisogna appropriarsi delle conseguenze dei rapporti. La teorizzazione della necessaria subalternità femminile cresce intorno a questa equazione. Donna uguale non razionale, materia, passività. Uomo, cioè spirito, logos

e tutto quanto.

Questo attacco all’identità femminile sarà ancora più forte nel passaggio dall’epoca pagana al cristianesimo?

Si compirà con l’identificazione fra donna-sesso-peccato, tipica della religione cristiana. Quanto al diritto, la libertà che le donne romane avevano avuto, sul piano sociale anche se solo nell’ambito del matrimonio, si riduce con gli imperatori cattolici. Giustiniano, per esempio, vieta il divorzio. E compare la punizione dell’aborto che primanon c’era. Con i Severi on era vietato perché si pensa che il feto abbia solo spes animantis. Homo non recte dicitur dicono i giuristi romani a proposito del feto. Andrebbe detto a Giuliano Ferrara. Però la donna che abortisce senza il consenso del marito viene punita. Ma se ha il suo consenso può continuare a farlo. Il cristianesimo, si sa, condannava l’aborto, ma gli imperatori cristiani non riuscirono subito ad adeguarsi fino in fondo alla sua morale perché era troppo in contrasto con la mentalità romana. Per esempio non riescono a vietare il divorzio consensuale. Oggi, insomma, con la legge 40 sulla fecondazione assistita, siamo regrediti perfino rispetto ad allora.

Riprendendo il titolo del convegno, “Donne in rivolta” che cosa pensa del pensiero femminista contemporaneo che, per esempio, con Judith Butler associa la liberazione delle donne alla cultura omosessuale e transgender?

Una prospettiva di questo tipo, devo ammettere, mi lascia più che perplessa. Il pensiero femminista mi ha sempre interessato molto. Ma da un po’ di anni, confesso, non riesco più a seguirlo. Da quello che capisco di questa nuova stagione del femminismo di cui mi accenna, posso solo dire che non credo che la liberazione delle donne passi da una rinuncia di questo genere . Penso semmai che in ciascuno di noi ci possa essere, per così dire, “una parte femminile”, sensibile e una maschile intesa come capacità teorica, logica. Ma come fatto interiore, che è cosa ben diversa- da quel capisco- dalla cultura tansgender. Sul piano della vita pubblica, invece, mi pare sia da percorrere la strada a cui accennavamo di un diritto che possa comprendere ragione ed emozione, dunque un discorso di conciliazione dei sessi sul piano del diritto.

Per finire, tornando al tema della conferenza che terrà a Firenze, perché le eroine della letteratura, tutte le più belle, le più libere dell’Ottocento e Novecento vengono fatte morire dai loro autori? Come se dovessero espiare?

Forse perché sono storie scritte degli uomini. Ma a ben pensare, non proprio tutte muoiono. La protagonista di Casa di bambola di Ibsen, per esempio scappa dal marito. Quando facevo il ginnasio,ricordo, mi portarono a vedere Nora seconda di Cesare Giulio Viola. Io che allora avevo appena letto Ibsen, sono uscii furente: Nora seconda era la stessa Nora. Ma pentita.

Carmen e le altre

Sensuale, libera, fedele solo al proprio desiderio, incurante dei giudizi. Così Carlos Saura torna a pensare e immaginare Carmen, protagonista 25 anni fa di un suo storico film, Carmen story, realizzato a partire dalle coreografie di Antonio Gades e dalle musiche del chitarrista Paco de Lucia. Di fatto, ci voleva l’affascinante sigaraia di Mérimée per convincere il cineasta spagnolo a tornare a mettersi in gioco con la lirica. Galeotta la proposta che gli è arrivata dal Maggio musicale fiorentino di curare la regia di un’opera per questa settantunesima edizione del festival. Così, dal 30 aprile all’11 maggio 2007, al Comunale di Firenze la Carmen di Georges Bizet trova un nuovo allestimento. Sul podio, il maestro Zubin Metha a dirigere l’Orchestra del Maggio. A dare voce a Carmen sarà Julia Gertseva, mentre Marcelo Alvarez è Don Josè, il brigadiere innamorato e tradito che impazzisce di gelosia e la uccide davanti all’arena di Siviglia, dove l’amante di Carmen, Escamillo, sta toreando«Una vicenda – sottolinea Saura- tristemente attuale. Le cronache nere traboccano di delitti efferati in cui la vittima è quasi sempre la donna». Ma il regista spagnolo, che si dice convinto che la radice del problema stia, in primis, nella testa degli uomini che temono il desiderio e la libertà delle donne («gli uomini perdono sempre la testa per Carmen ma poi vogliono farla diventare moglie e madre») non ha scelto una chiave realistica per questa sua nuova Carmen. Al contrario. Invece della assolata Spagna che potremmo aspettarci, punta su una raffinata veste scenografica, fatta di chiaroscuri e ombre cinesi. Ricreando in teatro quei giochi di luce che ora va sperimentando al cinema con Vincenzo Storaro, in un nuovo film sul mito di Don Giovanni, visto attraverso le vicende del librettista Lorenzo Da Ponte. Da una tragica storia di passione e morte, tipicamente ottocentesca, la 71/a edizione del Maggio approda il 5 giugno alla Phaedra contemporanea del compositore Hans Werner Henze. Poi il 21 giugno, proseguendo in un viaggio alla riscoperta delle figure femminili meno convenzionali della tradizione lirica, al Comunale torna Lady Macbeth nel distretto di Mzensk di Sostakovic diretta da James Conlon. Due i monologhi teatrali quest’anno: Il dolore di Marguerite Duras, interpretato da Mariangela Melato e la controversa Erodias di Testori riproposta da Lombardi e Tiezzi al Museo del Bargello. Mentre l’apertura del festival, il 26 aprile, è affidata a Charlotte Rampling (in foto), voce recitante de Il sopravvissuto di Varsavia di Schönberg direttoda Zubin Metha e con Peter Greenway nell’insolita veste di video jokey.Ma è soprattutto il trittico di debutti operistici a connotare questa edizione del Maggio dal titolo “Donne contro”, come racconta il direttore artistico Paolo Arcà: «Carmen, Fedra, Lady Macbeth, pur diversissime fra loro, sono tre protagoniste del teatro in musica con una personalità nitida, che si rapportano al loro ambiente con una caratterizzazione forte, vibrante, mai asservita o subalterna». Donne contro, certamente, ma anche eroine fragili, tragiche, come Katerina che Sostakovic fa precipitare in un gorgo autodistruttivo di fronte alla violenza dell’ambiente circostante, rappresentato da un mondo di pupazzi.


da left-Avvenimenti maggio 2008

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La caduta dei giganti

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 22, 2009

Dall’antica Grecia ai regimi totalitari del Novecento. Le metamorfosi di queste possenti figure del mito nell’analisi di un grande critico d’arte come Jean Clair

di Simona Maggiorelli

Max Ernst, L'angelo del focolare, 1937

Max Ernst, L'angelo del focolare, 1937

Il suo ultimo libro, La crisi dei musei (Skira), è diventato un caso internazionale, denunciando gli effetti della globalizzazione sulla cultura e, in particolare, sul mondo dell’arte, con la costruzione di spazi espositivi decontestualizzati dal territorio e con la riduzione di musei come il Louvre a un mero marchio da esportare. Ma se sul versante del pamphlet lo storico dell’arte ed ex direttore del museo Picasso di Parigi Jean Clair sfoggia una penna brillante e incisiva, non meno interessanti, anche se più complessi, sono i risultati di alcune sue ricerche più colte. Ospite del direttore Salvatore Settis, alla Normale di Pisa, Clair ha offerto un’anticipazione del suo nuovo lavoro: con il titolo “Da Satana a Stalin, la figura del gigante dall’illuminismo ai nostri giorni” una ricca disamina dell’iconografia e dell’iconologia del gigante nell’arte occidentale lungo i secoli. Di fatto dall’antica Grecia fino agli anni Trenta e Quaranta del ’900 quando l’immagine del gigante trova una massiccia riproposizione, in varianti sempre più inquietanti, per rappresentare la potenza cieca e distruttiva dei regimi totalitari. Il quadro Hitler agli inferi (1944) che Georg Grosz dipinse poco prima di essere ostracizzato come artista degenerato ne è un chiaro esempio. Ma prima di arrivare a questi drammatici esiti novecenteschi, Jean Clair ci invita a ripercorre la storia, di fatto, millenaria di rappresentazione del gigante come figura dell’irrazionale. A cominciare da quella lotta di Zeus con i giganti dove queste possenti creature sembrano assumere un significato ambivalente, da un lato di forza creativa, dall’altro di potenza distruttiva. «I giganti – ricorda Clair – sono nati dalla terra, è questo che indica l’etimologia del loro nome greco, Gegeneis, generati da Gea, Gaia. Sono entità primordiali, potenti, che delle loro origini conservano talvolta dei tratti animaleschi primitivi, un solo occhio, braccia multiple, arti inferiori a forma di serpente. Tra di loro ci sono i Titani, i Ciclopi e i Cento Braccia. Ciò che li riunisce è un comune odio verso gli dei, che affrontano in Gigantomachie. Zeus  imprigionerà i Titani nel Tartaro, nel profondo degli Inferi. Mentre gli dei dell’Olimpo, simili all’uomo – spiega Clair – incarnano più spesso la misura e la ragione, i Giganti incarnano la dismisura e la violenza, e sono una rappresentazione del deinos e della hybris. Sono figure originarie, terribili, della potenza primigenia, sempre pronta a risorgere». Nel segno di quella razionalità scissa che sarà tipica della riflessione filosofica di Socrate, Platone e Aristotele, il dio Zeus appare come il padre razionale che domina un irrazionale la cui forza viene rappresentata come enorme altezza, ma al tempo stesso stigmatizzata come animale.

Jean Clair

Jean Clair

Sarà poi con il Rinascimento che la figura del gigante verrà a coincidere tout court con quella del folle. Durante il XV secolo, per esempio, la figura del folle dei popolari tarocchi è un gigante con il cappello a punta e le orecchie d’asino. Una figura poi resa celebre da La nave dei folli di Sebastian Brant, ci ricorda lo studioso francese. Così mentre il Rinascimento sceglie la strada di una razionalità assoluta, la figura del gigante in pittura perde ogni aspetto di benevolenza per diventare «potenza di un demone cannibale». Una figura malvagia e diabolica, che attraverso l’immagine ancora ambivalente dell’orco delle favole di Perrault (riedizione dell’Urvater, il capo dell’orda, secondo Clair) arriva fino all’Ottocento, per giungere poi al moderno Batman e al joker hollywoodiano.

Il Saturno di Goya

Il Saturno di Goya

Goya ha rappresentato  in modo magistrale questa figura di Urvater che ingrassa i figli per poi meglio divorarli. Basta pensare al suo potente Colosso  o al Saturno antropofago dipinto nel 1821. «Orco e mostro, solitario e accidioso, come lo era il suo prototipo medievale, Satana, questa figura – spiega Clair – conoscerà nel XX secolo una sorprendente fortuna. Carica di ambiguità essa pretende di incarnare, come i giganti swiftiani dell’illuminismo, potenza e ragione, ma in realtà incarna la follia omicida; pretende di segnare il superamento dell’uomo da parte dell’uomo ma ne annuncia l’annientamento. E i più piccoli tra gli uomini – sottolinea lo studioso francese – ovvero dittatori, leader, duce, führer prenderanno volentieri l’apparenza di giganti». Sfila così una inquietante galleria di mostri, fantasticherie di umanoidi e di creature primitive che si ergono sul deserto, come nell’Angelo del focolare che Marx Ernst dipinse nel 1937, tre anni dopo l’ascesa al potere di Hitler. Mentre nei ritratti di pittori come Grosz, Kubin, Klinger, Schlichter, Sironi si riconoscono i volti di Mussolini, Hitler e Stalin.

Hobbes, Il Leviatano (1651)

Hobbes, Leviathan (1651)

Nelle opere pittoriche e nei primi fotomontaggi novecenteschi colpisce il ritorno quasi ossessivo di una medesima rappresentazione: la figura gigantesca del leader, come in un celebre frontespizio del Leviatano (1651) di Hobbes, è composta dai tanti piccoli uomini della massa. «Secondo il filosofo – chiosa Clair – nello stato di natura gli uomini sono naturalmente aggressivi e questo giustifica la necessità dello Stato assoluto. Il bellum omnium contra omnes descritto da Hobbes – aggiunge –  non è molto lontano dalla “orda primitiva” che descriverà Freud in Totem e tabù». Lo stato totalitario del Leviatano, in cui tutti debbono obbedire per non finire sbranati è una figura del libro di Giobbe. E questa stessa antropologia religiosa improntata al controllo e alla sottomissione, mutatis mutandis, la si ritrova in Freud, ma anche nel nazismo. Hitler, come l’autore de La psicologia delle masse e L’analisi dell’io (1921), era un attento lettore di Le Bon, il quale considerava la folla come un elemento irrazionale e violento dominato dalle leggi dell’imitazione. Una concezione che trova addentellati nella scuola positivistica italiana che faceva capo a Lombroso. (Gli studi sulla folla prodotti dai suoi “allievi” Ferri e Paoli offrirono materia diretta alla propaganda di Mussolini).

Bosch La nave dei folli 1490

Bosch La nave dei folli 1490

«Una caratteristica del totalitarismo moderno è proprio la diluizione dell’individuo nella massa organica dello Stato –  nota Jean Clair -. Come un mostro marino sorto dalle profondità del mare il Leviatano rappresenta un organismo primitivo, simile a un polipo e a forme di vita fatte di aggregati indifferenziati». Questa immagine sarà regolarmente ripresa nell’immaginario dei regimi totalitari. Le rappresentazioni pittoriche della Volksgemeinschaft nazionalsocialista mostrano l’unità del corpo dei Genossen tedeschi,  in gigantografia. Mentre i manifesti propagandistici per il referendum popolare del ’34, che secondo Mussolini doveva sancire un nuovo rapporto tra il capo e il corpo del popolo, ci ricorda Clair, «mostrano un duce gigante il cui corpo è fatto dalla moltiplicazione delle teste dei suoi sudditi». Da parte sua, Freud paragonò la massa a una lacrima di batavia, un cristallo a forma di goccia che se colpito nella parte più stretta va in miriadi di frantumi. Come a dire che se la massa perde il leader, si disgrega. Secondo il padre della psicoanalisi, insomma,  la massa non avrebbe intelligenza propria e possibilità di un pensiero rivolto al nuovo. Un’immagine e un pensiero che, alla luce della ricerca di Clair, rivelano aspetti ancor più inquietanti.

da left-avvenimenti del 21 marzo 2009

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L’impotenza del logos

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 21, 2008

Eva Cantarella: «Virilità per l’uomo romano significava solo essere sessualmente attivo, con donne o ragazzi» di Simona Maggiorelli

Eros per i greci era un dio armato. La passione causata dalle sue frecce, era spesso mortale. «Eros, quel fabbro, con un grande maglio di nuovo mi ha colpito, nel torrente invernale mi ha tuffato» scriveva Anacreonte nei versi per un giovinetto di cui si era invaghito. La polis greca era fondata sulla pederastia. E dai maschi adulti era considerato addirittura un compito civile “forgiare” in questo modo i ragazzi dai 12 ai 17 anni. «Di un dodicenne mi godo il fiore, se ha 13 anni più forte il desiderio sento», scriveva ancora Stratone nel II secolo d.C.. La pedofilia era pratica “normale”. Fin dai tempi di Socrate e di Sofocle. Con buona pace di Santippe e Nicarete. Della superiorità dei rapporti con i ragazzi discettavano Teognide, Plutarco, Protogene e molti altri pensatori della Grecia antica. E rare erano le voci che si levavano contro. Fra queste quella di Dafneo ma solo perché avere rapporti con donne assicurava una stirpe, come scrive Eva Cantarella ne L’amore è un dio (Feltrinelli): «L’amore etero non finalizzato alla procreazione non veniva nemmeno preso in considerazione» e «il rapporto fra due persone dello stesso sesso non solo non era riprovato, ma era socialmente valorizzato». Così anche fra i Romani. Come in Grecia le mogli erano obbligate alla fedeltà, mentre i mariti si concedevano liberamente rapporti extraconiugali. Nella Pompei delle terme, dove affreschi, mosaici e iscrizioni sopravvissuti all’eruzione del 79 d.C. ci raccontano il mondo dell’eros e della prostituzione, i più ricercati e pagati dai Romani erano i ragazzi. «L’unica restrizione per loro era il rispetto rigoroso della regola dell’“attività”» nota Cantarella. Virilità per l’uomo romano significava assunzione di un ruolo sessualmente attivo, non importava se con donne o con uomini. Donne e ragazzi erano ugualmente considerati passivi. Di fatto l’identità maschile greco-romana era per stupro, per annullamento della diversità e dell’identità femminile. E se nei miti più antichi il femminile era individuato con l’ambiguità della Sfinge, metà uomo metà animale, mentre sibille e profetesse lasciano pensare a una non ancora completa messa al bando del mondo irrazionale, la nascita del logos occidentale avvenne con un silenzioso assassinio del mondo interiore delle donne e dei bambini. Le tragedie classiche non a caso ci parlano del sacrificio di Ifigenia, la ragazzetta immolata dal padre agli dei. Ma ci dicono anche del desiderio cieco di Fedra che paga con la morte l’amore per il giovane Ippolito, bello e indifferente. A lui Euripide affida una delle più feroci invettive contro le donne: «Zeus perché hai messo tra gli uomini un ambiguo malanno portando le donne alla luce del sole… meglio sarebbe stato, per gli uomini, poter comprare il seme dei figli e poter vivere senza donne in libere case… possiate perire!». Ippolito si augura un mondo di tutti uomini, da tenere in piedi con le protesi della tecnica e del denaro. Se l’identità maschile è razionale e scissa, e annulla ogni dimensione affettiva, il bambino e la donna non sono più considerati esseri umani. E i neonati si potranno buttare giù dalla rupe di Sparta. Poi verranno gli anatemi di Paolo di Tarso a sancire la definitiva condanna della donna. E quella identità maschile solo razionale, che il pater familias agisce come controllo sulle donne, si salda con i dogmi della religione. Una religione cristiana che fa ammalare. In primis la donna, perché la vuole vergine e madre, espropriandola del corpo, degli affetti, avendola ridotta a icona esangue. Nella terribile morsa di fede e ratio, il desiderio femminile che si esprime nel movimento fluido del corpo diventa il Male, la seduzione demoniaca per antonomasia. Perché il desiderio la porterebbe a cercare un rapporto irrazionale con l’uomo. Un rapporto con il diverso da sé, necessariamente dialettico ma anche potenzialmente creativo, al di là del fare figli. Ma per la Chiesa realizzare a pieno la propria identità più profonda, diversissima di uomo e di donna, è il massimo peccato. Perché nel rapporto si realizza una trasformazione psichica che sgombra il campo da ogni trascendenza.
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